Cons. Stato Sez. V, Sent., 18-01-2011, n. 267 Danno; Giudicato amministrativo; Amministrazione Pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La società S. S.p.A., titolare della concessione mineraria per l’estrazione del salgemma, ricadente nel territorio comunale di Scansano Jonico, poi rinnovata per 15 anni a decorrere dal 18/3/1989 e con scadenza il 18/3/2004, ha avviato la procedura per la realizzazione di un impianto finalizzato alla idrodissoluzione del salgemma. In relazione a tale iniziativa industriale, la società aveva ottenuto un contributo a fondo perduto, ai sensi della legge n. 480 del 1992; il nulla osta ai sensi della legge n.1497 del 1939, rilasciati dal sindaco di Scansano Jonico, nonché le concessioni edilizie rilasciate dal medesimo Comune. Pertanto aveva concluso i contratti di appalto e iniziato i lavori, in data 9/9/1999.

2. Senonché il Presidente della giunta regionale della Basilicata ha disposto la sospensione dei lavori di costruzione dello stabilimento e, nel contempo, ha fatto obbligo alla società S. di presentare apposita istanza di "Screening", ai sensi dell’articolo 13 della legge n. 47 del 1998, ritenendo che il progetto dovesse essere sottoposto alla fase di valutazione di impatto ambientale.

3. Contro tale determinazione la società predetta ha proposto ricorso al Tar della Basilicata, chiedendo anche, oltre l’annullamento degli atti, la condanna dell’amministrazione all’integrale risarcimento dei danni subiti per effetto del provvedimento impugnato, ai sensi dell’articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998.

4. Il Tar ha annullato il provvedimento di sospensione e ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento dei danni, ritenendo che la ricorrente si era limitata a fare riferimento al ritardo nella esecuzione delle opere e alla eventualità della revoca del finanziamento concesso. Sicché, ad avviso del giudice di primo grado, la domanda era, per un verso eccessivamente generica e, per l’altro verso, eventuale rispetto all’evento che avrebbe potuto determinare il danno ingiusto.

5. Successivamente il dirigente dell’Ufficio compatibilità ambientale del dipartimento sicurezza sociale politiche ambientali della medesima Regione Basilicata -atteso che la società S. aveva presentato la documentazione richiesta per sottoporre il progetto alla fase di verifica, pur precisando che la presentazione della documentazione avveniva senza pregiudizio alcuno per il ricorso all’epoca pendente avanti al Tar della Basilicata- ha disposto di sottoporre a valutazione il progetto per la costruzione dello stabilimento per la produzione del sale.

Non essendo stata ancora emanata la sentenza relativa al primo ricorso, la società ha impugnato anche tale provvedimento, ottenendo, con ordinanza n. 261 del 27 luglio 2000, la tutela cautelare.

Il Tar ha accolto anche tale ricorso.

6. Entrambe le sentenze non sono state impugnate e comunque l’iniziativa industriale non è stata più proseguita dalla società S..

7. La medesima società ha successivamente presentato ricorso con il quale ha chiesto, a titolo di risarcimento danni, la condanna della Regione Basilicata al pagamento in suo favore della somma di euro 61.885.926,46, oltre interessi e rivalutazione, per il danno subito a seguito dell’illegittimità dei provvedimenti annullati dal Tar.

8. Il tribunale ha accolto parzialmente il ricorso, condannando la Regione Basilicata al pagamento in suo favore della somma di euro 5.504.838,15, oltre interessi e rivalutazione.

Il tribunale ha ritenuto di dover fare riferimento ai danni subiti nel periodo decorrente dalla data del 9/9/1999, ossia quella di emanazione del decreto del Presidente della giunta con il quale era stata disposto l’assoggettamento della costruzione dello stabilimento a valutazione di impatto ambientale, fino al 27/7/2000, data di pubblicazione dell’ordinanza cautelare, con la quale il tribunale aveva sospeso l’efficacia della determinazione dell’ufficio di compatibilità ambientale, laddove aveva deciso di sottoporre a valutazione la costruzione del predetto stabilimento e conseguentemente la sospensione di tali lavori. Ha, invece, ritenuto di non poter risarcire i danni relativi al periodo 9/9/199918/11/1999, dal momento che la sentenza numero n. 367 del 21/6/2000 aveva annullato il decreto, ma aveva anche respinto la domanda di risarcimento dei danni, patiti dalla ricorrente fino alla notifica del ricorso di impugnazione del decreto del presidente della giunta regionale, ossia sino al 18/11/1999. Parimenti aveva ritenuto di non poter riconoscere il risarcimento richiesto a titolo di lucro cessante, sia perché non aveva fornito prova circa le quantità il prezzo e il tipo di salgemma che avrebbe potuto vendere e sia perché la società, ancorché ne avesse la possibilità, non aveva mai iniziato l’attività estrattiva.

