Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 02-03-2011) 24-03-2011, n. 11739

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 20 novembre 2008, la Corte d’ Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in parziale riforma della sentenza del Tribunale in sede, sezione distaccata di Manduria appellata da D.L. e T.R.C., dichiarava non doversi procedere nei loro confronti in ordine ai reati di falso di cui ai capi C ed F, perchè estinti per prescrizione ed eliminava la pena di un mese di reclusione e trenta euro i multa per ciascuna imputata;

confermava nel resto la sentenza impugnata con la quale le medesime erano state dichiarate colpevoli di concorso nei delitti di truffa (tentata e consumata) per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui ai capi A, B ed E e condannate, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti, unificati i reati per la continuazione, alla pena di otto mesi di reclusione ed _ 120 di multa.

La Corte territoriale, dato atto della maturata prescrizione per i delitti di falso ideologico di cui ai capi C ed F, nel merito riteneva fondata la prova della responsabilità in ordine ai delitti di truffa di cui all’art. 640-bis c.p. (nella forma tentata e continuata) sulla scorta dell’ accertata falsità delle dichiarazioni sostitutive di possesso dei terreni per i quali si chiedeva il contributo comunitario, falsità che non poteva sfuggire alle imputate per la evidente sproporzione del contributo chiesto in relazione ai terreni di effettiva proprietà, sicchè la vicenda non poteva essere ricondotta a mero errore materiale per essersi esse limitate a ricopiare le domande presentate in passato dal rispettivo marito e padre. Non si ravvisavano ragioni per modificare il giudizio di equivalenza delle riconosciute attenuanti generiche, in considerazione della gravita del fatto per rilevante danno cagionato all’A.I.M.A. I precedenti penali della T. e l’assenza di prognosi favorevole per la D. (tenuto conto della reiterazione delle condotte) impediva di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena. Contro tale decisione hanno proposto tempestivo ricorso le imputate, a mezzo del difensore, che ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi: – violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) per inosservanza e/o erronea applicazione dell’ art. 192 c.p.p. per avere i giudici di appello confermato il giudizio di responsabilità sull’ assunto che parte dei terreni fossero di proprietà di terzi ( C.G.) senza effettuare adeguati accertamenti sul punto, in particolare in ordine alla materiale disponibilità degli stessi da parte delle imputate, con travisamento della prova relativamente alla posizione di T. M.R. in quanto proprietaria esclusiva di terreni (estesi circa 8 ettari). Essendo stata dedotta la questione in maniera specifica con l’atto di appello, si era realizzata la denunciata violazione dei criteri di valutazione della prova e quindi l’incongruenza della motivazione sul punto; – violazione dell’ art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) con riferimento al rigetto della richiesta di prevalenza delle attenuanti generiche, perchè la valutazione operata dalla Corte di appello della gravita del danno doveva essere apprezzato in relazione al pregiudizio subito, o che poteva essere subito, dall’A.I.M.A., di guisa che il livello economico medio del danno fa apparire davvero incongruente la motivazione sul punto.
Motivi della decisione

1. Per D.L. è stato acquisita copia del certificato dell’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) attestante l’avvenuto decesso in (OMISSIS). Sulle conformi richieste del P.G. la sentenza deve essere annullata senza rinvio per estinzione dei reati per morte dell’imputata.

2. Per la posizione di T. si osserva che il primo motivo di ricorso è fondato, perchè con l’atto di appello si era espressamente dedotto il difetto di prova in ordine all’effettiva disponibilità dei terreni per i quali si era chiesto il contributo, al di là della formale intestazione. La Corte territoriale ha giustificato il suo convincimento senza rispondere in maniera specifica alla doglianza al rilievo che le dichiarazioni sostitutive di "possesso" non corrispondevano a quanto accertato in ordine all’estensione dei terreni di effettiva "proprietà".

La sentenza dovrebbe essere quindi annullata con rinvio. Ma poichè già con la prima sentenza erano state riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti (sia quella di cui all’art. 640-bis c.p., secondo quanto stabilito da Cass. SSUU 26.6.2002 rie. Fedi, sia quella di cui all’art. 61 c.p., n. 7), il termine di prescrizione massima di sette anni e sei mesi risulta esser maturato ancor prima della pronuncia della sentenza di appello (cioè in data 26 settembre 2005). Va in conseguenza pronunciato annullamento senza rinvio per essere i reati di truffa consumata e truffa tentata estinti per prescrizione.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di D. L. perchè i reati sono estinti per morte dell’imputata e nei confronti di T.R.C. perchè estinti per prescrizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 06-04-2011, n. 3029 Demolizione di costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

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Svolgimento del processo

Con ricorso notificato alle Amministrazioni in epigrafe indicate in data 24 gennaio 2011 e depositato in data 17 febbraio 2011 espone il ricorrente di essere proprietario dell’unità immobiliare situata in Pomezia loc. Torvaianica Lungomare delle Sirene, immobile che fa parte di un più ampio fabbricato realizzato negli anni cinquanta su alcune aree di proprietà privata in prossimità del demanio marittimo. Il Comune aveva autorizzato la realizzazione di detto fabbricato approvandone il relativo progetto in data 17 maggio 1951 e la stessa amministrazione comunale asseverava la piena conformità dell’edificio al progetto approvato in commissione edilizia.

Rappresenta altresì che in data 16 aprile 2009, senza che per quasi sessant’anni sia stata posta in essere alcuna attività repressiva, la Guardia Costiera di Torvaianica rilevava che "una porzione della particella catastale di pubblico demanio n. 2348 foglio 25 risulta utiilizzata come cortile accorpato alla retrostante proprietà privata mediante delimitazione in muratura e sovrastante ringhiera metallica sul lato fronte mare e sui lati nord e sud. In particolare, dalle misurazioni effettuate e dalle verifiche delle mappe catastali del S.I.S. la porzione di pubblico demanio marittimo utilizzato come cortile pavimentato, ha una superficie totale compresi i muretti di delimitazione di circa mq. 55,00, con una larghezza fronte mare di mt. 13,10 circa e per una profondità di m. 4,20 circa. Inoltre la parte centrale del citato cortile risulta coperta da una tettoia in lamiera coibentata di mq. 21,00 circa (larghezza fronte mare di mt. 5,00 circa x mt. 4,20 circa di profondità) e lungo il muretto di delimitazione fronte mare, vi è un piccolo accesso verso il mare chiuso con cancello in ferro".

