Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-05-2011, n. 11228 Agevolazioni tributarie Contenzioso tributario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Mobilità Versiua s.p.a., istituita a norma della L. n. 142 del 1990, art. 22, con prevalente partecipazione pubblica, per la gestione dei servizi pubblici locali, ha impugnato due comunicazioni/ingiunzioni dell’Agenzia delle Entrate, intese a recuperare le somme corrispondenti alle agevolazioni fiscali di cui la società ha beneficiato negli anni 1998 e 1999, in forza del D.L. n. 331 del 1993, art. 66, comma 14, conv. con modificazioni in L. n. 427 del 1993 (c.d. moratoria fiscale), trattandosi di "aiuti di Stato" illegittimi ed incompatibili con il mercato comune ( decisione 2003/193/CE della Commissione Europea e conseguente sentenza CGCE 1 giugno 2006, nella causa C-207/05), che lo Stato italiano deve recuperare con le modalità stabilite dal D.L. 15 febbraio 2007, n. 10, art. 1 (conv. in legge, con modif., dalla L. n. 46 del 2007, art. 1).

La CTP adita ha riunito ed accolto nel merito i ricorsi, sul rilievo che la società operava in regime di monopolio e, quindi, l’aiuto fiscale non poteva alterare le regole della concorrenza. La CTR, invece, dopo avere escluso, in fatto, che la società operasse soltanto in regime di monopolio, ha accolto in parte l’appello dell’Agenzia delle Entrate, ritenendo legittimo il recupero in questione, ma soltanto nella parte in cui supera gli aiuti consentiti (cd. regime de minimis).

L’Agenzia delle Entrate ricorre contro la Mobilità Versilia s.p.a. per ottenere la cassazione della sentenza della CTR, meglio indicata in epigrafe, sulla base di un solo motivo.

La società resiste con controricorso e propone, a sua volta, ricorso incidentale sorretto da cinque motivi.
Motivi della decisione

1. Preliminarmente, i due ricorsi, proposti avverso la stessa sentenza, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Nel merito, va accolto il ricorso principale, mentre va rigettato il ricorso incidentale.

2. Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denunciando la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 10 del 2007, art. 1, comma 4, delle decisioni 92/C 213/02 e 96/C 68/06 della Commissione CE e dell’art. 2 par. 2 del Reg. CE 12 gennaio 2001, n. 69/2001, pone alla Corte il seguente puntuale quesito di diritto: "Dica la Corte se in applicazione del D.L. n. 10 del 2007, art. 1, comma 4, delle decisioni 92/C 213/02 e 96/C 68/06 della Commissione CE e dell’art. 2 par. 2 del Reg. (CE) 12 gennaio 2001, n. 69/2001 l’applicazione della regola "de minimis" non implichi che la soglia ivi prevista debba essere sempre e comunque detratta dal maggio aiuto concesso e se conseguentemente sia illegittima per violazione delle citate disposizioni, la sentenza che pur ritenendo che l’aiuto avesse superato la soglia "de minimis" imponga di scomputarne il suddetto importo".

Il motivo è fondato. Erroneamente la CTR ha interpretato le disposizioni relative al regime "de minimis" come se si trattasse di una sorta di franchigia di cui si possa beneficiare sempre e non invece come una soglia entro la quale si presume che non si possa verificare alcuna alterazione della concorrenza per la pochezza della somma in questione. In altri termini, gli aiuti "de minimis", proprio perchè tali sono inidonei ad incidere sul piano della concorrenza e perciò vengono tollerati. Ma proprio per questa stessa ragione, quando la soglia viene superata riacquista vigore in pieno la disciplina del divieto che involge l’intera somma e non soltanto la parte che eccede la soglia di tolleranza. Il regime "de minimis" o c’è o non c’è. L’importo stabilito per delimitare il regime "de minimis" serve a tracciare la linea di confine tra gli aiuti che sono incompatibili con l’art. 87 (ora 107) paragrafo 1 del Trattato istitutivo della UE, e quelli che invece sono tollerati. Infatti, il D.L. n. 10 del 2007, art. 1, comma 5, conv. con modif. dalla L. n. 46 del 2007, art. 1 chiarisce che "appartengono alla categoria degli aiuti de minimis gli aiuti che, in base alla comunicazione 92/C 213/02 della Commissione del 20 maggio 1992, non eccedono l’importo complessivo di 50.000 ECU, elevato a 100.000 ECU con la comunicazione 96/C 68/06 della Commissione, del 6 marzo 1996, su un periodo di tre anni decorrente dal primo aiuto de minimis". Il regime de minimis serve a giustificare una deroga alla regola dei divieto degli aiuti di Stato, sulla base della pochezza dell’aiuto stesso, ritenuto inidoneo ad influire sulla concorrenza. Quando però, come nella specie, la soglia della irrilevanza viene superata, il recupero deve necessariamente riguardare l’aiuto nella sua interezza.

