Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-09-2011, n. 18662 personale non docente

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con ricorso al giudice del lavoro di Sulmona, l’attuale controricorrente, dipendente del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), tacente parte del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della Scuola, esponeva di essere stato inquadrato nel profilo professionale D2, direttore dei servizi generali ed amministrativi (DSGA) con decorrenza 1.9.2000 sulla base del CCNL 26.5.1999. Sosteneva che a fini giuridici ed economici dovesse essere riconosciuta tutta l’anzianità maturata – anteriormente a quella data – per i servizi di molo e non di ruolo prestati, in luogo dell’anzianità convenzionale riconosciuta l’art. 8 del CCNL 15.3.2001 sulla base del sistema della temporizzazione", facendo applicazione della più favorevole norma dell’art. 66, comma 6, del contratto collettivo del Comparto Scuola del 4.8.1995, da ritenere ancora vigente.

2.- Accolta la domanda e proposto appello da parte del MIUR, la Corte d’appello di L’Aquila rigettava l’impugnazione, ritenendo che la disposizione del richiamato art. 66, comma 6, del CCNL del 1995 non potesse ritenersi abrogata dalla successiva contrattazione collettiva.

3.- Proponeva ricorso per cassazione il MIUR, il quale, con il suo unico motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 66, comma 6, del CCNL del 1995, degli artt. 34 e 48 del CCNL del 1999, degli artt. 8 e 19 del CCNL 15.3.2001, degli artt. 87 e 142 del CCNL 24.7.2003, sostiene che, introdotta, da parte dell’art. 34 del CCNL del 1999, la nuova figura professionale dei DSGA e disciplinate le modalità di accesso alla medesima in sede di prima applicazione, non è configurabile il presupposto della normativa applicata in sede di merito, essendosi in presenza di un peculiare passaggio di qualifica e non di passaggio di ruolo, e che, inoltre, l’art. 8 del CCNL del 2001 costituisce l’unica fonte normativa per l’individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio. Il lavoratore intimato resiste con controricorso e ha depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione

4.- Il ricorso, con riferimento al secondo profilo delle sue dedizione, è meritevole di accoglimento in ragione della giurisprudenza di questa Corte, che a più riprese ha esaminato le questioni da essi sollevate (v., tra le altre, Cass. 1.3.10 n. 4885, Cass. 2.12.10 n. 24431, Cass. 9.12.10 nn. 24912-24913-24914, Cass. 24.2.11 n. 4805).

5. In tema di classificazione del personale ATA in regime di contruattualizzazione del rapporto di lavoro, il CCNL 4.8.95 – comparto Scuola personale non dirigente, parte normativa 1994/1997 e parte economica 1994/1995 – all’art. 51 (e annessa tabella 1), contemplava la figura apicale del "direttore amministrativo" soltanto per i conservatori e le accademie, con previsione di accesso ai possessori del titolo di studio del diploma di laurea mentre per i restanti istituti scolastici la qualifica apicale era costituita dal "responsabile amministrativo", sostituita alla qualifica funzionale di coordinatore amministrativo, cui l’accesso era consentito anche con titoli di studio inferiori al diploma di laurea.

6.- Con il CCNL 26.5.99 – comparto Scuola personale non dirigente, parte normativa 1998/2001 e parte economica 1998/1999 – all’art. 34, viene istituito, con decorrenza 1.9.00, nel quadro dell’unità di conduzione affidata al dirigente scolastico, "il profilo professionale di direttore dei servizi generali ed amministrativi (DSGA) nelle scuole ed istituti di ogni ordine e grado …" (descritto nell’annessa tabella A), con inquadramento in Area D/2; il profilo del responsabile amministrativo è collocato in Area C/1, fino al 31.8.00, quando è sostituito dal profilo del collaboratore amministrativo.

Per l’accesso al profilo professionale del DSGA detto CCNL 26.5.99 richiede il diploma di laurea (tabella B); tuttavia, "in sede di prima applicazione" (in coerenza con la soppressione del profilo di responsabile amministrativo), anche in deroga all’obbligo della selezione concorsuale per il passaggio da un’area all’altra (nella specie da C a D) contemplato dall’art. 32, è previsto che possa accedere a detto profilo il personale con profilo processionale di responsabile amministrativo in servizio nell’anno scolastico 1999- 2000, previa frequenza dì apposito corso di formazione.

7.- Al personale inquadrato nel profilo di DSGA "in sede di prima applicazione" ai sensi dell’art. 34 CCNL 26.5.99, si riferisce l’art. 8 del CCNL 15.3.01, secondo biennio economico 2000/2001 del personale del comparto Scuola, così determinandone il trattamento retributivo dall’1.9.2000: stipendio iniziale del profilo di provenienza + il 70% o del differenziale tra la posizione stipendiale iniziale del direttore amministrativo delle accademie e conservatori e la corrispondente posizione iniziale del responsabile amministrativo + una retribuzione di anzianità pari alla differenza tra la posizione stipendiale in godimento, comprensiva dell’eventuale assegno ad personam nonchè del rateo di anzianità in corso di maturazione, e lo stipendio iniziale del profilo di provenienza. Si stabilisce che la retribuzione così determinata "viene utilizzata, con il criterio della temporizzazione, al fine della collocazione di ciascun dipendente all’interno delle posizioni economiche del profilo di direttore amministrativo delle accademie e conservatori".

Viene quindi adottato il criterio della cosiddetta "temporizzazione", che consiste nel convertire il valore economico della retribuzione in godimento in anzianità spendibile ai fini dell’inquadramento, prescindendo perciò da quella effettiva. La disciplina è quindi nel senso che il profilo già esistente di direttore amministrativo delle accademie e dei conservatori viene assunto a parametro degli aspetti economici di quello di nuova creazione.

8.- In questa prospettiva, poi, l’art. 87 del CCNL 24.07.03, comparto scuola per il quadriennio normativo 2002/2005 e primo biennio economico 2002/2003, dispone che, a decorrere dall’1.1.03, ai DSGA destinatari dell’incremento retributivo previsto dell’art. 8, comma 1, del CCNL 15.03.01 è attribuito un incremento retributivo pari al 30% del differenziale tra la posizione stipendiale iniziale del direttore amministrativo delle accademie e conservatori e la corrispondente posizione iniziale del responsabile amministrativo alla data del 1.9.2000, e dichiara che, per effetto di tale disposizione, "si realizza il completamento dell’equiparazione retributiva tra il personale appartenente all’ex profilo di responsabile amministrativo e quello del direttore amministrativo delle accademie e conservatori". 9.- Queste sono le disposizioni che sono state applicate dall’Amministrazione per determinare il nuovo livello stipendiale con decorrenza 1.9.2000 per gli inquadramenti nel profilo operati "in sede di prima applicazione", disposizione che, invece, secondo la tesi dei dipendenti interessati, dovrebbe intendersi o come non realmente derogatoria del principio generale di riconoscimento dell’anzianità effettiva, o superata dalla riaffermazione della vigenza e applicabilità della regola generale, oppure da ritenere in contrasto con principi e norme inderogabili.

10.- La tesi dei dipendenti richiama, innanzi tutto, l’art. 142, lett. f), punto n. 8, del CCNL 24.7.03, comparto scuola per il quadriennio normativo 2002/2005 e primo biennio economico 2002/2003, che stabilisce che continua a trovare applicazione nel comparto scuola l’art. 66, comma 4, del CCNL 4.08.95.

Per questa norma "restano confermate, al fine del riconoscimento dei servizi di ruolo e non di ruolo eventualmente prestati anteriormente alla nomina in ruolo e alla conseguente stipulazione del contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato, le norme di cui al D.L. 19 giugno 1970, n. 370, conv. con modificazioni dalla L. 26 luglio 1970, n. 576, e successive modificazioni e integrazioni, nonchè le relative disposizioni di applicazione, così come definite dal D.P.R. 23 agosto 1988, n. 399, art. 4".

