Cass. civ. Sez. I, Sent., 20-05-2011, n. 11175

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Svolgimento del processo

I sigg. A. e S.P.N., nipoti ed eredi del sig. M.G., ricorsero alla Corte d’appello di Catanzaro per ottenere l’equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, del danno derivante dall’irragionevole durata di un processo per il riconoscimento di pensione privilegiata, per infermità contratta a causa del servizio militare di leva, iniziato dal loro zio e dante causa il 21 novembre 1967 davanti alla Corte dei conti, Sez. giurisdizionale per la Calabria, e conclusosi con sentenza di primo grado depositata solo 39 anni dopo, il 5 giugno 2006. Calcolarono l’indennizzo loro spettante in Euro 60.500,00.

Resistette il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Corte d’appello, ritenuto che dalla complessiva durata del processo presupposto andasse detratto il periodo successivo alla morte dell’attore sig. M.G., avvenuta il (OMISSIS), nonchè il periodo di durata stimata ragionevole, pari a tre anni, liquidò un indennizzo di Euro 15.000,00.

I sigg. S.P. hanno quindi proposto ricorso per cassazione, cui l’Amministrazione intimata ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

L’unico motivo di ricorso è inammissibile perchè, pur essendo rubricato "falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3", non contiene la formulazione del quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., comma 1. Più esattamente, si conclude con una esposizione sintetica "ai sensi del combinato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e dell’art. 366 bis c.p.c., comma 2", la quale, però, altro non è che il riassunto del motivo stesso, senza mettere a fuoco alcuna specifica questione di diritto o chiara enucleazione di un fatto controverso su cui verta una ipotetica censura di vizio di motivazione.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 900,00 per onorari, oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 02-02-2011) 29-03-2011, n. 13080 Custodia cautelare in carcere Estinzione delle misure

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Svolgimento del processo

Il Procuratore Generale ha avanzato istanza di applicazione della misura cautelare carceraria con istanza del 14.7.2010, ai sensi dell’art. 307 c.p.p., all’indomani della pesante condanna inflitta all’imputato, quale responsabile di aggiotaggio per manipolazione informativa ed altro. Egli segnalava il pericolo di reiterazione di analoghe condotte criminose (attese le modalità di commissione dei fatti, della rete dei collegamenti internazionali situazioni che gli hanno consentito di giovarsi di appoggi in ogni dove) ed elevato il pericolo di fuga, in ragione dell’elevatezza delle pene che è ragionevole presumere discendere da imminenti condanne.

La Corte d’Appello milanese ha respinto la richiesta con Ordinanza del 19.7.2010 escludendo, per ciò che trae alla reiterazione delle condotte illecite, l’attuale esistenza della rete di appoggi, la caduta del sistema industriale su cui fondava l’azione del T. che è da tempo dichiarato in istato di insolvenza. Per il profilo del pericolo di fuga, ha sottolineato il lungo periodo di tempo dal quale egli riacquistò la libertà, senza mostrare intento di fuga.

Avverso l’Ordinanza ha proposto appello il medesimo Procuratore Generale.

Il Tribunale del Riesame di Milano, con Ordinanza 27.9.2010, in riforma dei Ordinanza 19.7.2010 della Corte d’Appello di Milano, ha applicato a T.C. la misura cautelare carceraria, ritenendo la ricorrenza di eccezionali ragioni cautelari (disposizione sospesa ex art. 310 c.p.p.).

Il T. era stato fermato a seguito della prime indagini che avevano accertato manifestazioni vistose della sua insolvenza ed appurato l’infedeltà delle sue comunicazioni al mercato mobiliare.

Il fermo era stato convalidato il 30.12.2003 dal Tribunale di Milano che gli applicava la misura cautelare carceraria e dichiarava la propria incompetenza a favore dell’AG. di Parma, Quest’ultima riemetteva la misura cautelare.

In data 9.3.2004 era collocato agli arresti domiciliari ed il 26.9.2004 era scarcerato per decorrenza dei termini.

Contemporaneamente egli era condannato dal Tribunale di Milano con sentenza 18.12.2008 per aggiotaggio, condanna che è stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano del 26.5.2010.