9. Tale sentenza è stata impugnata dalla società S., deducendo che il danno lamentato si è verificato nel marzo del 2002, ossia dopo il deposito della prima sentenza e dopo la proposizione del secondo ricorso contro la insistita pretesa della Regione di sottoporre l’impianto di dissoluzione alla procedura di valutazione di impatto ambientale. Più in particolare, il danno si sarebbe verificato quando è stato revocato il finanziamento ottenuto e l’appellante si è trovata, nel contempo, esposta alla richiesta di adempimento dei contratti stipulati per la realizzazione del predetto impianto. Ha dedotto, altresì, che il tribunale ha errato nel qualificare danno da ritardo quello venuto in rilievo con la presentazione della domanda risarcitoria, dichiarata inammissibile con la prima sentenza di annullamento, che comunque era stata proposta prima della emanazione della legge n. 205 del 2000, laddove ha consentito poi la proposizione di domande risarcitorie direttamente collegate alla colposa emanazione di atti dichiarati illegittimi.

10. La medesima sentenza è stata gravata dalla Regione Basilicata, che, con autonomo atto di appello, -dopo aver premesso che, con deliberazione n.2606 del 16/11/2004, era stata respinta l’istanza della società di rinnovo per altri 15 anni della concessione scaduta il 18/3/2004 e che il Ministero delle attività produttive aveva concesso alla società S. un finanziamento di euro 2.236 718,011, rapportato alla spesa che la società aveva dimostrato di aver sostenuto, ha dedotto: 1) l’erroneità della sentenza, laddove, non accogliendo l’eccezione d’inammissibilità del ricorso di primo grado per la mancata impugnazione della sentenza del Tar della Basilicata n. 762/ 99 (in relazione al fatto che la sentenza n. 762 del 31/12/99 aveva erroneamente ristretto la sfera di operatività dell’annullamento ai soli atti direttamente consequenziali a quelli oggetto di impugnativa, ossia le concessioni edilizie rilasciate a favore della S.), non ha consentito di ritenere che l’iniziativa non si è realizzata per mancanza dei necessari titoli giustificativi e invece ha consentito di ritenere che vi fosse responsabilità della regione; 2) ha errato il primo giudice laddove ha rigettato l’eccezione della difesa regionale di violazione del principio del "ne bis in idem", ritenendo che il danno si fosse prodotto nello stesso periodo nella precedente sentenza e dichiarando la domanda risarcitoria inammissibile con sentenza passata in giudicato; 3) ha errato il primo giudice nel qualificare la posizione soggettiva della S. come interesse legittimo di tipo oppositivo, essendo già titolare della concessione mineraria e delle concessioni edilizie, cui si sarebbero frapposti gli atti regionali annullati, che avrebbero impedito la realizzazione dell’iniziativa; 4) ha errato il Tar nel ritenere che vi fossero tutti i presupposti della fattispecie risarcitoria e, in particolare, ha errato nel ritenere che la revoca del finanziamento sarebbe stata determinata dalla mancata ultimazione dell’opera entro i termini previsti dal decreto del Ministero dell’industria n. 24571 del 20/11/96 di assegnazione del contributo di circa 15 miliardi e che, in caso di mancata revoca, l’opera sarebbe stata sicuramente completata, poiché il Ministero non ha prodotto mai in giudizio l’atto di revoca e quindi non è possibile ipotizzare le ragioni su cui è stato fondato; 5) la somma riconosciuta dai primi giudici, costituita dalla differenza fra il contributo a fondo perduto concesso dal Ministero delle attività produttive e il contributo poi rideterminato dal medesimo Ministero, pari ad euro 2.236.718,01, non era dovuta poiché non si conoscono le ragioni della revoca dell’originario contributo; 6) ha errato, infine, il primo giudice nel riconoscere somme rivenienti da fatture emessi dopo la data del 27/7/2000, considerata come il termine finale del periodo in cui si è verificato il danno.

11. Gli appelli sono stati trattenuti in decisione all’udienza del 19 ottobre 2010.

Motivi della decisione

12. Preliminarmente va disposta la riunione degli appelli, essendo stati proposti contro la medesima sentenza, ai sensi dell’articolo 96 del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104 (Codice del processo amministrativo).

13. I motivi proposti mediante gli appelli ora riuniti possono essere trattati congiuntamente sulla base delle assorbenti considerazioni che seguono.

14. Preliminarmente va chiarito che il ricorso originario proposto dalla società S., notificato alla Regione Basilicata in data 9/12/2002 e al Comune di Scansano Jonico in data 10/12/2002, è stato proposto per il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni derivati alla società ricorrente in dipendenza dei provvedimenti regionali (decreto del Presidente della giunta regionale n. 315 del 9 settembre 1999 e determinazione dirigenziale n. 02E/2000/D/149 del 13/4/2000), annullati definitivamente con le sentenze nn. 367/2000 e 311/ 2002.