Le richiamate norme di diritto (rese applicabili dalla fonte negoziale in linea con il principio generale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2) hanno ad oggetto il riconoscimento del servizio prestato prima della nomina in ruolo dal personale insegnante e non insegnante. In particolare, dispone il D.P.R. n. 399 del 1988, art. 4, comma 13 (Inquadramento economico – Passaggi di qualifica funzionale): "ai fini dell’inquadramento contrattuale, l’anzianità giuridica ed economica del personale dei servizi ausiliari tecnici ed amministrativi è determinata valutando anche il servizio pre-ruolo, comprensivo dell’eventuale servizio di ruolo in carriera inferiore, nella misura prevista dal D.L. 19 giugno 1970, n. 370, art. 3 conv. con modificazioni dalla L. 26 luglio 1970, n. 576, e successive modificazioni ed integrazioni. Restano ferme le anzianità giuridiche ed economiche riconosciute dalle vigenti disposizioni, se più favorevoli". 11.- Esaurita la ricognizione delle disposizioni di contratto collettivo che rilevano nella controversia, la Corte ritiene che le parti stipulanti intesero riservare ai DSGA, inquadrati in tale profilo "in sede di prima applicazione" e in deroga al requisito del titolo di studio ed alla regola dell’accesso alla qualifica di area superiore (D) mediante procedura concorsuale, un trattamento economico differenziato ed inferiore rispetto a quello che sarebbe derivato dall’applicazione delle regole generali in tema di riconoscimento dell’anzianità di servizio; regole che sono invece applicabili ai dipendenti che conseguono lo stesso l’inquadramento in base alle regole ordinarie (titolo di studio e procedura selettiva).

La finalità è quella, manifesta, di limitare l’onere finanziario dell’amministrazione correlato ad una "promozione" pressochè automatica (mero giudizio di idoneità all’esito del corso di formazione, ovvero di percorsi professionali).

12.- Non è condivisibile l’assunto – peraltro non decisivo – secondo cui l’art. 8 del CCNL del 2001 si limiterebbe a ripetere il criterio della temporizzazione già previsto dal D.P.R. n. 399 del 1988, art. 4, commi 8 e 9.

Dispone, infatti, il comma 8 che, nei casi di passaggio a qualifica funzionale superiore, viene attribuito lo stipendio iniziale previsto a "regime" per la nuova qualifica, maggiorato dell’importo risultante dalla differenza tra lo stipendio tabellare a "regime" relativo alla posizione stipendiale in godimento nella ualifica di provenienza ed il relativo stipendio iniziale; il comma 9 precisa che, qualora il nuovo stipendio si collochi fra due posizioni stipendiali, il personale interessato è inquadrato nella posizione stipendiale immediatamente inferiore, ferma restando la corresponsione ad personam di detta differenza; la differenza tra i due stipendi, previa temporizzazione, è considerata utile ai fini dell’ulteriore progressione economica.

Come si può constatare, in queste disposizioni l’applicazione del criterio della temporizzazione è limitata all’ipotesi in cui il nuovo stipendio non corrisponda a nessuna delle posizioni stipendiali. Il criterio della temporizzazione è destinato a venire in rilievo solo "ai fini dell’ulteriore progressione economica".

Dunque, non in sede di immediato inquadramento, conseguente al mutamento di qualifica, ma la temporizzazione vale solo per conferire un qualche peso alla differenza tra le due posizioni stipendiali, dato che in tale evenienza il personale viene inquadrato nella posizione inferiore.

Pertanto, il criterio della temporizzazione, nell’ambito della norma in esame, è destinato ad essere applicato solo in via residuale – precisamente solo nel caso in cui il nuovo stipendio si collochi fra due posizioni stipendiali – ed in un momento successivo all’inquadramento risultante dal mutamento di qualifica, ossia ai fini dell’ulteriore progressione economica.

Ben diversamente, nel contesto disciplinato dall’art. 8 del CCNL del 2001, il criterio della temporizzazione non è nè eventuale, nè destinato ad essere applicato in una fase successiva. E’ invece il criterio di immediata applicazione, primario e necessario "al fine della collocazione di ciascun dipendente all’interno delle posizioni economiche". 13.- Quanto al disposto di cui all’ultimo periodo del D.P.R. n. 199 del 1988, art. 4, comma 13, secondo cui restano ferme le anzianità riconosciute dalle vigenti disposizioni, se più favorevoli – disposto questo astrattamente rilevante – si tratta di previsione di carattere generale, derogata dalla speciale norma di cui all’art. 8 CCNL 2001 destinata a regolare una peculiare vicenda di inquadramento in qualifica superiore (pur da considerare equivalente, nell’ambito del sistema contrattuale di classificazione del personale nelle aree, alla previsione normativa relativa alla "carriera").

14.- Nè merita consenso la tesi secondo cui la particolare disciplina di cui all’art. 8 CCNL 2001 sarebbe stata superata dal successivo contratto del 2003, mediante l’affermazione della vigenza del principio generale della rilevanza del servizio non di ruolo e di quello prestato in qualifica inferiore agli effetti della retribuzione spettante nella nuova qualifica (art. 142, lett. f, punto n. 8, del CCNL 24/7/2003).

Questa lettura si pone in contrasto con l’art. 1362 c.c., perchè non valuta adeguatamente il dato letterale costituito dall’espressione "continua a trovare applicazione …", che vale ad escludere l’introduzione di una disposizione nuova, essendosi limitate le parti stipulanti a confermare una regola già operante. Al riguardo, deve ritenersi che la regola generale del computo dell’intera anzianità in caso di inquadramento in qualifica superiore (art. 66, comma 4, CCNL 4.8.95) era rimasta in vigore ai sensi della "norma di salvaguardia" dettata dall’art. 48 CCNL 26.5. 99 (per la quale "Le norme legislative, amministrative o contrattuali non esplicitamente abrogate o disapplicate dal presente CCNL, restano in vigore in quanto compatibili") e della norma finale di cui all’art. 19 dello stesso CCNL 15.3.01 (per la quale "Per quanto non previsto dal presente contratto, restano in vigore le norme del CCNL 26.5.1999").

L’impostazione qui contestata si pone, altresì, in contrasto con l’art. 1363 c.c., omettendo di considerare sia il fatto che lo stesso contratto del 2001, da una parte, confermava la richiamata regola generale dall’altra vi derogava specificamente con le disposizioni particolari dell’art. 8; sia il disposto dell’art. 87 del contratto del 2003, che si occupa ancora una volta specificamente della peculiare vicenda della creazione del nuovo profilo di DSGA e del relativo trattamento retributivo come determinato proprio ai sensi dell’art. 8 del CCNL del 2001, esplicitamente richiamato e nel quale la temporizzazione risulta funzionale proprio all’aggancio alla retribuzione del direttore amministrativo delle accademie e dei conservatori ed al dichiarato intento di equiparazione.

Invero, l’incremento re tributi vo attribuito dal citato art. 87 deve necessariamente essere considerato nell’ambito della regolamentazione complessiva di cui all’art. 8 del CCNL del 2001 e la clausola in esame comprova ulteriormente come alla vicenda della creazione del nuovo profilo professionale siano dedicati discipline negoziali specifiche, non compatibili con l’applicazione delle regole generali.

15.- Destituita di fondamento è altresì la tesi secondo cui il diritto al superiore inquadramento, siccome decorrente dall’1.9.2000, doveva essere regolato dalla norma generale in tema di computo di anzianità in caso di passaggio di categoria – con la considerazione quindi della complessiva anzianità effettiva – e non dalla (pretesa) norma speciale dell’art. 8 del CCNL del 2001, che non avrebbe potuto incidere retroattivamente sulla consistenza di un diritto già acquisito.

