Cass. civ. Sez. V, Sent., 10-06-2011, n. 12772 Imposta locale sui redditi – ILOR

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato (nel domicilio eletto in primo grado) alla società di fatto tra S.R. e SE.Ro., l’AGENZIA delle ENTRATE – premesso che (1) "su disposizione della Procura della Repubblica … il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria … di Palermo ha eseguito indagini sul conto di …

S.R. e Ro. per il reato di usura") (2) "dalle indagini è(ra) emerso che gli indagati, oltre a gestire alcune società ed a stornare le relative provviste sui propri conti personali, utilizzavano svariati conti correnti aperti presso vari istituti di credito ed a loro intestati per compiere ingenti movimentazioni finanziarie attraverso operazioni di prestito, di riscossione di assegni e di sconto e rinnovazione di effetti (pagg. 1- 3 del p.v, di constatazione redatto in data 25 giugno 1997)"; (3) "taluni conti intestati agli indagati, residenti entrambi nel Comune di (OMISSIS), erano aperti presso gli stessi istituti di credito (Banco di Sicilia e Banca del Popolo, pagg. 1 e 2 p.v.c.)";

(4) "dall’esame dei conti i verbalizzanti desumevano la sostanziale fungibilità dell’uno rispetto alle operazioni compiute dall’altro (pag. 3, righi 15 e 16, p.v.c.)"; (5) "nel corso delle indagini veniva acquisita la deposizione di … C.P. (contabile delle società gestite dai S.), L.G. (ex amministratore di una di tali società) e S.G. (cliente debitore degli indagati), i quali concordemente dichiaravano che i S. (al plurale) gestivano una contabilità parallela per svolgere, accanto alle attività ufficiali, una attività finanziaria occulta, praticando tassi usurai del 60% annuo circa (pag. 12 p.v.c.)"; (6) "sulla base delle prove raccolte, con sentenza del 25 luglio 1996 il Tribunale di Termini Imerese irrogava ai …

S., su richiesta da essi stessi formulata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la pena di anni uno e mesi due di reclusione e di L. 2.000.000 per i reati di cui agli artt. 62 bis, 81 cpv., 110, 612, 56, 629, 640, 644 e 644 bis c.p. (pag. 2 del p.v.c.)"; (7) "sulla base di autorizzazione ad utilizzare a fini fiscali i dati risultanti dall’indagine penale rilasciata dal competente Procuratore della Repubblica in data 13 giugno 1997, la Guardia di Finanza ha intrapreso una verifica fiscale nei confronti di … S. R. e Ro., quali soci di una società di fatto costituita e gestita occultamente per svolgere attività usuraie illecite": "i verbalizzanti hanno ricostruito tutti i flussi finanziari risultanti dai conti a loro intestati, hanno eliminato le operazioni neutre (quali i giroconti) ed hanno ipotizzato la produzione di un reddito di impresa in misura pari al 60% degli accreditamenti (così depurati) risultanti dai predetti conti"; (8) "sulla base delle rilevazioni della Guardia di Finanza" l’Ufficio "ha notificato alla s.d.f. S.R. e Ro. un avviso di accertamento per l’anno 1994 ai fini ILOR, contestando un reddito non dichiarato di L. 652.871.000 quale importo degli interessi usurari percepiti al tasso del 60% sul capitale impiegato di L. 1.088.117.000 risultante dall’analisi dei conti bancari", in forza di due motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 83/04/05 della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia (depositata il 20 ottobre 2005) che aveva respinto l’appello dell’Ufficio avverso la decisione (445/12/98) della Commissione Tributaria Provinciale di Palermo la quale aveva accolto il ricorso ritenendo "non sussistente la … società di fatto".

L’intimata non svolgeva attività difensiva.
Motivi della decisione

p. 1. La sentenza impugnata.

A. La Commissione Tributaria Regionale premette:

– "l’Ufficio … notificava a S.R. ed a Ro. quali soci di una società di fatto tra gli stessi intercorrente avviso di accertamento con il quale veniva determinato, a carico della società, un reddito netto di capitale per l’anno 1994 di L. 652.871.000 con una conseguente imposta ILOR di L. 105.765.000 oltre le sanzioni";

– "l’avviso di accertamento era basato sulle risultanze di un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza in data 25 giugno 1997, nel corso delle indagini svolte su delega del Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Termini Imerese ai fini della ricostruzione dei flussi finanziari riconducibili ai soggetti sopraindicati";

– " S.R. e Se.Ro. hanno impugnato l’avviso di accertamento" (a) "contestando l’esistenza della società di fatto" ("erroneamente ipotizzata … sulla scorta di elementi indiziari quali la docmentazione bancaria e le dichiarazioni rese da certo C.P."), (b) eccependo (b1) che "l’avviso di accertamento era illegittimo perchè motivato solo per relationem al verbale della Guardia di Finanza, la quale nel corso degli accertamenti non aveva osservato le disposizioni in materia di assistenza all’imputato" ("tra l’altro due dei conti correnti esaminati erano cointestati a persone estranee alle indagini"), (b2) che "il verbale di constatazione ed il conseguente accertamento si fondavano su dichiarazioni rese da terzi in base alle quali veniva determinata la pretesa tributaria" e (b3) che "fino alla data del 7 marzo 1994 (data della sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite) i proventi di attività illecita non costituivano reddito tassabile";

– "l’Ufficio … ha proposto appello" (a) contestando "le motivazioni della sentenza in ordine al disconoscimento dell’esistenza della società di fatto" e (b) ribadendo "la validità del proprio accertamento basato sulle risultanze della verifica della Guardia di Finanza, nonchè la tassabilità dei proventi derivanti da attività illecita";

– " S.R. e Se.Ro. non si sono costituiti in questo grado".

B. La Commissione Tributaria Regionale, quindi, ha respinto l’appello osservando:

(a) sull’"esistenza" della "società di fatto tra i contribuenti" che, secondo l’Ufficio "emergerebbe dalla circostanza che i S. operavano nel settore economico e finanziario utilizzando società regolarmente costituite ed operanti secondo criteri formali di conformità alla normativa che disciplina il settore e contemporaneamente utilizzavano i conti correnti personali per finanziare operazioni illecite" ed in ordine alla quale "non sarebbe necessaria una manifestazione di volontà espressa" essendo "sufficienti degli atti all’esterno apprezzabili come sociali, in quanto il contratto societario si può perfezionare per effetto del comportamento dei soci (rectius soggetti) corrispondente al contenuto del contratto di cui all’art. 2247 c.c." ("i S., secondo l’Ufficio, avrebbero compiuto volontariamente atti all’esterno apprezzabili come sociali"), che "la ricostruzione operata dall’Ufficio … non sembra sor-retta da un ragionamento logico- giuridico" perchè:

(a1) "la configurabilità di una società di fatto deve risultare chiaramente da prove specificatamente riguardanti i suoi requisiti tipici, quali la costituzione di un fondo comune, l’attività comune, la partecipazione agli utili ed alle perdite, il vincolo di collaborazione tra i soggetti", cioè "elementi tutti che non sembrano risultare dagli atti di causa"; "mancano, inoltre, o non sono provate, manifestazioni esteriori dell’attività di gruppo che per la loro sistematicità e concludenza evidenzino l’esistenza della società, anche nei rapporti interni"; peraltro "in caso di società di fatto che si assume sussistere fra consanguinei (nella specie i presunti soci sono padre e figlio) la prova del vincolo societario deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostante evidenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicchè di regola non è sufficiente l’attività di impresa in comune per ipotizzare una società di fatto, in quanto può trattarsi di atti spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (Cass. … n. 6770 del … 1996)";

(a2) "nel caso … manca anche qualsiasi elemento che possa fare presumere l’affectio societatis che è l’intenzione dei soggetti di vincolarsi e di collaborare per conseguire risultati patrimoniali comuni nell’esercizio collettivo di una attività imprenditoriale", ovverosia "mancano … non solo elementi concreti che possano provare l’esistenza della società di fatto fra i S., ma anche semplici elementi che possano essere assunti come presunzioni semplici che, come hanno sostenuto i primi giudici, non essendo dotate del carattere di specialità della presunzione legale, debbono avere il carattere della precisione e concordanza, in presenza di elementi coordinabili") per il giudice a quo, quindi, "la tesi dell’appellante … è fondata su fatti meramente indiziari, in quanto non solo manca il fondo comune, ma i conti correnti bancari controllati sono individuali e non cointestati ai due soggetti ed alcuni, addirittura, sono cointestati con altri soggetti non coinvolti nell’indagine della guardia di finanza";

(b) sull’"accertamento bancario", che "dal processo verbale di constatazione risulta soltanto il giro di affari complessivo annuo, senza alcuna indicazione relativa alle singole operazioni che hanno interessato i conti" ("nè risulta dagli atti di causa che l’Amministrazione finanziaria abbia esaminato i singoli movimenti o che di essi abbia chiesto notizie al contribuente in modo da porlo nelle condizioni di fornire eventuali valide giustificazioni sulla natura dei movimenti stessi");

(c) "la determinazione degli interessi attivi che l’appellata avrebbe percepito è discutibile in quanto per poterli quantificare sono necessari tre parametri, e cioè il capitale, il tempo ed il tasso, e tutti e tre debbono essere certi" mentre "nel caso" (c1) "l’ammontare del capitale non è certo in quanto la sommatoria dei movimenti bancari non rappresenta il capitale impiegato" ("basterebbe, ad esempio, versare e prelevare giornalmente un euro, ed a fine anno risulterebbe una movimentazione in entrata di 365,00 Euro ed altrettanto in uscita, mentre il capitale impiegato sarebbe soltanto di un Euro: l’Amministrazione ha calcolato, invece, gli interessi sulla intera movimentazione"), (c2) "il tempo non è certo in quanto l’impiego può essere avvenuto per un giorno come per l’intero anno, il che non emerge dagli atti di causa" e (c3) "il tasso non è certo ma soltanto presunto".