15. La situazione giuridica soggettiva della ricorrente al momento della proposizione delle domande di annullamento degli indicati provvedimenti, dal cui annullamento l’appellante fa discendere il danno subito, era costituita, in punto di fatto e di diritto, da un soggetto, titolare di una concessione mineraria con scadenza il 18 marzo 2004, che aveva posto in essere una consistente attività materiale e giuridica, già descritta in narrativa, per ottenere l’estensione della concessione all’attività estrattiva del sale, illegittimamente interrotta dalla Regione Basilicata, così come statuito dalle sentenze passate in giudicato.

Detta situazione giuridica soggettiva, che conferisce la legittimazione alla domanda risarcitoria proposta nel presente giudizio, va qualificata, utilizzando le note categorie giuridiche, come legittimo affidamento alla conclusione delle opere occorrenti per l’inizio dell’attività estrattiva. Con ciò non si vogliono sconfessare le categorie giuridiche utilizzate sia dal primo giudice e sia dalle parti, ossia quelle di interesse oppositivo e pretensivo, ma più semplicemente si vuole utilizzare la situazione giuridica soggettiva, conosciuta e protetta dal nostro ordinamento giuridico (si pensi alla condizione sospensiva o alla revoca illegittima di un atto amministrativo), cui meglio si adatta il caso di specie, costituito dalla posizione di chi ha già una situazione soggettiva compiuta e rilevante, e, tuttavia, per essere completamente soddisfatta, necessita dell’attività strumentale dell’amministrazione affinché l’interessato ottenga (o, come nel caso di specie, allarghi) il bene della vita dato in attribuzione esclusiva al soggetto pubblico.

Il chiarimento suddetto si è reso necessario sia in quanto la questione è stata oggetto del primo giudizio, sia in quanto l’individuazione esatta della situazione giuridica soggettiva è indispensabile per poter individuare il tipo di responsabilità e quindi la natura e l’ambito della risarcibilità.

Va da sè che se la situazione soggettiva la si riguarda dal punto di vista dell’azione lesiva la fattispecie è di tipo oppositivo, anche se non va trascurato l’aspetto pretensivo, costituito dal poter compiere l’attività estrattiva.

16. Venendo alla fattispecie concreta, la società appellante, in buona sostanza, ha chiesto il risarcimento del danno subito a seguito dell’inutile coinvolgimento in un procedimento amministrativo e in un’attività materiale – nel caso di specie si tratta delle concessioni edilizie e nella cantierizzazione per le perforazioni sui terreni all’uopo acquistati- illegittimamente arrestati dall’amministrazione; coinvolgimento che le ha comportato spese ed occasioni mancate di guadagno.

Va da sé che la fattispecie si colloca in quella zona indefinita "turbolenta", che le più sicure categorie del torto civile e del danno contrattuale non riescono a coprire. E’ la stessa zona in cui si colloca la responsabilità precontrattuale nei rapporti civilistici, che dà luogo al c. d. risarcimento dell’interesse negativo.

Atteso che l’attività estrattiva non ha mai avuto inizio, il rapporto amministrativo dedotto nel giudizio attraverso la proposizione autonoma dell’azione risarcitoria va riguardato come un fatto storico, definitivamente cristallizzato, rispetto al quale si configurano le corrispettive responsabilità dei soggetti interessati.

Pertanto, diventa risolutivo stabilire se, al fine di escludere o di affermare la responsabilità, vi sia stata o meno colpa da parte dell’amministrazione per la mancata conclusione del procedimento di allargamento dell’originaria concessione e comunque per il mancato inizio dell’attività estrattiva.

17. È appena il caso di rilevare che la disamina determina implicitamente l’esame del ricorso autonomo proposto dalla Regione, completamente incentrato sull’esclusione della colpa dell’amministrazione nella vicenda amministrativa dedotta in giudizio.

Ebbene, sia dall’esame della scansione procedimentale riassunta in narrativa sia degli atti di causa, risulta in maniera evidente che l’impresa, già titolare di una concessione estrattiva, aveva già ottenuto sia le concessioni edilizie del Comune, che l’annullamento del piano -per pacifica giurisprudenza- non aveva travolto, e sia il nulla osta della soprintendenza dei beni culturali; e, soprattutto, aveva ottenuto il finanziamento pubblico per la realizzazione dell’opera, che si suppone sia avvenuto sulla base di un controllo di compatibilità ambientale, non avendo mai l’amministrazione dimostrato in giudizio, nonostante l’espresso invito a farlo, le ragioni della revoca del finanziamento medesimo e poi della sua riassegnazione parziale.

Se a ciò va aggiunto che i provvedimenti interruttivi da parte della Regione sono stati dichiarati definitivamente illegittimi da parte del giudice di primo grado, si configura sicuramente il requisito della colpa da parte dell’amministrazione. La Regione ha finito con l’incidere direttamente sulla situazione giuridica soggettiva dell’impresa, determinando l’illegittimo arresto dell’ attività e rendendo così inutili ed ingiuste le spese sino a quel momento sostenute dall’impresa, che vanno risarcite, nei limiti in cui il danno risulti provato.

