Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-01-2011) 13-07-2011, n. 27441

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Gup del Tribunale di Ragusa, con sentenza 18/9/2007, all’esito del giudizio abbreviato, dichiarava, per quanto qui interessa, D.F.R. e I.S. colpevoli del delitto di estorsione in danno di N.B., costretto a consegnare loro la somma di Euro 2.500,00 per ottenere la restituzione dell’autovettura "VW Golf rubatagli in data 28/8/2006, e li condannava, in concorso delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, a pena ritenuta di giustizia, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

2. La Corte d’Appello di Catania, investita dal gravame degli imputati, con sentenza 23/4/2008, confermava il giudizio di colpevolezza e rimodulava la misura della pena in conseguenza della contestuale assoluzione degli imputati dal reato di ricettazione, pure originariamente contestato e per il quale, ritenuto in continuazione con l’estorsione, v’era stata condanna in primo grado.

3. A seguito di ricorso degli imputati, la Corte di Cassazione, con sentenza 12/3/2009, annullava con rinvio quest’ultima decisione, in quanto non aveva preso in considerazione l’eccepita inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, ai quali pure si era dato rilievo a conforto del formulato giudizio di colpevolezza.

4. La Corte d’Appello di Catania, con sentenza 29/6/2009, decidendo in sede di rinvio, confermava la pronuncia di primo grado in relazione al reato di estorsione e determinava, per ciascun imputato, la misura della pena riferibile a tale illecito.

Il Giudice di rinvio, dopo avere premesso che gli esiti dell’attività captativa di conversazioni non erano utilizzabili, non essendo stato tale mezzo di ricerca della prova regolarmente autorizzato ed eseguito (omessa motivazione sia del decreto autorizzativo d’urgenza che del decreto esecutivo circa l’utilizzo di impianti esterni alla Procura), riteneva che la prova a carico degli imputati era comunque offerta dalle dettagliate, coerenti e sostanzialmente attendibili dichiarazioni accusatorie della persona offesa, riscontrate dalle progressive e sia pure parziali ammissioni fatte dagli stessi imputati; riteneva, inoltre, che alcune incongruenze e inesattezze del N. non inficiavano il nucleo essenziale e più rilevante del suo racconto; precisava che corretta era la qualificazione giuridica del fatto contestato, dovendosi escludere sia l’ipotesi del tentativo, dal momento che l’estorsione si era consumata con l’effettiva consegna del denaro all’ I., sia quella della truffa aggravata ex art. 640 cpv. c.p., n. 2, essendo difettata l’induzione in errore, ingenerato nella vittima dal timore di un pericolo immaginario ed essendosi, invece, la vittima venuta a trovare nella condizione necessitata di consegnare la somma di denaro richiesta, nella prospettiva di recuperare il veicolo rubatole; sottolineava, infine, che sussisteva l’aggravante delle più persone riunite, essendo il fatto riconducibile all’iniziativa di più persone, che avevano agito in sinergia tra loro, e quindi indice di maggiore pericolosità. 5. Hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, gli imputati, deducendo sostanzialmente il vizio di motivazione della sentenza, il cui percorso argomentativo faceva leva esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, che, in quanto contraddittorie e lacunose, erano poco affidabili e non chiarivano i vari aspetti della vicenda. Il D.F. ha censurato la sentenza anche con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto e alla ritenuta sussistenza dell’aggravante.

6. I ricorsi non sono fondati e devono essere rigettati.

La sentenza impugnata, facendo buon governo della legge penale, riposa su un apparato argomentativo che, ancorato rigorosamente alle emergenze processuali utilizzabili, da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene. La sentenza apprezza e valuta positivamente l’attendibilità della principale fonte di prova, costituita dalle dichiarazioni della persona offesa, che ha ricostruito in ogni dettaglio la vicenda di cui era rimasta vittima ad opera dei due imputati, i quali, agendo in sinergia tra loro, l’avevano costretta a consegnare la somma di denaro di cui all’imputazione, per rientrare in possesso dell’autovettura che le era stata sottratta, che altrimenti non avrebbe più recuperato; ritiene tale racconto sostanzialmente riscontrato dalle parziali ammissioni fatte dagli stessi imputati sia pure in un’ottica finalizzata a minimizzare il loro ruolo nella vicenda.