3. La società resistente eccepisce che nella specie sarebbe inapplicabile il Regolamento della Commissione CE, n. 2001/69/CE, trattandosi di un atto normativo entrato in vigore soltanto il 2 febbraio 2001, inapplicabile quindi agli aiuti risalenti al 1998 e 1999. L’eccezione è priva di pregio perchè il regime "de minimis" costituisce una deroga al divieto degli aiuti di Stato, con la conseguenza che se non si applica la deroga opera necessariamente il regime del divieto assoluto. A parte la considerazione che, per le ragioni esposte, comunque, nella specie, il regime "de minimis" non trova applicazione.

4. Passando all’esame dei motivi del ricorso incidentale, nessuna delle censure prospettate può trovare accoglimento.

4.1. Con il primo motivo, viene denunciata la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, e art. 49, e art. 329 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), perchè la CTR ha implicitamente rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata per carenza di specificità dei motivi.

Secondo quanto eccepisce la società, il comportamento processuale dell’ufficio avrebbe determinato il passaggio in giudicato della sentenza. La CTR, però, non avrebbe potuto rilevare la inammissibilità del gravame proposto per la asserita genericità dei motivi, dal momento che "Il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c. italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione delle Comunità Europee divenuta definitiva" (Corte di Giustizia dell’UE 18 giugno 2007, in causa Lucchini, C-1119/05). Il principio è stato già affermato da questa Corte con riferimento alla ipotesi di appello tardivo (Cass. 26285/2010, punto 4.2.2. della motivazione).

L’esigenza primaria di recuperare gli aiuti di Stato dichiarati incompatibili con il mercato interno, comporta la necessità di disapplicare le norme nazionali, anche di carattere sostanziale, che ostacolano il recupero stesso: "in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora la normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione (Europea) divenuta definitiva" (Cass. 23418/2010).

4.2. Analoghe considerazioni valgono per il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale viene denunciata la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 47 bis, in quanto l’ufficio appellante si sarebbe costituito tardivamente e quindi la CTR avrebbe dovuto dichiarare la inammissibilità della impugnazione. Anche in questo caso viene prospettata la violazione di una norma che, in forza del principio di diritto sopra enunciato, avrebbe dovuto essere disapplicata per garantire la effettività del recupero degli aiuti illegittimi. Il ricorso però, sul punto, è anche improcedibile perchè la censura presuppone che nella specie dovesse trovare applicazione la riduzione dei termini, prevista nella ipotesi che sia stata concessa la sospensione dell’ingiunzione di pagamento e non risulta che sia stato depositato il relativo provvedimento, così come invece dispone l’art. 369 c.p.c., n. 4. 4.3. Con il terzo motivo, denunciando la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, L. n. 289 del 2002, art. 10 e D.L. n. 10 del 2007, art. 1, comma 2, si chiede di sapere se siano legittimi gli atti di recupero notificati alla società oltre il termine di cui all’art. 43 citato, prorogato ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 10. Il quesito, come già evidenziato, è stato affrontato e risolto in senso positivo da questa Corte (sent. 23418/2010, v. sub 4.1.), sulla base di quanto già sancito dalla CGUE: "Si deve rilevare che, in materia di aiuti di Stato dichiarati incompatibili, il compito delle autorità nazionali… consiste solo nel dare esecuzione alle decisioni della Commissione. Le dette autorità non dispongono pertanto di alcun potere discrezionale quanto alla revoca di una decisione di concessione. Di conseguenza, quando la Commissione ordina, con una decisione che non è stata oggetto di un ricorso giurisdizionale, il recupero di importi indebitamente versati, l’autorità nazionale non può legittimamente fare ulteriori accertamenti. Quando l’autorità nazionale lascia, nondimeno, scadere il termine stabilito dal diritto nazionale per la revoca della decisione di concessione, la situazione non può essere equiparata a quella in cui un operatore economico ignora se l’amministrazione competente intenda pronunciarsi e il principio della certezza del diritto impone che si metta fine a questa incertezza allo scadere di un determinato termine. Considerata la mancanza di potere discrezionale dell’autorità nazionale, il beneficiario dell’aiuto illegittimamente attribuito cessa di trovarsi nell’incertezza non appena la Commissione adotta una decisione che dichiari l’incompatibilità dell’aiuto e ne ordini il recupero. Il principio della certezza del diritto non può quindi precludere la restituzione dell’aiuto per il fatto che le autorità nazionali si sono conformate con ritardo alla decisione che impone tale restituzione. In caso contrario, il recupero delle somme indebitamente versate diverrebbe praticamente impossibile e le disposizioni comunitarie relative agli aiuti di Stato sarebbero private di ogni effetto utile" (sent. 20 marzo 1997 in causa C-24/95 Alcan, punti 34-37).

