T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 14-01-2011, n. 317

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;
Premesso che oggetto del presente giudizio è la richiesta di annullamento del provvedimento (meglio indicato in epigrafe) attraverso il quale il competente Ufficio del Comune di Roma, all’esito dell’istruttoria svolta alla Società R.G. e dagli agenti del Corpo di Polizia municipale del Comune di Roma, dopo aver accertato l’occupazione abusiva dell’immobile di edilizia residenziale pubblica sito in Roma alla XX scala E int. 8 e ritenuto non condivisibili le deduzioni rese dall’interessata nel corso del procedimento, ha disposto lo sgombero dell’immobile occupato abusivamente dalla Signora L.P.;
Rilevato che, in disparte dalle questioni in rito eccepite dalla costituita Società R.G., dalla documentazione depositata sia in sede di istruttoria procedimentale sia in sede di produzione giudiziale non emergono elementi utili a ritenere che la ricorrente sia in possesso dei requisiti che consentano il subentro nell’assegnazione dell’alloggio, secondo le specifiche e tassative indicazioni fissate dall’art. 11 della legge della Regione Lazio 6 agosto 1999 n. 12 non avendo, in particolare, la stessa provato di far parte del nucleo familiare;
Ritenuto che la mera posizione di ospite temporaneo non può considerarsi utile al fine di ritenere soddisfatto uno dei requisiti richiesti dalla normativa di settore per poter aspirare al subentro nell’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, non rilevando a tal fine giuridico la circostanza che l’occupante abbia corrisposto somme all’Ente di gestione dell’immobile per l’occupazione dello stesso né che le utenze sia state volturate a suo nome;
Stimato che le spese giudiziali possono compensarsi integralmente tra le parti controvertenti;

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati:
Luigi Tosti, Presidente
Carlo Modica de Mohac, Consigliere
Stefano Toschei, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14046

