Cass. civ. Sez. VI, Sent., 13-04-2012, n. 5898 Diritti politici e civili

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Svolgimento del processo

che M.A.M., con ricorso del 27 maggio 2010, ha impugnato per cassazione – deducendo due motivi di censura -, nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze, il decreto della Corte d’Appello di Bologna depositato in data 29 settembre 2009, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso della M. – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, in contraddittorio con il Ministro dell’economia e delle finanze – il quale, costituitosi nel giudizio, ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso -, ha respinto il ricorso;

che resiste, con controricorso, il Ministro dell’economia e delle finanze;

che, in particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale – richiesto nella misura di Euro 9.800,00 per l’irragionevole durata del processo presupposto – proposta con ricorso del 24 dicembre 2008, era fondata sui seguenti fatti: a) la M., medico in servizio presso l’Azienda U.S.L. di Rimini, asseritamente titolare del diritto al computo dell’indennità di tempo pieno in misura integrale, senza la decurtazione del quindici per cento prevista dalla legge come conseguenza della scelta di esercitare la professione extramoenia, aveva proposto – con ricorso collettivo del 22 maggio 1996 – la relativa domanda dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna; b) il Tribunale adito non aveva ancora deciso la causa al momento della proposizione della domanda di equa riparazione;

che la Corte d’Appello di Bologna, con il suddetto decreto impugnato, ha respinto la domanda, osservando che: a) la lettera della L. n. 724 del 1994, art. 4, comma 3, esclude che per i medici che optino di svolgere l’attività libero-professionale all’esterno delle strutture sanitarie pubbliche l’indennità di tempo pieno non sia assoggettata alla decurtazione del quindici per cento; b) tale tesi è stata integralmente accolta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 330 del 1999; c) "… dopo tale pronuncia della Corte costituzionale, i ricorrenti avanti al TAR non potevano nutrire alcuna legittima aspettativa di accoglimento del ricorso nè … continuare a vivere "nell’incertezza dell’esito dello stesso". … nella specie non è in gioco l’astratto principio richiamato a funzionale sostegno della stessa L. n. 89 del 2001, bensì la sussistenza in concreto del danno "da processo" che la medesima ha inteso tutelare e la cui accertata inesistenza comporta l’inapplicabilità dell’invocata tutela risarcitoria … ".

Motivi della decisione

che, con i motivi di censura, viene denunciata come illegittima, anche sotto il profilo dei vizi di motivazione, l’affermata piena consapevolezza della manifesta infondatezza della pretesa fatta valere dinanzi al Giudice contabile, nonchè l’apoditticità della motivazione;

che il ricorso merita accoglimento, nei limiti di seguito precisati;

che la censura è fondata;

che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata del processo i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte, ciò ad eccezione dei casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata puntualmente dall’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte – come nella specie – sia stata dichiarata manifestamente infondata (cfr., ex plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 9938 del 2 010, 25595 del 2008, 21088 del 2005);

che, nella specie, i Giudici a quibus hanno sostanzialmente – ed erroneamente – fondato la ratio decidendi sul probabile esito del giudizio presupposto – sovrapponendosi inoltre arbitrariamente al giudizio del Tribunale amministrativo, il quale non aveva ancora definito il giudizio presupposto -, senza peraltro accertare la sussistenza dei presupposti della fattispecie di abuso del processo sulla base delle prove eventualmente dedotte dal Ministro resistente;

che, pertanto, il decreto impugnato deve essere annullato in relazione alla censura accolta;

che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensì dell’art. 384 c.p.c., comma 2;

che il processo presupposto de quo ha avuto una durata complessiva di dodici anni e sette mesi circa (dal 22 maggio 1996, data del ricorso introduttivo del processo presupposto, al 30 dicembre 2008, data del deposito del ricorso per equa riparazione);