Al riguardo deve rilevarsi che il CCNL per il quadriennio normativo 1998-2001 e il biennio economico 1998-1999, pur avendo previsto l’operatività con decorrenza dall’1.9.2000 del nuovo profilo professionale di direttore dei servizi generali ed amministrativi, ha omesso totalmente di disciplinare il relativo trattamento economico, come si evince in particolare dal fatto che le tabelle D1 e D2, relative agli aumenti stipendiali in vigore rispettivamente dal 1.11.1998 e dal 1.6.1999, e la tabella R, relativa alle posizioni stipendiali in vigore a regime da detta ultima data, comprendono la posizione di direttore amministrativo dei conservatoli e delle accademie ma non prendono affatto in considerazione il profilo di direttore dei servizi generali ed amministrativi, il quale non può presumersi regolato ai fini economici come l’altro – pur affine – profilo, poichè tali due profili sono considerati distintamente nella tabella A (contenente l’elencazione e la descrizione di tutti i profili) e graduati diversamente, in D/1 il profilo già esistente e in D/2 quello di nuova istituzione.

Tale omissione normativa, del resto, trova sistematica spiegazione nel fatto che, come già rilevato, il CCNL sottoscritto nel 1999 regolava il solo biennio economico 1998-1999, mentre per il biennio successivo, nel cui ambito avrebbe cominciato ad operare il nuovo profilo, avrebbe dovuto provvedere ai fini economici un ulteriore contratto collettivo, poi di fatto sottoscritto il 15.3.2001. Si è verificato dunque un breve vuoto normativo, che è stato colmato con giustificati effetti retroattivi appunto dall’art. 8 del CCNL del 2001, il quale – è opportuno sottolineare – espressamente regola, in termini speciali e derogatori, il solo trattamento economico del personale fruente in sede di prima applicazione dell’inquadramento nel nuovo profilo professionale di direttore dei servizi generali ed amministrativi. Nè alcun diritto di maggiore portata poteva ritenersi maturato sul piano economico da tale personale al momento stesso dell’entrata in vigore del nuovo inquadramento, anche nell’ipotesi di previo perfezionamento delle procedure per l’accesso al medesimo, in difetto di una parte essenziale della normativa relativa al trattamento economico.

Deve rilevarsi ancora, per completezza, che il trattamento economico assicurato dall’art. 8 del CCNL del 2001 è nettamente superiore a quello in godimento dal personale in questione prima della promozione, poichè in pratica è garantita una maggiorazione stipendiale pari al 70% del differenziale tra le posizioni stipendiali iniziali del direttore amministrativo delle accademie e dei conservatori e del responsabile amministrativo (e successivamente, a seguito del CCNL del 2003, pari al 100% di tale differenziale) oltre ad una futura migliore valorizzazione, in conseguenza del nuovo e migliore inquadramento, del maturato economico eccedente il minimo tabellare acquisito nel profilo di provenienza, che è conservato senza rimanere congelato, perchè è computato ai fini dell’anzianità ai fini economici, secondo il criterio della temporizzazione.

16.- Non sussiste il denunciato contrasto, sotto i diversi profili dedotti, dell’art. 8 del CCNL del 2001 con principi e norme inderogabili.

I contratti collettivi del settore pubblico, pur nella specialità che ne caratterizza il regime giuridico (procedimento di formazione, efficacia erga omnes, rapporto con le norme di diritto), hanno pur sempre natura giuridica negoziale; di conseguenza, le clausole contrattuali sono sottratte al sindacato giurisdizionale sotto il profilo dell’opportunità delle scelte operate dai contraenti anche per quanto concerne l’equiparazione graduale di posizioni analoghe ma non identiche. Nè possono esser ipotizzati contrasti con la regola posta dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, la quale impone, appunto, di applicare esclusivamente le disposizioni contrattuali in tema di trattamento economico – in relazione a differenziazioni operate proprio dal contratto (vedi Cass. 19 dicembre 2008, n. 29829; 10 marzo 2009, n. 5726; 18 giugno 2008, n. 16504 e 19 giugno 2008 n. 16676; Cass., sez. un., 7 luglio 2010, n. 16038).

Alla stregua del richiamato principio di diritto risultano manifestamente prive di fondamento le argomentazioni relative alla mancanza di valide giustificazioni per negare l’incidenza della reale anzianità di servizio, pur riconosciuta ad ogni altro effetto, sul trattamento economico spettante ai DSGA dal 1.9.00; alla disparità di trattamento con le altre categorie di dipendenti e, in particolare, con quelli che accedono al profilo professionale di DSGA nel periodo successivo alla "prima applicazione" di cui all’art. 34 del CCNL del 1999; al trattamento di fatto praticato ad alcuni dipendenti inquadrati in sede di prima applicazione nel profilo di DSGA con il riconoscimento dell’anzianità effettiva (si tratta, all’evidenza, di comportamenti dell’amministrazione tenuti in contrasto con il disposto dell’art. 45, cit.).

17.- Giova, infine, precisare che nella fattispecie ora in esame l’Amministrazione si vale di poteri di diritto privato ed attua una regolazione del rapporto di lavoro determinata da norme di contenuto negoziale, quali l’art. 34 del CCNL 26.5.99 che istituisce il profilo professionale DSGA e ne individua i requisiti di accesso in sede di prima applicazione, e l’art. 8 del CCNL 15.3.01 che di tale profilo determina il trattamento retributivo a decorrere dall’1.9.00. Oggetto della controversia è, dunque, non l’esercizio di un potere autoritativamente diretto ad incidere sulle posizioni soggettive dei dipendenti, ma l’interpretazione che di quelle norme l’Amministrazione ha fatto nel regolare dette posizioni.

L’indagine del giudice è diretta esclusivamente alla verifica della correttezza dell’interpretazione e non anche alla censura di un (peraltro inesistente) potere autoritativo dell’Amministrazione. E’, pertanto, del tutto estranea alla presente controversia la pretesa di accertare se con l’interpretazione data alla norma collettiva – peraltro corretta, sulla base delle regole dell’ermeneutica – l’Amministrazione abbia pregiudicato un diritto di credito che si assume presente nel patrimonio dei dipendenti, con violazione delle disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che quel diritto tutelerebbe.

18. Conformemente a quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, il ricorso va dunque accolto, dato che il trattamento economico spettante dall’1.9.2000 al personale ATA inquadrato in sede di prima applicazione nel profilo professionale di "direttore dei servizi generali e amministrativi", ai sensi dell’art. 34 CCNL del comparto scuola 26 maggio 1999, è regolato dalla specifica norma di cui all’art. 8 del CCNL 15.3.2001, relativo ai secondo biennio economico 2000-2001 dello stesso comparto. Deve, infatti, escludersi che, in forza del principio della parità di trattamento, detto personale possa invocare la più favorevole regola generale che consente il computo dell’intera anzianità di servizio maturata per il caso di inquadramento in qualifica superiore, sia perchè non è configurabile contrasto con le norme imperative, dato che il contratto collettivo non è sindacabile sotto il profilo della ragionevolezza e del rispetto del principio di parità di trattamento, sia per la specificità della situazione regolata, che nella specie è limitata alla fase del primo inquadramento nel profilo.

Consegue la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la decisione nel merito con il rigetto della domanda.