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Svolgimento del processo
La CTR della Lombardia, con la sentenza n. 63/11/09, depositata il 25.5.2009, ha confermato la decisione della CTP di Milano che, su ricorso della S.p.A. A. Italia, importatrice dalla Giamaica di prodotti di maglieria, aveva annullato la sanzione ex art. 303 del TULD. I giudici d’appello hanno ritenuto che l’ipotesi, contestata nella specie, di dichiarazione non veritiera relativa all’origine della merce non era contemplata dalla norma incriminatrice, ed hanno, perciò, escluso la fondatezza dell’interpretazione storico-esegetica sostenuta dalla Dogana, perchè contraria al principio della riserva di legge in materia di sanzioni amministrative; considerazione che assorbiva la questione relativa alla mancata prova, il cui onere incombeva all’Ufficio, dell’elemento soggettivo, pure rilevata, in modo condivisibile, dai primi giudici.
L’Agenzia delle Dogane ricorre per la cassazione di tale sentenza, sulla scorta di tre motivi. La Società contribuente resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione dell’art. 303 del TULD, D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente sostiene che la sanzione prevista dall’art. 303 cit. riguarda ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione doganale in ordine ai suoi elementi essenziali, afferenti, cioè, oltre che a valore, quantità, qualità delle merci, anche, all’origine delle merci stesse, atteso che il comma 3 della norma in esame non pone distinzioni di fattispecie e che il comma 1 menziona le difformità di qualità da interpretarsi estensivamente (e non analogicamente) come comprensive, anche, delle diversità di origine. Sotto altro profilo, prosegue la ricorrente, la CTR ha errato nel non considerare i principi generali che disciplinano il sorgere delle obbligazioni doganali e nel non tener conto che il relativo mancato adempimento costituisce fonte della responsabilità sanzionatoria di cui all’art. 303 del TULD, norma a presidio di ogni irregolarità ascrivibile all’operatore in materia di obblighi di dichiarazione.
Il motivo è fondato. Va ricordato che questa Corte, con due decisioni del 1999 (nn. 2590 e 10898), ha chiarito che la fattispecie regolata dall’art. 303 è sostanzialmente unica, in quanto il suo contenuto e" delineato nel comma 1 mentre il comma 3 configura solo una circostanza aggravante. Ciò, diversamente dall’assunto dalla contribuente, non è risolutivo: è vero che la norma punitiva menziona, nel descrivere l’illecito amministrativo, solo, valore, quantità e qualità della merce, ma la mancanza di riferimento testuale all’origine è logicamente e giuridicamente irrilevante. E’ noto, infatti, che il concetto giuridico di qualità è inerente alla natura della merce e, secondo la giurisprudenza civilistica, riguarda le differenze di sostanza, di razza, di materia, di tessuto, di fibra, di colore, di metodo e di origine (cfr, in particolare Cass. n. 2544/1970, in tema di mancanza delle qualità promesse ex art. 1497 c.c.). Del resto, è indiscutibile, sul piano logico, che la qualità di una merce non sia altro che il coacervo degli elementi distintivi di essa e tra i medesimi il dato di origine assume una connotazione del tutto pregnante. Se ciò vale sul piano del linguaggio giuridico civilistico, non si vede perchè il legislatore tributario abbia dovuto adottare, nel 1973, una diversa nozione di qualità, come attinente alla sola sostanza dei beni oggetto d’importazione e non alla loro origine/provenienza da un determinato Paese.
Nella specie, va rilevato che le merci giamaicane, scortate dall’apposito certificato d’origine EUR.1, beneficiano di esenzione dal dazio all’atto dell’importazione nell’UE, in virtù dell’Accordo di Cotonou (cfr. artt. 1 e 100; Allegato 5, art. 1, e correlato Protocollo 1, art. 2, n. 1, art. 15, n. 1, art. 28, n. 1, art. 31, comma 1, nn. 1-2, art. 32) tra UE e i Paesi dell’Area ACP (Africa, Caraibi, Pacifico): il rilievo centrale della veridicità dell’origine delle merci importate è, del tutto, evidente, essendo, appunto, il presupposto del trattamento daziario preferenziale (v.
per un altro esempio il c.d. "cumulo regionale" per l’Area ASEAN:
Brunei, Indonesia, Laos, Vietnam, etc). Ne deriva che, seguendo la tesi della CTR, resterebbe privo di copertura -dunque di deterrenza sanzionatoria- il punto più delicato del complesso sistema con il quale TUE accorda preferenze tariffarie a taluni prodotti originari di Paesi in via di sviluppo, ai sensi del Reg. 2454/93 (art. 66 e segg.), che individua, proprio, nella prova dell’origine della merce il fulcro centrale della prevenzione antifrodi (v. anche All. V all’Acc. Cotonou, art. 2 n. 1).
Pertanto, tenuto conto del rilievo imprescindibile e prioritario del concetto di "origine" nelle fonti nazionali (D.Lgs. n. 374 del 1902, art. 8 e art. 4, comma 2; artt. 65, 73, 84, 91, 149, 165, 175 e 179 etc del TULD) e comunitarie (artt. 1 e 4 del Reg 802/68; Cod. Dog.
Tit. 2 cap. 2, artt. 58, 133, 147, 220) ed, inoltre, della sua inerenza, logica e giuridica, alla nozione di qualità come tradizionalmente affermatasi nell’esperienza civilistica di diritto interno, si deve concludere che il legislatore del 1973, nel far trasmigrare il vecchio art. 118 L.D. nel nuovo art. 303 TULD e nell’omettere il riferimento all’origine delle merci, abbia realizzato, solo, una mera semplificazione testuale, ampiamente giustificata, sul piano lessicale, proprio dall’inerenza del dato di "origine" alla nozione riassuntiva e omnicomprensiva di qualità.
Analogamente si è comportato il legislatore del 2012 nel decreto sulla semplificazione fiscale, che ha solo ridisegnato il regime sanzionatorio dell’art. 303 TULD mediante il D.L. n. 16 del 2012, art. 11, comma 4. Anzi, la Relazione (in Atti parlamentari -Senato della Repubblica – n. 3184 – pag. 63) evidenzia che "la norma rappresenta un presidio per le condotte che pur non essendo ascrivibili a fattispecie penalmente rilevanti, costituiscono grave pregiudizio per la scorrevolezza dei traffici e per l’efficienza dei controlli" e rileva che si tratta di "norme poste a presidio della correttezza e della completezza delle dichiarazioni doganali" e dirette a sollecitare "l’attenzione delle categorie professionali e degli operatori economici che agiscono nel commercio internazionale".
Dunque, dinanzi a una parola dotata di più significati come "qualità", la sua accezione giuridica va contestualizzata in relazione alla disposizione, nella specie sanzionatoria, dove è inserita e al bene giuridico che detta disposizione tutela: ossia, quanto all’art. 303 TULD, la correttezza e la completezza delle dichiarazioni doganali in funzione della circolazione delle merci e dell’efficienza dei controlli, i quali non possono che caratterizzarsi proprio per la particolare attenzione ai luoghi di origine delle merci transfrontaliere.
Il secondo mezzo, denunciando violazione di legge (TULD, art. 303;
D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5; art. 2697 c.c.), censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha trascurato che l’utilizzatore di certificati di origine preferenziale, falsi o irregolari, è responsabile delle sanzioni ex art. 303 cit., se non provi d’aver adottato la necessaria diligenza professionale nelle verifica dell’operato di terzi con i quali ha operato e dai quali provengono le certificazioni e dichiarazioni stesse.
La doglianza è fondata. In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 5, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta, anche, la consapevolezza del contribuente, al quale deve potersi imputare un comportamento quanto meno negligente, ancorchè non necessariamente doloso. E’, insomma, sufficiente una condotta cosciente e della volontaria, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, ponendogli l’onere di provare il contrario (Cass. 22890/2006; conf.
13068/2011, cfr. 4171/09, sulla non necessità di un intento fraudolento). L’esimente della buona fede, rileva, invece, solo se l’errore sia inevitabile, occorrendo che l’ignoranza dei presupposti dell’illecito sia incolpevole, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza (Cass. 10607/03, in tema d’importazione di valuta).