In particolare, la causa esclusiva che ha determinato il danno va rinvenuta nell’illegittima pretesa dell’amministrazione regionale di voler sottoporre a valutazione di impatto ambientale l’impianto di estrazione del salgemma, che, come ha chiarito il giudice con sentenza passata in giudicato, non poteva essere sottoposta a tale valutazione, sia perché l’estrazione avveniva con un impianto a circuito chiuso e sia perché le realizzande opere di superficie non potevano essere considerate in modo autonomo rispetto alla miniera, in quanto necessarie per l’attività mineraria medesima. Inoltre tali opere rientravano nell’ambito della concessione mineraria già rilasciata in epoca in cui non era stata emanata alcuna disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale.

18. Prima di passare alla quantificazione del danno, il collegio deve farsi carico dell’ambito del risarcimento; in particolare della questione se rientrino o meno nell’area della risarcibilità quei danni qualificati da ritardo -esclusi dal primo giudice, perché sull’azione dichiarata inammissibile nell’originaria sentenza si sarebbe formato il giudicato- e intervenuti nel periodo decorrente dal 18 novembre 1999 sino al 27 luglio 2000.

Il collegio osserva che il giudicato non copre i danni prodottisi nel periodo indicato in base a due ordini di ragioni: il primo, in quanto la richiesta è stata disattesa con una pronuncia di natura processuale, che non esclude la sua riproposizione ed il suo eventuale accoglimento, purché ne persistano i presupposti di fatto e di diritto (Con. St.,V, n.3531 del 9/6/2009; Con. St.,IV, n. 338 del18 aprile 1994; Cass. S.U. n. 30254 del 23/12/2008); il secondo, in quanto essi costituiscono ora fatti dannosi non più eventuali e genericamente individuati, ma fatti definitivamente realizzatisi e certi nella loro individuazione, che costituiscono, insieme agli altri fatti dannosi, il titolo della presente domanda risarcitoria, che peraltro all’epoca non era prevista dall’ordinamento giuridico.

19.1. Venendo, infine, alla quantificazione del danno, il collegio, a fronte della mancata contestazione da parte della Regione delle singole voci di danno e tenuto conto delle prove fornite per ciascuna di esse, ritiene che spettino, di tutte quelle elencate nell’atto di appello, le seguenti voci: 1) euro 43.044,83 al titolo di compensi per la commissione consultiva di valutazione per l’assegnazione dei lotti dell’area PIP, pagate in data 4/3/1999; 2) euro 10.690,76 a titolo di oneri relativi alla redazione del PIP, pagate in data 4/6/1999; 3) euro 263.640,92, oltre 42.000,00 di Iva, per un totale di euro 305 640,92, per lavori eseguiti dall’impresa Matera Costruzioni Srl; euro 1.658.324,39, comprensivi di Iva, per la costruzione dei pozzi eseguita dalla Mining Italiana S.p.A.; 4) euro 2.866.335,79, comprensivi di Iva, per la realizzazione dell’impianto di purificazione, cristallizzazione ed essiccamento istituito dall’impresa SET S.r.l.; 5) euro 106.384,65, comprensivi di Iva, per le spese relative al progetto redatto dalla Tekne Studio Associato di Matera; 5) euro 12.642,86 per il compenso professionale spettanti all’ingegner Egidio Tamburino. Sommando gli importi si giunge alla somma complessiva di euro 5.106.355,20. Da tale somma vanno sottratti euro 2.236.718,01, costituito dal contributo a fondo perduto concesso dal Ministero dell’industria con decreto n. 2457 del 20 dicembre 1996, determinato in via definitiva con decreto n. 122801 del 30 maggio 2003 del Direttore generale della direzione generale per il coordinamento. Pertanto si giunge alla somma finale di euro 2.869.637,19. La somma portata in sottrazione, nella diversa ottica risarcitoria, va considerata come parziale liquidazione del danno subito.

19.2. In proposito il collegio osserva che il giudice di primo grado ha errato laddove, in presenza del fatto (incontestato) della mai iniziata attività estrattiva e comunque della mai conclusa realizzazione delle opere che la rendevano possibile, ha incluso, nell’area dei danni risarcibili, il contributo nella sua dimensione originaria, opportunamente ridotto dall’amministrazione in considerazione della ridotta realizzazione delle opere che ne giustificavano l’erogazione. In altri termini costituirebbe un controsenso affermare la pretesa ad avere l’intero contributo per un’attività solo parzialmente svolta.

19.3. Sulla somma a tale titolo riconosciuta vanno calcolati gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, a partire dal formarsi delle singole voci di debito, calcolando l’incidenza che su di esse ha avuto la concreta erogazione del contributo statale.

19.4. Non va, invece, riconosciuta la somma relativa all’acquisto del terreno, in quanto esso è entrato definitivamente nel patrimonio dell’impresa e costituisce attualmente un valore vivo e quindi utilizzabile, sia direttamente dall’impresa sia da terzi, per effetto di cessione a vario titolo.