4.4. Con il quarto motivo, denunciando la violazione della L. n. 212 del 2003, art. 7, e L. n. 241 del 1990, art. 3, della decisione CE 2003/193/CE e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 e art. 11 Cost., comma 2, la società si duole del fatto che la CTR avrebbe indebitamente integrato la motivazione delle comunicazioni/ingiunzione, evidenziando che essa società svolgeva anche altre attività non in regime di monopolio, in relazione alle quali era stata rilevata la illegittimità degli aiuti fiscali in questione.

La censura in parte è inammissibile ed in parte è infondata. E’ inammissibile nella parte in cui con rilievi che attengono al merito della attività svolta dalla società ed al contenuto degli atti di recupero, viene sostanzialmente eccepita una sorta di ultrapetizione rispetto al thema decidendi; ultrapetizione che avrebbe dovuto, eventualmente, essere prospettata come violazione dell’art. 112 c.p.c., nel rispetto dei canoni dell’autosufficienza del ricorso e con deposito della documentazione citata (deposito richiesto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., n. 4). La censura è anche infondata perchè in punto di fatto la CTR ha accertato, nei limiti dei poteri fissati dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, che la società operava senza vincoli territoriali e senza esclusive.

Peraltro, a parte la considerazione che le censure relative alla motivazione dell’atto impugnato sono censure di merito, nella specie la pretesa integrazione illegittima della motivazione non assume rilevanza perchè la motivazione dell’atto ingiuntivo deve ritenersi sufficiente se richiedeva il recupero dell’imposta per il solo fatto che si trattava di un risparmio di cui aveva beneficiato una società che non ne aveva diritto, in forza della Decisione della Commissione Europea. Le circostanze di fatto in base alle quali la società ha invocato il diritto all’esenzione dovevano essere introdotte e provate dalla società stessa, in forza del canone ordinario di distribuzione dell’onere della prova e dell’interesse alla domanda.

Quindi, legittimamente il thema decidendi è stato ampliato, nell’interesse della società, e legittimamente la CTR se ne è occupata. Nè la società può ora dolersi di tale ampliamento come se si trattasse di una extrapetizione.

4.5. Con il quinto motivo, denunciando il vizio di motivazione, la società lamenta che la CTR non ha tenuto conto della circostanza pacifica che nel settore della gestione dei parcheggi operava in regime di monopolio nel comune di Viareggio, per cui non vi era rischio di alterazione delle regole della concorrenza. In realtà la CTR ha tenuto conto di tale circostanza ma ha anche rilevato che la società poteva svolgere altre attività senza limiti di territorio, con la conseguenza che l’agevolazione fiscale costituiva, almeno per queste attività, un aiuto di Stato.

5. Pertanto, riuniti i ricorsi, va accolto il ricorso principale e va rigettato quello incidentale. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al ricorso accolto con la conseguenza che in forza del principio di diritto affermato, secondo il quale il superamento della soglia "de minimis" comporta la legittimità del recupero dell’intero beneficio fiscale goduto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il rigetto del ricorso introduttivo della società.

Tenuto conto della complessità della questione e dei molti profili di novità, sussistono giuste ragioni per compensare le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale e rigetta l’incidentale, cassa la sentenza impugnata in conseguenza del ricorso accolto e decidendo la causa nel merito rigetta il ricorso introduttivo della società Compensa le spese dell’intero giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 18-02-2011) 29-03-2011, n. 12782 Ricorso

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza del 16.9.2010, il Tribunale della Libertà di Roma rigettava l’istanza di riesame proposta da P.P. avverso l’ordinanza applicativa della misura della custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti dal gip del Tribunale di Latina il 26.8.2010, per due rapine consumate e una rapina tentata in danno dell’ufficio postale di (OMISSIS) (capi A), B) e D) della rubrica cautelare) e per un’altra rapina consumata in danno dell’ufficio postale di "(OMISSIS)".

Ricorre il difensore, eccependo con un primo motivo, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 125 c.p.p., n. 3 e art. 272 c.p.p., e la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione del provvedimento, in relazione alla questione fondamentale dell’identificazione dell’imputato come autore dei vari episodi criminosi.