Lamenta la difesa del ricorrente l’illogicità della motivazione con cui è stata riscontrata la sussistenza delle esigenze cautelari con riferimento al concreto pericolo di fuga, avendo i giudici trascurato la concretezza del rischio ed essendosi ancorati alla mera possibilità di siffatto evento, anzichè alla probabilità dello stesso;

l’illogicità concernente la motivazione relativa alla scelta della misura cautelare, dovendosi ritenere la carcerazione extrema ratio e, dunque, rinvenire premesse di eccezionale rilevanza.
Motivi della decisione

Il provvedimento è stato emesso ai sensi dell’art. 307 c.p.p., comma 2, che prevede la misura cautelare soltanto quando ricorra l’esigenza connessa al pericolo di fuga (di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. b).

Racchiusa in questi ambiti la fattispecie processuale, risultano inutili e fuorvianti le osservazioni concernenti le ulteriori ipotesi di esigenza cautelare dettate dall’art. 274 c.p.p. e, segnatamente, quella della commissione di possibilità di delitti della stessa specie (lett. c).

L’attenta e pur meditata Ordinanza, qui impugnata, assolve indubbiamente all’onere giustificativo sulla ricorrenza delle premesse che legittimano l’applicazione di una misura cautelare che scongiuri il rischio paventato, in vista della definizione del processo di merito.

Le obiezioni difensive non possono scalfire quello che è stato ritenuto, ormai tralaticiamente da questa Corte, il corredo dei presupposti che legittimano la scelta di "anticipare" un esito che il PM. ritiene probabile e che verrebbe frustrato dalla possibile fuga dell’imputato e che il provvedimento oggetto di ricorso puntualmente (anzi, puntigliosamente) enuncia:

"Ai fini del ripristino, determinato da sopravvenuta condanna, della custodia cautelare nei confronti di imputato scarcerato per decorrenza dei termini, la sussistenza del pericolo di fuga non può essere ritenuta nè sulla base della presunzione, ove configurabile, di sussistenza delle esigenze cautelari stabilita dall’art. 275 c.p.p., comma 3, nè per la sola gravità della pena inflitta con la sentenza, che è soltanto uno degli elementi sintomatici per la prognosi da formulare al riguardo, la quale va condotta non in astratto, e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento ad elementi e circostanze attinenti al soggetto, idonei a definire, nel caso specifico, non la certezza, ma la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce (personalità, tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, pregresso comportamento, abitudini di vita, frequentazioni, natura delle imputazioni, entità della pena presumibile o concretamente inflitta), senza che sia necessaria l’attualità di suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga" (Cass. Sez. Un., 11 luglio 2001 Litteri ed altro, CED Cass. 219600).

Il giudizio è stato calato, correttamente, al caso di specie ed alla inconsueta storia criminale del giudicabile (tenendo, peraltro, presente che quest’ultima è metro appropriato per la commisurazione della pena, più che per l’apprezzamento della prognosi di sottrazione alla medesima), ed è stato articolato con argomenti che questo giudice non può ulteriormente valutare, trattandosi di apprezzamenti ragionevoli, plausibili e strettamente aderenti alla soluzione dei quesiti posti dalla fattispecie.

Cosi la distanza di tempo dalla scarcerazione, senza alcun dimostrato tentativo di sottrarsi ai propri obblighi, non può essere vagliato diversamente, a fronte dell’obiettivo rischio di prossima carcerazione per nuova (e definitiva) condanna.

Il Collegio, al contrario, ritiene necessariamente meritevole di maggiore valutazione la scelta della misura da adottarsi alla luce del tessuto normativo vigente.

E’ dato evidente che la custodia cautelare rappresenta in sè l’unica cautela che garantisce (in grandissima misura) il rischio della fuga dell’imputato, ma siffatta soluzione rappresenta indebita scorciatoia, nel momento in cui esime il giudice dalla delicata analisi prognostica che deve svilupparsi nel rispetto del sistema processuale in tema di limitazione della libertà dell’imputato.