Espone ancora che successivamente la Guardia di Finanza rilevava l’assenza dell’autorizzazione doganale richiesta dall’art. 19 del d.lgs. n. 374 del 1990, sicché parte ricorrente ne richiedeva il relativo rilascio che avveniva con atto n. 23448 del 12 aprile 2010.

Il Comune di Pomezia, intanto, in data 12 novembre 2010 richiedeva il pagamento del canone demaniale per la superficie di mq. 55, richiesta contestata dall’esponente, che tuttavia si vedeva ingiungere anche la demolizione delle opere sopra descritte con l’atto impugnato.

Avverso tali provvedimenti parte ricorrente deduce:

1. Violazione e falsa applicazione del principio di affidamento; violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità e adeguatezza dell’azione amministrativa; violazione e falsa applicazione del principio di imparzialità; difetto di motivazione; difetto di istruttoria; erroneità dei presupposti in fatto ed in diritto.

2. Violazione e falsa applicazione degli articoli 7 e 8 della legge n. 241 del 1990; violazione e falsa applicazione delle norme e principi che impongono all’amministrazione di comunicare l’avvio del procedimento; violazione e falsa applicazione degli articoli 9 e 10 della legge n. 241 del 1990; violazione e falsa applicazione del diritto di partecipazione al procedimento; eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria; violazione e falsa applicazione del principio di imparzialità; violazione e falsa applicazione dello Statuto comunale.

3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241; difetto di motivazione; difetto di istruttoria; erroneità dei presupposti in fatto e in diritto; travisamento dei fatti.

4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241; difetto di motivazione; difetto di istruttoria; erroneità dei presupposti in fatto e in diritto; travisamento dei fatti; irragionevolezza; illogicità.

5. Difetto di competenza; violazione e falsa applicazione dell’art. 54 C.N.; violazione e falsa applicazione dell’art. 59 d.P.R. n. 6161/1977, violazione falsa applicazione degli articoli 1 e 105 del d.lgs. n. 112 del 1998; violazione e falsa applicazione dell’art. 77 della L.R. Lazio 6 agosto 1999, n. 14; violazione e falsa applicazione della Circolare del Ministero dei Trasporti n. 120 del 24 maggio 2001.

Parte ricorrente conclude per l’accoglimento dell’istanza cautelare e del ricorso.

L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio e contestando tutte le doglianze ha raggiunto conclusioni opposte a quelle dell’esponente.

Con memoria per l’udienza camerale quest’ultima ha prodotto in atti l’istanza di concessione demaniale indirizzata all’Amministrazione comunale in data 23 febbraio 2011.

Il ricorso è stato trattenuto per la decisione in forma semplificata alla Camera di Consiglio del 3 marzo 2011, avvertitene all’uopo le parti costituite.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.

Con esso l’esponente impugna l’ordinanza con la quale, a seguito della vicenda meglio in narrativa esposta, l’Amministrazione comunale di Pomezia ha ingiunto la demolizione di opere realizzate su demanio pubblico marittimo per circa mq. 55,00 di cortile pavimentato con una larghezza fronte mare di mt. 13,10 ed una profondità di mt. 4,20 circa, in parte coperto da una tettoia in lamiera coibentata di mq. 21,00 e con un piccolo accesso dal mare chiuso con un cancello in ferro, come da verbale del 16 aprile 2009 emesso dalla Capitaneria di Porto di Roma – Guardia Costiera di Torvaianica.

Ed impugna pure l’ingiunzione al pagamento dell’indennità per occupazione demaniale abusiva, meglio in epigrafe indicata.

2. Avverso tali provvedimenti parte ricorrente ha proposto cinque censure che saranno partitamente esposte ed esaminate.

2.1 Conviene esaminare la censura di incompetenza proposta da parte ricorrente per ultima.

Va infatti osservato che benché il Codice del Processo Amministrativo in ordine al vizio di incompetenza non rechi più la dicitura già portata dall’art. 26 della Legge TAR e secondo cui se il tribunale amministrativo regionale "accoglie il ricorso per motivi di incompetenza, annulla l’atto e rimette l’affare all’autorità competente" è da rilevare che la nuova disciplina delle "sentenze di merito" recata dall’art. 34 del Codice prescrive che "In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati".

Sostanzialmente dunque ancorché non risulta esplicitamente la riserva di amministrazione sancita dall’art. 26 della Legge TAR, il secondo comma dell’art. 34 del Codice, una volta rilevata l’incompetenza che quindi consente di individuare il corretto soggetto amministrativo che deve adottare legittimamente il provvedimento in tal senso viziato, inibisce comunque al giudice amministrativo di pronunciarsi sui restanti motivi di ricorso con conseguente rinvio della questione al soggetto competente.

Ciò premesso il vizio è comunque insussistente.

Con esso parte ricorrente lamenta che l’ordinanza non doveva essere adottata dall’Amministrazione comunale ma dalla competente autorità marittima. La competenza di quest’ultima si incardinerebbe in quanto, pur volendo considerare i processi di decentramento amministrativo a favore delle amministrazioni locali, tuttavia lo Stato ha lasciato in capo all’autorità marittima i poteri di polizia amministrativa nelle specifiche ipotesi in cui il presunto abuso non si correli ad una concessione demaniale precedentemente rilasciata. La legge regionale n. 14 del 1999 e la successiva n. 13 del 2007 correlano i poteri dei Comuni in ordine al demanio marittimo alle funzioni di "rilascio, rinnovo, revoca delle concessioni relative alle aree del demanio marittimo, comprese quelle immediatamente prospicienti per finalità turistiche e ricreative nonché la relativa vigilanza". Al di fuori di tali funzioni i Comuni non hanno competenze in materia di demanio marittimo, men che meno in materia di vigilanza e polizia amministrativa che ai sensi dell’art. 54 C.N. rimangono nella titolarità dell’autorità marittima. E tale interpretazione sarebbe anche confermata dalla circolare ministeriale n. 120 del 24 maggio 2001 laddove si fa riferimento ai poteri di autotutela dell’autorità marittima alla quale competono i provvedimenti repressivi degli eventuali "abusi che incidono sui limiti del demanio marittimo o che abbiano comportato o possano comportare la realizzazione, da parte di non concessionari, di impianti, manufatti ed opere ed in ogni caso in cui sia ravvisabile un pregiudizio all’integrità della proprietà statale".

La ricostruzione normativa non può essere condivisa.