che questa Corte, sussistendo il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 considera equo, in linea di massima, l’indennizzo di Euro 500,00 per ciascuno degli anni di durata complessiva del processo;

che, nella specie, sulla base dei criteri adottati da questa Corte e dianzi richiamati il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 va determinato in Euro 6.300,00 per i dodici anni e sette mesi circa di irragionevole durata, oltre gli interessi a decorrere dalla proposizione della domanda di equa riparazione e fino al saldo;

che, conseguentemente, le spese processuali del giudizio a quo debbono essere nuovamente liquidate – sulla base delle tabelle A, paragrafo 4^, e B, paragrafo 1^, allegate al D.M. giustizia 8 aprile 2004, n. 127, relative ai procedimenti contenziosi, in complessivi 1.850,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge;

che le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministro dell’economia e delle finanze al pagamento, in favore della ricorrente, della somma di Euro 6.300,00, oltre gli interessi dalla domanda, condannandolo altresì al rimborso, in favore della parte ricorrente, delle spese del giudizio, che determina, per il giudizio di merito, in complessivi Euro 1.850,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, e, per il giudizio di legittimità, in complessivi Euro 900,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 17-05-2012, n. 7748 Lavoro straordinario

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Svolgimento del processo

L’istituto Poligrafico Zecca dello Stato chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello di Roma che si è pronunciata in senso favorevole alla parte intimata C.G., in ordine al ricalcolo dell’indennità di anzianità (i.d.a.) e del trattamento di fine rapporto (t.f.r.), con inclusione nella base di calcolo dei compensi percepiti per lavoro straordinario continuativamente prestato.

Parte intimata si è difesa con controricorso.

Motivi della decisione

L’Istituto deduce un solo motivo di ricorso, con cui lamenta violazione delle norme degli artt. 21 e 34 del ccnl grafici 1992, depositati ai sensi dell’art. 369 c.p.c., n. 4, il che rende infondata l’eccezione di improcedibilità, ed errata interpretazione in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c. nonchè violazione dell’art. 2120 c.c.. Il computo del lavoro straordinario ai fini del ricalcolo del t.f.r. deve essere limitato all’ottobre 1992, atteso che in base al ccnl del 1992 (in vigore dall’1.11.92) è da escludersi la computabilità dello straordinario, per volontà delle parti espressa in sede di esercizio di autonomia collettiva. Infatti l’art. 21 del ccnl 1992, sotto la rubrica "Nomenclatura", nel prevedere che "retribuzione è quanto complessivamente percepito dal quadro, dall’impiegato e dall’operaio per la sua prestazione lavorativa nell’orario normale", reca l’aggiunta delle parole "nell’orario normale", non presenti nel corrispondente articolo del ccnl 1989 (in tutto identico, salvo che per tali parole), il che manifesterebbe l’intento dei contraenti di escludere l’incidenza di quanto percepito fuori dall’orario normale nel calcolo del t.f.r.. Della formulazione di questa norma il giudice avrebbe dovuto tener conto nel l’interpretazione dell’art. 34 dello stesso ccnl 1992, per il quale il t.f.r. si calcola "sommando per ciascun anno di servizio una quota pari alla retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5" (comma 1).

Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati. L’art. 34 del ccnl 1.11.92 del personale dipendente delle aziende grafiche ed affini, applicabile al personale IPZS, prevede che il lavoratore "ha diritto ad un trattamento di fine rapporto calcolato sommando per ciascun anno di servizio una quota pari alla retribuzione per l’anno stesso divisa per 13,5" (comma 1). Lo stesso art. 34, al comma 3, prevede che "per quanto non previsto dal presente articolo si fa riferimento alle norme della L. 29 maggio 1982, n. 297".