Erra, dunque, il giudice d’appello, nel ritenere che non sussisteva la prova dell’elemento soggettivo, il cui onere faceva capo all’Ufficio, dato che, proprio al contrario, la prova liberatoria avrebbe dovuto esser fornita dall’importatrice ed esser rapportata alla diligenza da lei esigibile alla luce della giurisprudenza comunitaria e nazionale, secondo cui l’importatore "non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati" (cfr., in cause riunite T-10/97 e T-11/97, dec. 09/06/1998 60) e l’invalidità di un certificato d’origine "fa parte dei rischi professionali connessi all’attività dell’importatore" (cfr., in causa T-290/97, dec. 18/01/2000 83 e, in causa T-239/00, dec. 04/07/2002 55), non essendo la Comunità Europea tenuta a subire le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini, che rientrano, appunto, nel rischio dell’attività commerciale, contro il quale gli operatori economici possono e devono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (cfr. Cass. 14509/08). In particolare, la circostanza che, a norma dell’art. 15, comma 5, del protocollo 5 dell’Accordo di Partenariato, il rilascio dei certificati d’origine preferenziale avvenga sulla scorta delle dichiarazioni dall’esportatore, ed il fatto che le autorità doganali che rilasciano il certificato siano tenute ad adottare "tutte le misure necessarie per verificare il carattere originario dei prodotti e l’osservanza degli altri requisiti" del protocollo, attiene alla predisposizione delle misure stesse, ma non implica, come afferma la Società, che la dogana del paese d’esportazione sia responsabile dell’inesattezza della dichiarazione relativa all’origine dei capi, a causa del mancato controllo; controllo che, invero, può procedere "per sondaggio" o su richiesta dello stato importatore, e che costituisce, comunque, una facoltà – e non obbligo, nè tanto meno per ogni dichiarazione – per lo stato che riceve la dichiarazione, il quale può, appunto, "richiedere qualsiasi prova e di procedere a qualsiasi controllo" che ritenga utile ad accertare la veridicità delle dichiarazioni stesse (art. 33, comma 5, Prot. cit. La sentenza della Corte di Giustizia in data 25.7.2008, resa nel procedimento C- 204/07, invocata dalla controricorrente, non è qui pertinente, attenendo all’incidenza del mancato assolvimento del dovere di vigilanza e di controllo della Commissione nella valutazione dell’esistenza della "situazione particolare", ai fini dell’applicazione della clausola generale di equità, di cui all’art. 239 del CDC).
Non può sottacersi, poi, che la sanzione è riconnessa all’utilizzo negligente dei certificati invalidi (in relazione all’origine delle merci), e che l’onere della prova, per andarne esente, implicava l’allegazione, prima, e la dimostrazione, poi, di una condotta positiva da parte della società importatrice, operante nel settore della maglieria di pregio, volta ad assicurare il rispetto di tutte le condizioni per la fruizione del trattamento preferenziale, prova che non consta esser stata dedotta e che lungi dall’esser diabolica – come sostiene la controricorrente laddove afferma che avrebbe dovuto "effettuare dei complessi riscontri" – ben avrebbe potuto esser dedotta, ad esempio, mediante la richiesta e l’esecuzione di verifiche, presso il soggetto fornitore/esportatore, di caratteristiche, tecniche e modi di lavorazione della merce acquistata ed importata (cfr. Cass. n 5343 del 2006).
L’impugnata sentenza, che non si è attenuta ai principi indicati, va, dunque, cassata, restando assorbito il terzo mezzo, dedotto per meri vizi motivazionali, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può esser decisa nel merito, col rigetto del ricorso introduttivo della contribuente.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo; nell’evolversi della vicenda processuale e nella particolarità di talune questioni interpretative si ravvisano giusti motivi per compensare le spese dei gradi di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi, dichiara assorbito il terzo, cassa e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo e condanna la contribuente alle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 2.000,00, oltre alle spese prenotate a debito;
compensa le spese dei gradi di merito.
Cosi deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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Cass. pen., sez. II 21-10-2008 (02-10-2008), n. 39380 Inutilizzabilità – Presupposti – Condizioni.