In primo luogo quand’anche si volesse ritenere la sussistenza di poteri statali relativamente alla vigilanza delle aree demaniali marittime come è quella parzialmente occupata dall’esponente con i manufatti sopra indicati, essa è smentita dal tenore letterale del provvedimento che in premessa reca il chiaro riferimento al verbale della Capitaneria di Porto di Roma, di tal che l’Amministrazione comunale apparirebbe semmai aver operato proprio in esecuzione di poteri statali di vigilanza esercitati dalla competente Capitaneria di Porto.

Ma il corretto riparto di competenze tra organi statali, regionali e comunali è ampiamente ricostruito dalla sentenza della seconda sezione del T.A.R. Lazio in data 30 agosto 2010 al n. 31953 dalle cui posizioni il Collegio non ritiene di dissentire.

Prendendo le mosse dai decreti legislativi sul decentramento delle funzioni già appartenenti allo Stato e transitate alle Regioni e cioè il d.lgs. n. 112 del 1998, la sezione seconda ricostruisce che "In particolare, tra le funzioni conferite alle regioni si menzionano al comma 2, lett. l), dell’articolo 105 del D.Lgs. citato, quelle relative al rilascio di concessioni di beni del demanio della navigazione interna, del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia; tale conferimento non opera (afferma la parte conclusiva della lett. l), comma 2 dell’articolo 105) nei porti e nelle aree di interesse nazionale individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21.12.1995.".

Secondo l’art. 104 del menzionato decreto legislativo allo Stato sono mantenute "la disciplina e la sicurezza della navigazione marittima (art. 104, lett. v), nonché l’utilizzazione del pubblico demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità di approvvigionamento di fonti di energia (art. 104, lett. pp)."

Osserva la seconda sezione che: "Dal combinato disposto dell’articolo 104 – lettere v e pp- e dell’articolo 105, commi 1 e 2, lettera l, del D.Lgs. 112 del 1998 emerge, dunque, un quadro di riferimento nel quale il demanio marittimo è considerato essenzialmente sotto il profilo funzionale, piuttosto che della sola appartenenza. Restano, infatti, allo stato funzioni relative ad usi specifici, di portata nazionale, quali la sicurezza della navigazione marittima e l’approvvigionamento energetico: tutto il resto – proprio sulla base della lettura della lettera pp) dell’articolo 104 e del comma 1 dell’articolo 105 (… sono conferite alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni non espressamente indicate negli articoli del presente capo.)- deve intendersi trasferito alle regioni e, tendenzialmente, in via di ulteriore decentramento, ai comuni.

Sul punto va richiamata la normativa di cui al D.Lgs. n. 96 del 30.03.1999, che all’articolo 42 (funzioni dei comuni) dispone: "Sono esercitate dai Comuni le funzioni amministrative previste dall’articolo 105, comma 2, lettere f) e l) del D.Lgs. 112/1998".

Il d.lg. 30 marzo 1999 n. 96 ha, pertanto, previsto l’intervento sostitutivo del Governo per la ripartizione delle funzioni amministrative tra regioni ed enti locali fino alla entrata in vigore delle relative leggi regionali." (TAR Lazio, n. 31953/2010 cit.).

Sotto il profilo della legislazione regionale la sezione ancora rileva: "Da quanto in precedenza esposto emerge come la competenza in materia di rilascio delle concessione demaniali marittime sia stata trasferita alle Regioni e quindi agli enti locali.

La Regione Lazio ha disciplinato la materia con la L.R. LAZIO 6/8/1999 n. 14, rubricata " organizzazione delle funzioni a livello regionale e locale per la realizzazione del decentramento amministrativo"."

Segue una accurata disamina delle disposizioni della detta legge regionale, con particolare riferimento agli articoli 77 recante la rubrica " Funzioni e compiti dei comuni", all’art. 129 riguardante, invece, le " Funzioni e compiti della Regione", e, all’art. 131 recante nuovamente " Funzioni e compiti dei comuni", che costituisce la chiosa della ricostruzione normativa e stante il cui primo comma "Fermo restando quanto stabilito nell’articolo 5, commi 2 e 3, s’intendono attribuiti ai comuni, in conformità a quanto previsto nel comma 1 dello stesso articolo, le funzioni ed i compiti amministrativi non espressamente riservati alla Regione e non conferiti agli altri enti locali."

Sicchè la sezione seconda trae la conclusione che "…alla stregua della corretta interpretazione delle norme di cui sopra deve ritenersi che, nella Regione Lazio, le funzioni ed i compiti amministrativi non espressamente riservati alla Regione e non conferiti agli altri enti locali, sono attribuiti ai Comuni. E, poiché il rilascio delle concessioni demaniali marittime diverse da quelle indicate nel richiamato art. 129 non sono state specificatamente riservate alla regione, le stesse devono ritenersi essere state demandate ai comuni.

In ogni caso non può validamente sostenersi che la competenza nella materia sia rimasta in capo allo Stato, come invece dedotto in ricorso."; e che: "Pertanto le funzioni amministrative relative al demanio marittimo (trasferite, insieme ad altri settori, in capo alle regioni ed agli enti locali, per effetto dell’art. 105 commi 1 e 2 d.lg. n. 112 del 1998 e successivamente attribuite ai comuni, ai sensi dell’art. 42 d.lg. n. 96 del 1999) sono legittimamente esercitate dai comuni della regione Lazio a far tempo dalla data di pubblicazione del d.P.C.M. 22 dicembre 2000 (Gazz. Uff. n. 43, s.o., del 21 febbraio 2001), relativo al trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali ed organizzative per l’esercizio di dette funzioni." (TAR Lazio, n. 31953/2010).

Non appare condivisibile, infine, l’interpretazione offerta in ricorso della legge regionale 6 agosto 2007, n. 13, articolo 5, comma 2 laddove viene ulteriormente precisato che i Comuni " svolgono, altresì, funzioni e compiti amministrativi delegati concernenti il rilascio, il rinnovo, la revoca delle concessioni relative alle aree del demanio marittimo, comprese quelle immediatamente prospicienti, per finalità turistiche e ricreative nonché la relativa vigilanza." e con la quale parte ricorrente tende a ricondurre la attività di vigilanza da detta norma prevista soltanto nel caso in cui vi sia in atto un rapporto concessorio. La norma va riportata al corretto riparto di competenze in materia edilizia da un lato ed in materia di gestione del demanio marittimo dall’altro.

In particolare la tesi esposta appare essere il frutto della confusione tra concessione demaniale e titolo abilitativo edilizio il cui rilascio è disciplinato dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, laddove la vigilanza in materia edilizia è specificamente attribuita dal d.lgs. 18 agosto2000, n. 267 alla dirigenza comunale (art. 107, comma 1 lett. g)).