19.- La circostanza che la giurisprudenza di legittimità qui richiamata sia intervenuta dopo la proposizione del ricorso, costituisce motivo di compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda; compensa le spese dell’intero giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Piemonte Torino Sez. I, Sent., 27-05-2011, n. 564 Forze armate

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

ale;
Svolgimento del processo

1. Con ricorso ritualmente proposto, il sovrintendente della Polizia di Stato Z.M. ha impugnato gli atti indicati in epigrafe con cui il Capo della Polizia, su conforme parere del Consiglio Provinciale di Disciplina, gli ha irrogato la sanzione disciplinare della deplorazione congiunta alla pena pecuniaria nella misura di 5/30 di una mensilità dello stipendio e degli altri assegni a carattere fisso e continuativo, ai sensi degli articoli 5, 13 e 19 del D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737.

2. La predetta sanzione è stata irrogata sulla base della seguente, testuale motivazione: "Sovrintendente in servizio alla squadra mobile interveniva presso un istituto scolastico per un dissidio sorto tra un docente ed un genitore di un alunno. Nella circostanza, abusando della sua funzione e violando i doveri di servizio, prendeva arbitrariamente le parti del genitore dell’alunno, provocando la successiva censura del proprio operato da parte dell’intero corpo docenti. Denotava nella circostanza scarsa professionalità, operava con violazione dei propri doveri ed arrecava pregiudizio all’immagine della Polizia di Stato".

3. A fondamento del gravame, il ricorrente ha dedotto tre motivi, con i quali ha lamentato vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi profili, nei termini che saranno più diffusamente esposti in seguito.

4. Si è costituito il Ministero dell’Interno, con il patrocinio dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Torino, depositando costituzione di stile e documentazione, integrate successivamente da articolata memoria difensiva, a cui la difesa di parte ricorrente ha replicato a sua volta con memoria.

5. All’udienza del 20 aprile 2011, sentiti l’avv. Antonella Gianasso, su delega dell’avv. Cimino, per la parte ricorrente e l’avv. Prinzivalli per il Ministero resistente, la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato sotto tutti i profili dedotti e va respinto.

1. Con il primo motivo, il ricorrente ha lamentato la violazione degli articoli 5, 4 e 13 del D.P.R. 25 ottobre 1981 n. 737 e l’incompetenza del Capo della Polizia ad irrogare la sanzione impugnata. Ha sostenuto che la sanzione avrebbe dovuto essere irrogata dal questore (e non dal Capo della Polizia) sentito il parere della commissione consultiva di cui all’art. 15 dello stesso testo normativo (e non del Consiglio Provinciale di Disciplina); ciò in quanto:

– dal combinato disposto degli articoli 5 ultimo comma e 4 del predetto D.P.R. 737/1981 si evincerebbe il principio per cui è il questore l’organo esclusivamente competente ad irrogare la sanzione della deplorazione al personale appartenente ai ruoli diversi da quelli dirigenziali e direttivi in servizio presso le questure, laddove il Capo della Polizia sarebbe invece competente ad infliggere la medesima sanzione soltanto agli appartenenti alle qualifiche dirigenziali e direttive;

– inoltre, l’art. 13 del predetto D.P.R. 737/1981 dispone che per infliggere la deplorazione deve essere "sentito il parere della commissione consultiva di cui all’art. 15", laddove nel caso di specie la sanzione è stata invece inflitta su conforme parere del Consiglio Provinciale di Disciplina.

1.1. La censura è infondata e va disattesa.

Se è vero, infatti, che nel sistema delineato dal combinato disposto degli artt. 4 e 5 del D.P.R. 737/1981 le sanzioni disciplinari della deplorazione e della pena pecuniaria sono irrogate dal Capo della Polizia "agli appartenenti alle qualifiche dirigenziali e direttive" e dal questore "al personale dei restanti ruoli in servizio presso le questure e uffici dipendenti"; è anche vero, però, che nel caso di specie il procedimento disciplinare è stato avviato dal questore di Vercelli in relazione a fatti e circostanze ritenute (dal questore) tali da giustificare l’irrogazione "di una sanzione più grave della deplorazione", il che ha comportato necessariamente l’attivazione del diverso procedimento delineato dagli artt. 1921 del medesimo D.P.R. 737/1981, il quale si è correttamente articolato nelle fasi procedimentali ivi disciplinate, contemplanti rispettivamente: la nomina, da parte del questore, di un funzionario istruttore per lo svolgimento di inchiesta disciplinare; la contestazione degli addebiti all’interessato e l’acquisizione delle osservazioni di quest’ultimo; la redazione da parte dell’ufficiale istruttore di apposita relazione e la trasmissione di quest’ultima all’autorità che ha disposto l’inchiesta; la trasmissione, a cura di quest’ultima, di tutto il carteggio dell’inchiesta al consiglio provinciale di disciplina; la formulazione, da parte di quest’ultimo, di una proposta di sanzione applicabile, contenuta in un’apposita deliberazione da trasmettere alla direzione centrale del personale del dipartimento di pubblica sicurezza; infine, l’adozione da parte del Capo della Polizia di un apposito decreto (di proscioglimento o di irrogazione della sanzione) conforme alla proposta del Consiglio provinciale di disciplina, "salvo che egli (il Capo della Polizia) non ritenga di disporre in modo più favorevole all’inquisito".

In altre parole, poiché nel caso di specie il procedimento disciplinare è stato avviato ipotizzando l’irrogazione di una sanzione più grave della deplorazione (e quindi: sospensione o destituzione, di competenza del Capo della Polizia), è stato seguito, del tutto correttamente, il procedimento sopra delineato, ed è questo il motivo per cui:

– è stato acquisito il parere del Consiglio provinciale di Disciplina (e non quello della commissione consultiva, previsto dall’art. 13 comma 6 del predetto D.P.R. 737/81 per l’irrogazione della più lieve sanzione della deplorazione);

– la sanzione è stata irrogata dal Capo della Polizia (e non dal Questore).

Non sussiste, pertanto, il vizio di incompetenza dedotto dal ricorrente. Lo stesso articolo 21 comma 3 del D.P.R. 737/81, nell’attribuire al Capo della Polizia il potere di irrogare le sanzioni disciplinari della sospensione e della destituzione su conforme parere del Consiglio di Disciplina, fa salva l’eventualità che lo stesso Capo della Polizia "non ritenga di disporre in modo più favorevole all’inquisito", disponendone il proscioglimento o irrogandogli una sanzione meno grave della sospensione o della destituzione. In relazione a quest’ultima eventualità, la norma non impone al Capo della Polizia di ritrasmettere gli atti all’autorità astrattamente competente all’irrogazione della sanzione più lieve (ad es. il questore, con riferimento al personale dei ruoli non dirigenziali e direttivi in servizio presso la questura), bensì mantiene la competenza in oggetto in capo al medesimo organo di vertice della Polizia di Stato.

Tale conclusione appare in sintonia con il condivisibile principio affermato dalla più recente giurisprudenza secondo cui "nell’ordinamento della Polizia di Stato vige il modulo organizzativo della subordinazione gerarchica, prescritto dall’art. 4 del DPR n. 782/1985, nonché dall’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 335, dall’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 337 e dall’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n. 338, richiamati dal primo. Tale criterio organizzativo presuppone, come è noto, che l’ufficio sovraordinato e quello subordinato abbiano la medesima sfera di competenza, sebbene al secondo possa essere formalmente attribuita, in tale ambito, specifica competenza su taluni affari, peraltro di natura non esclusiva. L’assenza di esclusività comporta che il singolo affare, in astratto ascrivibile alla competenza dell’organo inferiore, bene possa essere avocato da quello superiore" (T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, 20 luglio 2010, n. 16865).

Del resto, come giustamente affermato dalla difesa erariale, la diversa opzione interpretativa propugnata dal ricorrente avrebbe comportato lo svolgimento di un procedimento certamente meno garantistico per l’interessato, posto che in tal caso ad irrogare la sanzione sarebbe stato il questore, ossia lo stesso organo che aveva avviato il procedimento disciplinare e svolto una prima valutazione in ordine alla gravità dei fatti contestati al dipendente.