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MOTIVI DELLA DECISIONE
Con ordinanza in data 6.6.2008 il GIP presso il Tribunale di Modena applicava la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di G.A., indagato per il delitto di estorsione aggravata in concorso.
Avverso tale ordinanza propone ricorso per cassazione G. A., a mezzo del suo difensore, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. In particolare, con il primo motivo, il ricorrente lamenta che gli elementi di gravità indiziaria posti a base dell’ordinanza impugnata sono stati tratti da attività investigativa illegittima, per esser state prese in considerazioni le dichiarazioni di M.C. e S.M., che avrebbero dovuto essere qualificate come dichiarazioni indizianti e che, pertanto, per essere riferibili a persone che sin dall’inizio avrebbero dovuto essere sentite come imputati, erano da ritenersi inutilizzabili ai sensi dell’art. 63 c.p.p., comma 2.
Con il secondo motivo, il ricorrente si duole che la gravità del quadro indiziario è stata tratta da attività di intercettazione illegittima, in quanto il relativo decreto di autorizzazione è stato concesso sulla base di conversazioni fra il denunciante e gli indagati, captate dal primo con un microfono fornitogli dalla polizia giudiziaria, in violazione dei presupposti di cui all’art. 267 c.p.p., comma 1.
Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente si duole che il giudice a quo non ha tenuto conto, ai fini della valutazione delle esigenze cautelari, del tempo trascorso dalla commissione del reato e dell’assenza di precedenti penali, oltre che del carattere occasionale dei fatti accertati.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Costituisce, infatti, insegnamento costante di questa Corte che la sanzione prevista dall’art. 63 c.p.p., comma 2, secondo il quale sono inutilizzabili erga omnes le dichiarazioni assunte senza garanzie difensive presso un soggetto che avrebbe dovuto sin dall’inizio essere sentito in qualità di imputato o persona soggetta alle indagini, opera solo nei casi in cui, a carico dell’interessato, sussistessero prima dell’escussione indizi non equivoci di reità, e tali indizi fossero conosciuti dall’autorità procedente, non rilevando in proposito eventuali sospetti o intuizioni personali dell’interrogante (cfr, ad es. Cass. Sez. 5, n. 305/2002; Cass. sez. 1, n. 8099/2002; Cass. Sez. 2, n. 24139/2003; Cass. Sez. 3, n. 21747/2005), dovendo la qualifica di persona imputata o indagata presentare i caratteri della concretezza e dell’attualità e non apparire meramente astratta o potenziale (cfr. Cass. sez. 6, n. 3444/1998; Cass. sez. 4, n. 4867/2004).
Nel caso in esame, tali presupposti sono manifestamente insussistenti, non risultando in alcun modo che il M. e il S. abbiano mai assunto la qualità di persona imputata o indagata e rappresentando, piuttosto, l’asserita natura indiziante delle loro dichiarazioni conseguenza di una valutazione puramente soggettiva del ricorrente.
Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
E’ da notare, infatti, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, che la registrazione di una conversazione telefonica eseguita da uno degli stessi interlocutori, anche clandestinamente, non rientrando tra le intercettazioni telefoniche (che, invece, ricorrono quando sussista un’occulta presa di conoscenza da parte di terzi di una conversazione con entrambi gli interlocutori all’oscuro dell’intromissione) non è sottoposta alle limitazioni e alle formalità proprie delle intercettazioni, nè il fatto che essa venga registrata all’insaputa di uno degli interlocutori costituisce offesa alla libertà di autodeterminazione dell’altro, avendo questi comunicato in piena libertà, volendo comunicare. Sicchè la registrazione della predetta comunicazione telefonica, quale documento della stessa, ne è idonea prova (cfr. SU n. 36747/2003).
Restando pure irrilevante che la registrazione sia stata effettuata da uno degli interlocutori su richiesta della polizia giudiziaria, o utilizzando materiale da questa fornito, dal momento che, non applicandosi, per come si è detto, a tali registrazioni la disciplina delle intercettazioni, le stesse possono essere effettuate senza necessità di autorizzazione del GIP e sono utilizzabile come prova documentale nel processo (cfr. Cass. sez. 2, n. 42486/2002;
Cass. sez. 6, n. 159/ 2001; Cass. sez. 4, n. 8759/1998).
Alla luce di tali principi, resta esclusa de plano la fondatezza della censura prospettata, non essendo ipotizzabile, sulla base dei motivi rassegnati, alcuna attività di intercettazione illegittima.
Inammissibile è, infine, anche l’ultimo motivo.
Deve, al riguardo, premettersi che quando il ricorso per cassazione è limitato alla sola "violazione di legge", va esclusa l’illogicità manifesta, la quale può essere denunciata soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e, mentre è sindacabile la mancanza assoluta di motivazione o la motivazione meramente apparente (v. SU n. 25080/2003), con la conseguenza che il controllo di legittimità non può estendersi all’adeguatezza delle linee argomentative ed alla congruenza logica del discorso giustificativo della decisione, risultando censurabile solo il caso di motivazione che manchi assolutamente o, comunque, sia del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza e completezza, al punto da risultare inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito ovvero il caso in cui le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate da rendere oscure le ragioni che hanno giustificato il provvedimento.
Nel caso in esame tali presupposti risultano insussistenti.
Ed invero, il ricorrente prospetta che il giudice a quo, con motivazione illogica e contraddittoria, non ha dato rilievo, ai fini della valutazione delle esigenze cautelari, al tempo trascorso dalla commissione dei fatti e all’incensuratezza dell’imputato, e che, peraltro, è stata omessa ogni indagine e valutazione circa il convincimento dell’agente di esercitare una pretesa creditoria del tutto legittima e tutelabile.
Con il che si rende evidente come il sindacato richiesto a questa Corte, a prescindere da ogni nominalistica prospettazione dei motivi di ricorso, riguardi in termini sostanziali l’adeguatezza e la plausibilità del convincimento manifestato dal giudice in ordine alla consistenza delle esigenze cautelari (valutate dal Tribunale con riferimento alla gravità dei fatti, ritenuti altamente sintomatici di un sistema illecito di acquisizione di indebiti arricchimenti) e, pertanto, esula dal vizio di violazione di legge per il quale solo è proponibile il ricorso previsto dall’art. 311 c.p.p., comma 2.
Il ricorso va, quindi, dichiarato inammissibile con conseguente condanna alle spese processuali e, potendosi ravvisare profili di colpa nella causa di inammissibilità, a pena pecuniaria.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende. si dia avviso ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione, Sez. III, 3 marzo 2010, n. 5062 Offese negli scritti difensivi, la competenza è dello stesso giudice dinnanzi al quale si svolge il processo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“Con atto di citazione notificato il 25 giugno 1999 l’avvocato ZZZconveniva dinanzi al Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Albano Laziale, XXX, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e morali per lire 400.000.000, subiti a seguito di un comportamento concretizzatosi in tre episodi e cioè:

a) in un atto di impugnativa di una delibera dell’assemblea dei soci del Consorzio Monte Gentile di Ariccia, nel testo del quale il ZZZ – Presidente del Consorzio – veniva accusato di vari falsi,

b) in un volantinaggio nell’ambito consortile, con offese esplicite ed accuse gratuite sulla gestione del Consorzio,

c) in una denuncia per estorsione a seguito della richiesta del Salvatore di un risarcimento danni per cento milioni a carico di ciascuno dei diffamatori, oltre alle spese del giudizio.

Si costituiva il convenuto, che chiedeva il rigetto della domanda per vari motivi.

Con sentenza depositata il 10 settembre 2001 il Tribunale adito rigettava la domanda e condannava il Salvatore alle spese del giudizio.

Avverso detta sentenza proponeva appello per vari motivi l’avvocato ZZZcon citazione notificata al XXXl’11 aprile 2002, chiedendone la modifica in suo favore con accoglimento della domanda e con vittoria delle spese.

Si costituiva l’appellato, che chiedeva rigettarsi l’appello con vittoria delle spese”.

Con sentenza 18.11.04 – 14.2.05 la Corte di Appello, definitivamente pronunciando, decideva come segue:

“1) Accoglie per quanto di ragione l’appello proposto da ZZZavverso la sentenza del Tribunale di Velletri – sede distaccata di Albano Laziale – depositata il 10 settembre 2001 con atto di citazione notificato a Gianfranco XXXl’11 aprile 2002 e per l’effetto condanna il XXXal risarcimento dei danni non patrimoniali in favore del Salvatore, che liquida ad oggi in Euro 10.000 oltre agli interessi legali da oggi al saldo.

2) Condanna il XXX alla rifusione in favore del ZZZ delle spese del giudizio, che liquida per il primo grado in Euro 2.000 di cui Euro 750 per diritti ed Euro 1.100 per onorari e per il presente grado in Euro 3.000 di cui Euro 700 per diritti ed Euro 2.100 per onorari, oltre alle spese forfetari e ed a quant’altro previsto per legge”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione XXX.

Ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale ZZZ. Quest’ultimo ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

Va anzitutto disposta la riunione dei ricorsi.

Il ricorrente principale XXX, con il primo e secondo motivo (congiuntamente esposti), denuncia ex “…1) art. 360 c.p.c. punto 3, violazione o falsa applicazione di norme di diritto; 2) art. 360 c.p.c. punto 5, motivazione insufficiente e contraddittoria…”, esponendo doglianze da riassumere come segue. Il Giudice di secondo grado afferma che: – A) il Tribunale erroneamente non ha ritenuto diffamatorie le affermazioni contenute nell’atto di citazione per l’annullamento della delibera di approvazione dei bilancio consuntivo 1996, poiché, da una attenta lettura della citazione emerge la presenza dell’inciso “iscrizioni non veridiche” certamente offensivo e denigratorio per il Presidente del Consorzio che viene disinvoltamente accusato di avere esposto in bilancio partite non rispondenti al vero e quindi sostanzialmente di avere sottoposto all’esame assembleare un bilancio falso; – B) la responsabilità del XXXnon può essere sminuita dal fatto che il Giudice competente di quel giudizio, con ordinanza, non ritenne di far cancellare la frase incriminata, poiché tale ultima decisione non è definitiva né suscettibile di passare in giudicato e pertanto la Corte di Appello ben può esaminare la fattispecie per elevarne la illiceità; – C) i “diffamatori ben avrebbero potuto evitare l’esito negativo del presente giudizio dimostrando la veridicità di quanto sostenuto in citazione [quale citazione, quella della impugnativa della delibera assembleare o quella introduttiva del giudizio che ci occupa?] ma il XXXnulla ha al riguardo dedotto… per cui resta l’accertata ingiustizia della accusa formulata in quella citazione, cui consegue il diritto del Salvatore ad ottenere il risarcimento dei danni subiti”.

Invece il Tribunale, oltre ad escludere la valenza offensiva in sé della frase più volte citata, aveva chiarito che, anche qualora la frase fosse stata ritenuta offensiva, ai sensi e per l’effetto dell’art. 598 comma 2 c.p. cui andrebbe aggiunto l’art. 89 cpc, rientrava semmai nei poteri del Giudice di quella causa provvedere eventualmente anche con una condanna al risarcimento dei danni.

La Corte di Appello non ha neppure ritenuto degne di considerazione le esatte valutazioni in tema di art. 598 cit. del primo Giudice.

Il ricorso principale va accolto in quanto l’impugnata decisione presenta i vizi (essenzialmente giuridici) denunciati.