Il Tribunale avrebbe infatti illogicamente valorizzato il possesso, da parte del P., di un casco da motociclista di larga diffusione commerciale, sul quale i testi presenti ai fatti non avevano rilevato alcun particolare segno distintivo; avrebbe operato un indebito riferimento al presunto coinvolgimento dell’indagato in una rapina non oggetto di contestazione; avrebbe trascurato le imprecisioni delle varie deposizioni testimoniali sulle caratteristiche dell’arma impugnata dal rapinatore; non avrebbe considerato che secondo le stesse testimonianze l’individuo in questione parlava con un accento straniero; avrebbe infine immotivatamente superato tutti i dubbi con la considerazione dell’esito della perquisizione eseguita dieci mesi dopo i fatti in luoghi di pertinenza dell’indagato. Nel ricorso vengono riassunti i contributi testimoniali relativi ai vari fatti criminosi, e si segnala, relativamente al reato di cui al capo A), un ulteriore elemento di incongruenza nella valutazione della gravità indiziaria da parte del Tribunale, con riguardo, stavolta, al modello di motocicletta usato dal rapinatore, che sarebbe stato di tipo alquanto antiquato, mentre quello in possesso del P. era di recente fabbricazione.

Altre illogicità sarebbero infine ravvisabili nel giudizio di gravità indiziaria relativo all’episodio criminoso di cui al capo B), stavolta con riferimento all’identificazione dell’autovettura usata dal rapinatore; e nelle valutazioni relative al reato di cui al capo D), con riferimento ai criteri usati per l’identificazione dell’indagato e del mezzo usato dal rapinatore per raggiungere il luogo del delitto.

Con riferimento all’episodio di cui al capo G), infine, il Tribunale non avrebbe tenuto conto delle incertezze e delle imprecisioni della varie deposizioni testimoniali sul tipo e sul colore del casco indossato dal rapinatore e sull’arma dallo stesso impugnata.

Con il secondo motivo, la difesa censura sotto gli stessi profili di legittimità la valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari, considerando che le azioni criminose erano state realizzate senza l’impiego di violenza, e che il P. è incensurato. L’attualità del pericolo di reiterazione dei reati sarebbe inoltre esclusa dal comportamento tenuto dall’imputato tra il 13.5.2010, quando era stato rimesso in libertà dopo un precedente arresto, e il 28.8.2010, data di esecuzione della misura cautelare oggi in contestazione.

In ogni caso, alla stregua dell’ultimo motivo, i medesimi vizi di legittimità sarebbero ravvisabili in relazione alla scelta della più grave misura custodiale.

Il ricorso è manifestamente infondato.

La difesa ripropone pressochè integralmente la deduzioni già sottoposta al giudice del riesame e oggetto nel provvedimento impugnato, di adeguata confutazione, al fine di ribadire il quadro di gravità indiziaria a carico del ricorrente per i reati in contestazione.

E così, ad es. la questione dell’elemento di identificazione costituito dal casco indossato dal rapinatore è valutata dal tribunale nel complesso degli altri elementi di prova desumibili dall’esito della perquisizione effettuata nei confronti del P., risultato in possesso di mezzi riferibili alle modalità di esecuzione delle rapine, tra i quali un fucile da caccia a canne mozze, targhe false ecc.. e dalla corrispondenza delle caratteristiche macrosomatiche del ricorrente con quelle del rapinatore descritte dai vari testimoni; dalle circostanze del suo arresto.

Così come adeguatamente i giudici territoriali, sottolineano, ad es. la particolare attendibilità dei testi C. e A., a conferma dell’identificazione del ricorrente come il rapinatore solitario protagonista dei tre fatti delittuosi, commessi sempre dallo stesso soggetto, abbigliato sempre allo stesso modo, e invariabilmente in possesso di un fucile a canne mozze.

Le deduzioni difensive muovono invece da una valutazione parcellizzata delle singole risultanze istruttorie, puntando sugli inevitabili margini di approssimazione delle dichiarazioni testimoniali, peraltro riferibili ad elementi di dettaglio che nulla tolgono alla sostanziale convergenza di tutte le deposizioni, specie nel loro collegamento con gli altri elementi indiziari, sull’identificazione del ricorrente come l’autore delle rapine, quanto meno secondo il profilo di gravità indiziaria richiesto nella fase cautelare.

Francamente poco apprezzabili sono anche gli altri elementi di presunta distonia rispetto alla valutazione della gravità indiziaria, sottolineati dalla difesa, come, in particolare, riguardo al superamento dei limiti di velocità da parte del ricorrente nei pressi della sua abitazione poco prima di una delle rapine, tanto più considerando l’accorgimento adoperato dal P. della sistematica utilizzazione di targhe false.