I motivi di ricorso, ai limiti dell’ammissibilità, non evidenziano passaggi motivazionali della sentenza manifestamente illogici, ma si muovono nella prospettiva di screditare, in maniera meramente assertiva, l’attendibilità della testimonianza della persona offesa, evidenziando, in particolare, elementi di fatto (incontro del 29/8/2006 presso il bar "Castello") che contraddicono tale testimonianza su aspetti marginali, che però, come sottolineato dalla sentenza in verifica, non inficiano la valenza accusatoria del racconto nel suo complesso.

Anche in ordine alla qualificazione giuridica del fatto e alla contestata aggravante, la sentenza di merito chiarisce, facendo anche su tali punti corretta applicazione della legge penale, le ragioni che inducono a ravvisare nella condotta degli imputati tutti gli elementi costitutivi del delitto di estorsione aggravata. Le doglianze del D.F. al riguardo sono generiche, in quanto non prendono neppure in considerazione gli argomenti sui quali fa leva la sentenza (cfr. pg. 5).

7. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-12-2011, n. 27711 Passaggio ad altra amministrazione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) chiede l’annullamento della sentenza di appello, che ha affermato il diritto della parte intimata, trasferita al Ministero, al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza.

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto, ma considerando anche eventuali trattamenti più favorevoli su altri profili, nonchè eventuali effetti negativi sul trattamento di fine rapporto e sulla posizione previdenziale.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e art. 52, n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate.

La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr., per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Ciò comporta che il ricorso per cassazione del Ministero che denunzia violazione del complesso normativo costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice di merito, il quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà verificare, in concreto e nel caso specifico la sussistenza, o meno di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento ed accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale verifica. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, Sent., 20-09-2011, n. 7457

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La ricorrente ha presentato in data 23 novembre 2009 istanza al Comune di Roma – Municipio III per ottenere il rilascio dell’autorizzazione per la somministrazione di alimenti e bevande ai sensi della legge regionale n. 21/06.

Con determinazione dirigenziale del 5 marzo 2010 è stato alla stessa comunicato il diniego della chiesta autorizzazione in attesa della definizione degli indirizzi della Regione, di cui all’articolo 4 della richiamata legge regionale e della determinazione dei criteri dei Comuni di cui all’articolo 5.

Avverso detto provvedimento veniva proposto ricorso al T.A.R. Lazio il quale con sentenza 11325/2010 accoglieva il ricorso e annullava il provvedimento impugnato.

Successivamente, a seguito della approvazione della delibera del Consiglio Comunale n.35/2010 recante i ricordati criteri, il Comune di Roma ha riaperto l’istruttoria relativa all’istanza proposta dalla ricorrente richiedendo con nota del 5 luglio 2010 documentazione ulteriore che tuttavia non è stata fornita. A fronte di detta richiesta di integrazione documentale, la società ricorrente ha rilevato che l’amministrazione comunale non avrebbe dovuto applicare alla sua istanza la delibera n.35/2010 e non avrebbe potuto richiedere il rispetto di ulteriori requisiti e criteri, che peraltro la stessa ricorrente non sarebbe stata in grado di soddisfare per la oggettiva impossibilità dei locali di cui aveva acquisito la disponibilità.

Il Comune invece, sempre secondo quanto affermato dalla ricorrente, in seguito all’annullamento da parte del Tar del precedente provvedimento, avrebbe dovuto riesaminare l’originale domanda alla luce della disciplina vigente al momento della domanda stessa, presentata in data 23 novembre 2009.

Con determinazione del 3 settembre 2010, il Comune di Roma, non avendo la ricorrente presentato la documentazione richiesta, ha negato il rilascio della chiesta autorizzazione rilevando che "il procedimento era ancora in itinere al momento dell’entrata in vigore dello ius superveniens e visto che il d. lgs. 59/2010 nel recepire la direttiva comunitaria ha disposto che i comuni possono adottare provvedimenti limitativi all’apertura di nuove autorizzazioni di somministrazione al fine di garantire la sostenibilità ambientale, sociale e di vivibilità nelle zone già fortemente gravate dalla presenza di forte concentrazione di attività commerciali ed elevati livelli di pressione antropica; che pertanto la comunicazione di inizio attività presentata il 13 agosto 2010 deve considerarsi nulla tenuto conto che la Società F.D.P. S.r.l. non ha prodotto la documentazione prevista dall’articolo 15 comma 3 della determinazione C.C. n. 35/2010 richiesta".