19.5. Parimenti, nessuna somma va riconosciuta a titolo di lucro cessante, in quanto, nell’ottica in cui va inquadrata la fattispecie, riconoscerla significherebbe configurare, nel caso di specie, il danno contrattuale positivo, ossia l’intero guadagno che all’impresa sarebbe derivato dall’esercizio dell’attività estrattiva. Invece risulta pacifico che l’impresa ha volontariamente rinunciato ad intraprendere l’attività. Ma, soprattutto, ha interrotto l’attività procedimentale e materiale, anche quando avrebbe potuto proseguirle per effetto della sospensione giudiziale dell’atto di sospensione della Regione.

Tuttavia, il danno a tale titolo richiesto, va valutato, nei limiti dell’interesse negativo, come occasione perduta di guadagno, nel senso che l’impiego di energie e sostanze nel procedimento, poi rivelatosi inutile, non ha consentito all’impresa di sfruttare altre occasioni di guadagno che in costanza del procedimento le si erano presentate.

Va da sé che la lettera di intenti presente agli atti, rilasciate da talune imprese disposte ad acquistare e distribuire il sale, non solo non costituisce prova sufficiente a configurare un serio impegno giuridico, ma soprattutto sono direttamente collegate alla mancata attività estrattiva, che per ciò solo, per le ragioni spiegate, si collocano fuori dell’area della risarcibilità.

20. In conclusione l’appello dell’impresa S. va rigettato; mentre l’appello della Regione Basilicata va parzialmente accolto.

Ricorrono giusti motivi per compensare le spese del grado del giudizio

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, riunisce gli appelli;

accoglie in parte l’appello della Regione Basilicata e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condanna la Regione medesima al pagamento della somma, così come rideterminata in motivazione;

rigetta l’appello dell’impresa S..

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-11-2010) 08-02-2011, n. 4527 Sospensione condizionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 24 marzo 2009 la Corte d’Appello di Milano, confermando la decisione assunta dal locale Tribunale, ha riconosciuto R.S. e R.N.M. responsabili, in concorso tra loro, del delitto di lesione volontaria in danno di H.K.; ha quindi tenuto ferma la loro condanna alle pene di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, subordinando a tale adempimento la sospensione condizionale della pena. Con la stessa sentenza ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dagli imputati contro la loro assoluzione dall’imputazione di rapina, motivata con l’applicazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2.

Hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione gli imputati, per il tramite del comune difensore, affidandolo a tre motivi.

Col primo motivo i ricorrenti impugnano la declaratoria di inammissibilità dell’appello, relativamente al capo riguardante la loro assoluzione dall’imputazione di rapina. A confutare la motivazione addotta dalla Corte territoriale, col rimarcare la carenza d’interesse a conseguire una riforma che riguarderebbe soltanto la motivazione della sentenza e non anche la formula assolutoria, si richiamano a precedenti giurisprudenziali che riconoscono tale interesse nel caso di interferenze giuridiche rilevanti per l’imputato, come nel caso in cui sia pendente un procedimento per calunnia.

Col secondo motivo i ricorrenti deducono l’insussistenza del delitto di lesione per mancanza del requisito oggettivo costituito dalla causazione di una malattia.

Col terzo motivo denunciano, siccome illegittima, la subordinazione della sospensione condizionale della pena al risarcimento dei danni, non preceduta da una verifica delle condizioni economiche degli imputati e, quindi, della loro concreta possibilità di sopportare l’onere del risarcimento.

I ricorsi degli imputati, confluiti nell’unico atto d’impugnazione, sono solo in parte fondati e vanno accolti per quanto di ragione.

Ciò non è a dirsi in ordine al primo motivo, la cui infondatezza è evidenziarle attraverso la ricognizione della giurisprudenza formatasi sul punto.

Questa Corte Suprema, invero, si è già ripetutamente occupata della questione, rilevando l’insussistenza di un apprezzabile interesse dell’imputato ad impugnare una sentenza di assoluzione perchè il fatto non sussiste, emessa ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, sul rilievo che detta statuizione conclusiva non potrebbe essere modificata, quand’anche emergesse la prova positiva dell’innocenza dell’imputato (v. per tutte Cass. 7 luglio 2009 n. 27917; Cass. 4 luglio 2007 n. 32879); e ciò nel solco di due pronunce delle Sezioni Unite, emesse il 25 novembre 1995 (n. 2110/96) e il 30 ottobre 2003 (n. 45276).

Con la prima delle due pronunce citate si era affermato che una volta che sia stata pronunciata, a seguito dell’abolizione della formula dubitativa, assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2, per essersi ritenute insufficienti le prove acquisite, viene meno qualunque apprezzabile interesse dell’imputato al conseguimento di una più favorevole sentenza, in quanto la conclusiva statuizione non può essere modificata, quale che sia il giudizio esprimibile sulla prova della responsabilità dell’accusato: e cioè sia che sia stata acquisita la prova positiva della sua innocenza, sia che la prova della penale responsabilità si sia rivelata soltanto insufficiente.