La censura formulata con il primo motivo va quindi disattesa perché infondata.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 12 del D.P.R. 25 ottobre 1981 n. 737 sul rilievo che il Questore, sia nella comunicazione di avvio del procedimento disciplinare sia nel decreto di nomina del funzionario istruttore, avrebbe proposto (al Capo della Polizia, erroneamente ritenuto competente) l’irrogazione "di una sanzione più grave della deplorazione", laddove la norma citata, al comma 3, vieta al superiore gerarchico di inoltrare rapporti all’organo competente ad irrogare la sanzione contenenti "una proposta relativa alla specie e all’entità della sanzione". Tale violazione avrebbe anticipato un giudizio di valore negativo, condizionato l’intero operato del funzionario istruttore (costretto ad agire in una situazione di condizionamento psicologico) e compromesso, in definitiva, le garanzie di imparzialità del procedimento disciplinare.

Anche tale censura è infondata.

2.1. In primo luogo va osservato che gli atti censurati dal ricorrente non costituiscono il "rapporto" di cui fa menzione il citato articolo 12, ma soltanto gli atti con cui il questore ha proceduto alla nomina del funzionario istruttore.

2.2. In secondo luogo, nei predetti atti il questore non ha formulato alcuna proposta di sanzione, ma si è limitato ad evidenziare che, in relazione alla particolare gravità dei fatti, era ipotizzabile l’adozione di sanzioni disciplinari più gravi di quelle attribuite dalla legge alla propria competenza, e che, quindi, era necessario procedere ad una "inchiesta disciplinare" e alla nomina del "funzionario istruttore", secondo quanto previsto dall’art.19, comma 2 del D.P.R. 737/1981. Pertanto, come giustamente osservato dalla difesa erariale, l’espressione contestata dal ricorrente non ha costituito una (indebita) proposta di sanzione disciplinare, ma il presupposto essenziale e necessario dell’atto di nomina del funzionario istruttore, cui il questore era tenuto in forza della disposizione sopra richiamata.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente ha lamentato vizi di eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti, difetto d’istruttoria e di motivazione. Ha sostenuto, in particolare, che nel corso del procedimento disciplinare non sarebbero stati adeguatamente valutati gli elementi istruttori raccolti; che la condotta ascritta al ricorrente non avrebbe trovato alcun preciso ed inequivoco riscontro nelle dichiarazioni acquisite in sede istruttoria, peraltro rese dalle stesse parti interessate; che le valutazioni del Consiglio Provinciale di Disciplina sarebbero state fatte proprie dal decreto di irrogazione della sanzione disciplinare in modo del tutto apodittico; che, infine, non vi sarebbe stata immediatezza della contestazione degli addebiti disciplinari rispetto ai fatti.

Anche tale censura è infondata e va disattesa.

3.1. La difesa erariale ha prodotto in giudizio gli atti del procedimento disciplinare, ed in particolare la relazione del funzionario istruttore (estremamente dettagliata e completa), i verbali del consiglio di disciplina e la deliberazione conclusiva di quest’ultimo, con la proposta di sanzione da irrogare.

Tali atti attestano in maniera inequivocabile la completezza e l’accuratezza dell’istruttoria eseguita dall’Amministrazione, nonchè la logicità e la ragionevolezza delle valutazioni svolte dalla P.A. sulla scorta di tali risultanze.

3.2. Il provvedimento sanzionatorio è stato motivato per relationem con riferimento alle valutazioni svolte dal consiglio di disciplina delle delibera del 27 gennaio 2005, espressamente richiamata nell’atto impugnato.

La motivazione per relationem è espressamente consentita dall’art. 3, comma 3 della L. 241/90.

3.4. Infine, nello speciale sistema sanzionatorio disciplinato dal D.P.R. n. 737 del 1981 (e, segnatamente, ai sensi dell’art. 12 del medesimo decreto, in tema di contestazione degli addebiti), non è previsto che la contestazione avvenga in un termine perentorio (Consiglio Stato, sez. VI, 19 agosto 2009, n. 4989). Peraltro, nel caso di specie la contestazione degli addebiti è avvenuta a distanza di appena 6 giorni da quello in cui la questura ha avuto notizia dei fatti occorsi e a distanza di appena 30 giorni da questi ultimi: un arco temporale estremamente contenuto che certamente non ha impedito al ricorrente di difendere compiutamente e tempestivamente le proprie ragioni nell’ambito del procedimento disciplinare: come, del resto, gli atti di causa documentano in modo incontrovertibile (cfr. "giustificazioni" presentate dall’interessato in data 27.11.2004, doc. 7 Avvocatura).

4. In conclusione, alla stregua di tali rilievi, il ricorso va respinto perché infondato.

Le spese di lite possono essere compensate attesa la peculiarità della fattispecie esaminata.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo respinge e compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 18-10-2011, n. 21524

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 9 luglio 2001 il Tribunale di Catania, in accoglimento delle domande proposte in via subordinata dal Banco di Sicilia e dalla Banca Nazionale del Lavoro nei confronti di P. C., P.G., C.C., M.C. P., nei giudizi riuniti iscritti ai n.ri. 4842/93, 5354/93 e 5861/93, dichiarava l’inefficacia nei confronti dei due istituti di credito, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto di compravendita rogato dal Notaio Ernesto Vacirca di Catania il 19-11-92 rep. N. 60992 con il quale C.P. aveva venduto al cognato G. P. un appartamento, un garage ed una cantina siti in (OMISSIS), per il corrispettivo di L. 400.000.000 e dell’atto di compravendita rogato in Notar Giampaolo Fraenza di Verona il 25-1-93, con il quale C.C. aveva venduto alla propria nuora P.M.C. un appartamento sito in (OMISSIS), una, bottega sita in (OMISSIS), un’autorimessa sita in (OMISSIS) nonchè un appezzamento di terreno sito in (OMISSIS) per il complessivo corrispettivo di L. 106.500.000, condannava i convenuti in solido al pagamento delle spese del giudizio in favore della B.N.L. e del B.D.S..

Avvero tale decisione proponeva appello principale il P., deducendo fra l’altro la nullità dell’atto di citazione che gli era stato notificato in (OMISSIS), cioè in luogo diverso da quello in cui dal 5-11-1992 aveva trasferito la sua residenza, ovvero in (OMISSIS); spiegavano impugnazione incidentale gli Istituti di Credito che lamentavano il mancato esame della domanda di simulazione proposta in via principale; P. C. proponeva appello autonomo con cui pure lamentava il mancato esame della domanda principale di simulazione; in quest’ultimo giudizio spiegavano impugnazione incidentale gli Istituti di Credito di contenuto sostanzialmente analogo a quella proposta nel primo procedimento.

Riuniti i giudizi, con sentenza dep. il 15 settembre 2005, la Corte di appello di Catania, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava la simulazione dell’atto stipulato il 19-11-1992 tra il C. e il P..

Per quel che interessa nella presente sede, in cui le questioni dibattute sono relative esclusivamente alle domande concernenti l’atto di compravendita del 19-11-1992, i Giudici di appello ritenevano innanzitutto la ritualità della notificazione dell’atto di citazione al P. in (OMISSIS), che doveva considerarsi la dimora effettiva del convenuto sui seguenti rilievi:

a) tenuto conto del carattere meramente presuntivo delle risultanze anagrafiche, nel contratto di compravendita del 19-11- 1992 lo stesso P. aveva dichiarato che la residenza del medesimo era in (OMISSIS) e ciò era avvenuto in epoca posteriore al presunto cambio di residenza da Catania a Padova risalente al 5-11- 1992 secondo quanto in proposito dal medesimo dedotto nell’atto di appello;

b) d’altra parte, dai certificati anagrafici di residenza rilasciati in epoca coeva alle citazioni era risultato che il medesimo risiedeva in (OMISSIS); c) le formalità di notificazione effettuate ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., che sono munite della fede privilegiata dell’atto pubblico, evidenziavano che l’Ufficiale giudiziario aveva personalmente accertato l’esistenza di elementi visibili e concreti che portavano a identificare in (OMISSIS) il luogo di residenza del destinatario: ove detto luogo non avesse avuto tale destinazione, avrebbe usato la dizione "trasferito o non conosciuto.