A tal riguardo è bene chiarire che solitamente la concessione demaniale è il presupposto del rilascio del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di manufatti su suolo demaniale e non viceversa, tranne nei casi, previsti dalle norme, di provvedimenti abilitativi in sanatoria, stante la chiara lettera del Testo Unico dell’Edilizia il cui art. 8 stabilisce che "La realizzazione da parte di privati di interventi edilizi su aree demaniali è disciplinata dalle norme del presente testo unico.", stante, altresì, il successivo art. 35 che disciplina espressamente il caso degli interventi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di Enti Pubblici senza permesso a costruire, come è quello in esame, e stante l’art. 55 C.N. che sottopone a titolo abilitativo l’esecuzione di nuove opere sul demanio marittimo.

2.2.Ciò chiarito in ordine al soggetto competente ad adottare provvedimenti repressivi relativi a costruzioni realizzate sine titulo sul demanio marittimo, anche le altre censure non possono essere condivise.

In particolare con la prima parte ricorrente lamenta che l’Amministrazione dopo più di sessant’anni, senza adottare alcun provvedimento intermedio, è intervenuta con l’ingiunzione a demolire del tutto inopinatamente e violando il principio dell’affidamento, in assenza di un attuale, specifico e concreto interesse pubblico. Sotto tale profilo il provvedimento appare scarsamente motivato, soprattutto se si pone mente alla origine remota del manufatto e nelle considerazione che il fabbricato, nel suo complesso esiste ben dal 1951, senza che alcuna delle precedenti Amministrazioni comunali abbia mai avuto a ridire. Deve pure essere evidenziato che l’Amministrazione delle Dogane ha rilasciato la sua autorizzazione nella considerazione che la presunta occupazione demaniale "non costituisce ostacolo ai fini della vigilanza doganale".

Unitamente a tale censura può essere esaminata anche la terza con la quale l’esponente deduce ancora che il provvedimento è illegittimo per mancanza di motivazione e difetto di istruttoria nel senso che non specifica e chiarisce l’effettiva riferibilità della particella demaniale occupata dalla proprietà interessata, né dimostra perché il balcone del primo piano e del cortile debbano reputarsi abusivamente posizionati sul demanio.

Come ritenuto in altre occasioni dalla sezione la risalenza delle opere può avere rilievo, nell’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e per il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, come avviene nel caso in esame, (TAR Lazio sezione I quater, 11 settembre 2009, n. 8590 e giurisprudenza ivi citata), ma essa non comporta che l’Amministrazione possa continuare a rimanere inerte di fronte ad un abuso edilizio, come pare ritenersi in ricorso, quanto piuttosto comporta l’obbligo di motivare congruamente, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, sull’interesse pubblico (diverso da quello al semplice ripristino della legalità) che giustifichi il sacrificio del contrapposto interesse privato.

Nel caso in esame, come sopra accennato, il provvedimento non appare sprovvisto di motivazione, dal momento che in primis viene proprio citato il verbale del 16 aprile 2009 con il quale la Capitaneria di Porto di Roma ha fatto constatare la violazione degli art. 54, 55 e 1161 C.N., dopo di che al Comune non restava altra condotta che quella di adottare il provvedimento censurato, che, sotto questo profilo, appare dunque espressione di attività del tutto vincolata.

Nel prosieguo la motivazione dell’ordinanza del tutto correttamente indica le ragioni giuridiche per la sua adozione, al punto che parte ricorrente è stata messa in condizione di ripercorrere l’iter logico giuridico che ha presieduto alla sua adozione.

In ordine poi alla terza censura, che per l’aspetto da ultimo rilevato si riaggancia alla prima, il dedotto difetto di motivazione, come dovuto ad una imprecisa identificazione dell’area, appare pure smentito dalla descrizione delle superfici abusivamente occupate recata dal provvedimento, sicchè esso non può proprio essere considerato di contenuto generico e va inoltre esclusa la circostanza che l’Amministrazione non abbia operato un bilanciamento tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera e quello del privato al suo mantenimento, trattandosi oltre tutto di superfici dalle misure non esorbitanti (mq. 55,00 di cortile pavimentato).

Oltre a ciò devesi ancora rilevare che per giurisprudenza pure costante della sezione le censure formali proposte da un soggetto avverso un’ordinanza di demolizione quali sono il difetto di motivazione e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria non possono più condurre all’annullamento del provvedimento, alla stregua dell’art. 21 octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, laddove il ricorrente non dimostri che il suo contenuto avrebbe potuto essere diverso (TAR Lazio, sezione I quater, 11 gennaio 2011, n. 123 e la giurisprudenza ivi citata, tra cui: TAR Puglia, Bari, sezione III, 10 giugno 2010, n. 2406), mentre per le superiori considerazioni tale prova non appare, nel caso, raggiunta, essendo l’ordinanza gravata rivolta alla protezione di un bene demaniale, la cui natura parte ricorrente non riesce a scalfire posto che, pur essendo la costruzione principale costruita nel 1951 e su suolo privato, l’estensione del cortile pavimentato occupa suolo pubblico.

La circostanza che parte ricorrente abbia anche ottenuto nel 2010 la concessione dall’Agenzia delle Dogane poiché l’occupazione del suolo demaniale "non costituisce ostacolo ai fini della vigilanza doganale", non rileva ai fini della motivazione del provvedimento esaminato, poiché l’atto abilitativo in questione è stato adottato da organo preposto alla tutela di altri aspetti del bene demaniale, e cioè quello della salvaguardia della linea doganale ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, in applicazione del quale l’autorizzazione postuma è stata rilasciata all’esponente e non per la tutela del bene demaniale in quanto tale.

In conclusione, oltre tutto, la censura appare anche inammissibile, dal momento che, in data 28 febbraio 2011, con memoria per la Camera di Consiglio, parte ricorrente ha prodotto copia dell’istanza di rilascio della concessione demaniale, con ciò mostrando di essere bene a conoscenza della violazione, contestatagli col provvedimento in esame, in ordine agli articoli 54, 55 e 1161 C.N., stanti i quali l’esecuzione di opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta all’autorizzazione dell’Autorità demaniale marittima.

2.3. Con la seconda doglianza l’esponente lamenta poi che l’Amministrazione comunale non ha comunicato l’avvio del procedimento impedendo di rappresentare le proprie ragioni, omettendo anche di rappresentare i motivi di urgenza in base ai quali la comunicazione non è stata effettuata.