Avverso detta ultima determinazione è proposto il presente ricorso a sostegno del quale si deduce:

1) violazione del principio di legalità e del principio "tempus regit actum", violazione dell’art. 15 d. lgs. n. 59 del 2010. Illogicità manifesta. Contraddittorietà. Omessa comparazione dell’interesse pubblico con quello privato. Violazione del principio di divieto di aggravamento del procedimento. Carenza di motivazione.

Secondo la ricorrente il principio di legalità impone l’esplicazione della funzione amministrativa secondo la normativa vigente al tempo in cui la funzione si esplica (tempus regit actum).

Il diniego impugnato è stato emesso in data 3 settembre 2010 e comunicato in data 15 settembre 2010: poiché entrambe le date sono successive all’entrata in vigore del D. Lgs. 26032010 n. 59 (attuativo della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) e l’articolo 15 del citato decreto prevede che le condizioni cui può essere subordinato l’accesso e l’esercizio delle attività devono essere rese pubbliche preventivamente, ne consegue che nel procedimento in esame, introdotto con istanza del 23 novembre 2009 non andavano applicate le disposizioni sopravvenute con l’introduzione della delibera n. 35/2010, e che la domanda della ricorrente intesa ad ottenere la autorizzazione andava valutata con riferimento alle norme vigenti al momento della sua presentazione.

2) Violazione e falsa applicazione della legge 682006, n. 248, art. 3, comma 1 (c.d. decreto Bersani). Disparità di trattamento. Contrasto con il diritto dell’unione europea in tema di libera concorrenza, libertà di accesso al mercato e di iniziativa economica. Contraddittorietà, irragionevolezza e ingiustizia manifesta. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, carenza di motivazione.

Afferma la ricorrente che la delibera 35/2010, sulla quale è fondata la determinazione dirigenziale di diniego, imponendo requisiti strutturali e criteri di qualità solo per le nuove autorizzazioni, crea ingiustificate condizioni di privilegio per gli operatori economici preesistenti e rende gravoso l’accesso al mercato di nuovi operatori.

In tal senso, i provvedimenti impugnati palesano una evidente irragionevolezza e manifesta ingiustizia in favore degli esercizi preesistenti nonché disparità di trattamento rispetto a questi ultimi.

La ricorrente poi contesta anche la scelta operata con la delibera n. 35/2010, con la quale si dispone l’attribuzione di punteggi più restrittivi per le zone più sviluppate dal punto di vista economico commerciale ove l’offerta è maggiore e punteggi meno restrittivi alle zone meno sviluppate, scelta che finisce illegittimamente con l’incidere sull’equilibrio tra domanda e offerta.

3) violazione dell’articolo 15 lettera "a", "b", "c", "e," "g" dell’articolo 11, lettera "e", dell’articolo 64 e dell’articolo 71 del d. lgs. n. 59/2010.

Con la delibera n. 35/2010, la quale si porrebbe in contrasto con detta disciplina nazionale sotto molteplici aspetti, il Comune di Roma ha inteso "contemperare l’interesse dell’imprenditore al libero esercizio dell’attività e quello della collettività ad un servizio commerciale adeguato, nonché garantire la migliore e capillare localizzazione delle attività stesse, tale da rispondere alle necessità del territorio del Comune di Roma, salvaguardando le zone di pregio artistico, storico, architettonico, archeologico ed ambientale". Afferma la ricorrente che le misure in concreto adottate dal Comune di Roma non rispondono all’intento di raggiungere detti obiettivi, non perseguono alcuna di tali finalità ed in particolare non garantiscono affatto l’interesse dell’imprenditore al libero esercizio dell’attività né quello della collettività inteso come fruizione di un servizio adeguato.

In primo luogo perché le misure introdotte palesano una evidente irragionevolezza e manifesta ingiustizia in favore degli operatori economici preesistenti, per i quali non è introdotto nessuno stimolo di miglioramento della qualità, neppure in ipotesi di subingresso.

Ad avviso della ricorrente, la delibera n. 35/2010 richiede per i locali per i quali è stata chiesta l’autorizzazione, siti in via Catania n. 79/81, requisiti oggettivamente (invero mai specificati) impossibili da conseguire, prevedendo un sostanziale diniego del libero accesso al mercato non conforme alla normativa sopra citata e a totale favore degli esercizi esistenti, esonerati da detti requisiti. Infine. si afferma la violazione dell’art. 71 del d.lgs. n. 59 del 2010 in quanto il potere di determinare i requisiti soggettivi di esercizio di una qualsiasi attività commerciale è riservato allo Stato.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione comunale affermando l’infondatezza del proposto ricorso e chiedendo che questo venga respinto.