Anzitutto è fondata la doglianza (preliminare dal punto di vista logico-giuridico) concernente l’art. 89 cit. Va infatti confermato il seguente principio di diritto: “Competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell’art. 89 cod. proc. civ., è di norma lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni. A tale competenza, tuttavia, è necessario derogare quando il giudice non possa, o non possa più, provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento, il che accade, in particolare, nei seguenti casi: A) quando le espressioni offensive siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per tale sua natura non può avere per oggetto un’azione di cognizione e quindi destinata ad essere decisa con sentenza; B) quando siano contenute in atti di un processo di cognizione che però, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo); C) quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado); D) quando la domanda di risarcimento sia proposta nei confronti non della parte ma del suo difensore”.

(Cass. sentenza n. 16121 del 09/07/2009; v. inoltre Cass. n. 11617 del 1992, e Cass. n. 10916 del 2001).

Sulla base di tale principio di diritto ritiene il collegio che, non sussistendo (a quanto appare pacifico) nella fattispecie alcuno dei casi di deroga ora indicati (punti da A a D), una siffatta domanda poteva essere proposta solo al Giudice innanzi al quale si era svolto il giudizio nel quale erano state usate le suddette espressioni.

La domanda non poteva dunque essere proposta nel presente autonomo giudizio.

Ciò è certamente decisivo.

Per completezza, appare peraltro opportuno aggiungere che anche la doglianza fondata sull’art. 598 cit. (anch’essa decisiva pure da sola) deve ritenersi fondata.

Va infatti affermato il seguente principio di diritto (esplicitamente od implicitamente sostenuto da una giurisprudenza da considerare ormai sostanzialmente consolidata): “In tema di offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi all’autorità giudiziaria, la speciale esimente contemplata dall’art. 598 cod. pen., che costituisce attuazione del più generale principio posto dall’art. 51 cod. pen. (individuante la scriminante dell’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), essendo stata disposta dal legislatore per garantire alle parti del processo la massima libertà nell’esercizio del diritto di difesa, trova applicazione, nell’ambito del giudizio civile, con riguardo a tutti gli atti difensivi, a cominciare dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado, purché le offese riguardino in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia; e la sua sussistenza comporta la non configurabilità dell’atto illecito (ex artt. 2043 e segg.) per l’insussistenza dell’antigiuridicità, che è uno degli elementi costitutivi di tale istituto giuridico”. (cfr tra le altre. Cass. sentenza n. 1757 del 26/01/2007; Cass. Sentenza n. 18207 del 28/08/2007; e Cass. sentenza n. 10423 del 18/05/2005).

Nella specie, dalle sentenze di merito nonché dagli atti difensivi della parte ricorrente e della parte controricorrente, si evince (come dato pacifico) che l’inciso “iscrizioni non veridiche” riguardava in modo diretto ed immediato l’oggetto di quella controversia. Quindi non era configurabile la responsabilità da atto illecito in questione.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte deve decidere la causa nel merito, rigettando la domanda proposta da ZZZ con riferimento all’atto di impugnativa della suddetta delibera dell’assemblea dei soci del Consorzio Monte Gentile di Ariccia.

Va ora esaminato il ricorso incidentale.

I primi due motivi vanno esaminati insieme in quanto connessi.

ZZZ, con il primo motivo, denuncia “VIOLAZIONE O FALSA APPLICAZIONE DI NORME DI DIRITTO art. 360 n. 3 cod. proc. civ. – MOTIVAZIONE INSUFFICIENTE E CONTRADDITTORIA, art. 360 n. 5 cod. proc. civ.” esponendo doglianze da riassumere nel modo seguente.

Nel volantino, elencate le (presunte) illegittime iniziative intraprese dal Consiglio direttivo del Consorzio, o meglio dal suo presidente (omettendo la circostanza che ogni iniziativa giudiziaria può essere intrapresa, per statuto del Consorzio di Monte Gentile, solo dall’assemblea dei soci – 550 – mentre il consiglio si limita a dare esecuzione ai deliberati dell’assemblea dei soci) si passa all’attacco diretto di questi con epiteti certamente offensivi, circa la sua correttezza e serietà professionale, accusandolo di espropriare di fatto aree private, per eseguire sulle stesse opere innovative onde ostacolarne il libero uso, esercitando con i suoi vigilantes funzioni di polizia, e cioè usurpazione illecita di pubbliche funzioni. Le critiche avrebbero dovuto essere proposte nel luogo a ciò espressamente deputato cioè nel corso dell’assemblea consortile. L’episodio doveva essere valutato, come richiesto, unitariamente con gli altri, tra loro unificati da vincolo teleologico.