Analogamente a quanto sopra rilevato in ordine ai vizi formali, lo stesso art. 21 octies, secondo comma, ultimo capoverso impedisce l’annullamento del provvedimento vincolato "qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato" (TAR Lazio, sezione I quater, 10 dicembre 2010, n. 36046 e la giurisprudenza ivi citata tra cui, sull’argomento: TAR Umbria, Perugia, 28 ottobre 2010, n. 499) e l’Amministrazione, costituendosi in giudizio ha per l’appunto contestato ognuna delle doglianze proposte da parte ricorrente avverso il provvedimento in analisi.

2.4 Infine con il quarto motivo l’esponente rappresenta pure che il provvedimento impugnato è illegittimo in quanto l’amministrazione non ha minimamente considerato gli effetti pregiudizievoli che la demolizione comporterebbe all’unità immobiliare.

Alla coltivazione di tale motivo parte ricorrente pare avere perso interesse, presentando la domanda di rilascio della concessione demaniale marittima, per come sopra accennato.

3. Per le superiori considerazioni i provvedimenti vanno trovati scevri dalle dedotte censure con conseguente reiezione del ricorso.

4. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente Marco Reali al pagamento di Euro 1.500,00 (Euro 750,00 cadauno) per spese di giudizio ed onorari a favore del Comune di Pomezia ed al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-07-2011, n. 16601 Contratto a termine

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Svolgimento del processo

B.M. ha chiesto l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro con il quale era stata assunta dalla Montepaschi Serit spa per "far fronte ad eccezionali esigenze di lavoro a carattere straordinario e temporaneo per attività di notifica di atti esattoriali" per il periodo dal 27.2.2001 al 25.5.2001. Il Tribunale di Marsala ha accolto la domanda con decisione che è stata riformata dalla Corte di Appello di Palermo, che, accogliendo l’appello proposto dalla società, ha respinto l’originaria domanda, ritenendo che l’apposizione del termine fosse giustificata dalla clausola del contratto collettivo aziendale, che prevedeva la possibilità di assunzioni a termine di un determinato numero di dipendenti da adibire alla notifica degli atti di riscossione anche per periodi di tempo diversi da quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro, e che la clausola del contratto collettivo nazionale (art. 27), secondo cui le assunzioni a tempo determinato potevano essere disposte entro il limite massimo del 100% del personale in servizio presso ciascuna concessione, doveva essere interpretata nel senso che tale percentuale andava calcolata con riferimento al numero complessivo dei dipendenti in servizio presso le singole strutture, e non con riferimento ai soli messi notificatori in servizio presso le stesse strutture.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione B.M. affidandosi a cinque motivi di ricorso cui resiste con controricorso la Serit Sicilia spa (già Montepaschi Serit spa). La controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1 e della L. n. 56 del 1987, art. 23, comma 1 chiedendo a questa Corte di stabilire "se la contrattazione collettiva a livello aziendale, su rinvio o ad integrazione della contrattazione collettiva nazionale o locale, possa individuare o regolare ipotesi ulteriori e diverse – rispetto a quelle previste dalla L. n. 230 del 1962 di apposizione del termine finale al contratto di lavoro, ovvero se la ridotta forza negoziale delle oo.ss. renda inidoneo tale livello di contrattazione ad assicurare la salvaguardia contro gli abusi del precariato". 2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1 e L. n. 56 del 1987, art. 23, chiedendo a questa Corte di stabilire "se gli accordi aziendali per introdurre ipotesi di assunzione a termine diverse da quelle di legge debbano essere sottoscritti da tutte le oo.ss. firmatarie del ccnl, e debbano essere sufficientemente determinati e precisi nell’individuare la durata e la quantità delle assunzioni consentite". 3.- Con il terzo motivo si deduce la violazione o la falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 3, art. 2697 e 2729 c.c., art. 116 c.p.c., artt. 26 e 27 ccnl 1995 dipendenti delle aziende concessionarie per la riscossione, chiedendo alla Corte di stabilire "se il ccnl o gli accordi aziendali, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, siano di per sè prova sufficiente della sussistenza delle circostanze legittimanti l’assunzione di lavoratori precari". 4.- Con il quarto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, della L. n. 56 del 1987, art. 23 e artt. 26 e 27 ccnl 1995 dipendenti delle aziende concessionarie per la riscossione, chiedendo alla Corte di stabilire "se il limite percentuale alle assunzioni di messi notificatori straordinari fissato dal ccnl 1995 aziende di concessione sia riferito all’intero personale aziendale ovvero soltanto a quello addetto all’attività di notifica, e se tale percentuale possa essere derogata da accordi di livello aziendale". 5.- Con il quinto motivo la ricorrente lamenta l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione a tutti i punti sopra indicati.

6.- Il quesito di cui al primo motivo deve trovare risposta nel principio enunciato in materia dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis Cass. n. 8317/2006, Cass. n. 7533/2006, Cass. n. 5793/2006, Cass. n. 5619/2006, Cass. sez. unite n. 4588/06), a cui questa Corte intende dare continuità, secondo cui la L. n. 56 del 1987, art. 23 che demanda alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla legge – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria "delega in bianco" a favore dei sindacati, i quali, pertanto, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere "oggettivo" ed anche – alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale – per ragioni di tipo meramente "soggettivo", costituendo l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato idonea garanzia per i lavoratori e per un’efficace salvaguardia dei loro diritti. Proprio perchè si tratta di una "delega in bianco", secondo la citata giurisprudenza, non può dubitarsi della facoltà della contrattazione nazionale o locale di rimettere anche alla contrattazione aziendale l’individuazione del presupposto di fatto per la legittima apposizione del termine al contratto di lavoro.

Il che è quanto si è verificato nella fattispecie in esame, nella quale il contratto collettivo nazionale, art. 26, autorizzato dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 ha, a sua volta, demandato alla contrattazione aziendale ("salvo accordi in sede aziendale, per periodi diversi …") la facoltà di individuare ulteriori ipotesi di assunzione a termine di personale da adibire alla notifica di atti di riscossione.

Il primo motivo deve essere pertanto respinto.

7.- Il secondo motivo, con il quale si contesta la legittimità di accordi aziendali che non siano stati sottoscritti da tutte le organizzazioni sindacali firmatarie del ccnl e si deduce la genericità degli accordi in questione, è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione: non si indicano, infatti, quali associazioni sindacali avrebbero stipulato il ccnl e quali non avrebbero sottoscritto gli accordi aziendali, nè viene riportato nel ricorso per cassazione il testo degli accordi di cui si deduce la genericità e quello delle clausole del contratto collettivo nazionale con cui è stata demandata alla contrattazione aziendale la facoltà di individuare ulteriori ipotesi di assunzione a termine (e tutto ciò a prescindere dalla pur assorbente considerazione che nè il contratto nazionale nè quelli aziendali sono stati prodotti in copia integrale unitamente al ricorso per cassazione).