Alla pubblica udienza del 14 luglio 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.

La questione principale all’esame del Collegio è quella dell’applicabilità alla procedura de qua dello ius superveniens costituito dalla delibera di consiglio comunale n. 35 del 2010 recante i criteri che impedirebbero alla ricorrente di conseguire l’autorizzazione. In altri termini, si sostiene, l’istanza della ricorrente avrebbe dovuto essere valutata con riferimento alle norme vigenti al momento della sua presentazione. Orbene, l’istanza è del 23 novembre 2009; con determina dirigenziale del 5 marzo 2010 è stato adottato un primo diniego; con sentenza del 14 maggio 2010 detto primo diniego è stato annullato; la detta sentenza è stata comunicata in data 18 maggio 2010; a seguito del disposto annullamento il procedimento è stato riattivato dal Comune di Roma con nota del 5 luglio 2010 ed infine definito con il diniego, in questa sede avversato, del 3 settembre 2010. La delibera consiliare recante lo ius superveniens di cui è questione è del 16 marzo 2010, dunque antecedente la comunicazione al Comune della sentenza n. 11325/2010.

Ciò posto, ritiene il Collegio che la questione vada risolta nel senso dell’applicabilità alla procedura de qua del regolamento (e con esso dei criteri) recati dalla delibera consiliare n. 35 del 2010. Si tratta, infatti, della medesima procedura attivata su istanza di parte della quale va rinnovato (a seguito dell’annullamento del primo diniego) l’autonomo segmento rappresentato dalla valutazione e determinazione finale dell’amministrazione procedente. Al segmento di procedura da riattivarsi a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del primo provvedimento vanno dunque applicate le disposizioni ratione temporis applicabili, ivi compreso, come nella specie, eventuale ius superveniens, proprio in applicazione del principio tempus regit actum. Come ha osservato condivisibile giurisprudenza, infatti, la inapplicabilità delle disposizioni normative sopravvenute alle procedure in itinere alla data della loro entrata in vigore non concerne le sequenze procedimentali composte di atti dotati di propria autonomia funzionale (cfr. T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. I, 10 maggio 2011, n. 458 che ha appunto ritenuto che la procedura concorsuale di selezione, proprio perché contrassegnata dal carattere di unitarietà, è interamente disciplinata dalle norme vigenti al momento in cui essa ha inizio). La esposta conclusione è in linea con la ripetuta affermazione per cui il procedimento amministrativo è regolato dal principio tempus regit actum, con la conseguenza che la sua legittimità va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 29 marzo 2011, n. 1900).

Invero è la stessa parte ricorrente ad invocare l’applicazione del principio tempus regit actum al fine di affermare l’applicabilità al caso di specie del decreto legislativo n. 59 del 2010, attuativo della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, e segnatamente del suo articolo 15, a mente del quale le condizioni cui può essere subordinato l’accesso e l’esercizio delle attività prevede che tali condizioni siano rese pubbliche preventivamente, e cioè prima della presentazione della domanda da parte dell’operatore, così fondando una censura di illegittimità del diniego in questa sede avversato. Ma proprio quanto innanzi rilevato in ordine alla regola tempus regit actum consente di osservare che, anche se il citato decreto legislativo è anteriore all’adozione del diniego impugnato, la disposizione di cui si assume la violazione concerne fase della procedura già consumata, quella cioè della proposizione della domanda, conseguendo all’annullamento del primo diniego non già il rinnovo dell’intera procedura ma solamente il rinnovo dell’attività istruttoria e delle finali determinazioni dell’amministrazione, ferma restando l’istanza del privato (ed a maggior ragione ciò che cronologicamente dovrebbe precedere detta istanza).

Con altra articolata censura la ricorrente afferma poi un sostanziale contrasto tra la delibera consiliare n. 35 del 2010, sulla cui scorta è comunque adottato il diniego avversato ed i principi recati dal decreto legislativo n. 59 del 2010.

La censura non è ammissibile.