Analisi che, per la situazione oggetto di considerazione, il legislatore ha rivestito di singolari precauzioni e di correlativi pesanti oneri giustificativi. Invero, il codice di rito pretende che ‘la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3) ed, ulteriormente, circoscrive siffatta opzione ponendo un espresso divieto al riguardo ("non può essere disposta la custodia cautelare un carcere …."), addebitando al giudice un severo onere giustificativo cadenzato da connotazione di straordinarietà: "salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza".

Per quanto dianzi osservato, è chiaro che le esigenze non sono quelle della reiterazione di condotte illecite, ma soltanto quelle connesse al rischio di fuga, rischio che – insegnano le Sezioni Unite – deve profilarsi con ragionevole probabilità (e non soltanto mera possibilità), in ragione di attuali e concreti profili comportamentali.

E’, del pari, importante rammentare che la disposizione in esame altera le naturali cadenze processuali con un’"anticipazione" dell’esecuzione ad un momento antecedente alla conclusione del processo penale: profilo che impone due ulteriori considerazioni.

La prima tende a ribadire l’eccezionalità che deve rivestire la decisione giudiziale, la seconda rammenta che la scelta della carcerazione cautelare consente di applicare all’imputato un regime che non è allineato sulle medesime conseguenze e sui profilijgfopri u" della sanzione inflitta in sede esecutiva. E, dunque, è pur sempre dovere del giudice che rende il provvedimento cautelare, ancorchè emesso al termine della fase processuale della cognizione, accertare se "ogni altra misura risulti inadeguata" ( art. 275 c.p.p., comma 3).

Invece, l’Ordinanza impugnata non esplora la possibilità di misure alternative ed, astrattamente, più consone all’età del prevenuto, accedendo – quasi fosse l’unica possibile opzione (salvo un apodittico cenno che l’"etero controllo" può essere assicurato soltanto dalla restrizione detentiva, rilievo che, come sopra osservato, rasenta l’inconsistenza per la sua estensibilità ad ogni situazione cautelare) – alla più drastica detenzione carceraria.

Il giudice della cautela non si è espresso sull’efficacia delle ipotesi di cui all’art. 281 c.p.p. e ss., ovvero sull’utilità di ascrivere all’organo di polizia il controllo sui movimenti dell’imputato, in via di prevenzione rispetto al rischio della sottrazione alla sanzione irroganda.

Analisi che si imponeva come essenziale, al cospetto dei profili, indubbiamente peculiari di questa fattispecie, affacciati dalla difesa (e fatti propri anche dalla Corte territoriale) che vertono sul lungo periodo di libertà goduto dal T. e sull’assenza di concreta ed attuale volontà di espatrio (attestata dalla restituzione del proprio passaporto).

Argomenti che, con notazione che ragionevolmente asseveri il convincimento – evidentemente sotteso all’opinione del Tribunale del riesame – che tale condotta sia unicamente mirata ad una callida e preordinata manovra per incettare fiducia, da tradire al momento opportuno, possano rendere adeguata motivazione al drastico assunto giudiziale.

Pertanto, la lacuna argomentativa impone un nuovo esame dell’Ordinanza impugnata.
P.Q.M.

Annulla l’Ordinanza impugnata, con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Milano.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 02-02-2011) 15-04-2011, n. 15429 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – Con l’ordinanza qui impugnata, il Tribunale per il Riesame ha annullato il provvedimento cautelare emesso dal Gip. nei confronti dell’odierno indagato accusato di violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Detto in estrema, sintesi, i giudici di merito hanno sostenuto che il provvedimento impugnato fosse nullo perchè il potere integratorio – da parte del Tribunale per il Riesame – non può risolversi in una vera e propria stesura della motivazione quando ci si debba confrontare con un provvedimento – come si dice essere quello impugnato – nel quale la motivazione sia del tutto assente graficamente ovvero quando la "motivazione per relationem si risolva in una clausola di stile che non consenta di rendersi conto se il Gip. abbia o meno preso cognizione del contenuto e delle ragioni del provvedimento di riferimento, le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione".

Inoltre, secondo i giudici di merito, il provvedimento del G.i.p. sarebbe censurabile per il fatto di non avere indicato "gli elementi dai quali è stato tratto per ciascun indagato il concreto pericolo di reiterazione della condotta criminosa".