Quanto alle modalità di calcolo della "retribuzione" rilevante ai fini del t.f.r., deve considerarsi che l’art. 2120 c.c. prevede sul piano generale che la retribuzione annua abbia carattere onnicomprensivo e comprenda "tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese", facendo tuttavia salva la "diversa previsione dei contratti collettivi" (comma 2). La norma generale, in altre parole, riconosce alle parti contrattuali in sede di autonomia negoziale collettiva la facoltà di stabilire eccezioni alla regola generale della onnicomprensività della retribuzione annua da prendere in considerazione.

Deve a questo riguardo considerarsi che l’art. 21 del contratto collettivo dei grafici 1.11.92, applicabile nel caso di specie, prevede che "retribuzione è quanto complessivamente percepito dal quadro, dall’impiegato e dall’operaio per la sua prestazione lavorativa nell’orario normale". Dal confronto con il testo negoziale attinente la stessa definizione di retribuzione contenuto nel precedente contratto collettivo del 1989, risulta aggiunta l’espressione "nell’orario normale", che era assente nella precedente formulazione.

All’esito del raccordo tra tali norme ed in ossequio al canone ermeneutico imposto dall’art. 1363 c.c., secondo cui l’intenzione delle parti contrattuali va condotta esaminando le clausole contrattuali le une per mezzo delle altri, in modo da attribuire alle clausole stesse il senso che risulta dal complesso dell’atto (Cass. 5.06.09 n. 13083, Cass. 5.6.04 n. 10721 ed altre conformi), deve pervenirsi alla conclusione che solo dall’1.11.92 (data di entrata in vigore del contratto) è operante la norma dell’art. 21 che fissa la base di calcolo del t.f.r. con riferimento alla retribuzione percepita per la "prestazione lavorativa, nell’orario normale", con esclusione quindi dei compensi riferiti al lavoro straordinario (in questo senso, in forza dello stesso percorso argomentativo, v. tra le altre Cass. 6.02.08 n. 2781 e 13.01.10 n. 365). Per il periodo precedente, prima che fosse adottata la nuova formulazione della norma, in cui l’art. 21 individuava la retribuzione con generico riferimento a "quanto percepito per la prestazione lavorativa", invece, detta base di calcolo ricomprendeva anche il compenso per lavoro straordinario continuativo.

In questi termini, dunque, il motivo è fondato.

In conclusione, il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale, tenuto conto che il compenso per lavoro straordinario è ricomprensibile nella base di calcolo del t.f.r. solo fino al 31.10.92, procederà a nuovo esame della controversia, provvedendo, altresì, a regolare le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 27-09-2011) 28-11-2011, n. 44024

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ricorre per cassazione il difensore di fiducia di O.R. avverso l’ordinanza in data 13.5.2010 della Corte di Appello di Cagliari che respingeva la richiesta del detto O. volta ad ottenere l’equa riparazione per l’ingiusta detenzione subita per complessivi giorni 285 per i delitti di maltrattamenti in famiglia, lesioni e minacce aggravate, dal quale era stato assolto in sede di appello dopo una condanna in primo grado, perchè il fatto non sussiste.

La Corte rigettava l’istanza ritenendo che alla detenzione avesse concorso a dare causa il ricorrente con colpa grave, consistente nel non aver fornito giustificazioni adeguate circa la presenza di un coltello da cucina nascosto sopra un armadio della sua abitazione (che, secondo l’accusa e le dichiarazioni della persona offesa, convivente dell’imputato, era stato utilizzato per minacciare quest’ultima, nell’ambito dei maltrattamenti), avvalendosi della facoltà di non rispondere in sede di convalida di arresto e fornendo, successivamente, in sede di dichiarazioni spontanee nel corso del giudizio abbreviato, una spiegazione per l’utilizzo del coltello che, però, non giustificava la circostanza del suo rinvenimento sopra un armadio; il provvedimento impugnato riteneva che il principio secondo il quale il silenzio dell’imputato o indagato non può risolversi a suo carico valeva solo nel processo penale e non in quello civile, cui è assimilabile quello per la riparazione dell’ingiusta detenzione. Il ricorrente deduce la violazione di legge ed il vizio motivazionale, lamentando l’erroneità della valutazione a carico dell’imputato della scelta difensiva di avvalersi della facoltà di non rispondere in ordine a quegli elementi che risultano posti a base del provvedimento restrittivo, procedendo ad una indebita distinzione tra processo penale e processo civile, cui andrebbe equiparato quello per riparazione di ingiusta detenzione; si duole, altresì, della mancata indicazione del nesso causale tra silenzio dell’imputato – soltanto all’udienza di convalida – ed emissione del provvedimento restrittivo.