Quanto all’esclusiva adeguatezza, in funzione social-preventiva, della più grave misura custodiale, il tribunale ha congruamente valutato l’estrema pericolosità del ricorrente desumibile dalla particolare audacia criminale mostrata nell’esecuzione delle rapine, tutte commesse con accurata predisposizione di mezzi ai danni di uffici postali dove era ovviamente prevedibile la necessità di affrontare un pubblico di clienti e di impiegati, mentre le deduzioni difensive al riguardo si risolvono più che altro in enunciazioni di principio e nell’irrilevante sottolineatura della disponibilità da parte del ricorrente di un’abitazione privata dove scontare l’eventuale misura alternativa degli arresti domiciliari, mentre davvero non si comprende come possa essere valutata a favore del ricorrente, e non piuttosto a suo carico, sotto il profilo delle esigenze cautelari, la presunta "buona condotta" dallo stesso tenuta per i circa tre mesi trascorsi dalla sua scarcerazione conseguente all’esito di altre vicende giudiziarie, alle nuove imprese criminali oggetto del presente procedimento. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende della somma di Euro 1000,00, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità. Il cancelliere dovrà provvedere agli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende della somma di Euro 1000,00;

si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-03-2011) 15-04-2011, n. 15395

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Svolgimento del processo

M.A., D.S.A. e B.S., tramite i rispettivi difensori di fiducia, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione avverso la sentenza, in data 5.5.2010, della Corte d’Appello di Catania, confermativa della sentenza 25.11.2009 del Tribunale di Catania (appellata dagli attuali ricorrenti e dal P.G. della Repubblica di Catania), con cui il M. ed il D.S. erano condannati, per i reati di cui agli artt. 110, 56 e 628 c.p., comma 3, n. 1 e art. 648 c.p., ritenuta la continuazione e la contestata recidiva, alla pena di anni quattro, mesi otto di reclusione ed Euro 1.800,00 di multa ciascuno, con interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, mentre la B. era condannata, per il reato di favoreggiamento personale,alla pena di un anno di reclusione, con pena sospesa.

Il M. deduceva:

1) difetto di motivazione sulla sua responsabilità, dovendosi escludere che la persona alla guida del fuoristrada, utilizzato per accedere al luogo ove era collocato il bancomat, corrispondesse alla persona vista nel medesimo luogo assieme agli altri fermati;

difettava, peraltro, ogni ricostruzione della condotta personale e del ruolo concretamente espletato da esso M.; 2) omessa motivazione sulle argomentazioni difensive in ordine alla configurabilità della desistenza, essendo stato accertato che l’intervento della Polizia non era stato immediato, rispetto all’azione di fuga posta in essere dagli autori del reato, i quali non avevano potuto verificare l’azionamento del dispositivo di chiamata della forze dell’Ordine, atteso che nessuno degli imputati era ancora entrato nell’ufficio postale ove era ubicato lo sportello del bancomat.

La B. lamentava:

mancanza e manifesta illogicità della motivazione sulle doglianze difensive relative alla erronea interpretazione e/o applicazione dell’art. 378 c.p.; la Corte d’appello non aveva accertato nè la sussistenza del dolo nè che la B. fosse consapevole del fatto che le tre persone entrate nel suo appartamento avessero effettuato la tentata rapina contestata.

D.S.A. deduceva:

1) difetto di motivazione sulle doglianze svolte col primo motivo di appello, tenuto conto, fra l’altro, dell’apodittico richiamo alla sentenza di primo grado;

2) inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 195 c.p.p., delle dichiarazioni rese di verbalizzanti di P.G. su quanto da loro appreso da persone rimaste ignote e non sentite in sede dibattimentale, essendo la testimonianza indiretta utilizzabile solo in caso di irreperibilità dei testimoni diretti e non anche nel caso in cui gli stessi non siano stati identificati, come avvenuto nella specie;

l’inutilizzabilità di tali dichiarazioni comportava l’impossibilità di ricondurre la presenza del D.S. nei pressi dell’ufficio postale al momento della tentata rapina; inoltre la descrizione della maglietta indossata dal D.S., descritta dall’unico teste oculare, Ma.Br., come "maglietta verdina", in sede di audizione dibattimentale, non corrispondeva a quella di "colore grigio chiaro", effettivamente indossata nè era stato svolto alcun accertamento scientifico sui caschi e sulla maglietta bianca trovati nell’appartamento della B., così da poterli attribuire alle persone arrestate; erano, inoltre, inutilizzabili, ex art. 63 c.p.p., comma 2 le dichiarazioni rese dalla B., in data 6.11.2008, in forma di sommarie informazioni, considerato che già all’esito della perquisizione domiciliare, effettuata nel medesimo giorno, la stessa doveva ritenersi indagata per favoreggiamento personale, sicchè doveva essere sentita con le previste garanzie di legge;

3) mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 56 c.p., avendo la Corte territoriale, a pag. 3 della sentenza impugnata, escluso l’ipotesi del recesso volontario, nonostante che i soggetti agenti avessero volontariamente desistito dall’azione criminosa prima dell’intervento delle forze di polizia,senza essere stati influenzati dall’allarme azionato dagli impiegati delle Poste, essendo lo stesso "silenzioso", per come riferito dagli stessi impiegati all’udienza del 24.6.2009; 4) difetto di motivazione sulla mancata concessione delle attenuanti generiche.
Motivi della decisione

I ricorsi sono manifestamente infondati.