Avverso tale decisione, il P.M. ha proposto ricorso deducendo contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione della legge.

Il ricorrente fa notare che la pronuncia in oggetto ripropone la questione della idoneità e dei limiti della motivazione per relationem e dei rapporti tra il c.d. potere devolutivo del riesame e le carenze motivazionali.

Muovendo dal rilievo che il provvedimento impugnato si è fondato sul richiamo a talune decisioni di questa S.C. (Sez. 4, 8.7.04, Chisari, Rv. 230415; Sez. 4, 14.11.07, Benincasa, Rv. 238674; sez. 3, 11.10.07, Rv. 237903), proprio attraverso il loro esame, il P.M. ricorrente sottolinea come, ad esempio, la stessa sentenza Benincasa (sez. 4, 14.11.07, Rv. 238674) escluda che il semplice fatto di recepire – nell’ordinanza cautelare – la richiesta del P.M. possa costituire violazione del dovere motivazionale di cui all’art. 292 c.p.p..

Egli fa, poi, notare come le critiche che vengono mosse all’ordinanza siano ingiustificate in quanto il G.i.p., tanto ha fatto propria la richiesta del P.M., da allegarla al provvedimento cautelare emesso.

In tal modo – si sottolinea – sono state inglobate anche le schede per ciascun indagato, nè il fatto che esse fossero state predisposte dalla p.g. – come apparentemente stigmatizzato dai giudici del Tribunale per il Riesame che hanno evidenziato tra parentesi la circostanza – può attenuarne la valenza indiziaria.

Si argomenta, poi, da parte del ricorrente, che non può certo considerarsi prova di un mancato vaglio il fatto che la richiesta di misura sia stata accolta per tutti gli indagati.

Comunque, visto che, nella specie, non è possibile parlare di motivazione "inesistente" ma, al massimo, di motivazione insufficiente, "si imponeva al Tribunale per il Riesame la integrazione del provvedimento oggetto di impugnazione".

A tale proposito, però, si evidenzia come – anche a voler discutere della stringatezza del vaglio critico operato dal Gip. o della tecnica espositiva adottata – non si può eludere il dato che il richiamo da parte del G.i.p. alla richiesta del P.M. ed agli atti redatti dalla p.g. forniva "quella indicazione richiesta dal Tribunale per il Riesame dell’iter motivazionale seguito dal G.i.p." e si sottolinea, da ultimo, come la stessa sentenza Primavera (su.

21.6.00), a proposito dei rapporti tra mancanza di motivazione e difetto della stessa, ha chiarito che essa è emendabile.

Il ricorrente, infine, censura il provvedimento impugnato perchè – sebbene emesso da due distinte sezioni del Tribunale per il Riesame e redatto da sei giudici estensori differenti ed in diverse udienze – esso risulta del tutto identico nel definire le 36 posizioni esaminate a dimostrazione della adozione, da parte di quel Tribunale per il Riesame, di una tecnica di trasferimento dello "schema-tipo" di motivazione tra i vari giudici sì da incorrere "negli stessi, se non più gravi, vizi di stile che così aspramente (lo stesso Tribunale per il Riesame n.d.r.) aveva criticato".

Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Motivi della decisione

2. – Il ricorso è fondato.

Innanzitutto, deve sottolinearsi che l’ordinanza cautelare qui in discussione consiste in sintetiche affermazioni di concordanza con la richiesta del P.M., che viene richiamata ed allegata integralmente in termini tali da rendere evidente che essa viene "fatta propria" dal G.i.p.. Al di là di possibili critiche di "ineleganza" circa un siffatto modo di procedere, è dunque chiaro che non si è in presenza nè di una motivazione "mancante" nè di mere "clausole di stile".

Già varie decisioni di questa S.C. hanno annesso piena validità alle ordinanze cautelari nelle quali il G.i.p. si riporti integralmente alla richiesta del P.M. (11.2.00 Rv. 216243; 4.12.06 Rv. 2356622; 21.11.06 Rv. 233499).