8.- Anche il terzo motivo è inammissibile poichè muove dal presupposto che il giudice d’appello abbia ritenuto che la contrattazione collettiva, autorizzata ad individuare ipotesi ulteriori di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro, costituisca, per sè sola, prova sufficiente della sussistenza delle circostanze che legittimano l’apposizione del termine, ciò che sarebbe in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale che ritiene che, anche nella vigenza della L. n. 56 del 1987, debba essere posto a carico del datore di lavoro l’onere della prova delle condizioni che giustificano l’apposizione del termine (cfr. ex multis, Cass. n. 14877/2006); laddove, la Corte territoriale non ha affatto affermato siffatto principio – che sarebbe effettivamente in contrasto con quanto ripetutamente affermato da questa Corte in materia – ma ha ritenuto che sull’effettiva esistenza delle esigenze straordinarie ed urgenti connesse al servizio di notificazione degli atti di riscossione, per le quali era stata prevista la possibilità del ricorso alle assunzioni a termine, non vi fosse contestazione tra le parti (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata) e che, quindi, i presupposti indicati dagli accordi aziendali (incremento straordinario del lavoro dei concessionari), quali legittimanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro, in realtà sussistessero in concreto. La ricorrente ha contestato che il ricorso ai contratti a termine fosse giustificato da un reale incremento straordinario del fabbisogno di manodopera e che si fosse creata una mole di lavoro arretrato da esaurire inderogabilmente nel periodo dal 1996 al 1997, ma non ha specificamente indicato gli elementi probatori, eventualmente trascurati o insufficientemente valutati dal giudice d’appello, dai quali ha tratto tali valutazioni, e neppure ha indicato in quali atti del giudizio precedente abbia proposto tali questioni al giudice di merito, sicchè le censure espresse con il terzo motivo – pure a voler prescindere, anche in questo caso, dalla mancata produzione del ccnl e degli accordi aziendali – rimangono comunque confinate ad una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d’appello, inidonea a radicare un vizio deducibile in questa sede di legittimità. 9.- Il quarto motivo, con il quale si contesta l’interpretazione data dalla Corte territoriale alla clausola contrattuale con cui viene fissata la percentuale del personale che può essere assunto a tempo determinato, è inammissibile per diverse ragioni. La ricorrente, con violazione ancora una volta del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr. ex multis Cass. n. 21388/2005, Cass. n. 16132/2005, Cass. n. 12775/2004), non riporta nel ricorso il contenuto integrale delle clausole delle quali lamenta l’erronea interpretazione (nè produce il testo integrale del contratto collettivo e degli accordi aziendali ai quali fa riferimento). Ma il ricorso è carente anche sotto altro determinante profilo. Sempre in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, è necessario, infatti, che, nel caso sia stata denunciata la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti collettivi, siano motivatamente specificati i canoni ermeneutici negoziali in concreto violati, nonchè il punto e il modo in cui il giudice del merito si sia da essi discostato, restando altrimenti la censura confinata ad una mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta dalla sentenza impugnata (Cass. n. 1582/2008, Cass. n. 10374/2007). Le carenze sopra riscontrate conducono, quindi, all’affermazione della inammissibilità anche del quarto motivo di ricorso.

10.- Fermi restando i rilievi che precedono, e che assumono già valore decisivo e assorbente ai fini della valutazione dell’ammissibilità del motivo in esame, va comunque sottolineato, per completezza, che la doglianza della ricorrente in ordine alla interpretazione delle norme di legge e della contrattazione collettiva in esame dovrebbe ritenersi comunque infondata, atteso che questa Corte, in una fattispecie del tutto analoga a quella ora in esame (cfr. Cass. n. 23455/2009), ha già affermato il principio secondo cui, in tema di assunzioni a tempo determinato, la L. n. 56 del 1987, art. 23 va interpretato, alla luce di una esegesi letterale e sistematica, nel senso che la norma, nel prevedere che tali rapporti costituiscono una percentuale del personale con rapporto a tempo indeterminato rimettendone l’esatta definizione alla contrattazione collettiva, fa riferimento al numero complessivo di lavoratori a tempo indeterminato occupati nell’azienda presso la quale devono essere effettuate le assunzioni a termine. Con la stessa sentenza si è altresì precisato che, in tema di interpretazione del contratto collettivo nazionale per i dipendenti dei concessionari del servizio di riscossione dei tributi, è conforme alla regola legale del l’interpretazione letterale la decisione della corte territoriale che, in riferimento agli artt. 33 del ccnl del 1991 e 27 del ccnl del 1995, ritenga la percentuale del cento per cento, prevista dalle norme pattizie per le assunzioni a tempo determinato del personale con mansioni di messo notificatore, riferita non a tutti i dipendenti a tempo determinato dell’istituto di credito, ma solo a quelli della "concessione" nel cui ambito operano gli addetti alla riscossione del ruolo oggetto della concessione da parte dell’ente impositore, ed escluda che la locuzione "del personale in servizio presso ciascuna concessione gestita", sia rapportata al solo personale a tempo indeterminato adibito alle medesime mansioni di messo notificatore.

11.- 11 quinto motivo è inammissibile per le stesse ragioni già illustrate sub 8), in relazione alle censure di cui al terzo motivo di gravame.

12.- Il ricorso va, dunque, rigettato.

13.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-09-2011, n. 18679 Compromesso e clausola compromissoria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 22 ottobre 1998, la Intertrade Europa Group s.a. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Brescia la Nuova Odo s.p.a. per la risoluzione di tre contratti di fornitura di strutto raffinato ad uso alimentare conclusi a mezzo del mediatore Belfats s.r.l. e la condanna della convenuta al risarcimento dei danni. Nella costituzione della predetta convenuta, che eccepiva l’improponibilità della domanda assumendo l’operatività tra le parti di una clausola compromissoria in arbitrato irrituale espressamente contenuta nei contratti di acquisto (mediante il richiamo al contratto 138 dell’Associazione Granaria di Milano), il tribunale adito, con sentenza n. 2373 del 2001, accoglieva la richiamata eccezione preliminare e dichiarava l’improponibilità della domanda.