Con il secondo motivo il ricorrente incidentale denuncia “VIOLAZIONE O FALSA APPLICAZIONE DI NORME DI DIRITTO; MOTIVAZIONE INSUFFICIENTE E CONTRADDITTORIA art. 360 n. 3 cod. proc. civ.; civ.; art. 360 n. 5 cod. proc. civ.” esponendo doglianze da riassumere nel modo seguente. Nella sentenza di secondo grado è stata rigettata la richiesta di risarcimento danni per la denunzia di estorsione “in quanto la genericità del suo contenuto e la semplice richiesta di accertamento di eventuali responsabilità nulla di illecito o diffamatorio contiene”. È incontestabile che la denuncia di un grave reato come quello di tentativo di estorsione, fatta con dolo o colpa grave è fonte della responsabilità in questione. Con i tre episodi in questione, unificati da vincolo teleologico, una sparuta minoranza di consorziati, tra cui il XXX, intendevano costringere alle dimissioni l’Avv. ZZZ da Presidente del Consorzio Monte Gentile.

I primi due motivi vanno respinti in quanto l’impugnata decisione contiene, sui punti in questione, una motivazione che si sottrae al sindacato di legittimità in quanto sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione (cfr. tra le altre Cass. n. 9234 del 20/04/2006: “Il disposto dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ. non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione data dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al riguardo, salvo che quello di indicare le ragioni dei proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento o a confidare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata”; cfr. tra le più recenti, anche Cass. sentenza n. 42 del 07/01/2009).

Con il terzo motivo di ricorso incidentale si denuncia “OMESSA PRONUNCIA IN ORDINE A PUNTI PROSPETTATI DALLA PARTE art. 360 n. 5 cod. proc. civ.” esponendo censure da riassumere nel modo seguente. Aveva richiesto l’appellante avv. ZZZ che il XXX, in conseguenza dell’accoglimento dell’appello, venisse condannato alla restituzione delle somme che gli aveva corrisposto a titolo di spese ed onorari a seguito di condanna contenuta nella sentenza che aveva rigettato la domanda, erroneamente ritenuta esecutiva per legge. Tale domanda è stata del tutto ignorata dalla Corte e da qui la richiesta di annullamento della sentenza sul punto. La sentenza va annullata in ordine al quantum stabilito, erroneamente, in Euro 10.000,00 “stante il limitato ambito di diffusione delle affermazioni lesive della onorabilità del Salvatore” per “fatti accaduti in un consorzio di proprietari di immobili”, mentre i proprietari di immobili sono oltre 550 famiglie; ed inoltre in detto Consorzio l’avv. Salvatore svolge il proprio lavoro professionale e rapporti interpersonali di amicizia.

Tale motivo deve ritenersi assorbito dall’accoglimento del ricorso principale (v. sopra). Il rigetto della domanda del ZZZ ex art. 384 cpc toglie infatti ogni base alla richiesta di restituzione delle somme corrisposte a titolo di spese ed onorari a seguito della condanna del ZZZ alla rifusione delle spese (condanna che questa Corte Suprema conferma) contenuta nella sentenza di primo grado; e priva di rilevanza ogni questione circa la quantificazione del danno asseritamente subito dal ZZZ.

Sulla base di quanto sopra esposto, questa Corte deve provvedere sulle spese anche dei gradi di merito.

La decisione del primo Giudice circa dette spese, come già esposto, va confermata. Sussistono invece giusti motivi (in relazione alle peculiarità della fattispecie) per compensare integralmente le spese del giudizio di secondo grado e quelle del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale, quanto al ricorso incidentale, rigetta i motivi primo e secondo e dichiara assorbito il terzo; cassa l’impugnata decisione in relazione all’accoglimento del ricorso principale e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da ZZZ con riferimento all’atto di impugnazione della delibera dell’assemblea dei soci del Consorzio Monte Gentile di Ariccia; conferma la condanna del ZZZ alla rifusione alla controparte delle spese del giudizio di primo grado; compensa le spese del giudizio di secondo grado e del giudizio di cassazione.

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