In definitiva, per la Commissione Tributaria Regionale:

"le presunzioni dell’Ufficio sono carenti degli elementi di certezza, presunzione e concordanza e non possono essere prese a base dell’accertamento impugnato" e "l’accertamento … appare … non motivato e privo degli elementi necessari per sostenerlo, anche perchè, per la determinazione del reddito l’Ufficio si è basato sulle dichiarazioni rese nel corso delle indagini da soggetti terzi, ed in particolare da quelle rilasciate da tale C.P., dichiarazioni che non possono trovare ingresso nel processo tributario stante l’esplicito divieto posto alla testimonianza dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7". p. 2. Il ricorso dell’Agenzia.

L’Agenzia – esposto aver " R. e Se.Ro." ("presunti soci della società") contestato "la sussistenza della società di fatto ipotizzata dai verbalizzanti" nonchè "dedotto" (1) che "l’impugnato avviso di accertamento sarebbe illegittimo perchè motivato per relationem al p.v.c. della Guardia di Finanza", (2) che "nella verifica fiscale non sarebbero state osservate le disposizioni in materia di assistenza dell’imputato", (3) che "l’accertamento si basava su dichiarazioni di terzi, asseritamente non utilizzabili" e (4) che "all’epoca dei fatti i proventi di attività illecita non costituivano reddito tassabile" – impugna la decisione per due motivi.

A. Con il primo la ricorrente denunzia "violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, dell’art. 2247 c.c., e segg., e art. 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 654 c.p.p.", nonchè "insufficiente ed illogica motivazione su punti decisivi della controversia", esponendo:

– poichè "l’accertamento dell’Ufficio è fondato su alcune circostanze che devono ritenersi assolutamente pacifiche, perchè mai contestate" ("in particolare … la circostanza che … S. R. e Ro. abbiano movimentato ingentissime risorse finanziarie per svolgere attività di finanziamento ad interessi usurai", come "risulta inequivocabilmente" dall’"analisi dei conti bancari ad essi intestati" e dalla "sentenza penale di condanna"), l’"affermazione dei giudici tributaria secondo cui l’Amministrazione avrebbe dovuto provare in termini particolarmente rigorosi l’esistenza di una società di fatto tra i due imputati di tale illecita attività attraverso elementi e circostanze evidenti … specificamente riguardanti i suoi requisiti tipici, quali la costituzione di un fondo comune, l’attività comune, la partecipazione agli utili e alle perdite, il vincolo di collaborazione tra i soggetti, nonchè attraverso manifestazioni esteriori dell’attività di gruppo che per la loro sistematicità e concludenza evidenzino l’esistenza della società, anche nei rapporti interni", "appare manifestamente illogica" in quanto, dovendo "il rigore della prova … essere posto in relazione con la natura dei fatti da provare", "nel caso di svolgimento di un’attività penalmente illecita" ("quale è pacificamente quella svolta dai …

S.") "è assurdo pretendere che il loro accordo si dovesse esteriorizzare in forme evidenti ed attraverso manifestazioni che per la loro sistematicità e concludenza evidenzino l’esistenza della società" in quanto "lo svolgimento di un’attività penalmente illecita si realizza per sua natura in forme occulte" per cui "non ha senso pretendere elementi evidenti e manifestazioni esterne dell’accordo associativo, sotto pena di rendere sostanzialmente impossibile la prova che si intende fornire": "nel contesto sopra descritto", quindi, "i giudici tributar avrebbero dovuto esigere prove meno apparenti e avrebbero dovuto meglio valorizzare, secondo il comune buon senso, gli elementi presuntivi emersi nel caso";

– "questi elementi sono stati integralmente trascurati dai giudici a quibus, che si sono limitati ad esprimere inconferenti considerazioni astratte sul rigore della prova che avrebbe dovuto essere fornita dall’Ufficio": "in particolare, la C.T.R. non ha considerato lo stretto rapporto di parentela esistente tra i … S.; la ristrettezza dell’ambiente nel quale operavano; l’identità del disegno delittuoso da essi posto in essere; la coincidenza delle condizioni di spazio e di tempo in cui essi hanno operato l’attività illecita loro ascritta; il contenuto delle concordi dichiarazioni rese da … C., L. e S.G. (certamente ammissibili nel rito tributario, per le ragioni che saranno meglio esplicitate nel successivo motivo di gravame), che hanno imputato promiscuamente ai … S. l’attività usuraia posta in essere";

– "tutte queste circostanze apparivano logicamente idonee a far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, l’esistenza di un pactum societatis, ancorchè non formalizzato in atti esteriori".

La ricorrente aggiunge che "la C.T.R. ha … del tutto ignorato l’esito del processo penale celebrato a carico dei … S., sebbene l’art. 654 c.p.p. , correttamente interpretato, consentisse loro di trarre elementi di valutazione e di giudizio": "in particolare, essi hanno ignorato che ai … S. è stata contestata l’ipotesi del concorso, ex artt. 81 e 110 c.p.p., e che la condanna loro inflitta ha riconosciuto la sussistenza del rapporto associativo"; "la circostanza che la condanna sia stata emessa a seguito di patteggiamento, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., implica anzi il sostanziale riconoscimento di tale circostanza da parte degli stessi imputati" ("l’omessa considerazione di questi elementi rilevanti integra certamente il vizio di violazione degli artt. 115 c.p.c. e 654 c.p.p. nonchè quello di omesso o insufficiente esame di punti decisivi della controversia").

B. Con l’altro motivo l’Agenzia censura l’affermazione della "C.T.R." secondo cui "l’accertamento sarebbe illegittimo anche perchè l’Ufficio avrebbe indebitamente determinato il reddito percepito nella misura del 60% dei capitali affluiti sui conti bancari dei …

S., mediante l’indebita utilizzazione delle dichiarazioni rese ai verbalizzanti dai testimoni sentiti" e denunzia "violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1972, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, e art. 39, comma 2, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7", oltre che "insufficiente ed illogica motivazione su punti decisivi della controversia", sostenendo che "l’accertamento avrebbe dovuto essere confermato anche nel quantum" perchè:

– "i giudici a quibus non hanno considerato che la determinazione del reddito mediante applicazione del tasso di interesse del 60% sull’ammontare dei versamenti affluiti sul conto, ha costituito una misura di favore per la società di fatto, perchè l’Ufficio era legittimato a recuperare a tassazione l’intero importo dei versamenti risultanti dai conti bancari, secondo il disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1";

– "la sentenza impugnata è manifestamente illegittima nella parte in cui nega validità probatoria alle concordi dichiarazioni rese dai testi sentiti dalla Guardia di Finanza in merito all’ammontare del tasso di interesse applicato (5% mensile circa)" in quanto (2) "la mancata dichiarazione dei redditi illecitamente percepiti legittimava l’Ufficio ad effettuare l’accertamento in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, ricorrendo anche ad elementi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza" e (2) "l’utilizzazione delle dichiarazioni rese dai recte: ai verbalizzanti" è "perfettamente legittima" perchè "il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, si limita a vietare la testimonianza come mezzo istruttorie e non pure come prova in senso sostanziale (cfr., tra le tante, Cass., 25 marzo 2002, n. 4269; Cass., 15 novembre 2000, n. 14774; Cass., 19 dicembre 1997, n. 12854; nonchè Corte Cost., 21 gennaio 2000, n. 18)". p. 3. Le ragioni della decisione.

Il ricorso deve essere accolto perchè fondato.

A. Dalla sentenza impugnata, invero, si evince che il giudice di appello pone a base della sua decisione, essenzialmente, l’affermazione (chiarificatrice, quand’anche espressa in fine della motivazione, della ratio effettiva che lo ha ispirato) secondo cui "l’accertamento … appare .., non motivato e privo degli elementi necessari per sostenerlo, anche perchè, per la determinazione del reddito l’Ufficio si è basato sulle dichiarazioni rese nel corso delle indagini da soggetti terzi, ed in particolare da quelle rilasciate da tale C.P., dichiarazioni che non possono trovare ingresso nel processo tributario stante l’esplicito divieto posto alla testimonianza dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7".