Il Procuratore generale in sede, all’esito della requisitoria scritta, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

Premesso che la natura civilistica del giudizio per la riparazione è stata esclusa dalle Sezioni Unite penali, orientate, ormai, nel configurarlo, pur pronunciando a diversi fini, quale procedimento penale autonomo non incidentale (v., tra le altre, sent. nn. 14/98, 3435/01, 34559/01, 35760/03 1153/2009), è stato comunque affermato che "In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa della colpa grave, il silenzio tenuto dall’indagato (o imputato) non è sindacabile a meno che sia possibile affermare che fosse in grado di fornire una logica spiegazione al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini. (La Corte ha precisato che soltanto in questo caso, il mancato esercizio di una facoltà difensiva – quanto meno sub specie di allegazione di fatti favorevoli – vale a far ritenere sussistente una condotta omissiva concorrente al mantenimento della custodia cautelare)" (Cass. pen. Sez. 4, n. 47047 del 18.11.2008, Rv. 242759 ed altre precedenti e successive conformi).

Orbene, l’ordinanza impugnata non ha fornito adeguata e necessaria spiegazione dell’efficienza causale del silenzio serbato dall’indagato in sede di convalida al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini. Del resto, non il silenzio o la reticenza, in quanto tali, rilevano ai fini dell’integrazione della condotta gravemente colposa ostativa del diritto all’equa riparazione, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quanto meno sul piano dell’allegazione di quelle circostanze, note all’imputato, che contrastino l’accusa, o vincano ragioni di cautela e ciò con riferimento, nel caso di specie, all’occultamento del coltello sopra un armadio ove l’imputato l’aveva riposto.

E’ chiaro che tale circostanza aveva solo valenza di oggettivo riscontro alle dichiarazioni accusatorie della convivente che aveva espressamente collegato l’occultamento del coltello alle minacce subite a suo mezzo: a fronte di essa, è vero che l’imputato ingiustamente accusato di reati commessi anche con l’uso del coltello avrebbe potuto fornire delle spiegazioni, ma è anche vero che l’omessa indicazione di idonee giustificazioni al riguardo non può aver di per sè (cioè in via meramente implicita) valenza concausale per l’emissione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare restrittiva.

In altri termini, occorre che il Giudice della riparazione e, quindi la Corte territoriale in sede di rinvio, fornisca congrua motivazione in ordine al concreto apporto causale del silenzio serbato dall’indagato alla risoluzione dell’emissione dell’ordinanza cautelare restrittiva, spiegando sotto quali profili specifici esso possa aver indefettibilmente inciso nel quadro indiziario, completandolo quanto a consistenza o gravita. Consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-07-2012, n. 12039 Passaggio ad altra amministrazione Personale non docente

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La parte ricorrente chiede l’annullamento della sentenza di appello che ha negato il suo diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR).

2. La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980 e Cass. 14 ottobre 2011, n. 21282, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

3. La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

4. Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal decreto del Ministro della pubblica istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in decreto ministeriale. La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829; Da ultimo, sul punto, cfr. Cass., 14 marzo 2012, n. 4045).

5. Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del decreto ministeriale. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva. Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate.

L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007). L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

6. Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) nella sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C-108/10, Scattolon), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. 7. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8, costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

8. Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: – se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione); – se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al cessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retribuiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

9. Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

10. In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

11. Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

a. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

b. Quanto alle modalità, si deve trattare di "peggioramento retributivo sostanziale" (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto.

c. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retribuiva di partenza").