E ciò in quanto l’interesse all’impugnazione, sebbene non possa essere confinato nell’area dei soli pregiudizi penali derivanti dal provvedimento giurisdizionale, neanche può essere concepito come aspirazione soggettiva al conseguimento di una pronuncia dalla cui motivazione siano rimosse tutte quelle parti che possono essere ritenute pregiudizievoli, perchè esplicative di una perplessità sull’innocenza dell’imputato; l’impugnazione, infatti, si configura pur sempre come un rimedio a disposizione della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti e non già di interessi di mero fatto, non apprezzabili dall’ordinamento giuridico.

La seconda pronuncia aveva affermato che l’imputato assolto con formula ampiamente liberatoria (comunque diversa da quella "perchè il fatto non costituisce reato"), anche se per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, non è legittimato a proporre impugnazione per carenza di un apprezzabile interesse, salvo che nell’eccezionale ipotesi in cui l’accertamento di un fatto materiale oggetto del giudizio penale conclusosi con sentenza dibattimentale sia suscettibile, una volta divenuta irrevocabile quest’ultima, di pregiudicare, a norma e nei limiti segnati dall’art. 654 c.p.p., le situazioni giuridiche a lui facenti capo, in giudizi civili o amministrativi diversi da quelli di danno e disciplinari regolati dagli artt. 652 e 653 c.p.p..

Avuto riguardo al caso di specie, pertanto, correttamente è stata giudicata inammissibile la censura mossa dagli imputati alla motivazione della sentenza, nella parte recante la loro assoluzione dall’imputazione di rapina; nè è dato cogliere nel ricorso l’indicazione di uno specifico fatto materiale, il cui accertamento – positivo -contenuto nella sentenza possa essere di futuro pregiudizio per gli imputati in altri ambiti giurisdizionali: del tutto inconferente e generico essendo il riferimento a un separato procedimento per calunnia a carico del querelante.

Del pari infondato è il secondo motivo, non essendo dubitabile che alla diagnosticata – e conseguentemente accertata – "lesione cranica non commotiva", in una con la "distorsione cervicale", debba riconoscersi il carattere di malattia in senso giuridico, trattandosi di alterazione patologica dell’organismo che non si esaurisce in una semplice sensazione di dolore.

Fondato è, invece, il terzo motivo.

La Corte Costituzionale, con pronuncia n. 49 del 1975, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 165 c.p., nella parte in cui consente al giudice di subordinare la sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno, ha avvertito nella motivazione che spetta al giudice di valutare, con apprezzamento motivato ma discrezionale, la capacità economica del condannato e la sua concreta possibilità di sopportare l’onere del risarcimento pecuniario.

A seguito di ciò la giurisprudenza di legittimità, con statuizione per vero risalente, ma non contraddetta da successivi arresti di segno opposto, ha enunciato il principio a tenore del quale "il giudice di merito è tenuto a procedere alla valutazione, sia pur sommaria, delle condizioni economiche dell’imputato quando intende subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena al pagamento della provvisionale" (Cass. 11 luglio 1979 n. 3050):

principio che va qui ribadito, estendendone anche la portata al caso in cui si intenda subordinare il beneficio al risarcimento del danno contestualmente liquidato.

La Corte territoriale ha omesso di far luogo alla valutazione resa necessaria dalla descritta regula iuris, per cui la sentenza impugnata risulta carente nella motivazione sul punto e va, conseguentemente, annullata nei limiti del vizio riscontrato. Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Milano, sottoporrà a rinnovato esame l’istanza di applicazione della sospensione condizionale del la pena, tenendo conto di quanto suesposto; all’esito provvedere su di essa in piena libertà di giudizio, col solo obbligo di dare adeguata motivazione al deliberato.
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla subordinazione della sospensione condizionale della pena al risarcimento dei danni in favore della parte civile, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano per nuovo esame.

Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 11-04-2011, n. 8129 Giurisdizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La vicenda riguarda la costruzione in Napoli della cd. cittadella postale affidata in concessione alla Mededil spa, in relazione alla quale sono stati celebrati procedimenti penali sia per tangenti pagate da imprese appaltatrici della Mededil all’amministratore delegato di questa (tal L., poi deceduto), sia per abuso d’ufficio e peculato imputati al P., all’epoca direttore dell’Azienda di Stato dei Servizi Telefonici ed Ispettore Generale delle Telecomunicazioni del Ministero PP.TT..

La Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per il Lazio ha reso sentenza con la quale, accertata la sussistenza della legittimazione passiva della Mededil in liquidazione, ha condannato questa ed il P. al pagamento in favore di Poste Italiane spa di distinte somme a titolo di danno patrimoniale e danno all’immagine. La Prima Sezione centrale d’appello della Corte dei conti ha integralmente confermato la prima sentenza. Propongono ricorso per cassazione la Mededil in liquidazione e la Fintecna (quale cessionaria della Mededil in liquidazione) attraverso due motivi, perchè sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice contabile. Resiste con controricorso il PG presso la Corte dei conti. La Mededil ha depositato memorie per l’udienza.
Motivi della decisione

Il primo motivo sostiene che il giudice contabile non avrebbe correttamente accertato l’esistenza di un rapporto di servizio intercorso tra la Mededil spa e l’Amministrazione postale quale presupposto essenziale per radicare la giurisdizione contabile.

Il motivo è infondato.

La questione – fondata sulla tesi che la convenzione in oggetto, benchè denominata "concessione", sarebbe in realtà un appalto appartenente alla categoria del generai contracting – ha costituito oggetto di puntuale accertamento da parte del giudice contabile, il quale ha rilevato che la Mededil era concessionaria per la costruzione di edifici destinati a far parte del patrimonio immobiliare dell’Amministrazione postale, era titolare di diritti e doveri di progettazione di massima ed esecutiva, di direzione dei lavori, di sorveglianza sulla corretta esecuzione delle opere e di assistenza al loro collaudo, fino alla consegna del prodotto finito e collaudato. Ne ha, dunque, dedotto l’avvenuto trasferimento al concessionario di funzioni e compiti di natura pubblica, con "una sommatoria di poteri pubblicistici e privatistici" che consentono l’affermazione della giurisdizione contabile.

Siffatta statuizione è in linea con i principi costantemente affermati da questa Corte regolatrice, sicchè occorre ribadire e precisare che:

"In tema di giurisdizione della Corte dei conti, ai fini della configurabilità di un rapporto di servizio, idoneo a radicare la giurisdizione contabile, assume rilievo l’effettivo svolgimento da parte della società privata di funzioni istituzionalmente spettanti all’ente pubblico, mentre è ininfluente la natura privatistica delle prestazioni individuate nella convenzione regolatrice del contratto.

Ne consegue che sussiste la giurisdizione contabile nell’ipotesi in cui la convenzione tra P.A. e società, privata (nella specie, denominata "concessione") preveda la costruzione di immobili destinati a far parte del patrimonio pubblico, con compiti a carico della società stessa di progettazione, direzione dei lavori, sorveglianza sull’esecuzione delle opere e collaudo" (quanto ad un contratto d’appalto di servizi stipulato con società privata per la gestione di interventi manutentivi del patrimonio dell’ente, cfr.

Cass. SU n. 15599/09; quanto alla responsabilità contabile del progettista, direttore dei lavori e collaudatore, cfr. Cass. SU nn. 7446/08, 5631/09, quanto alla concessione del tipo denominato "chiavi in mano", cfr. Cass. SU n. 4112/2007, con attribuzione al concessionario di attività sicuramente pertinenti alla P.A. quali la progettazione, la redazione dei progetti esecutivi e la direzione lavori, con conseguente instaurazione di un rapporto di servizio tale da collocare il soggetto preposto in condizione di compartecipe dell’attività amministrativa dell’ente pubblico preponente).

Il secondo motivo sostiene l’interruzione dell’immedesimazione organica tra la società ed il menzionato L. in ragione del comportamento delittuoso di quest’ultimo e, dunque, l’irriferibilità alla società degli illeciti da lui compiuti.

Il motivo è infondato.

Anche sul punto esiste il puntuale accertamento del giudice contabile, il quale ha chiarito che i comportamenti penalmente illeciti posti in essere dal L. furono compiuti per conto della stessa Mededil e non per interessi ed iniziative meramente personali (sul punto v’è il riferimento alle dichiarazioni della vedova del L. rese anche in sede penale, la quale dichiarò di avere scoperto che il marito aveva la disponibilità di ingenti somme di danaro contabile, assolutamente anomala rispetto al tenore di vita familiare, nonchè di un conto corrente presso una banca svizzera). Convinzione raggiunta in precedenza anche dal giudice penale, il quale aveva considerato l’amministratore societario come inserito in un meccanismo parallelo a quello ufficiale, in virtù del quale si muovevano ingenti somme di denaro in modo tutt’altro che trasparente. Circostanze, queste, che hanno fatto dedurre ai giudici contabili la legittimazione passiva della società nell’azione in concreto proposta.

Decisione che merita di essere confermata attraverso l’affermazione del principio secondo cui:

"In tema di giurisdizione della Corte dei conti, gli atti compiuti dall’amministratore di una persona giuridica inserita nell’organizzazione della P.A. costituenti illeciti contabili sono riferibili alla persona giuridica stessa quando, benchè costituenti reato ed esorbitanti dal mandato, non siano stati compiuti per interessi meramente personali e su iniziativa esclusivamente individuale dell’amministratore, bensì attengano allo svolgimento dei poteri di amministrazione concretamente conferiti e soddisfino interessi propri del soggetto giuridico rappresentato".