Pertanto, anche ammesso che la "motivazione" del provvedimento cautelare in discussione (intesa come quella parte del provvedimento promanante solo dal Gip.) possa essere considerata inadeguata per una sua eccessiva stringatezza e mancanza di approccio critico rispetto al materiale indiziario addotto dal P.M., di certo, non si sarebbe dovuto (nè potuto) prescindere tout court da quest’ultimo (peraltro copioso) materiale (quasi che esso, per il solo fatto di provenire da organi diversi – P.M. e polizia giudiziaria – non potessero essere preso in considerazione) posto che, in seguito al richiamo esplicito fatto dal G.i.p. ed al fatto di essere stato "inglobato" nell’ordinanza, era divenuto parte integrante della motivazione del provvedimento cautelare.

Il discorso si sposta, quindi, sul piano della valutazione della congruità e logicità motivazione "nella sua interezza".

Ma a fronte di ciò, questa S.C. ha già avuto occasione di affermare autorevolmente a Sezioni Unite (17.4.96 n. 7) che sarebbe stato preciso dovere del Tribunale per il Riesame integrare la motivazione in quanto "l’ordinanza applicativa della misura e quella che decide la richiesta di riesame sono tra loro strettamente collegate e complementari sicchè la motivazione del Tribunale del Riesame integra e completa l’eventuale carenza di motivazione del primo Giudice e viceversa" (su., 17.4.96, Moni, Rv. 205257).

Va soggiunto, altresì, che, di recente, a sezioni semplici è stato anche escluso che il Tribunale del Riesame possa annullare l’ordinanza cautelare del G.i.p. per difetto di motivazione atteso che tale potere è riservato al solo giudice di legittimità.

Ed infatti, ad escludere che l’ampiezza cognitoria del Collegio per il Riesame sia tale da includere la facoltà di annullare il provvedimento impugnato per difetto di motivazione ricorre l’affermazione di quella stessa pronuncia di questa S.C. (sez. 4, 8.7.04, Chisari, Rv. 230415) – citata anche nell’ordinanza impugnata – secondo cui la dichiarazione di nullità dell’ordinanza impositiva deve essere relegata a ultima "ratio" delle determinazioni adottabili e, comunque, "tale nullità può essere dichiarata solo ove il provvedimento custodiate sia mancante di motivazione in senso grafico ovvero, qualora, pur esistendo una motivazione, essa si risolva in una clausola di stile, onde non sia possibile, interpretando e valutando l’intero contesto, individuare le esigenze cautelari il cui soddisfacimento si persegue".

Come detto, ciò non era affermabile nella specie ove sia i gravi indizi che le esigenze cautelari erano stati ampiamente illustrati (anche partitamene per indagati) nella richiesta del P.M. e nelle relative schede personali.

Del resto, l’affermazione secondo la quale il Tribunale per il Riesame non può annullare il provvedimento impugnato per difetto di motivazione, è stata ripetuta più volte – a chiare lettere – (sez. 6, 14.6.04, Iuzzolino, Rv. 229763) anche attraverso la sottolineatura che un siffatto punto di vista è in linea con la parallela (ed anch’essa reiterata) asserzione secondo cui la motivazione del Tribunale del Riesame legittimamente integra e completa l’eventuale carenza di motivazione del primo giudice (ex plurimis, su 174.96, Moni, Rv. 205257; Sez. 3, 19.1.01, Senzadio, Rv. 218752; Sez. 6, 16.1.06, Pupuleku, Rv. 233499; Sez. 2, 4.12.06, Blasi, Rv. 235622).

Si può, forse, convenire con l’implicito rilievo "estetico-formale" secondo cui un’ordinanza cautelare concepita attraverso la trasposizione pressochè integrale della richiesta del P.M. (che a sua volta aveva recepito il lavoro della p.g.) possa non risultare soddisfacente sotto molti profili (essendo diverse le ottiche nelle quali operano, rispettivamente, le Forze dell’Ordine, il Pubblico Ministero ed, infine il Giudice). E’, quindi comprensibile la difficoltà per un organo – come quello del Riesame (costretto anche ad una decisione in termini di tempo particolarmente contenuti) – enucleare da un provvedimento tanto ampio (da sembrare di non averlo "filtrato" affatto) il complesso indiziario e le relative esigenze cautelari.