Avverso la menzionata sentenza proponeva appello la Intertrade Europa Group e, nella costituzione dell’appellata, la Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 939 del 2004, rigettava il gravame e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado.

A sostegno dell’adottata sentenza la Corte territoriale rilevava l’infondatezza dell’impugnazione sul presupposto che effettivamente si sarebbe dovuta ritenere conclusa tra le parti la clausola compromissoria dedotta dalla Nuova Odo s.p.a. e che la stessa società appellante, mediante la sua condotta, ne aveva confermato l’accettazione.

Nei confronti della suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la Intertrade Europa Group s.a. in liquidazione, articolato in cinque motivi, avverso i quale ha resistito con controricorso la Nuova Odo s.p.a.. I difensori di entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la società ricorrente ha dedotto (con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5) l’omessa od insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia nella parte in cui la Corte di appello di Brescia, nella sentenza impugnata, aveva omesso l’esame del primo motivo formulato da essa Intertrade Europa Group. In particolare, con tale doglianza, a ricorrente ha inteso prospettare che, malgrado nel gravame fosse stato formulato con il primo motivo la richiesta attinente alla declaratoria di nullità per "indeterminatezza" e "genericità", oltre che per la mancanza, in essa, degli elementi essenziali per valere come "clausola compromissoria", la Corte territoriale non aveva adottato, in proposito, alcuna adeguata motivazione, essendosi limitata a dare per pacifica la circostanza dell’esistenza della stessa clausola compromissoria contenuta nei contratti e sottoscritta dal mediatore.

2. Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, comma 2, artt. 1419 e 1421 c.c., in relazione agli artt. 1346 e 1325 c.c., n. 3, per avere la Corte di appello di Brescia escluso la dedotta inesistenza, invalidità ed inefficacia delle clausole contenute nei tre "stabiliti di compravendita".

Al riguardo la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto, confermando la statuizione di primo grado, la validità della clausola contenuta nei "tre stabiliti di compravendita" violando, però, le norme sulla disciplina dei negozi giuridici con riferimento, in particolare, ai principi che regolamentano la validità delle clausole di compromissione in arbitri, dal momento che la genericità della clausola (con la quale si era previsto che "il presente contratto n. 134/136/138 è regolato dalle borse mercato di categoria i cui arbitri saranno incaricati a dirimere eventuali controversie sorte tra le parti) non poteva far assurgere il richiamato riferimento al rango di clausola compromissoria, neanche "per relationem", non risultando, peraltro, individuati nè lo specifico contratto cui era rivolto nè la specifica associazione che lo aveva emesso.

3. Con i terzo motivo la ricorrente ha prospettato la violazione dell’artt. 1967 c.c. e artt. 115-116 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo la Corte territoriale, in tema di forma scritta "ad probationem", attribuito al documento (costituito dai tre "stabiliti di compravendita") proveniente da un terzo estraneo al rapporto tra i contraenti (nella specie, il mediatore), non sottoscritto dalle parti, lo stesso valore e la medesima valenza probatoria dell’attestazione scritta "proveniente dalle parti" richiesta dal citato art. 1967 c.c..

4. Con il quarto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 c.c. (sempre con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), sul presupposto che la Corte di appello, pur avendo conferito (in ogni caso, erroneamente) efficacia all’art. 23 del contratto n. 138 dell’Associazione Granaria di Milano (la quale prevedeva l’espletamento della procedura arbitrale), aveva, comunque, violato il disposto del richiamato art. 1341 c.c., e, in generale, il principio della necessità della specifica approvazione per iscritto delle "clausole compromissorie". 5. Con il quinto ed ultimo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 1967, 1341, 2721, 2725, 2727 e 1362 e segg. c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, in tema di "prova" dell’accordo compromissorio. Con tale doglianza la ricorrente ha contestato l’impugnata decisione nella parte in cui aveva affermato che la "prova" della pretesa "volontà" delle parti a compromettere ad arbitri le future, eventuali controversie sarebbe stata comunque rinvenibile, pur in assenza della sottoscrizione della clausola contenuta negli "stabiliti" e di alcun altro documento o attestazione riferibile alle parti contenente l’accettazione della stessa, dalla "mancata contestazione delle clausole riportate nel documento" trasmesso da parte dei contraenti, dalla messa "in esecuzione" del contratto di fornitura e, indirettamente, dalla successiva instaurazione dei "seppur distinto" procedimento arbitrale promosso dalla Nuova Odo.

6. Rileva il collegio che i primi tre motivi (i quali possono essere esaminati congiuntamente perchè strettamente connessi) sono fondati e devono, pertanto, essere accolti.

In primo luogo deve evidenziarsi che, effettivamente, la Corte territoriale, a fronte della specifica doglianza (dedotta come prima nel relativo gravame: cfr. pagg. 7-8 della sentenza impugnata) attinente alla contestazione della effettiva sussistenza e conseguente efficacia della supposta clausola compromissoria (riferita ad arbitrato irrituale) per genericità ed indeterminatezza della stessa oltre che per insussistenza della necessaria sottoscrizione delle parti interessate, ha risposto con una motivazione inadeguata e, comunque, carente, risultando incentrato il suo svolgimento, in parte, su aspetti generali e sganciati dalla fattispecie e, in parte, sull’asserita rilevanza, ritenuta essenzialmente assorbente, della circostanza che l’appellante (ora ricorrente) aveva posto in essere un comportamento che confermava l’accettazione della clausola e, quindi, la sua operatività.

La clausola riportata nei tre "stabiliti di compravendita" presentava, come è incontestato fra le parti, il seguente tenore:

"Il presente contratto n. 134/136/138 è regolato dalle borse mercato di categoria 1^ cui arbitri saranno incaricati a dirimere eventuali controversie tra le parti.