In conclusione, il ricorso deve essere respinto senza alcun provvedimento in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 12-05-2011, n. 10506 diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Sig. M.M. ha impugnato con ricorso per cassazione — sulla base di tre motivi – il decreto della Corte di appello di Napoli depositato in Cancelleria il 4 maggio 2009 con cui è stata rigettata la sua domanda di equa riparazione, ai sensi della L. n. 89 del 2001, del danno non patrimoniale da lui subito per l’irragionevole durata del processo penale per i reati di circonvenzione di persona incapace e di appropriazione indebita, da considerarsi iniziato il 5 settembre 1996, giorno in cui era stata eseguita la perquisizione disposta nei suoi confronti dal P.M. presso il Tribunale di Nocera Inferiore, e conclusosi con sentenza dichiarativa dell’estinzione dei reati contestatigli per prescrizione, emessa dallo stesso Tribunale il 21 settembre 2007, in quanto la durata eccessiva del processo presupposto gli aveva giovato e la mancata rinuncia alla prescrizione denotava che egli non aveva interesse a vedere affermata la propria estraneità ai reati ascrittigli.

Il ricorso,, inizialmente notificato al Ministero della Giustizia presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli, è stato nuovamente notificato, ad iniziativa dello stesso ricorrente, prima della fissazione dell’udienza, presso l’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha notificato, nel termine prescritto, controricorso, con cui si è limitata) a sostenere che il giudice nazionale non è vincolato all’osservanza dei criteri fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di riparazione del danno cagionato dall’irragionevole durata del processo presupposto.
Motivi della decisione

1. La rituale spontanea rinnovazione della notificazione del ricorso, erroneamente eseguita nel termini prescritto presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli, e la notificazione del controricorso da parte l’Avvocatura generale dello Stato hanno comportato la sanatoria della nullità della prima notificazione, per cui il ricorso può essere esaminato dalla Corte.

2. I tre motivi del ricorso – con cui si denuncia, sotto diversi profili, l’erroneità della decisione di rigetto della domanda emessa con il decreto impugnato – possono essere esaminati congiuntamente e, per la loro manifesta fondatezza, possono essere accolti.

La giurisprudenza di questa Corte è ormai costante nel ritenere che il diritto all’equa riparazione del danno cagionato dall’irragionevole durata di un processo penale sia svincolato dall’esito del processo irragionevolmente protrattosi nel tempo e debba, perciò, essere riconosciuto anche nel caso in cui, come è avvenuto nel processo presupposto in relazione al quale è stata proposta dal ricorrente la domanda di riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la durata eccessiva del processo abbia determinato l’estinzione del reato (o dei reati) per prescrizione, dovendo, escludersi l’applicazione della causa estintiva, alla quale l’imputato avrebbe potuto rinunciare per poter essere assolto per motivi di merito, valga, di per sè solo – come invece erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale – ad elidere gli effetti negativi del protrarsi del processo presupposto al di là dei limiti della durata ragionevole, a meno che – come peraltro non risulta essere avvenuto nel caso in esame – il verificarsi della causa estintiva del resto non sia una conseguenza dell’impiego, di parte dell’imputato, di tecniche dilatorie o di strategie difensive sconfinanti nell’abuso del diritto di difesa.

La cassazione del decreto impugnato, conseguente alla riconosciuta fondatezza del ricorso, e l’incontestata sussistenza di tutti gli elementi di fatto necessari per una pronuncia di merito giustificano poi l’esercizio, da parte di questa Corte, del potere attribuitole dall’art. 384 c.p.c., comma 2. 3. Poichè il processo presupposto si è protratto dal 5 settembre 1996 al 21 settembre 2007, la sua durata complessiva risulta essere stata di undici anni e sedici giorni.

Detraendo il periodo di tre anni – corrispondente, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, alla durata ragionevole del giudizio di primo grado di un processo penale di non particolare complessità, come quello presupposto – la durata del ritardo ingiustificato risulta pari a otto anni e sedici giorni.

Poichè, in base a un recente orientamento di questa Corte, quando, come nel caso in esame, il ritardo ingiustificato superi il triennio, l’indennità per il danno non patrimoniale può determinarsi equitativamente in settecentocinquanta euro per ciascuno dei primi tre anni e in mille euro per ciascuno degli anni successivi, l’indennità complessiva spettante al ricorrente può stabilirsi in Euro 7.295,00, sui quali sono dovuti gli interessi legali dalla domanda. Le spese del giudizio di merito e quelle del giudizio di legittimità, in base al principio della soccombenza, vanno, infine, poste a carico del Ministero della Giustizia e liquidate come nel dispositivo.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e – decidendo nel merito – condanna il Ministero della Giustizia al pagamento, in favore di M.M., della somma di Euro 7.295,00, con gli interessi legali dalla domanda, nonchè al rimborso in favore del medesimo M., delle spese del giudizio di merito e di quello di legittimità, liquidate in Euro 490, per onorari, Euro 600 per diritti per il primo giudizio e in Euro 900 per l’altro giudizio, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.