Pur tuttavia, questo è esattamente quanto il Tribunale per il Riesame è chiamato a fare, se non a rischio di abdicare alla funzione che gli è propria.

A tale stregua, è bene anche evidenziare anche alcune decisioni di questa S.C. che sostengono un punto di vista opposto (come la n. 5954/00 Sez. 5, 7.12.99, Molinari, Rv. 215258) sono espressione di un indirizzo minoritario e risalente alquanto nel tempo tanto è vero che, in seguito, esso è stato smentito ripetutamente come dimostra anche la recente decisione di questa 6, Sez. 16.1.06 (Pupuleku, Rv.

233499) che, alienandosi con numerose altre dello stesso tenore, ha asserito che, atteso l’effetto interamente devolutivo che caratterizza il riesame delle ordinanze applicative di misure cautelari, deve ritenersi che il Tribunale del Riesame "possa sanare, con la propria motivazione, le carenze argomentative di detto provvedimento, pur quando esse siano tali da dar luogo alle nullità, rilevabili d’ufficio, previste dall’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c bis)".

Del resto, ciò lo si desume con chiarezza anche dalla norma (art. 309, comma 9) che facoltizza il Tribunale a riformare, annullare o confermare "per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso" oltre che dalla costante interpretazione data da questa S.C. (v. anche sez. n. 4.12.06, Blasi, Rv. 235622) che, ricalcando analoghe enunciazioni, asserisce testualmente che "deve ritenersi che il Tribunale del Riesame possa sopperire, con la propria motivazione, non solo all’insufficienza o contraddittorietà della motivazione del provvedimento genetico della misura, ma anche alla sua totale mancanza o mera apparenza, esplicitando, per la prima volta, le ragioni giustificative della misura cautelare adottata".

In realtà, è agevole comprendere che la censura maggiore mossa dal Tribunale per il Riesame all’ordinanza cautelare del G.i.p. è quella di avere operato una trasposizione "acritica" di tutto il materiale investigativo. Ma, anche ove ciò fosse esatto, non giustificherebbe il provvedimento di annullamento conseguente.

Di certo, poi, il Tribunale non sembra nemmeno avere ipotizzato che una siffatta tecnica "motivazionale" di trasfusione massiva del compendio investigativo potesse essere stata adottata in un’ottica di presunzione di "auto evidenza" (sul presupposto cioè che "in claris non fit interpretatio" e fosse, quindi, sufficiente il rinvio ai contenuti stessi delle conversazioni intercettate oltre che agli altri elementi portati all’attenzione dagli inquirenti).

L’ordinanza impugnata deve, quindi, essere annullata con rinvio al Tribunale di Catania per nuovo esame alla luce dei rilievi fin qui svolti.
P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e seg. c.p.p. annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Catania.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Puglia Lecce Sez. II, Sent., 03-05-2011, n. 790 Carenza di interesse sopravvenuta Ricorso giurisdizionale

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- La ricorrente impugna la deliberazione in epigrafe indicata, con la quale la Giunta Municipale di Gallipoli ha nominato in servizio a tempo determinato e con contratto di diritto privato la controinteressata, conferendole l’incarico di funzionario di VIII qualifica funzionale per l’Ufficio legale.

Espone che, con delibera di G.M. del 4/12/1997 n. 2, l’Ente aveva stabilito di attribuire alcuni incarichi per chiamata diretta, con carattere fiduciario (secondo le modalità indicate dall’art. 8, lettera D), del Regolamento per l’ordinamento degli uffici e servizi comunali), precisando in particolare – per la copertura del posto di funzionario dell’Ufficio legale – che la scelta sarebbe stata comunque preceduta dalla pubblicazione di un avviso, per effettuare la scelta tra più aspiranti.

La ricorrente dichiarava la propria disponibilità all’incarico, per il quale veniva però prescelta la controinteressata.