I ricorrenti ripropongono questioni già esaminate dalla Corte territoriale e decise con motivazione esente da vizi di manifesta illogicità, come tale incensurabile in sede di legittimità.

In particolare, quanto alle censure del M., i giudici di appello hanno dato conto della sussistenza del tentativo di rapina, escludendo la desistenza volontaria sulla base dei fatti accertati, attesa l’attivazione del sistema di allarme dell’ufficio postale ove gli imputati avevano tentato di forzare la zona blindata in cui era ubicato lo sportello bancomat. E’ stato, al riguardo, chiarito che la fuga degli autori del reato era stata determinata "dalla pronta reazione degli addetti all’ufficio delle Poste e dall’intervento immediato delle Forze dell’ordine che, messisi alla ricerca degli autori del tentativo di rapina, erano riusciti a rintracciarli all’interno della casa della B.S.".

Va,poi, rammentato che la motivazione della sentenza di primo grado si integra con quella di appello nè può, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", essere superato il limite costituito dal "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dai probatori non esaminati dal primo giudice, ipotesi non ricorrente nella specie (Cass. n. 19710/2009; n. 38788/2006).

Legittimamente, quindi, la Corte di merito ha richiamato la motivazione della sentenza di primo grado,- integrativa di quella di secondo grado anche quanto alla identificazione del M. come uno gli autori della tentata rapina.

Sulla sussistenza del dolo della B., in relazione al reato di favoreggiamento, è stato ribadito nella sentenza impugnata che la stessa, al fine di depistare le indagini, aveva negato agli agenti di polizia che all’interno del suo appartamento si erano rifugiati i malviventi, "dichiarando di essere sola in casa". Com’è noto, il reato di favoreggiamento personale è reato di pericolo ed ai fini della sua configurabilità, è sufficiente che sia stata posta in essere un’azione diretta ad aiutare taluno ad eludere le investigazioni senza che sia necessario che detta azione abbia raggiunto l’effetto di ostacolare le investigazioni, nella consapevolezza (dolo generico) dell’agente di fuorviare, con la propria condotta le investigazioni nei confronti dell’autore di un reato (Cass. n. n. 8786/99; n. 44756/2003). Non si ravvisano valide ragioni per escludere la utilizzabilità, ex art. 195 c.p.p., delle dichiarazioni rese dagli agenti di P.G. in quanto le informazioni da loro assunte, nell’immediatezza dei fatti da persone ignote, e-rano dirette, nel caso di specie, a proseguire le indagini ed a rintracciare gli autori della tentata rapina, sicchè esulano dal divieto della testimonianza indiretta degli organi di polizia giudiziaria, trattandosi di dichiarazioni rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale e di urgenza, al di fuori, quindi, di un dialogo tra teste e agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità (Cass. S.U. n. 36747/2003).

Non è neppure ravvisabile la inutilizzabilità, ex art. 63 c.p.p., comma 2, delle dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni dalla B. che, all’epoca, non aveva assunto la qualità di indagata nè risultava iscritta nell’apposito registro a seguito di specifica iniziativa da parte del P.M.; le dichiarazioni rese dalla B. il 6.9.2008, risultano, infatti, rese all’ufficiale di P.G. in merito al rintraccio presso l’abitazione della stessa B. dei tre soggetti, poi imputati del reato in questione, "al fine di meglio chiarire le circostanze del rintraccio" (V. verbale di sommarie informazioni allegato al ricorso) e, peraltro, nel verbale stesso si da atto della interruzione delle dichiarazioni della B., allorchè la stessa aveva fatto riferimento a circostanze che potevano comportare indizi di reità in ordine al reato di favoreggiamento.

La misura della pena e la mancata concessione delle attenuanti generiche è stata confermata con sufficiente motivazione in relazione alla motivazione sul punto del giudice di prime cure "nel rispetto dei criteri di dosimetria di cui all’art. 133 c.p.".

Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di ciascuno, al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende, considerati i profili di colpa emergenti dai ricorsi.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-08-2011, n. 17280 Muri comuni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Nel 1981 I.V., + ALTRI OMESSI condomini di un edificio posto in (OMISSIS), convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Ancona, G. B. affinchè fosse condannato alla rimozione di una canna fumaria che aveva collocato in aderenza al muro dell’edificio condominiale. Tale giudizio, nel quale erano intervenuti A. P., + ALTRI OMESSI sentenza di condanna del convenuto, confermata, poi, dalla Corte d’appello di Ancona con sentenza n. 134/94.