Devesi ricordare che il diniego avversato non è fondato sulla mancanza di un dato requisito piuttosto che di un altro, quali previsti dal regolamento adottato con la citata delibera consiliare, ma molto più semplicemente sulla circostanza per cui non è stata prodotta la documentazione integrativa prevista dalla citata delibera ed oggetto di puntuale richiesta operata con nota del Comune di 5 luglio 2010. In altri termini, la censura che investe l’asserito contrasto tra regolamento comunale e normativa nazionale di recepimento della direttiva comunitaria – in difetto della specificazione di quali requisiti e/o condizioni richiesti dal regolamento comunale e del caso non posseduti dalla ricorrente sarebbero da ritenersi illegittimamente richiesti dall’amministrazione – appare rivolta ad una generica ed inammissibile tutela della legittimità disancorata dalla titolarità di una posizione differenziata che deve riscontrarsi in capo a chi agisce. Posizione che non può dirsi, nella specie, sussistente solo perché la ricorrente ha visto una sua istanza denegata, necessitando del riscontro (con adeguato principio di prova) di specifici profili di illegittimità, questi direttamente interessanti la posizione della ricorrente.

Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il Collegio respinge il ricorso in esame poiché infondato.

Sussistono tuttavia giuste ragioni per compensare integralmente fra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 24-06-2011) 26-09-2011, n. 34810 Lettura di atti, documenti, deposizioni

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Svolgimento del processo

Con sentenza 12-7-2010 la Corte d’Appello di Roma, confermando quella del tribunale della stessa città in data 12-10-2009, riconosceva H.E., A., V. e M. responsabili dei reati di sequestro di persona in danno di S.N. e di O. N., e di rapina aggravata in danno del primo.

I predetti ricorrono per il tramite del difensori, con atti comuni, rispettivamente, V. e M., ed E. e A., M. anche con ulteriore atto identico a quello degli ultimi due.

Con il primo ricorso si censura, per violazione di legge e vizio di motivazione, la ritenuta utilizzabilità ex art. 512 delle dichiarazioni delle pp.oo. (per sopravvenuta impossibilità di ripetizione dell’atto, non prevedibile), basata sul rilievo che dal verbale di arresto risultava che essi comprendevano l’italiano, avevano fornito i loro indirizzi e appartenevano ad una comunità rom da tempo residente in Italia, il che faceva presumere il loro radicamento sul territorio.

Ciò che, secondo i ricorrenti, integra una contraddizione in termini, con la conseguenza che l’apprezzamento del giudice di merito, per quanto discrezionale, non è fondato su criteri ineccepibili sul piano logico.

Con il secondo ed il terzo ricorso, si deducono due motivi.

1) Mancanza o manifesta illogicità della motivazione per travisamento dei fatti e delle risultanze. Le dichiarazioni delle pp.oo. sono state ritenute attendibili e quelle degli imputati inattendibili benchè confermate da O.D., fratello di una delle persone offese, che, comparso, ha ritrattato le precedenti dichiarazioni. La corte, con motivazione solo apparentemente logica, ha fondato l’affermazione di responsabilità sul rilievo che le lesioni refertate sono compatibili con la versione dei fatti, V. aveva con sè la patente di guida e il denaro sottratto a S., questi era terrorizzato e le sue dichiarazioni erano confermate da quelle della O. e da quelle iniziali del fratello di questa.

2) Violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità e inutilizzabilità in relazione all’art. 512 c.p.p. con argomenti analoghi a quelli dell’altro ricorso, sottolineandosi in più come S. fosse stato rintracciato e gli fosse stato notificato il provvedimento di accompagnamento coattivo, poi non eseguito in quanto il predetto non era stato più trovato.

Si chiedeva quindi l’annullamento della sentenza impugnata.

Il 15 marzo 2011 è pervenuta rinuncia al ricorso di H.E..

Motivi della decisione

L’intervenuta rinuncia al ricorso di H.E. integra causa di inammissibilità dello stesso, alla cui declaratoria si accompagnano le statuizioni di cui all’art. 616 c.p.p..

I ricorsi degli altri imputati sono infondati e vanno disattesi.

Censura a tutti comune è quella relativa alla violazione dell’art. 512 c.p.p. e al vizio di motivazione in ordine alla ritenuta utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalle pp.oo. prima del dibattimento, per sopravvenuta impossibilità di ripetizione dell’atto.

La sentenza gravata si sottrae a tali censure.