Il richiamo a tale "divieto" evidenzia la mancata considerazione delle "dichiarazioni rese nel corso delle indagini da soggetti terzi" e, quindi, in sostanza, la (volontariamente, perchè ritenuta oggetto di allegazione inutilizzabile) omessa considerazione degli elementi probatori offerti dall’Ufficio a suffragio della sua pretesa fiscale, anche quanto all’esistenza di una società di fatto tra padre e figlio.

Siffatto richiamo, però, mostra, altresì, l’erronea ricognizione della effettiva latitudine della norma di cui al comma 4 (numerazione originaria) del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 (per il quale nel processo tributario "non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale") essendo pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass., trib., 10 marzo 2010 n. 5746, la quale richiama "Cass. n. 903 del 2002 e n. 9402 del 2007", ex multis) che il "divieto" detto – diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata – "si riferisce" soltanto "alla prova testimoniale da assumere nel processo" ("che è necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio" ~) ma "non implica… l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da "terzi" e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente-parte e l’Erario": "tali dichiarazioni", infatti, hanno comunque "il valore probatorio proprio degli elementi indiziari" per cui "danno luogo a presunzioni" (costituenti prove dei fatti ex art. 2727 cod. civ., e segg.) "qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c.".

La "natura e la valenza di elementi indiziari, nel processo tributario, del contenuto delle dichiarazioni" dette, inoltre, "non muta" sia che l’"acquisizione delle dichiarazioni di terzi sia realizzata in via diretta in fase di verifica" sia nel caso in cui si utilizzino "come fonte gli atti di un giudizio civile openale".

Il giudice tributario, infatti (Cass., trib., 14 maggio 2010 n. 11785), "nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione … del materiale probatorio acquisito agli atti ( art. 116 cod. proc. civ.)", deve ("in ogni caso") verificare la "rilevanza" di quel "materiale" (anche di quello penale) nell’"ambito specifico" (tributario) "in cui esso è destinato ad operare".

B. Del pari giuridicamente erronee si palesano le considerazioni svolte dal giudice di secondo grado in ordine all’"accertamento bancario" ("dal processo verbale di constatazione risulta soltanto il giro di affari complessivo annuo, senza alcuna indicazione relativa alle singole operazioni") atteso che le stesse, nella sostanza, fanno "malgoverno" (Cass., trib., 13 settembre 2010 n. 19493) dei "seguenti consolidati principi":

– "i dati raccolti dell’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 39, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività (v., tra le molte, Cass. 11 gennaio 2008 n. 430;

Cass. 13 febbraio 2006 n. 3115; Cass. 29 maggio 2003 n. 8614; Cass. 29 marzo 2002 n. 4601)";

– detta "presunzione legale … vincola l’Ufficio tributario ad assumere per certo che i movimenti bancari effettuati sui conti correnti intestati al contribuente siano a lui imputabili, senza che risulti necessario procedere all’analisi delle singole operazioni, la quale è posta a carico del contribuente, in virtù dell’inversione dell’onere della prova (Cass. 7766/08; 2821/08; 7329/03; 7267/02;

15447/01)".

Le medesime norme, ancora (Cass., trib., 21 gennaio 2009 n. 1452, ex multis), "autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari tra i quali può assumere rilievo decisivo la mancata risposta del contribuente alla richiesta di chiarimenti rivoltagli dall’Ufficio in ordine ai medesimi conti, e senza che l’utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest’ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un’altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale, quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame (V. pure Cass. Sentenze n. 27032 del 21/12/2007, n. 18421 del 2005, n. 6232 del 2003)": in particolare, in base alle richiamate disposizioni, "devono ritenersi legittime" le "indagini bancarie estese ai congiunti del contribuente persona fisica" ("ovvero a quelli degli amministratori della società contribuente") essendo "il rapporto familiare sufficiente a giustificare, salva prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari degli indicati soggetti".

C. Nella giurisprudenza di questa Corte, ancora, è "pacifico" (Cass., un., 31 luglio 2006 n. 17289, da cui gli excerpta, nonchè, ex multis, Cass., trib.: 3 dicembre 2010 n. 24587; 3 agosto 2007 n. 17105; 21 dicembre 2007 n. 27022; 22 marzo 2006 n. 6380; 30 settembre 2005 n. 19251; 19 dicembre 2003 n. 19505) che "la sentenza penale emessa a seguito di patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p., costituisce un importante elemento di prova nel processo civile" (atteso che "la richiesta di patteggiamento dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato") per cui "il giudice, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua responsabilità non sussistente e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (cfr. le sentenze di questa Corte n. 2213 del 1 febbraio 2006 e n. 19251 30 settembre 2005)": "la sentenza di applicazione di pena patteggiata", infatti, "pur non potendosi tecnicamente configurare come sentenza di condanna (anche se è a questa equiparabile a determinati fini), presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dall’onere della prova (Cass. 5 maggio 2005, n. 9358)".

D. Una "società di fatto", per scolastica nozione, si forma per facta concludentia e, se costituita per svolgere (e/o se ha svolto) attività commerciale (quale definita nell’art. 2195 cod. civ.), è regolata dalle disposizioni dettate per la società in nome collettivo irregolare dall’art. 2297 cod. civ., il quale (al comma 1), per quanto concerne "i rapporti tra la società e i terzi" (quindi anche quelli con il fisco), rinvia ("sono regolati dalle") alle "disposizioni relative alla società semplice", lasciando comunque "ferma" la "responsabilità illimitata e solidale tra tutti i soci".

In sintesi: nella società di fatto "qualunque obbligo sociale, in qualunque modo sorto, fa nascere nel socio l’obbligo corrispondente" (Cass., 1^, 11 maggio 2005 n. 9917, che ricorda "Cass. 17 gennaio 2003 n. 613").

Conseguentemente va ribadito il principio secondo cui (Cass., trib., 9 maggio 2007 n. 10584) "nella società in nome collettivo" (il cui regime, come detto, regola anche la società di fatto svolgente attività commerciale) "tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali di ogni specie, tra cui anche le obbligazioni legali e quelle tributarie, fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento, che non e opponibile ai terzi fino alla sua idonea conoscibilità".

E. Il D.P.R. dicembre 1986, n. 917, art. 5, comma 1, come noto, dispone che "i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili".

Il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, a sua volta, dopo aver definito (all’art. 1, comma 1) il "presupposto dell’imposta locale sui redditi" (ILOR) come "il possesso di redditi in denaro o in natura, continuativi od occasionali, prodotti nel territorio dello Stato, ancorchè esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche o dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche", alla lett. b) del secondo comma del medesimo art. 1 esclude espressamente "dall’imposta … i redditi derivanti dalla partecipazione in società di ogni tipo e dalla partecipazione in enti soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche".

Il citato D.P.R. n. 599 del 1973, art. 2, comma 1, infine, qualifica "soggetti passivi dell’imposta", per quanto qui rileva, "le persone fisiche, le società di ogni tipo, comprese le società semplici, in nome collettivo e accomandita semplice …".

Dal coordinato disposto di tali norme discende che, in ipotesi (quale quella di specie) di "società di fatto" tra due o più soggetti, l’ILOR fa carico alla società mentre l’IRPEF (o l’IRPEG se uno dei soci di fatto è una società regolare) deve essere corrisposta dal singolo socio "proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili".

Per le medesime norme, inoltre, le "persone fisiche" che siano in "possesso di redditi in denaro o in natura, continuativi od occasionali" sono obbligate al pagamento dell’ILOR anche per i "redditi" che siano "esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche o dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche": se detti "redditi" non sono "esenti" da IRPEF (od IRPEG), il contribuente (nel concorso dei presupposti di legge) è obbligato al pagamento sia dell’ILOR che dell’IRPEF (od IRPEG) sui medesimi.

F. Dalla coordinazione logico-giuridica dei principi richiamati ai punti D. ed E. che precedono discende che:

(a) in ipotesi di accertata esistenza di una società di fatto tra più "persone", queste sono "soggetti passivi" ("proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili" di ognuna) soltanto dell’imposta sui redditi perchè la società è soggetta passiva dell’ILOR, mentre (b) in ipotesi di accertata inesistenza di quella società, il soggetto passivo di entrambe le imposte per il reddito prodotto dall’attività economica ascritta (in origine) alla società di fatto (risultata inesistente) va individuato (nei limiti quantitativi, ovviamente, della contestazione dell’Ufficio) nella persona cui sia riconducibile quell’attività: la mancanza, nella società di fatto, di una personalità distinta da quella dei (pretesi) soci, infatti, impone di ritenere comunque riferita (già nella contestazione dell’Ufficio) individualmente, quindi anche ad ogni ipotizzato socio, l’avvenuto svolgimento di quell’attività economica produttiva di reddito imponibile e, di conseguenza, l’assunzione ex lege, da parte del medesimo, della qualità di soggetto passivo di entrambe le imposte.