Avverso quest’ultima pronuncia M.V., coniuge di B.G. e comproprietaria della canna fumaria, lamentando di essere stata pretermessa nel ridetto giudizio proponeva innanzi alla stessa Corte d’appello opposizione di terzo, ai sensi dell’art. 404 c.p.c., che era accolta con sentenza n. 410/97, che dichiarava la nullità della sentenza n. 132/94 e rimetteva le parti al Tribunale di Ancona ai sensi dell’art. 354 c.p.c., senza regolare le spese delle pregresse fasi del giudizio.

Riassunto il quale da parte dei soli I.V., + ALTRI OMESSI nei confronti dei predetti coniugi, M.V. eccepiva l’improcedibilità della domanda non essendo stata riassunta la causa nei confronti di tutti i soggetti che avevano partecipato al precedente giudizio. Il Tribunale di Ancora, respinta l’eccezione per l’inesistenza del litisconsorzio necessario rispetto alla domanda negatoria servitutis, proponibile anche soltanto da taluni dei comproprietari, perveniva a nuova statuizione di condanna dei convenuti, anch’essa quasi interamente confermata, poi, dalla Corte d’appello di Ancona, adita dai B. – M., con sentenza n. 508/04, che si limitava a dichiarare illegittima l’opera già posta in essere dagli appellanti, e regolava, compensandole per intero, le spese dei due giudizi anteriori all’opposizione di terzo, ponendo, quindi, le spese dei gradi successivi alla riassunzione a carico degli appellanti.

Condivisa l’opinione del giudice di primo grado, detta Corte osservava, inoltre, che nella specie la rimozione della canna fumaria incideva esclusivamente su di un bene di proprietà dei convenuti, e dunque il muro condominiale in aderenza al quale la stessa canna era stata allocata non era interessato da mutamenti di fatto, tali da rendere ineseguibile la sentenza in ipotesi di mancata partecipazione al giudizio di tutti i comproprietari; e che, inoltre, come sostenuto dalla stessa M. con la comparsa di risposta nel giudizio riassunto, la canna fumaria a quel momento era già stata rimossa, di guisa che l’unica questione che si poneva era quella dell’esistenza o non del diritto preteso dai convenuti.

Per la cassazione di quest’ultima sentenza ricorre G. B., formulando quattro mezzi di annullamento.

Resistono con controricorso I.V., + ALTRI OMESSI .

M.V. non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 102, 354 e 307 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 (rectius, n. 4), sostenendo di non aver mai contrastato l’affermazione secondo cui l’actio negatoria servitutis può essere proposta anche da un solo condomino, ma di aver sempre dedotto che, nella fattispecie processuale, il litisconsorzio era necessitato sia dal fatto che la riassunzione era stata imposta da sentenza resa in accoglimento di un’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., sia dalla presenza di domanda riconvenzionale, proposta nel giudizio di primo grado e riproposta in quello d’appello conclusosi con la sentenza n. 132/94 poi dichiarata nulla. Quindi, aggiunge che, interrotto o dichiarato nullo un processo, la riassunzione di esso deve essere attuata da e nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nel giudizio rescindente.

1.1. – Il motivo è infondato per più ragioni.

1.1.1. – Nel processo con pluralità di parti, nel lato attivo e/o passivo, derivante non dall’infrazionabilità soggettiva del rapporto sostanziale dedotto, ma da una situazione iniziale o sopravvenuta dì litisconsorzio facoltativo, non si determina per ciò stesso e per ciò solo una fattispecie di litisconsorzio necessario processuale nei gradi successivi e nelle fasi ulteriori del giudizio, poichè tale ultima ipotesi si origina unicamente dal nesso di inscindibilità o dipendenza delle cause cumulate. Ne deriva che ove il giudice della causa di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., comma 1, applicando l’art. 354 c.p.c. dichiari la nullità della sentenza impugnata per la preterizione di un litisconsorte necessario e rimetta la causa al primo giudice, nel processo così riassunto la medesima pluralità di parti del giudizio di opposizione deve riprodursi limitatamente ai rapporti processuali ritenuti tra loro inscindibili o dipendenti.

Nella specie, la Corte d’appello di Ancona, adita in sede di opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., comma 1, limitandosi alla pronuncia rescindente ha rimesso le parti al primo giudice (anzichè procedere alla fase rescissoria) per la non integrità del contraddittorio nel lato passivo della proposta azione negatoria servitutis (per la necessità della rimozione di opere), e poichè, per la ragione anzi detta, non risponde al vero che debba esservi perfetta corrispondenza delle parti nella fase rescindente e in quella rescissoria anche per le cause scindibili, quali sono – indiscutibilmente nel lato attivo – le azioni negatorie (secondo la giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. per tutte, Cass. n. 10470/01), la pronuncia impugnata si sottrae alla censura in esame.