Premesso che, secondo costante orientamento di questa corte, la valutazione della prevedibilità o imprevedibilità dell’impossibilità di ripetizione dell’atto, integra, nella fase delle indagini, giudizio prognostico affidato ai canoni della logica sulla base di dati oggettivi, la corte romana ha puntualmente effettuato una apposita ricostruzione, con prognosi postuma, delle ragioni per le quali nella fase anzidetta non vi erano indici sintomatici precisi per ritenere prevedibile tale sviluppo processuale. Non ha infatti mancato di richiamare sul punto alcuni elementi, ritenuti atti a far presumere il radicamento sul territorio di S. e di O., che, a differenza da quanto opinato dalla Difesa, non presentano caratteri di intrinseca contraddittorietà. Infatti con il rilievo che dal verbale di arresto risultava che essi comprendevano l’italiano, che avevano fornito i loro indirizzi e che appartenevano ad una comunità rom da tempo residente in Italia, appare coerente la conclusione che non vi era, quindi, alcuna concreta ragione per prevedere che si sarebbero poi allontanati rendendo impossibile la ripetizione della loro deposizione. Così argomentando, i giudici di merito hanno dato tra l’altro applicazione al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui non può dirsi prevedibile l’irreperibilità in dibattimento del soggetto dichiarante, per il solo fatto che questi sia un cittadino extracomunitario, anche se privo di permesso di soggiorno.

Nella specie, in particolare, il nomadismo proprio dei soggetti appartenenti a comunità rom, è stato ritenuto superato, con motivazione logica, dalla stanzialità di quella di appartenenza dei predetti.

Correttamente, poi, i giudici di merito hanno ritenuto che la causa del, per quanto volontario, allontanamento dei predetti, non fosse da ravvisare nella volontà di sottrarsi al contraddittorio – che, sempre secondo giurisprudenza di questa corte (S.U. 36747/2003), non può mai essere oggetto di presunzione -, ma piuttosto nel timore di ritorsioni, avvalorato dal voltafaccia del fratello della O., che in dibattimento ha ritrattato le precedenti dichiarazioni accusatorie nei confronti degli imputati, uniformandosi alla linea difensiva di costoro. Milita del resto proprio nella direzione dell’allontanamento per timore, la circostanza, sottolineata nel ricorso presentato nell’interesse di H.A. a sostegno della mancata certezza dell’obiettiva impossibilità di ripetizione dell’atto, dell’iniziale rintraccio di S., cui veniva notificato l’ordine di accompagnamento coattivo emesso dal primo giudice, seguito da una nota dei carabinieri, attestante l’impossibilità di dare concretamente corso all’accompagnamento.

Attestazione della quale, a differenza da quanto sostenuto nel predetto ricorso, non vi è motivo di dubitare posto che in essa si dava atto dell’inesistenza del numero civico della via in cui S. sarebbe stato residente, e del suo mancato censimento anagrafico, a fronte di che non era ipotizzabile l’effettuazione di ulteriori ricerche.

Priva di concreto spessore è pure la doglianza di mancanza o manifesta illogicità della motivazione anche per travisamento dei fatti e delle risultanze.

Con ragione, infatti, la corte ha ritenuto attendibili le concordi dichiarazioni delle pp.oo. – benchè contrastate da quelle degli imputati e da quelle dibattimentali, come si è detto frutto di ritrattazione, di O.D. -, sulla base degli elementi obiettivi a riscontro delle prime, rappresentati dalla compatibilità con esse delle lesioni refertate a S., e dalla circostanza, autonomamente significativa di responsabilità, che H.V. aveva con sè la patente di guida e il denaro sottratti a quest’ultimo, il quale, non è superfluo ricordarlo, appariva, secondo le prime dichiarazioni di O.D., terrorizzato.

Elementi più che idonei a corroborare le dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p.p., alla stregua, del principio, del pari oggetto di arresti giurisprudenziali di questa corte, in linea con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 6 Cedu, che il necessario vaglio sulla loro attendibilità soggettiva e oggettiva, sempre onere del giudice del merito, va effettuato, nei casi quale quello di specie, in termini di massima oculatezza e rigore, in ragione della peculiare natura delle dichiarazioni stesse – acquisite, in assenza di contraddittorio, da una sola delle parti deputate alla ricerca degli elementi utili al processo -, e deve trovare conforto, per sostenere l’accusa, in ulteriori elementi individuati dal giudice, con doverosa disamina critica, nelle risultanze processuali (Cass. 21877/2010).

Al rigetto dei ricorsi di H.A., H.V. e H.M., segue la condanna di ciascuno di essi al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso di H.E. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Rigetta i ricorsi di H.A., H.V. e H. M. e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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