Assumendo di vantare un curriculum migliore e che la scelta di formulare l’avviso obbligava il Comune a effettuare la comparazione tra i candidati, l’avv. P. ha formulato il presente ricorso affidato a un unico motivo, con cui è dedotta la violazione e falsa applicazione della delibera della G.M. n. 2 del 4.12.1997, la carenza di motivazione e l’errore sui presupposti di fatto e di diritto, la violazione del giusto procedimento e del principio di corretta amministrazione, il travisamento dei fatti, l’incompetenza, lo sviamento, la contraddittorietà e illogicità manifeste.

Il Comune di Gallipoli si è costituito in giudizio, contestando il ricorso sul rilievo che la scelta andava in ogni caso effettuata "intuitu personae" e con esclusione di qualsivoglia valutazione comparativa, concludendo quindi per il rigetto del ricorso.

La stessa conclusione è stata rassegnata dalla controinteressata che ha provveduto a costituirsi a sua volta in giudizio.

Con ordinanza del 16 aprile 1998 n. 375 veniva accolta l’istanza cautelare e, a seguito di ciò, la G.M. di Gallipoli revocava la delibera del 4/12/1997 n. 2 e, con altra delibera dell’8/7/1998 n. 247, nominava nuovamente in servizio la stessa controinteressata.

Tale delibera era impugnata dall’avv. P. con distinto ricorso (R.G. 2114/98), rilevandosi in particolare che con essa si eludeva l’ordinanza cautelare di questo TAR; integratosi il contraddittorio anche in quel giudizio, con sentenza del 2 marzo 2010 n. 668 è stata pronunciata l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, avendo la ricorrente espressamente dichiarato – con istanza deposita il 5/1/2010 – di non avere più interesse alla sua prosecuzione.

Fissata l’udienza per la discussione del presente ricorso, con atto depositato il 17/12/2010 il Comune di Gallipoli ha chiesto che ne sia ugualmente dichiarata l’improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse, sulla scorta della dichiarazione resa nell’altro giudizio e della conseguente pronuncia del Tribunale.

La ricorrente ha invece insistito per la pronuncia nel merito, rappresentando di conservare l’interesse alla decisione del ricorso, quanto meno ai fini risarcitori.

All’udienza pubblica del 19 gennaio 2011 il ricorso è stato assegnato in decisione.

2.- Il ricorso va dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Spetta infatti al Collegio il compito di accertare, anche d’ufficio, la permanenza dell’interesse alla decisione del ricorso e l’inesistenza di fattori sopravvenuti che la rendano concretamente priva di alcuna utilità per il ricorrente.

E ciò sulla scorta della costante giurisprudenza amministrativa, che ha statuito (cfr. Cons. Stato – Sez. VI, 19 gennaio 2010 n. 173) che "nel processo amministrativo l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che qualificano l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta e attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 1210/97). Anche nel sistema giurisdizionale amministrativo, infatti, sarebbe del tutto inutile eliminare un provvedimento o modificarlo nel senso richiesto dal ricorrente, se questi non possa trarne alcun beneficio concreto in relazione alla sua posizione legittimante".

Nel caso di specie, è accaduto che il Comune di Gallipoli ha dapprima, con la delibera del 4/12/1997 n. 2, richiesto la presentazione di candidature per l’incarico in questione (affidandolo alla controinteressata), ma ha successivamente revocato l’atto e riaffidato l’incarico senza più preoccuparsi di esaminare le domande proposte.

Le nuove determinazioni dell’Amministrazione privano la ricorrente dell’interesse a far valere l’illegittimità delle precedenti scelte, rimosse in via amministrativa e del tutto sostituite dai successivi provvedimenti, ancorché non formalmente revocati.

Neppure può ipotizzarsi che l’interesse nella specie possa permanere ai fini di un’eventuale azione risarcitoria, poiché la parte che abbia manifestato di non voler più conseguire il bene della vita (stante la dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione dell’altro ricorso) non può reclamarne la reintegrazione per equivalente; né vengono addotte peculiari ragioni astrattamente idonee a giustificare la permanenza dell’interesse a tali fini.

Conclusivamente, per le suesposti ragioni il ricorso va dichiarato improcedibile.

Sussistono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Seconda

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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