Passando quindi all’esame del merito, la Corte osservava che le doglianze relative al mancato esame della domanda di simulazione formulate con gli appelli incidentali proposti dagli Istituti di credito assumevano carattere prioritario rispetto all’impugnazione proposta dal P. avverso l’accoglimento dell’azione revocatoria; erroneamente il Tribunale non aveva a esaminato la domanda di simulazione che era stata proposta in via principale;

legittimato a proporre l’azione di simulazione è, pur se il credito sia illiquido e non esigibile, il creditore il quale abbia un legittimo interesse di vedere ristabilita la verità contro l’apparenza, non occorrendo un danno effettivo; gli istituti di credito erano legittimati a esperire l’azione di simulazione essendovi in atti la prova documentale della fideiussione rilasciata dal C. a garanzia di rilevantissimi debiti della Pietro Costa Chiavaro s.p.a. dichiarata fallita qualche tempo dopo le compravendite oggetto del presente giudizio.

In considerazione della pluralità degli indizi – gravi e concordanti – i Giudici ritenevano raggiunta la prova della simulazione assoluta del contratto intercorso fra il C. e il P., atteso che:

lasciato il possesso dell’appartamento de quo in a) il prezzo di vendita era inferiore alla metà del valore del bene; b) non era emersa la prova dell’effettivo pagamento; c) il P. non aveva mai adibito ad abitazione l’immobile de quo nonostante la dichiarazione al riguardo resa nell’atto di compravendita;d)la circostanza che il C. non avesse mai cui abitava con la famiglia, secondo quanto emerso dagli accertamenti del consulente tecnico d’ufficio, era confermata dalla notificazione dell’atto di intervento avvenuta presso detta abitazione; c) il P. era il cognato del C.; f) con il citato atto di alienazione il C. si era disfatto della maggior parte del suo patrimonio essendo evidente l’intento del simulato alienante di sottrarre i beni ai creditori, stante la consapevolezza dello stato di decozione della società a favore della quale aveva prestato la fideiussione.

La sentenza rilevava la superfluità dell’esame dei motivi di appello principali, atteso l’accoglimento degli appelli incidentali.

2. Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione il P. e il C. sulla base di due motivi. Resistono con controricorso gli Istituti di Credito.

I ricorrenti e il Banco di Sicilia hanno depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione

Preliminarmente va dichiara inammissibile la produzione depositata nel giudizio di legittimità, perchè non rientrante fra i documenti previsti dall’art. 372 cod. proc. civ..

1. Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 140, 102 cod. proc. civ. e dell’art. 2727 cod. civ. nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 3), motivazione insufficiente e contraddittoria nonchè omessa/errata valutazione di documenti acquisiti al giudizio, denunciano l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte la quale aveva ritenuto che dai certificati anagrafici sarebbe risultato che il ricorrente avrebbe trasferito la sua residenza da (OMISSIS) il 5-11-1992, quando invece dai certificati prodotti era risultato che il medesimo era residente in (OMISSIS) fino al 5-11-1992, data in cui invece si era trasferito a (OMISSIS) ove era residente al momento della stipula dell’atto del 19-11-1992, come in esso dal predetto dichiarato; contrariamente a quanto ancora ritenuto dai Giudici, dai certificati rilasciati in epoca coeva alle citazioni, era emerso che sin dal 19-6-1993 il P. si era trasferito da (OMISSIS). La parte notificante non può legittimante fare affidamento sulla notificazione ex art. 140 cod. proc. civ. senza tenere conto delle contrastanti risultanze delle certificazioni anagrafiche nonostante il carattere presuntivo dalle medesime; d’altra parte, non poteva essere considerata la dichiarazione resa nell’atto notarile a distanza di un anno dalla notificazione delle citazioni.

Erroneamente, la sentenza aveva attribuito fede privilegiata alle risultanze della notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 citato, posto che l’ufficiale giudiziario in primo luogo non aveva compiuto alcun accertamento sulla effettiva residenza e che, comunque, tale accertamento non avrebbe avuto efficacia fino a querela di falso. 1.1. Il motivo è infondato.

Occorre premettere che la sentenza: a) nel considerare valida la notificazione dell’atto di citazione al P. avvenuta in (OMISSIS), ha ritenuto che quest’ultima era la dimora effettiva del convenuto alla stregua della dichiarazione dal medesimo resa nel contratto di compravendita del 19-11-1992, successiva al presunto cambio di residenza in (OMISSIS) del 5-11-1992, avendo a proposito di quest’ultima circostanza tenuto conto di quanto al riguardo era stato proprio dal predetto P. dedotto con i motivi di appello in cui aveva affermato che sin dal 5-11-1992 si era trasferito in (OMISSIS); b) ha quindi ritenuto che dai certificati anagrafici di residenza rilasciati in epoca coeva alle citazioni era risultato che il medesimo risiedeva in (OMISSIS).

Ciò posto, i ricorrenti denunciano il fraintedimento e il vizio di motivazione nella lettura delle certificazioni anagrafiche da cui sarebbe emerso che il 5-11-19992 il P. si era trasferito in (OMISSIS) e non viceversa come ritenuto dalla decisione gravata e che dal 19-6-1993 il medesimo era residente in (OMISSIS).

Orbene, anche a prescindere dal considerare che l’accertamento circa il trasferimento della residenza del 5-11-1992 è stato dai Giudici compiuto – secondo quanto sopra rilevato – in base proprio a quanto al riguardo dedotto nell’atto di appello dallo stesso P., va osservato che, a stregua della prospettazione formulata dai ricorrenti, il motivo denuncia l’errore, che sarebbe consistito nella inesatta percezione da parte dei Giudici di dati di fatto, presupposti come sicura base del ragionamento, in contrasto con quanto emerso dalle certificazioni anagrafiche: in tal modo, si deduce evidentemente l’errore revocatorio di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, che non è suscettibile di essere denunciato in sede di legittimità (Cass. 1778/1998).

L’inammissibilità della censura comporta che la motivazione con cui è stata ritenuta valida la notificazione dell’atto di citazione perchè effettuata presso la effettiva dimora del convenuto, non essendo scalfita dalle predette critiche, è idonea a sorreggere tale affermazione, dovendo qui rilevarsi che le ulteriori considerazioni dalla Corte a proposito degli accertamenti compiuti dall’Ufficiale giudiziario sono state formulate ad abundantiam e, perciò, non hanno valore decisorio, così come per le stesse ragioni sono ultronei i rilievi compiuti dai ricorrenti sull’attività dal medesimo espletata.

2. con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 1414 c.c., dell’art. 2901 c.c. e segg., degli artt. 2097 e 2727 cod. civ. nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia, censurano la decisione impugnata laddove, pur avendo evidenziato la differenza fra la simulazione e l’azione revocatoria, avrebbe dovuto esplicitamente annullare il capo della sentenza di primo grado con il quale era stata accolta la revocatoria, dichiarando assorbita la correlativa domanda.