12. La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente del comma 218 dell’art. 1 della finanziaria 2006, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Agrati), ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate.

13. La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr., per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984;

ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

H. Nella memoria per l’udienza la difesa dei ricorrenti chiede la disapplicazione della L. n. 266 del 2005, art. 1, richiamando la tesi che: 1) ritiene "errata" la decisione Scattolon laddove ha giudicato assorbita la quarta questione a seguito della decisione sugli altri punti sottoposti al suo esame e 2) prospetta la necessità di non sottoporre la questione nuovamente al vaglio della Corte costituzionale per contrasto sopravvenuto con l’art. 117 Cost., in quanto la controversia, come sancito nella sentenza Scattolon, rientra nel diritto dell’Unione, con la conseguenza che il giudice ordinario dovrebbe "disapplicare direttamente la norma interpretativa che ha violato la Carta oppure operare un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia".

15. Deve premettersi che la decisione della Corte di giustizia, di cui si è prima messo in evidenza l’efficacia vincolante per il giudice nazionale, presenta tale efficacia nella sua interezza e non può discrezionalmente essere ritenuta vincolante per una parte e non vincolante per un’altra.

16. Nè rileva il fatto che, all’epoca in cui la Corte di giustizia si è espressa, la decisione Agrati della CEDU non fosse ancora definitiva, perchè la decisione della Corte di giustizia nella parte in cui delinea il suo rapporto con la sentenza Agrati non si basa su questo dato, ma sul contenuto della decisione della CEDU. 17. La sentenza Agrati parte dalla premessa che "i ricorrenti sostengono di aver percepito, in seguito al trasferimento, un trattamento economico nel complesso inferiore a quello percepito prima del trasferimento" e "hanno perso tutti gli elementi accessori della retribuzione" e perviene alla conclusione che "l’adozione della finanziaria 2006 definiva il merito della controversia e rendeva vana la prosecuzione dei procedimenti", conclusione in forza della quale ha espresso il suo giudizio sull’intervento del legislatore italiano.

18. La sentenza Scattolon, interpretando la normativa italiana alla luce del diritto europeo, perviene alle conclusioni di cui si è dato conto, in forza delle quali il singolo giudizio non può dirsi chiuso e il diritto dei lavoratori (a non percepire, a seguito del trasferimento, un trattamento nel complesso inferiore a quello percepito prima del trasferimento) trova garanzia. Ciò spiega perchè, la Corte di giustizia abbia giudicato assorbita la quarta questione, implicante la chiusura del giudizio e la negazione della garanzia su indicata.

19. Deve aggiungersi, per completezza, che anche l’altra affermazione formulata dai ricorrenti nella causa Agrati di aver perso "tutti gli elementi accessori della retribuzione" (affermazione ribadita da parte ricorrente di questo giudizio nella memoria per l’udienza) non è condivisibile, in quanto, nelle controversie in cui la questione è stata posta, la decisione è stata nel segno della conservazione del diritto (cfr., Cass. 19 marzo 2012, n. 4316, confermando l’orientamento della sentenza di merito emessa dalla Corte d’appello di Brescia, a sua volta di conferma della sentenza del Tribunale che aveva accolto la domanda del lavoratore).

20. In conclusione, in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, il caso in esame deve essere deciso con l’accoglimento del ricorso del lavoratore. La violazione del complesso normativo, costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, denunziata, deve essere verificata in concreto sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia europea. La decisione impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio alla Corte d’appello indicata in dispositivo, la quale, applicando i criteri di comparazione su specificati, dovrà decidere la controversia nel merito, verificando la sussistenza, o meno, di un peggioramento retribuivo sostanziale all’atto del trasferimento e dovrà accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale accertamento. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla Corte d’appello di Bologna, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2012
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