G. In ordine alla imponibilità del reddito tratto da attività lato sensu) illecita, infine, "la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ripetutamente affermato" Cass., trib., 13 novembre 2006 n. 24192, la quale ribadisce l’"orientamento confermato da numerosa giurisprudenza anche successiva all’entrata in vigore della L. n. 212 del 2000 (v. Cass. n. 21746 del 2005 e n. 13335 del 2003)" che la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 13, comma 4 (secondo cui "nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria") "è da ritenersi norma di interpretazione autentica del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, con la conseguenza che sono retroattivamente tassabili anche i proventi derivanti da illecito, includendo perciò nel reddito imponibile perfino il prezzo del reato, obbligatoriamente soggetto a confisca (quando essa non sia stata adottata), dovendo altresì ritenersi tale disposizione interpretativa, ancorchè non vincolante rispetto alla precedente disciplina ( D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, artt. 1 e 6 e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, ari 1), criterio ermeneutico influente, alla stregua della sostanziale identità della stessa in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione, così arrivando a considerare imponibili i proventi di qualsivoglia attività illecita anche nel vigore della normativa antecedente al citato D.P.R. n. 917 del 1986 (v. tra le altre Cass. 19 aprile 1995, n. 4381)".

Sul tema, inoltre, questa sezione (sentenza 7 agosto 2009 n. 18111), ribadita la natura interpretativa "applicabile quindi retroattivamente anche alla fattispecie in esame (Cass. 13213/2007;

conf. 21746/2005, 13335/2003)" del comma 4 dell’art. 13 detto e richiamata la "sentenza n. 8041 depositata… il 25 marzo 2008", ha specificato che "il problema della corretta qualificazione del reddito derivante da attività illecita (per sua natura di più difficile classificazione, a causa della imprevedibilità dei percorsi della criminalità economica non può costituire pretesto per escludere la tassazione quando non vi sia una perfetta sovrapponibilità con le categorie reddituali tipizzate secondo i canoni delle attività legali, rilevando che l’eventuali margini di oscillazione sono fisiologici, ma non per questo possono privilegiare i proventi da illecito considerandoli non tassabili". p. 4. Provvedimenti finali.

In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata perchè affetta dagli evidenziati errori giuridici i quali si sono riverberati, in maniera determinante e decisiva, sulla valutazione del complessivo materiale probatorio offerto dall’Ufficio a sostegno della pretesa fiscale, anche quanto (a) alla sussistenza di una società di fatto tra padre e figlio per lo svolgimento dell’attività di prestito di danaro ad interessi e (b) alla misura degli interessi percepiti; la causa, siccome bisognevole dei necessari accertamenti fattuali, va, quindi, rinviata a sezione della Commissione Tributaria Regionale diversa da quella che ha emesso la decisione annullata affinchè la stessa (1) valuti detto materiale, nonchè quello (eventualmente) offerto dai contribuenti, in conformità a tutti i principi di diritto innanzi richiamati e (2) provveda a regolare le spese processuali di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-06-2011, n. 14447 Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

r l’estinzione del ricorso proposto da G. M. per intervenuta rinuncia.
Svolgimento del processo

1) Nel 1999 G.L. e G.M. chiedevano congiuntamente ai sensi dell’art. 2932 c.c. il trasferimento delle proprietà immobiliari oggetto di due distinti contratti preliminari, stipulati l’il dicembre 1998 e il 31 dicembre 1998 con Z. P., quale procuratore di Z.M., nelle more deceduto.

Evocavano in giudizio Z.P., Z.C. e D. B., erede testamentaria del de cuius.

Il tribunale di Gorizia rigettava sia le domande degli attori, sia la riconvenzionale della D., volta a far accertare la nullità dei preliminari, recanti data falsa, e in subordine l’annullabilità dei contratti anche ai sensi dell’art. 428 c.c., in relazione allo stato di salute del de cuius alla data indicata dai contratti.

La Corte d’appello di Trieste, adita dagli attori, contumace Z. P. – citato in proprio e nella qualità di erede di Z. C. – rigettava l’appello il 29 luglio 2005, con sentenza notificata il 5 dicembre successivo e impugnata con ricorso per cassazione il 2 febbraio 2006.

D.B. ha resistito con controricorso. Lo Z. è rimasto intimato.

Con atto depositato il 27 luglio 2006, la sola G. rinunciava al ricorso, che si articola in 4 motivi ed è resistito da controricorso illustrato da memoria.
Motivi della decisione

2) In primo luogo va dichiarata l’estinzione del giudizio instaurato da M.G., che ha rinunciato al ricorso, rinuncia accettata, con espressa adesione alla compensazione delle spese, dalla controparte costituita.

3) Il primo motivo di ricorso risulta assorbito da tale pronuncia, poichè riguardava esclusivamente la posizione della G. e in particolare la qualificazione dello stesso quale contratto definitivo di vendita anzichè quale preliminare.

4) Il secondo motivo censura la dichiarazione di inammissibilità della domanda di nullità del testamento olografo di P. Z. per incapacità ex art. 428 c.c..

La Corte ha ritenuto che tale domanda, proposta con memoria ex art 180 c.p.c. dopo la costituzione della D., fosse nuova e inammissibile. Ha osservato che essa non era correlata, nè resa necessaria, dalla domanda riconvenzionale di nullità della procura a vendere rilasciata dal de cuius. Il testamento risaliva infatti al 1996 e non si poteva inferire dalla circostanza che Z. stesse male nel 1998 (allegata dalla D.) il fatto che stesse male anche prima di tale data. Dunque se i G. – G. intendevano contestare la nullità del testamento per incapacità naturale risalente già al 1996 avrebbero potuto e dovuto introdurre tale domanda sin dall’avvio della causa e non introdurla quale reconventio reconventionis.

L’odierno ricorso afferma che la domanda proposta nella memoria ex art. 180 c.p.c. era strettamente correlata alla riconvenzionale, ma tale affermazione è del tutto apodittica. Invano si sostiene che se la D. avesse provato l’incapacità naturale dello Z. nel 1998, al momento del rilascio della procura, il relativo accertamento di incapacità si sarebbe dovuto spingere fino al momento di redazione del testamento.

Come ha rilevato la Corte territoriale, non vi è congruenza logica in questa tesi, ben potendo anzi una persona anziana, ancora integra e capace nel 1996, ammalarsi e declinare due anni dopo, restando così del tutto separati i profili, anche fattuali, delle due controversie.

5) La terza censura lamenta che sia stato respinto il motivo di appello che lamentava ultrapetizione, con riferimento alla qualificazione della D. quale erede di Z., resa in via incidentale dal tribunale e confermata dalla Corte territoriale.

Secondo il ricorrente l’azione proposta ex art. 2932 c.c., prescindeva dalla qualifica di erede riconosciuta alla resistente, contro la quale la domanda era stata proposta solo perchè ella risultava proprietaria intavolata dell’immobile.

Il motivo è infondato. Incidentalmente era necessario per i giudici di merito qualificare l’interesse a resistere della convenuta, che, in qualità di erede, succedeva al dante causa quale controparte contrattuale degli attori. Tale accertamento comportava significative conseguenze probatorie in ordine alla prova della falsità della data della procura a vendere rilasciata dal de cuius a P. Z., il quale in forza di detta procura aveva promesso il bene al G..

Inoltre la D. aveva svolto rituale domanda riconvenzionale volta a conseguire il pagamento di canoni di locazione, domanda in funzione della quale era parimenti necessario stabilire la qualità di erede dell’attrice in riconvenzionale.

6) L’ultimo motivo lamenta con un primo profilo vizi di motivazione sulla prova della veridicità (o falsità) della data apposta nel contratto stipulato dal G..

Sotto un secondo profilo violazione dell’art. 345 c.p.c. "in relazione alla prova per testi formulata in appello". La sentenza impugnata ha ritenuto che la firma del contratto tra G. e lo Z. (quale abusivo rappresentante del de cuius) sia avvenuta dopo la morte del rappresentato, con la conseguente invalidità del contratto.

A tal fine ha ritenuto confluire più elementi di prova: a) il fatto che nel contratto si facesse menzione di un’operazione – la picchettatura del terreno – che si è accertato essere avvenuta successivamente; b) il comportamento dello Z., il quale (secondo due testimoni) dopo la morte del de cuius si era attivato per tentare di vendere l’immobile, pur senza più poteri procuratori, perchè convinto di essere erede e si indusse a far ricorso a un falso dopo la pubblicazione del testamento che deludeva le aspettative; c) la necessaria cooperazione del G. alla falsità della data, cooperazione sintomaticamente provata d) dalla circostanza che l’acquirente avesse sostenuto di aver versato ben L. 340 milioni in contanti, senza indicare le fonti di approvvigionamento e senza che sia stata specificata la destinazione della somma.