1.1.2. – Sotto altro aspetto, si rileva che il ricorrente non precisa quale domanda riconvenzionale (a litisconsorzio necessario di tutte le parti già presenti) avrebbe avanzato in primo grado e riproposto in appello, sicchè non risulta nemmeno che la relativa questione sia entrata a far parte del thema decidendum del giudizio conclusosi con la sentenza della Corte anconetana n. 508/04. Trattasi, pertanto, di questione preclusa, in quanto nel giudizio di cassazione non è dato alle parti di prospettare nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello (cfr. Cass. nn. 1474/07 e 5620/06).

2. – Con il secondo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione o comunque l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine all’applicazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 1102 c.c., nonchè l’errata valutazione delle prove esperite nei giudizi annullati per violazione del principio del contraddittorio, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Si sostiene che la Corte d’appello non ha accolto l’istanza di rinnovazione di c.t.u., ma ha ritenuto utilizzabile quella espletata nel giudizio dichiarato nullo proprio per l’assenza della comproprietaria M.V.; e che la Corte territoriale non ha motivato la non ammissione di capitoli di prova – che il ricorrente riproduce – tesi a dimostrare che la canna fumaria era al servizio della proprietà esclusiva dei B. – M. e che sul medesimo muro condominiale insistevano da molti anni diverse canne fumarie al servizio di proprietà esclusiva di altri condomini.

2.1. – Entrambe le censure in cui si articola il motivo sono inammissibili.

2.1.1. – La prima, per difetto d’interesse.

Come più volte chiarito da questa Corte, l’ordinamento non appresta tutela all’interesse alla mera regolarità formale del processo, di guisa che l’interesse a denunciare la violazione di una norma processuale in tanto sussiste in quanto ciò abbia comportato un pregiudizio alla sfera giuridica della parte, la quale è pertanto tenuta ad allegare e dimostrare il vulnus concretamente subito alla propria attività difensiva (cfr. e pluribus, Cass. nn. 3024/11, 4340/10 e 15678/07).

Nella specie, il ricorrente era parte del processo dichiarato nullo, e dunque non può lamentare, assente ogni pregiudizio per sè, che gli accertamenti tecnici svolti in allora e nel suo contraddittorio, siano stati poi ritenuti validi anche nel nuovo giudizio di merito nei riguardi della litisconsorte pretermessa, la sola a potersene, in ipotesi, dolere.

2.1.2. – La seconda censura è inammissibile per la totale mancanza di allegazione degli elementi necessari a dimostrare la decisività dei capitoli di prova non ammessi. E’, infatti, costante l’orientamento di questa Corte secondo cui qualora con il ricorso per cassazione siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori ritualmente richiesti e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di darvi ingresso, il ricorrente ha l’onere non solo di indicare specificamente detti mezzi, trascrivendo le circostanze che ne costituiscono oggetto, ma anche di dimostrare, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo sul carattere decisivo delle prove, l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, nel senso che senza di esso la decisione sarebbe stata, non probabilmente, ma certamente di contenuto diverso, di modo che la stessa ratio decidendi risulti priva di fondamento e, dunque, confutata nei propri presupposti logici (cfr. Cass. nn. 5377/11, 4369/09, 11457/07, 4178/07 e 3075/06).

3. – Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. in ordine al capo della sentenza inerente alle spese del giudizio, lamentandosi che la Corte d’appello ha compensato integralmente le spese delle fasi del giudizio anteriori all’opposizione di terzo, e posto a carico degli appellanti quelle dei due gradi della fase successiva di riassunzione, operazione, questa, preclusa dal giudicato formatosi sulla pronuncia rescindente n. 410/97 della stessa Corte.

4. – Con il quarto motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 162 c.p.c., comma 2, degli artt. 91 e 92 c.p.c. e l’insufficiente motivazione in relazione alle spese, nel senso che la compensazione di queste non è motivata ed è comunque illegittima, in quanto la nullità di quei giudizi è dipesa dalla mancata tempestiva integrazione del contraddittorio nei confronti della M..

5. – I suddetti due motivi, da esaminare congiuntamente, sono inammissibili per difetto di interesse all’impugnazione.

Infatti, proprio il giudicato formatosi sulla sentenza n. 410/97 potrebbe al massimo comportare che con la sentenza ora impugnata la Corte d’appello non avrebbe potuto provvedere sulle spese dei due gradi di giudizio anteriori all’opposizione di terzo. Ma siccome tali spese sono state interamente compensate dalla Corte territoriale, e tale statuizione non poteva essere più favorevole al B., essendo egli risultando soccombente all’esito complessivo della lite – esito che deve essere valutato in maniera unitaria e globale (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. per tutte e da ultime, Cass. nn. 15483/08 e 4052/09) – manca l’interesse ad impugnare tale capo della sentenza.

6. – In conclusione il ricorso va respinto.

7. – Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali forfetane di studio, IVA e CPA come per legge.

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