Orbene, nella valutazione del contenuto di tale clausola, ancorchè sia pacifico che la stessa fosse richiesta solo "ad probationem", non può, tuttavia, ritenersi che essa fosse chiaramente determinata ne suo oggetto e, soprattutto, nella esplicazione della volontà delle parti di conferire un espresso e specifico mandato negoziale in favore degli arbitri, senza nemmeno la precisazione dell’associazione di categoria o borsa merci nè de luogo dell’arbitrato. Nè, nel caso in esame, era emerso che la suddetta previsione fosse assistita dalla cd. "clausola di salvaguardia" (alla quale, perciò, pone impropriamente riferimento la Corte bresciana), ovvero alla connessa disposizione di garanzia di consentire alle parti di comunicare la loro opposizione alla clausola arbitrale. Solo con la presenza ulteriore di tale previsione sarebbe stato possibile desumere, senza equivoco, l’esplicitazione della volontà delle parti di voler contemplare un arbitrato irrituale, dal momento che – secondo la giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. 7 luglio 1999, n. 7048) – Il compromesso e la clausola compromissoria per arbitrato irrituale, se relativi a rapporti per i quali non è richiesta la forma scritta "ad substantiam" ai sensi dell’art. 1350 c.c., richiedono soltanto la prova per iscritto, secondo le regole di cui l’art. 1967 c.c., con la specificazione che tale prova può essere costituita da qualsiasi attestazione scritta circa la esistenza dei mandato compromissorio, anche se successiva alla pattuizione ed a carattere meramente ricognitivo, purchè attribuibile alle parti;

pertanto, un documento, quale la conferma d’ordine, formato dal mediatore ai sensi dell’art. 1760 c.c., n. 3, da lui solo sottoscritto, ed inviato alle parti, che contenga la conferma dell’avvenuto accordo compromissorio, facendo salva la volontà delle parti di comunicare allo stesso mediatore il loro eventuale dissenso, costituisce prova del compromesso per arbitrato irrituale ove tale dissenso non sia stato manifestato.

Nella fattispecie, diversamente da quanto ritenuto dal giudice d’appello, si versava nel caso di una clausola generica ed indeterminata (come tale contrastante con le prescrizioni di cui agli art. 1325 c.c., n. 3, e art. 1346 c.c.), predisposta e sottoscritta dal solo mediatore (e non anche direttamente dalle parti) e sprovvista della suddetta clausola di salvaguardia, con la conseguenza che la stessa non poteva qualificarsi come una clausola compromissoria legittimamente stipulata. Nè, peraltro, può sostenersi che, nell’ipotesi sottoposta al vaglio della Corte lombarda, si siano venute a configurare le condizioni per la previsione di una clausola compromissoria "per relationem", dal momento che quest’ultima presuppone, in ogni caso, che il contenuto del contratto sia comunque sufficientemente determinato, così come che sia individuata la specifica associazione che lo abbia emesso e che sia direttamente riferibile alle parti interessate. Del resto, con riguardo alle clausole compromissorie "per relationem" (ovvero a quelle previste in un diverso negozio o documento cui il contratto faccia riferimento), il requisito di forma può ritenersi soddisfatto allorchè il rinvio, contenuto nel contratto, preveda un richiamo espresso e specifico della clausola compromissoria e non, invece, allorquando il rinvio sia generico, richiamandosi semplicemente il documento o il formulario che contenga la clausola stessa, in quanto soltanto il richiamo espresso assicura la piena consapevolezza delle parti in ordine alla deroga alla giurisdizione (cfr. per riferimenti, Cass., S.U., 19 maggio 2009, n. 11529). Inoltre, in linea generale, si ricorda (v., ad es., Cass. 30 ottobre 2007, n. 22841) che, poichè il deferimento di una controversia al giudizio degli arbitri comporta una deroga alla giurisdizione ordinaria, in caso di dubbio in ordine alla interpretazione della portata della clausola compromissoria, deve preferirsi un’interpretazione restrittiva di essa e affermativa della giurisdizione statuale, riconoscendosi non rientrare la domanda in contestazione nell’ambito della materia rimessa agli arbitri.

7. Anche il quinto motivo è meritevole di pregio e va, pertanto, accolto. Il giudice di appello ha affermato che la prova della volontà delle parti a compromettere in arbitri le future ed eventuali controversie sarebbe stata comunque rinvenibile, pur in difetto della sottoscrizione della clausola contenuta degli "stabiliti di compravendita e di alcun altro documento o attestazione riferibile alle parti contenente l’accettazione della stessa, dalla mancata contestazione delle clausole riportate nel documento trasmesso da parte dei contraenti, dalla circostanza di aver messo in esecuzione il contratto di fornitura e dalla successiva instaurazione di altro distinto procedimento arbitrale ad istanza della Nuova Odo s.p.a..

Oltre agli aspetti inerenti la forma della clausola compromissoria esaminati nel paragrafo precedente, non sono emersi, nella fattispecie, i presupposti per desumere, dalla spontanea asserita esecuzione "per facta concludentia" del contratto di fornitura da parte della ricorrente, la prova dell’accettazione della clausola di deroga alla giurisdizione, poichè la suddetta circostanza avrebbe potuto, semmai, costituire elemento sintomatico della ritenuta validità dei contratti di compravendita ma non sarebbe stata idonea ai fini della prova dell’accettazione della supposta clausola compromissoria. Inoltre, la procedura arbitrale cui pone riferimento la controricorrente (e alla quale si richiama la Corte territoriale) era stata promossa dalla stessa Nuova Odo s.p.a. (alla quale vi aveva semplicemente aderito l’Intertrade Europa Group) ed era fondata su un successivo e specifico "atto di compromesso" espressamente stipulato fra le parti a seguito dell’insorgenza della contestazione sulla qualità della merce compravenduta, senza fare alcun richiamo o rinvio alla clausola (per quanto detto generica, indeterminata, priva di sottoscrizione delle parti e, quindi, nulla ed inefficace) riportata nei contratti di vendita conclusi in data 1-9 marzo 1995;

oltretutto, se la ricorrente avesse avuto la consapevolezza dell’esistenza di una rituale clausola arbitrale nei predetti "stabiliti di compravendita", non avrebbe fatto ricorso alla sottoscrizione di uno specifico e successivo atto di compromesso.

Questa circostanza, dunque, non può rivestire alcuna rilevanza in funzione dell’accertamento dell’inesistenza di una valida clausola compromissoria riferita ai tre "stabiliti" o, in ogni caso, della sicura ed inequivoca manifestazione di volontà delle parti di demandare la risoluzione delle correlate controversie ad arbitri.

8. Il quarto motivo (come precedentemente richiamato), riferito ad un aspetto presupponente l’accertamento dell’esistenza e della validità della contestata clausola compromissoria, può essere considerato assorbito in conseguenza dell’accoglimento di tutti gli altri motivi.

9. In definitiva, alla stregua delle esposte ragioni, il ricorso deve essere accolto con la conseguente cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia che, nell’attenersi ai principi di diritto sopra enunciati (v. sub 6), con riferimento alla individuazione – nei contratti di somministrazione "de quibus" – delle condizioni necessarie per la configurabilità di una valida ed efficace clausola compromissoria (relativa ad arbitrato irrituale), provvederà anche sulle spese della presente fase di legittimità.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.