La Corte d’appello ha inoltre negato l’ammissibilità della prova testimoniale, offerta solo in grado di appello, circa l’avvenuta esecuzione di una picchettatura informale già in data anteriore alla stipula.

A fronte di questa coerente e logica lettura delle risultanze di causa, parte ricorrente espone solo congetture prive sia di riscontro negli atti, sia di portata probatoria atta a scalfire la decisione sul punto decisivo della data di redazione del contratto post mortem.

Tanto si può dire della illazione tratta dal fatto che nel contratto G. non fosse menzionato il nome del geom. M. autore della picchettatura dopo il 18.12.1998.

E di ancor minore rilevanza è la deduzione secondo la quale il G. disponeva di tanto danaro contante a disposizione perchè era un imprenditore edile dedito agli affari, posto che è fuori da ogni ragionevolezza non depositare in banca una somma così ingente, esponendosi quantomeno al rischio di furti e alla perdita di ingenti interessi.

Inoltre la ricostruzione logica circa la falsificazione della data di stipula viene confutata perchè ritenuta carente di prova e si afferma invece che C. e Z.P. erano venuti a conoscenza del testamento a favore di B. solo nell’aprile 2009 e fino a quella data avrebbero potuto stipulare i rogiti quali (supposti) eredi anzichè adoperare la procura, circostanze che nulla dimostrano e che anzi sono coerenti logicamente con la tesi opposta, della retrodatazione della vendita al fine di sottrarre il bene all’erede testamentaria.

Quanto alla prova che picchettatura, piano di frazionamento e appuntamento dal notaio fossero stati presi prima della morte del de cuius (circostanze sub d), pag. 15 del ricorso) si tratta di mere enunciazioni non supportate da riscontri probatori acquisiti e indicati in ricorso.

Resta da dire infine che la mancata ammissione delle prove testimoniali (relativa alla picchettatura secondo la sentenza) non è adeguatamente censurata, giacchè, in aperta violazione dei criteri di formulazione del ricorso per cassazione, non viene riportato il testo dei capitoli di prova dedotti. Tale adempimento è imprescindibile al fine di consentire alla Corte di valutarne la decisività e di verificare se si trattasse di capi di prova indispensabili ex art. 345 c.p.c.; nè vengono riportati gli atti dai quali desumere – come si sostiene – che la necessità della prova fosse sorta dopo la sentenza di primo grado, tesi peraltro del tutto inverosimile, posto che la questione della falsità era stata introdotta dalla difesa di D.B. sin dalla comparsa di risposta, con il conseguente interesse del G. di addurre immediatamente ogni utile circostanza per provare il contrario.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara l’estinzione del giudizio quanto alla ricorrente G.M.. Rigetta il ricorso di G.L..

Condanna quest’ultimo alla refusione in favore della controricorrente delle spese di lite, liquidate in Euro 5.000 (cinquemila) per onorari, 200 per esborsi, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 23-03-2011) 28-04-2011, n. 16571 Reati edilizi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) La Corte di Appello di Palermo, con sentenza in data 1 febbraio 2010, confermava la sentenza del Tribunale di Agrigento del 3.6.2008, con la quale I.S., S.C., V.C., So.Ca., F.L., A.V. erano stati condannati, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di giorni venti di arresto ed Euro 8.000,00 di ammenda ciascuno per il reato di cui all’art. 110 c.p. e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) (capo a), art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, D.P.R. n. 380 del 2001, art. 71 (capo b), art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, D.P.R. n. 380 del 2001, art. 72 (capo c), unificati sotto il vincolo della continuazione.

Riteneva la Corte territoriale, disattendo i motivi di appello, che gli imputati, i quali, in qualità di operai, stavano realizzando l’opera abusiva, concorressero con il proprietario committente nei reati ascritti.

2) Ricorrono per cassazione gli imputati, a mezzo del difensore, denunciando la erronea applicazione dell’art. 110 c.p., art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 71 e 72.

Pur essendo possibile astrattamente il concorso nei reati (propri) edilizi, è necessario che la partecipazione all’attività illecita debba essere sorretta da un reale e concreto atteggiamento psichico.

L’elemento soggettivo non può essere presunto, ma accertato specificamente in relazione alla situazione concreta in cui l’attività incriminata si è svolta. Tenuto conto del fatto che i lavori si svolgevano di giorno ed in pieno centro abitato e che non era stata adottata alcuna precauzione, gli imputati versavano in uno stato di erroneo convincimento scusabile,come tale non colpevole. Con il secondo motivo denunciano la contraddittorietà della motivazione in relazione alla affermazione di responsabilità anche per F.L. e A.V., pur non essendo stata accertata una loro effettiva partecipazione alla consumazione dei reati contestati.

3) Il ricorso è infondato.

3.1) E’ indubitabile, come del resto riconoscono anche i ricorrenti, che nel reato "proprio" di cui al D.P.R., art. 44 (la L. n. 47 del 1985, art. 6 ora D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29 fa riferimento ai committenti, costruttori e direttori dei lavori) possa concorrere l’extraneus.

Secondo la giurisprudenza, anche meno recente di questa Corte, formatasi in relazione alla L. n. 47 del 1985, "Sussiste una stretta correlazione tra l’obbligo di condotta imposto dalla L. n. 47 del 1985, art. 6 ai soggetti in esso indicati e le sanzioni d cui all’art. 20 si da configurare il reato di costruzione senza la concessione edilizia, o in contrasto con le prescrizioni urbanistiche o edilizie, come reato "proprio"; invero il precetto penale è diretto non a chiunque, ma soltanto a coloro che, in relazione all’attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto; tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall’art. 6 compreso il sindaco che con la concessione edilizia illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi" (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 996 del 15.10.1988).

E’ necessario, però, che vengano accertate le condizioni, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, per ritenere configurabile il concorso nel reato. Si deve cioè accertare che l’extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa).

3.1.1) La Corte territoriale, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, come tale non sindacabile in sede di legittimità, ha individuato per ciascuno dei ricorrenti l’apporto causale fornito per la realizzazione dell’opera abusiva. Tale apporto è stato accertato anche con riferimento a F.L. e A.V.. Ha considerato, infatti, la Corte che F. sì trovava in strada, nei pressi di un camion bianco, di proprietà della ditta GL. Costruzioni, mentre l’ A. era al quarto piano e manovrava con un telecomando, l’autogrù posizionata sul camion della Ditta Niuova Edilizia Immobiliare. I predetti quindi concorrevano, con il loro contributo, alla realizzazione e quindi partecipavano all’effettuazione dei lavori. Quanto all’elemento psicologico, trattandosi di contravvenzioni è sufficiente la colpa. Ed i giudici di merito hanno rilevato che, con un minimo di diligenza, gli imputati avrebbero potuto accertare che si trattava di lavori abusivi. Già il tribunale aveva osservato che non si era in presenza di lavori in difformità, ma in assenza completa di permesso di costruire, per cui gli imputati erano tenuti ad accertare l’intervenuto rilascio del provvedimento abilitante. Sicchè, ha ulteriormente evidenziato la Corte di merito che è configurabile l’elemento soggettivo della colpa "nel non aver richiesto al datore di lavoro se si fosse munito o meno dei necessari e prescritti permessi di legge". Tale "omissione" non può ritenersi certo "neutralizzata" dal fatto che i lavori si svolgessero in pieno centro e di giorno.

La Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 322/2007, ha ricordato che il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., è rispettato quando si attribuisca "valenza scusante all’ignoranza o all’errore che presenti carattere di inevitabilità: giacchè deve essere mosso all’agente almeno il rimprovero di non aver evitato, pur potendolo, di trovarsi nella situazione soggettiva di manchevole o difettosa conoscenza del dato rilevante", situazione verificatasi nella specie.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 31-03-2011) 12-05-2011, n. 18820 Giudizio abbreviato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – Previa esclusione dell’aggravante loro contestata ( L. n. 47 del 1975, art. 4), la sentenza qui impugnata ha ridotto la pena e gli effetti penali della condanna inflitti agli odierni ricorrenti che erano stati accusati di avere, in concorso tra loro, favorito e sfruttato la prostituzione di alcune donne facendole prelevare dalla loro casa, accompagnare sul luogo di esercizio della prostituzione, controllare (intervenendo in caso di pericolo o per prevenire interventi della polizia) organizzando l’attività anche nei dettagli ed incamerandone i proventi.

Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso ( T. e B. personalmente, S. tramite il difensore) deducendo:

1) violazione di legge con riferimento agli artt. 192 e 266 c.p.p..