Lamentano, altresì, che la sentenza, accogliendo la domanda di simulazione, aveva erroneamente ritenuto l’interesse ad agire del creditore, nonostante che il medesimo avesse mantenuto sufficienti garanzie per l’adempimento, atteso che la compravendita de qua era stata anteriore a quelle poste in essere dagli altri fideiussori con atti impugnati dalle Banche in un giudizio conclusosi sfavorevolmente per le medesime.

Censurano la valutazione degli elementi che avevano portato la Corte a ritenere l’esistenza di indizi precisi, gravi e concordanti della simulazione, contestando le considerazioni formulate circa le circostanze evidenziate alle lett. a), b), c), d) della motivazione.

2.1. Il motivo è infondato. a) Innanzitutto occorre considerare l’art. 336 cod. proc. civ., nella nuova formulazione introdotta dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, comporta la caducazione immediata della sentenza riformata, le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quelle della sentenza di riforma, nonchè l’immediata propagazione delle conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata. (Cass. 5323/2009; 8745/2000).

Pertanto, venuta meno con l’accoglimento della domanda principale di simulazione assoluta la pronuncia del Tribunale relativa all’azione revocatoria, quest’ultima domanda, anche sul piano logico-giuridico subordinata al mancato accertamento della natura fittizia del contratto, era necessariamente assorbita: correttamente i Giudici di appello hanno dichiarato assorbiti i motivi di gravame con cui era stata impugnata la decisione sulla domanda di cui all’art. 2901 cod. civ. b) La domanda di simulazione proposta da chi si dichiari legittimato in quanto creditore del simulato alienante comporta l’allegazione, come fatto di legittimazione, di uno specifico credito nonchè la dimostrazione del pregiudizio che alla soddisfazione di questo può derivare dall’alienazione del bene: ai sensi dell’art. 1417 cod. civ. l’interesse che legittima i terzi ad agire con l’azione di simulazione si deve correlare a una specifica posizione soggettiva tutelata dall’ordinamento e, in quanto tale, suscettibile di venire direttamente lesa dall’atto di alienazione. Pertanto, la norma citata non consente di ravvisare un interesse indistinto e generalizzato di qualsiasi terzo ad ottenere il ripristino della situazione reale, essendo, per converso, la relativa legittimazione indissolubilmente legata al pregiudizio di un diritto di cui il terzo sia titolare. Al riguardo, il pregiudizio può consistere nella potenziale idoneità dell’atto simulato a incidere negativamente su un diritto di cui il terzo sia effettivamente titolare.

Il precedente di legittimità invocato dai ricorrenti è evidentemente inconferente, posto che nella specie – a differenza del caso esaminato in quella sede – la Corte, nel verificare la sussistenza dei presupposti della legittimazione dei terzi, ha accertato che gli Istituti di credito erano creditori del C. in virtù di fideiussione e con gli atti di compravendita impugnati il medesimo si era disfatto di quasi tutto il suo patrimonio, così facendo venir meno la garanzia generica rappresentata dai beni sui quali i creditori avrebbero potuto soddisfarsi.

Gli attori, allegando di essere titolari di un diritto di credito nei confronti del simulato alienante, erano portatori di uno specifico interesse a fare dichiarare la simulazione del negozio, essendo evidentemente direttamente pregiudicati dalla sottrazione del bene dal patrimonio del loro debitore. c) Per quel che concerne l’accertamento del carattere simulato della compravendita, la sentenza ha proceduto correttamente a trarre elementi presuntivi attraverso una valutazione complessiva e comparativa delle risultanze istruttorie che non possono essere considerate isolatamente le une dalle altre.

Qui occorre premettere che in tema di prova presuntiva, è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni (Cass. 1216/2006; 17596/2003).

E, con riferimento al vizio di motivazione, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 67394/2010).

Nella specie, il motivo sollecita una rivalutazione del merito della causa, proponendo una soggettiva interpretazione del materiale probatorio per giungere a una ricostruzione dei fatti difforme da quella accolta in sentenza. Premesso che la Corte di appello ha correttamente ritenuto di trarre elementi di prova circa il mancato versamento del prezzo dal comportamento processuale del P. (non presentatosi a rendere l’interrogatorio formale nonostante la rituale notificazione dell’ordinanza ammissiva avvenuta il 22-4-1999 a mani di P.M.), va osservato che – se da un canto l’importo dichiarato e la mancata corresponsione del prezzo assumevano un preciso rilievo indiziario proprio alla luce delle significative circostanze di cui alle lett. c) e d) indicate dai Giudici, il ricorrente, nel censurare le argomentazioni della sentenza in relazione a queste ultime, sottopone ad analisi e discussione le prove emerse, evidenziando, in contrasto con la soluzione adottata dalla Corte, che il convincimento dei Giudici sarebbe stato contraddetto dalle risultanze istruttorie (indagini e accertamenti del secondo consulente; sentenza di separazione fra i coniugi C.), così sollecitando da parte della Corte un inammissibile riesame del merito della causa.

In proposito va ancora osservato che intanto può configurarsi il vizio di motivazione per omesso esame di un documento o delle risultanze di una prova in quanto si tratti di un elemento probatorio decisivo nel senso che la relativa acquisizione sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze di causa su cui si è fondato il convincimento del giudice del merito, si che la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base. Pertanto, non può essere dedotto il vizio di motivazione per denunciare il mancato esame di elementi che siano suscettibili di essere liberamente apprezzati unitamente ad altri con essi contrastanti nell’ambito della valutazione discrezionale del complessivo materiale probatorio riservata al giudice di merito. Il ricorso va rigettato.

Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore di ciascuno dei resistenti costituiti delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 3.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-11-2011, n. 23560 CE Formazione professionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

B.P. ha chiesto, insieme con gli altri odierni ricorrenti, sulla base un unico, complesso motivo di ricorso, la cassazione della sentenza della corte di appello di Trieste con la quale era stata dichiarata la prescrizione del diritto vantato dai medici specializzati – iscritti a varie scuole di specializzazione presso l’università degli studi di Trieste in epoca anteriore al 1991 – alla remunerazione prevista dalla Direttiva comunitaria del 26.1.1982, per avere la corte territoriale ritenuto applicabile, nella specie, il relativo termine quinquennale, "in considerazione del fatto che la disciplina della fattispecie andava ricercata nel sistema di cui all’art. 2043 c.c." prescrizione il cui dies a quo era stato poi collocato dalla corte territoriale alla data del 1991, anno di entrata in vigore del decreto 257. Resiste con controricorso la Repubblica italiana.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

Il motivo di censura attiene, nel suo complesso e sotto vari e articolati profili, alle questioni del termine prescrizionale del diritto vantato dal ricorrente in relazione alla natura della violazione imputata allo Stato italiano, del dies a quo della prescrizione medesima, del quantum della pretesa risarcitoria avanzata, in particolare, dagli appellanti incidentali P., D.S., B. e F..

La doglianze esposte con il motivo in esame meritano, nel loro complesso, integrale accoglimento.

Nelle more del giudizio è difatti intervenuto, in subiecta materia, il dictum delle sezioni unite di questa Corte (Cass. 9147/09), che, con riguardo alla pretesa vantata dagli odierni ricorrenti, discorrono di un’obbligazione di tipo indennitario da atto lecito (sul piano interno) dallo Stato: afferma, difatti, la Corte che, in caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione.

Il collegio intende uniformarsi a tale giurisprudenza, non ravvisando ragioni per discostarsene.

Quanto al dies a quo dell’exordium praescriptionis del diritto vantato dai medici specializzati, questa corte, con la recente sentenza n. 18013 del 2011, ha argomentatamente precisato che esso va senz’ altro collocato alla data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, ritenendo legittima l’inerzia precedente a tale data da parte degli aventi diritto.

Da tale giurisprudenza, che va in questa sede ulteriormente confermata, il collegio non ha, ancora una volta, motivo per discostarsi.