Si fa, infatti, notare che le captazioni telefoniche non vedono mai il T. come interlocutore diretto e che, quindi, mancano (come vorrebbe l’art. 192 c.p.p.) indizi precisi univoci e concordanti.

Aggiungasi, poi, che le quattro conversazioni evocate dall’accusa sono avvenute tra soggetti diversi ma le stesse attività di o.p.c. dalla P.G. non hanno portato alcun elemento idoneo a corroborare il quadro indiziario. Non è stata, infine, neanche valutata adeguatamente la deposizione della E. che ha affermato di non essere mai stata sfruttata dal T.;

2) contraddittorietà e/o mancanza di motivazione in quanto la posizione del T. – trattata solo nelle pagg. 8 e 9 della sentenza – concerne solo il commento ai contenuti delle intercettazioni ma in modo difforme dal reale. Ed infatti, la tel.

2314 del 21.5.07 ha un contenuto diverso da quello che le è stato attribuito visto che, contrariamente a quanto si asserisce, la casa nella quale è stato arrestato l’imputato era della Onu e non di E.. Inoltre, anche le altre conversazioni sono "suscettibili di diverse interpretazioni".

S.:

1) violazione di legge ( art. 606 c.p.p., lett. c)). a) con riguardo alla citazione delle persone offese;

c) con riguardo alla declaratoria di tardività della richiesta di giudizio abbreviato.

La prima questione era stata sollevata già in primo grado e la relativa reiezione era stata impugnata anche con l’atto di appello.

In particolare, si fa notare che l’art. 154 c.p.p. richiama espressamente l’art. 157 che, però, nella specie non risulta essere mai stato applicato nonostante i vari luoghi ove tentare le notificazioni non fossero ignoti. E’, pertanto, ininfluente la obiezione dei giudici secondo cui la questione non avrebbe potuto essere sollevata dalla difesa dell’imputato (perchè, trattandosi di citazione della p.o., vi era carenza di interesse) in quanto i vizi nelle citazioni delle persone offese rientrano tra quelli che, ex art. 178, lett. c) avrebbero dovuto essere rilevati di ufficio. Si fa, altresì, notare che le questioni relative alla nullità della p.o. sono rilevanti non solo ai fini della formazione della prova e ad altri aspetti di carattere civilistico ma anche a fini sostanziali (es. l’interesse dell’imputato ad ottenere l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6);

Con riferimento alla seconda questione, si asserisce che la reiezione della medesima questione dinanzi ala Corte d’appello è censurabile perchè ignora l’abnormità del fatto che il G.u.p. aveva posposto la decisione sulla utilizzabilità delle intercettazioni all’esito della c.p., discussione relativa alla richiesta di rinvio a giudizio. Si fa notare, in proposito che la decisione discutibile del G.u.p. si fonda sulla singolare equiparazione della eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni alla formulazione delle conclusioni in udienza preliminare sì che la successiva richiesta di rito abbreviato avrebbe dovuto essere considerata tardiva. Sostiene, per contro, il difensore che evidentemente la difesa non può decidere per un rito alternativo se, previamente, non conosce il compendio probatorio sul quale verrà giudicato;

2) vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e)) in relazione alla valutazione delle prove. La responsabilità dello S. si è basata su poche conversazioni telefoniche e sulle dichiarazioni della P.. Con riferimento a quest’ultima, però, la Corte non spiega perchè ritiene credibile la deposizione della donna visto che ciò che ella riferisce riguarda fatti del tutto slegati e precedenti di tre mesi quelli in contestazione. Quanto alle intercettazioni, non si rinviene nella sentenza impugnata risposta alle doglianze difensive secondo cui, dall’unica conversazione tra l’imputato e la p.o., scaturirebbe la prova della identità dello S. quale sfruttatore.

Il ricorrente denuncia, altresì, illogicità di motivazione in ordine alla sussistenza del fatto di reato avendo la Corte escluso in modo discutibile la tesi che i rapporti tra le parti si potessero giustificare più semplicemente nel quadro di semplice frequentazione e/o amicizia/sentimentale. In sostanza, la Corte non tiene in considerazione le letture alternative proposte dalla difesa. Vi sarebbe, anzi, una evidente contraddizione dovuta al fatto che la Corte ha ritenuto di desumere dalla intercettazioni telefoniche la prova della conferma delle accuse originarie mosse all’imputato ma, contemporaneamente, sulla base di una "diversa" lettura, ha tratto la prova di una sola delle condotte (vale a dire quella in danno della M.).

3) violazione di legge ( art. 606 c.p.p., lett. b) in rel. alla L. n. 75 del 1958, art. 3, n. 8). La Corte descrive una serie di condotte poste in essere dagli imputati senza che in alcuna di esse emergano specificamente elementi a carico dello S.. In particolare, non si precisa per quale ragione il fatto di avere contattato una prostituta in ora notturna chiedendole quanto avesse guadagnato, sia espressivo di condotta di favoreggiamento, tanto più se si considera che l’abitazione nella quale la ragazza viveva era destinata esclusivamente a lei e non anche all’imputato che, dall’attività di meretricio, non avrebbe, quindi tratto alcun vantaggio;

4) vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio. In primo luogo, erano state richiesta le attenuante generiche sul cui diniego non si rinviene valida motivazione e, secondariamente, perchè vi è contraddizione nel fatto di avere rideterminato in melius la pena per l’imputato B. sul presupposto che le circostanze dei fatti "non appaiono caratterizzate da brutalità e violenza" e non avere utilizzato lo stesso criterio per lo S., sebbene valessero le medesime considerazioni;

ha:

1) vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e)) per non essere stata raggiunta la prova della colpevolezza in quanto la deposizione della ragazza straniera accusatrice e le stesse intercettazioni sulle quali si fondano le accuse "si prestano ad una lettura diversa" e "non provano il coinvolgimento" del B.. A tal fine si richiamano i principi giurisprudenziali in tema di obbligo motivazionale.

I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione

Tutti i ricorsi sono infondati. ricorso di T..

Le doglianze sollevate da tale imputato sono ai limiti dell’ammissibilità in quanto, come è possibile evincere dal breve riepilogo dei motivi, di cui sopra, si è in presenza di censure che puntano ad una rivisitazione dei dati fattuali.

2.1. In particolare, sebbene il primo motivo denunci una asserita violazione di legge, nei contenuti, si constata che l’obiettivo è quello di rivalutare i contenuti delle intercettazioni per verificare quali e quante di esse si riferiscano al T. e quale ne sia la portata accusatoria. Analogamente si invoca una diversa considerazione della deposizione di un teste ( E.).

E’, però, fin troppo evidente che questo taglio prospettico è inappropriato in sede di legittimità. Tanto più se si considera che, per contro, la decisione impugnata offre, in relazione alla posizione di T., ampie spiegazioni, del convincimento dei giudici, ancorandole ai dati processuali. Si ricorda, nello specifico, che la identificazione del T. nella persona che, nelle telefonate, viene denominata C. – è ammessa dalla stessa difesa nei motivi di appello (f. s) e che il coinvolgimento dell’uomo con l’attività delle donne è testimoniata, tra le altre, dalle conversazioni n. 2314 (delle ore 17,47 e da quella successiva delle ore 17,56) nelle quali P. commenta l’avvenuto arresto di C. e si fa riferimento alla compagna di C. con l’epiteto "la bionda" di cui si dice che era "protetta da C. che "ne aveva imposto la presenza alle altre senza che dovessero pagare perchè ha fatto lui la legge" (f. 9).

Ed anche a proposito della deposizione della E., replicando alla medesima critica qui mossa, la Corte spiega che l’appellativo "la bionda" "non sembra corrispondere ad un preciso soprannome, ma rappresentare piuttosto un generico riferimento ai connotati fisici della ragazza". A tale stregua, corretta e logica risulta la conclusione della Corte circa la scarsa decisività della testimonianza dell’ E. (che, appunto, aveva escluso di essere denominata "la bionda").

L’attenta disamina dei giudici di merito prosegue anche scandagliando le diverse dichiarazioni a proposito della identificabilità di T. nell’appellativo di " Z." o " Z." e si conclude con la giusta osservazione che le critiche delle difese (dei T. e dei suoi coimputati) circa la "insussistenza della prova di condotte integranti il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione" (f. 10) sono destituite di fondamento perchè basate su citazioni giurisprudenziali risalenti nel tempo e superate da quella linea interpretativa più recente secondo la quale (Sez. 1^, 14.10.07, n. 39928; Sez. 3^, 22.1.08, n. 8387) il reato di favoreggiamento della prostituzione si perfeziona con qualunque forma di interposizione agevolativa e qualunque attività che, anche in assenza di un contatto diretto tra l’agente ed il cliente sia idonea a procurare più facili condizioni per l’esercizio del meretricio.

Non solo, quindi, non corrisponde al vero l’affermazione del ricorrente secondo cui la propria posizione sarebbe stata trattata solo alle pagine 8 e 9, ma si constata, al contrario, che essa è stata sviluppata approfonditamente e fornendo una lettura dei dati processuali ampia e conforme alle linee interpretative della giurisprudenza di questa S.C..

Il vizio denunciato da T. con il primo motivo è, quindi, solo formalmente rappresentato da una pretesa violazione di legge ma, nella sostanza, esso intende lamentare i contenuti non condivisi della motivazione tanto da auspicare una diversa lettura dei dati processuali per trame conseguenze diverse da quelle raggiunte conformemente dai giudici di primo e secondo grado.

2.3. Tutto ciò, ripetesi, non è denunciabile nemmeno – come fatto nel secondo motivo – sotto l’egida del vizio di motivazione perchè, una volta che il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della propria analisi probatoria l’esame dei dati processuali (intercettazioni, dichiarazioni di testi ed imputati, eventuali consulenze e/o perizie ecc.) si esaurisce nella fase di merito essendo preclusa in sede di legittimità (Sez. 2^ 11.1.07, Messina, Rv. 235716) "la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova". ricorso di S..

2.4. (quanto al primo motivo):

a) La questione relativa alla irregolare notifica delle persone offese – sollevata anche dinanzi alla Corte d’appello – è stata già affrontata e risolta dai giudici di merito in modo più che congruo, logico e corretto anche sul piano giurisprudenziale (f. 6) facendosi notare che non vanno confuse "/e finalità proprie della citazione della persona offesa (pertinenti esclusivamente alla tutela dei diritti ad essa spettanti) con gli scopi della citazione dei testimoni, finalizzata – essa si – a garantire la raccolta delle prove nella pienezza del contraddittorio". Si rammentano, poi, quelle decisioni di questa S.C. (Sez. 6^, 11.3.05, n. 12196 e Sez. 6^, 10.4.03, n. 35555) con le quali è stato escluso che l’imputato possa eccepire la nullità derivante dalla omessa citazione della p.o.. In particolare, va ricordato che quest’ultima, pur costituendo una nullità ai sensi dell’art. 178 c.p.p., essa, a norma dell’art. 182 c.p.p., può essere eccepita solo da chi vi abbia interesse "e tale non è l’imputato che conserva sempre al facoltà di citare la persona offesa come teste". In tal modo, si replica implicitamente anche alle considerazioni del ricorrente secondo le quali la semplice "rilevanza" della citazione della persona offesa ai fini degli interessi dell’imputato giustificherebbe la possibilità di formulare la relativa eccezione di nullità. b) anche la questione della tardività della richiesta di abbreviato, è destituita di fondamento perchè, come giustamente ricordano i giudici di merito, "avanzata dopo che la discussione era già stata avviata e dopo che il P.M. ed alcuni difensori avevano già formulato richieste conclusive" risultando, effettivamente "irrilevante" la circostanza che il G.u.p. "avesse affermato di non potersi esprimere preliminarmente sull’utilizzabilità di atti del fascicoletto del P.M., dato che questa presa di posizione non interferiva formalmente con l’ammissibilità o meno del rito abbreviato.

Ed invero, riflettendo sul tema del momento entro cui va richiesto del rito abbreviato, sembra il caso di fare alcune precisazioni considerato anche che questa S.C. si è pronunciata solo due volte sul tema interpretando l’espressione normativa prima indicata in un senso lato che, come si dirà, offre il destro ad equivoci.

Si ritiene, pertanto, di dover fare talune puntualizzazioni che il presente ricorso offre lo spunto per sviluppare brevemente.

Occorre prendere le mosse dal richiamo al dato normativo secondo cui ( art. 438 c.p.p., comma 2), la richiesta può essere proposta "….fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422".

Secondo Sez. 1^, 14.11.02 (rv. 223251 – conf. rv. 227751) il termine finale per la rituale proposizione della domanda sarebbe rappresentato dal "…momento in cui la discussione si esaurisce con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti".

Nel soppesare la portata di questa affermazione non va, però, dimenticato che, dal fatto stesso che la norma abbia indicato il termine nel momento precedente quello in cui "siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422" è lecito arguire che il legislatore ha inteso individuare "momenti" diversi anche all’interno dell’udienza preliminare. La qual cosa appare coerente con la considerazione che, a ben vedere, anche tale passaggio procedimentale, pur nella sua apparente informalità (se raffrontata all’udienza dibattimentale) conosce, al proprio interno, delle "fasi" che, in parte, evocano la struttura dell’udienza dibattimentale.

E’, così, possibile individuare ( art 420 c.p.p.) un momento iniziale di "costituzione delle parti", un momento di "discussione" (nel corso del quale il P.M. illustra le ragioni a sostegno della propria richiesta di rinvio a giudizio ed i difensori quelle opposte) ed un momento di "conclusioni" (in cui il pubblico ministero, prima, ed i difensori, poi, rassegnano) le rispettive richieste finali.

L’intento del legislatore di scandire anche nell’udienza preliminare delle "fasi" lo si coglie chiaramente dalla stessa lettera della norma (es. – art. 421, comma 1 – "…conclusi gii accertamenti relativi alla costituzione delle parti, il giudice dichiara aperta la discussione …. – ovvero comma 4 – ….se il giudice ritiene di poter decidere allo stato degli atti, dichiara chiusa la discussione").

Il senso di tale scansione va ricercato nell’intuibile sforzo legislativo di dare ordine ad uh rito (l’udienza preliminare) che non può, e non deve, risolversi in una generica ed informale discussione produttrice di confusione e di probabili iniquità.

Tale senso è ancora più evidente e rilevante quando è proprio al richiamo di uno di tali momenti che viene correlata una decadenza (come è il caso, quanto alla costituzione di parte civile, del combinato disposto dell’art. 420 c.p.p. e art. 79 c.p.p., commi 1 e 2) ovvero alla estinzione del termine ultimo entro cui esercitare una facoltà (come è appunto il caso che occupa).

Individuare senza equivoci il termine descritto con l’espressione "….fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422" è, pertanto, fondamentale per acquisire parametri di riferimento chiari che delimitino i confini delle varie fasi.

Come detto, nelle decisioni pregresse, questa Corte si è espressa in maniera ampia individuando tale momento in quello in cui si esaurisce la discussione "con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti" sì da ingenerare, però, il dubbio che esso vada a coincidere, in buona sostanza, con il momento in cui (avendo, appunto, tutte le parti concluso), il giudice dichiara chiusa la discussione e si ritira in camera di consiglio per decidere.

In realtà, se tale fosse stato l’intento del legislatore, non si sarebbe stato alcun motivo di usare questa espressione composita ed apparentemente ambigua ma si sarebbe, piuttosto, detto – come fatto chiaramente nell’art. 421, comma 4 – che la facoltà di richiedere il rito abbreviato avrebbe potuto, e dovuto, essere esercitata "prima che il giudice dichiari chiusa la discussione".

Se ciò non è avvenuto, dunque, è perchè, evidentemente, si è inteso proprio (come aumentabile dalla lettera dell’art. 421, comma 2) individuare un termine diverso ed un po’ "anticipato" rispetto a quello della "fine della discussione".

Pur intuendo, dunque, che lo spirito delle pregresse decisioni di questa S.C., prima citate, sia stato quello di agevolare al massimo la celebrazione dei riti alternativi in un ottica deflativa del dibattimento, è pur vero che, allo stato della normativa, non si può neppure incorrere nel rischio di derogare ad una disposizione decisamente chiara che, a ben vedere, risponde anche a precise esigenze di trasparenza sulle modalità di svolgimento del rito ed anche di par condicio (quando, ad esempio, si tratti di procedimento con più imputati).

In tale ultima situazione, infatti, considerata la possibilità, tutt’altro che remota, che vi siano imputati in posizioni differenti (si che le scelte difensive dell’uno possono riverberare sull’altro) deve essere necessario che tutti siano posti nelle medesime condizioni e che quindi, per tutti, il termine-sbarramento, entro cui rappresentare le proprie strategie processuali, sia il medesimo.

Ciò può avvenire solo se – come si ritiene – la lettura dell’art. 421, comma 2 sia quella che lo stesso tenore della norma suggerisce (tanto più se raffrontato ai diverso linguaggio normativo nell’art. 421, comma 4) e cioè, che la linea di confine è data dal momento in cui il G.u.p. concede la parola al P.M. per "formulare le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422".

Diversamente opinando, si potrebbero ingenerare ulteriori motivi di confusione e di disparità di trattamento a seconda che l’espressione "formulazione delle conclusioni di tutte le parti" venga intesa paratamente (vale a dire per ciascun imputato) ovvero, per tutti gli imputati.

Le conclusioni sarebbero evidentemente diverse in dipendenza della soluzione adottata e, comunque, in entrambe le ipotesi, le conseguenze sarebbero a dir poco discutibili.