Nel giudizio di rinvio, come condivisibilmente osserva la difesa dei ricorrenti, dovrà essere esaminato altresì l’appello incidentale di cui è cenno in precedenza.

Con riferimento al quantum debeatur (richiesto dai ricorrenti/appellanti incidentali nella misura di 11.103 Euro per ogni anno di frequenza della scuola di specializzazione, ovvero della diversa somma ritenuta in corso di causa anche in via equitativa) il collegio ritiene di precisare quanto segue.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare, di recente, come i criteri di calcolo delle somme dovute agli specializzandi non potrebbero in alcun modo e sotto alcun aspetto legittimamente commisurarsi all’importo della borsa di studio così come introdotta e quantificata nel decreto del 1991 (e così come richiesta, illo tempore come ancor oggi, in sede di ricorso, dagli appellanti incidentali).

Va in premessa osservato come la qualificazione dell’obbligazione statuale come "indennitaria" consegue ai reiterati dieta della Corte di giustizia, secondo la cui giurisprudenza l’obbligazione riparatoria dello Stato non deve necessariamente permearsi del requisito della colpa: onde l’attività ermeneutica di ricostruzione morfologica e funzionale, da parte dalle sezioni unite della Corte, di quella peculiare responsabilità, che, svincolata dai presupposti soggettivi di cui all’art. 2043 c.c., trova legittima collocazione nell’alveo della regula iuris di cui all’art. 1176.

L’obbligazione in parola si distingue, pertanto, da quella risarcitoria ex art. 2043 per la pecularità della sua fonte, al di là del suo contenuto.

Contenuto lato sensu risarcitorio, volta che (come affermato dalla stessa Corte di giustizia) l’inadempimento dello Stato ne comporta l’obbligazione di "riparare" il danno, ma a condizioni meno favorevoli di quelle che riguardino analoghi reclami di natura interna – e comunque non tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile il conseguimento di tale "riparazione", da adeguare al danno subito secondo criteri stabiliti dall’ordinamento interno.

Arbitraria, peraltro, appare la equiparazione tout court tra la detta "riparazione" e il risarcimento integrale del danno conseguente alla commissione di un atto non iure e contra ius da parte del privato, secondo i dettami della Generalklausel di cui all’art. 2043 c.c..

Equiparazione che comporterebbe, nella sostanza, una illegittima trasformazione, sul piano genetico, di una obbligazione indennitario/riparatoria, lato sensu ex contractu, gravante sulle amministrazioni statali in un obbligo risarcitorio tout court, obbligo i cui caratteri morfologici questa corte, va ripetuto, ha già avuto modo di individuare nell’ambito di una approfondita actio finium regundorum rispetto ai diversi ambiti operativi tanto della pretesa risarcitoria di natura aquiliana, quanto del "corrispettivo" vero e proprio di una attività "paralavorativa" prestata dallo specializzando durante gli anni di corso, da commisurarsi appunto all’importo della borsa di studio riconosciuta poi dal legislatore in epoca successiva al 1991.

L’inizio della formazione specialistica in epoca anteriore al 1991 comporta, di converso, la oggettiva impredicabilità di un’equazione che si dipana attraverso la scansione diacronica "frequenza/tempo pieno/retribuzione/borsa di studio", volta che una operazione in tal guisa concepita comporterebbe, nella sostanza, l’applicazione retroattiva del Decreto n. 257 del 1991, e la trasformazione, in altri termini, di una disciplina comunque discrezionale quanto all’individuazione della misura della retribuzione (e pacificamente rimessa al legislatore statuale) e comunque irretroattiva sul piano della sua decorrenza, in una disposizione normativa "inconsapevolmente" (e involontariamente) retroattiva.

Il dictum delle sezioni unite di questa Corte in subiecta materia – Cass. 9147/09, ove si discorre di un’obbligazione di tipo indennitario da atto lecito (sul piano interno) dello Stato – è, di converso, quello secondo il quale, in caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, non autoesecutive, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Ne consegue che il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione.

La "idonea compensazione" di cui discorrono le sezioni unite di questa corte, pertanto, deve rispondere, da un canto, al requisito della serietà, congruità e non irrisorietà, dovendosi ristorare un danno alla luce "della perdita subita in conseguenza del ritardo oggettivamente apprezzabile"; dall’altro, in assenza di alcuni degli elementi strutturali dell’illecito aquiliano (il dolo/la colpa; la ingiustizia del danno inteso come condotta non iure del danneggiante) all’esigenza di non trasmutare in diritto al risarcimento tout court sì come predicato dall’art. 2043 c.c. (risarcimento integrale il cui parametro oggettivo ben potrebbe essere, allora sì, l’intero importo previsto per le borse di studio riconosciute in epoca successiva al 1991); dall’altro ancora, alla impredicabilità di una identificazione con il corrispettivo di una prestazione eseguita e non retribuita, in un’orbita di pensiero strettamente giuslavoristica (quale quella disegnata, dalla pronuncia 488/09 in tema rifiuto ingiustificato, da parte del datore di lavoro, di assumere il lavoratore avviato ai sensi della L. n. 482 del 1968, onde la di lui responsabilità contrattuale e il conseguente obbligo di risarcire l’intero pregiudizio patrimoniale che il lavoratore ha subito durante tutto il periodo in cui si è protratta l’inadempienza) e non, come nella specie, "paracontrattuale" da responsabilità statuale per atto privo, sul piano interno, del carattere della illiceità.

In tali sensi il collegio ritiene di dare seguito, più analiticamente specificandone i contenuti, alla giurisprudenza di questa stessa corte regolatrice che, con la pronuncia n. 5842 del 2010, ha affermato, in argomento, che la mancata trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto dalle direttive comunitarie 75/362/CEE e 82/76/CEE – non autoesecutive in quanto, pur prevedendo lo specifico obbligo di retribuire adeguatamente la formazione del medico specializzando, non consentivano l’identificazione del debitore e la quantificazione del compenso dovuto – fa sorgere il diritto degli interessati al risarcimento dei danni, tra i quali devono comprendersi non solo quelli conseguenti all’inidoneità del diploma di specializzazione (conseguito secondo la previgente normativa) al riconoscimento negli altri Stati membri e al suo minor valore sul piano interno ai fini dei concorsi per l’accesso ai profili professionali, ma anche quelli connessi alla mancata percezione della remunerazione adeguata da parte del medico specializzando.

Al giudice del rinvio, pertanto, è demandato il compito di quantificare tale, peculiare diritto indennitario/(para)risarcitorio spettante al medico specializzando, quantificazione che non potrà che avvenire sul piano equitativo, secondo canoni di parità di trattamento per situazioni analoghe già compiutamente e motivatamente enucleati, quanto all’applicazione della relativa regola equitativa, da questa corte con la sentenza n. 12408 del 2011 in tema di liquidazione del danno non patrimoniale.

Parametro di riferimento per il giudice territoriale sarà, pertanto, costituito dalle indicazioni contenute nella L. 19 ottobre 1999, n. 370, con la quale lo Stato italiano ha ritenuto di procedere ad un sostanziale atto di adempimento parziale soggettivo nei confronti di tutte le categorie astratte in relazione alle quali, dopo il 31 dicembre 1982, si erano potute verificare le condizioni fattuali idonee a dare luogo all’acquisizione dei diritti previsti dalle direttive comunitarie, e che non risultavano considerate dal D.Lgs. del 1991.

La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata entro i limiti di cui in motivazione, con rinvio del procedimento alla corte di appello di Trieste che, in diversa composizione, si uniformerà ai principi di diritto sopra esposti e provvederà anche alla disciplina delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La corte accoglie il ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Trieste in altra composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.