Potrebbe, infatti, darsi il caso (soprattutto per procedimenti con più imputati) in cui, ad un’udienza preliminare completa, dove tutti abbiano concluso, in limine della camera di consiglio, uno o più imputati improvvisamente cambino opinione e riaprano interamente il discorso formulando una richiesta di rito abbreviato, cui potrebbe accodarsi anche qualche altro imputato.

Ben si comprendono gli effetti di siffatta ipotesi per il dispendio di inutili energie e per le ricadute sulla durata dei procedimenti (senza tralasciare di osservare che ciò potrebbe avvenire, sempre e solo, ad nutum imputati).

Ma potrebbe anche verificarsi l’ipotesi in cui, invece, si voglia ritenere ancora aperta la possibilità di chiedere il rito abbreviato solo a "quell’imputato perii quale il difensore non abbia ancora concluso", in tal caso, però, si scivolerebbe su un piano di palese disparità di trattamento tra imputati essendo evidente che, poichè le discussioni difensive non possono essere simultanee, la scansione dei tempi di discussione (talvolta, necessariamente ripartita in giorni diversi) non avrebbe più – come è sempre stato – un obiettivo meramente pratico di pianificare gli interventi ma potrebbe diventare esso stesso strumento per nuove strategie difensive alla luce delle conclusioni che vengano, via via, rassegnate da altri.

Il tutto, all’evidenza, finirebbe per delineare uno scenario sempre più confuso in cui il termine per accedere al rito abbreviato (scelta processuale di non poca rilevanza) non sarebbe più lo stesso per tutti i coimputati ma risulterebbe legato a profili arbitrari, casuali ed (eventualmente) ad astuzie difensive.

Ciò risulterebbe in sè inammissibile anche riflettendo sul fatto che il rito abbreviato è già di per sè una importante facoltà di esclusiva spettanza dell’imputato il quale ha la possibilità di esercitare tale scelta già dall’inizio delle indagini e che perviene all’udienza preliminare, non certo come ad un evento imprevisto ed incerto, ma previo avviso ex art. 415 bis e, comunque, previo avviso di fissazione dell’udienza preliminare con precisi termini di legge a difesa.

Ferma restando, perciò, la facoltà de iure condendo del legislatore di operare una scelta di politica legislativa diversa – e di lasciare aperte le porte per il rito abbreviato fino al momento in cui il giudice, dichiarata chiusa la discussione, stia per ritirarsi in camera di consiglio per decidere – è evidente, che allo stato della normativa, ogni sforzo di prorogare detto termine oltre quello rappresentato dal conferimento della parola al P.M. per concludere, risulta incompatibile con la lettera della stessa norma oltre che con la logica del sistema.

Trasferendo le considerazioni che precedono al caso in esame è vieppiù corretta la decisione impugnata se si riflette sul fatto che, nella specie, come ricordato dalla sentenza (sulla base dei verbali di udienza), quando lo S. ha avanzato la propria richiesta di rito abbreviato, non solo il P.M. aveva già "formulato la richiesta di rinvio a giudizio" ma anche "aveva preso la parola e concluso la difesa di B. (e quella di un coimputato poi giudicato separatamente)" (f. 6) (quanto al secondo motivo). Le censure che il ricorrente muove alla motivazione della sentenza sono inficiate dall’equivoco di ritenere che la verifica di questa S.C. sulla correttezza della motivazione si identifichi con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite ovvero con la possibilità di formulare un giudizio diverso da quello espresso dai giudici di merito sull’intrinseca adeguatezza della valutazione dei risultati probatori o sull’attendibilità delle fonti di prova.

Ciò è ben lungi dall’essere vero, come si è già accennato trattando del ricorso di T.. In particolare, per quanto attiene alla posizione di S., è sufficiente a conferire piena validità alla motivazione impugnata il fatto che essa abbia spiegato ampiamente, in modo argomentato ed ineccepibile sul piano della logica, le ragioni del proprio convincimento sulla responsabilità dell’imputato. Dopo avere, infatti, rammentato le indicazioni della giurisprudenza di legittimità a proposito della individuazione delle condotte agevolatrici, i giudici riportano brani di numerose conversazioni dalle quali emergono i contati che gli imputati avevano tra di loro e con le rispettive "donne" concludendo in modo non più censurabile che a ciascun imputato "debbono essere sicuramente imputate condotte illecite in danno della ragazza alla quale ciascuno di loro era legato, La M., quanto allo S., la E., quanto al T…." (f. 14). Non va poi dimenticato che la motivazione in esame va letta, in uno con quella di primo grado cui essa si riporta.

Infondato ed abbastanza generico è, quindi, lo sforzo difensivo di porre in discussione la decisione impugnata sul rilievo che le dichiarazioni della P. non sarebbero idonee a giustificare le accuse posto che, a ben vedere, esse costituiscono solo una minima parte delle ragioni su cui si fonda l’affermazione di responsabilità e la Corte lo ricorda chiaramente quando afferma che "dalla perizia di trascrizione delle intercettazioni telefoniche emergono numerosi dialoghi comprovanti la realizzazione delle condotte tipiche del reato" (f. 12) ed "è in definitiva certamente da escludersi che la serie di condotte accertate a carico degli imputati, comprensive anche di un evidente interesse economico e di cui ha già dato ampio conto la sentenza di primo grado, possano essere inquadrate nell’ambito di semplici rapporti di frequentazione o di amicizia o di relazioni sentimentali". In particolare, esemplificando, i giudici escludono che possano essere diversamente qualificate – che come reato – "il consentire che fossero le ragazze ad occuparsi del sostentamento anche degli uomini del pagamento dei fitti degli alloggi… le attività di accompagnamento delle ragazze sulla strada ed il loro successivo prelevamento, l’intromissione nella gestione degli spazi da loro occupati, coinvolgimento in discussioni 0 contrasti tra le ragazze, l’attivazione in merito al reperimento delle abitazioni" (f. 11).

(quanto al terzo motivo). Le considerazioni appena svolte ed i passaggi della sentenza richiamati sono sufficienti ad invalidare anche la presente ulteriore doglianza che, sotto la forma della "violazione di legge", di fatto, rinnova le proprie critiche alla motivazione senza che ciò possa dar luogo alla previsione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), considerato che l’eventuale vizio della motivazione non da luogo a violazione di legge tranne che nei casi di mancanza assoluta di motivazione o di motivazione meramente apparente (su, 28.1.04, Bevilacqua, Rv. 226710). Di certo, poi, non da luogo ad alcun vizio il fatto che la medesima situazione possa prestarsi a diverse "letture" e, di certo, quella offerta, nel caso in esame, dai giudici di merito è chiara, logica ed ancorata a dati fattuali.

(quanto al quarto motivo). La doglianza svolta nel presente motivo è ai limiti della inammissibilità per la sua manifesta infondatezza.

E’, infatti, evidente che il rispetto del principio di uguaglianza passa proprio attraverso la possibilità, e doverosità, di giudicare diversamente posizioni differenti. Il fatto di avere i giudici apprezzato in un certo modo la posizione di B. non implicava, infatti, nè il dovere di fare altrettanto per S. e nemmeno quello di dover fornire una giustificazione a riguardo, tanto più se si considera che tale doglianza non è stata oggetto dei motivi di appello. ricorso di B..

Così come già enunciato trattando i ricorsi degli imputati che precedono, la denuncia di vizi della motivazione non si può risolvere nella semplice sottolineatura del fatto che i dati processuali siano suscettibili di letture alternative.

Il ricorso di B., oltre ad incorrere in tale errore, è anche affetto da una sostanziale genericità che non viene superata dal copioso richiamo a decisioni di questa S.C. sul significato da dare all’art. 192 c.p.p..

Al di là di mere affermazioni di principi generali, infatti, il ricorso del presente imputato si caratterizza per la sostanziale negazione della esistenza di una adeguata motivazione. L’assunto è però chiaramente smentito anche solo dalla semplice lettura delle pagine 11/14 ove con numerose citazioni di brani di intercettazioni telefoniche viene ampiamente e congruamente illustrata la posizione proprio di B. che figura in numerose conversazioni come la persona con cui, ad esempio, P. si lamenta del fatto che egli avesse mandato "l’altra ( A.) a "fare soldi"" e, "di fronte alla replica di B., il quale le diceva di non essere interessato a quanto lei guadagnava, P. protestava dicendo che, però, lui non le consentiva di restare a casa" Ed ancora, più avanti, è sempre B. l’uomo che P. chiama per informarlo "di quanto avevano guadagnato D. ed O. (niente), perchè uno l’aveva presa, usata e scaricata senza pagarla" (f. 13).

Come si vede, anche questi brevi passaggi motivazionali, citati a titolo esemplificativo, sono emblematici del fatto che la motivazione impugnata non presenta alcun vizio e che la chiave di lettura data dalla Corte alle conversazioni, nel senso dell’accusa, non appare affatto destituita di fondamento.

Nel respingere tutti i ricorsi, segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.;

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.