Parere legale motivato di diritto civile – separazione personale dei coniugi – crisi matrimonio, handicap (sindrome down). Affrontate le questioni delll’affido condiviso, congiunto, esclusivo e dell’ascolto del minore infra dodicenne.

a cura del dott. Domenico Cirasole direttore del sito http://www.gadit.it/

La questione giuridica in esame vede interessatii signori TIZIO e CAIA.
Detti signori sono sposati da otto anni, e a completamento del loro amore hanno avuto un figlio, sette anni fa.
Detto figlio di nome ANDREA è affetto da lieve sindrome di down.
Purtroppo oggi dopo circa 8 anni di matrimonio, interviene una crisi coniugale, che spinge CAIA a chiedere la separazione da TIZIO. Inoltre CAIA chiede l’affidamento esclusivo del figlio ANDREA, motivando la sua scelta (a suo dire), con il fatto che il rapporto tra padre e figlio non è armonioso e a conferma di ciò chiede che ANDREA venga ascoltato dal Giudice.
Orbene la famiglia è una formazione sociale fondata sul matrimonio, con i caratteri della esclusività, della stabilità e della responsabilità.

Tra i coniugi vi sono una serie di diritti e doveri reciproci quali la coabitazione, la fedeltà, l’assistenza, la collaborazione, la contribuzione ai bisogni della famiglia.

La presenza di figli in una famiglia, impone ulteriori obblighi, quali appunto l’educare, l’istruire, il mantenere, e curare i figli.
Si conferma quindi l’importanza della crescita del minore nell’ambito della famiglia, con l’obiettivo di garantire l’equilibrio dei bambini e dei ragazzi, creando o valorizzando, i rapporti della famiglia e del sociale.

La Consulta già nel 1980, aveva già avuto modo di affermare che:<>.

Detti obblighi da parte dei genitori (assistenza morale e materiale nell’ambito della propria famiglia) sono in realtà un diritto di entrambi i genitori, ma anche un diritto dei figli (il diritto del minore alla bi genitorialità).

La bigenitorialità, altro non è che l’effettiva presenza di entrambi i genitori accanto al figlio, ossia « mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, per ricevere dagli stessi cura, educazione e istruzione» art. 155, comma 1, c.c. novellato nell’art. 1, comma 1, legge n. 54/2006.

Concretamente significa che la figura del minore va tutelata e protetta nella misura più ampia possibile.
Detto principio è già formalizzato a livello costituzionale (art. 30 Cost) prima ancora che ordinario (art. 155 c.c.).

In particolare quindi i figli minori sono soggetti di diritto meritevoli di protezione e protagonisti delle proprie scelte, soggetti dotati di un potere di autodeterminazione, che hanno diritto all’ascolto, e che l’adulto valuti in modo adeguato le dichiarazioni che vengono rese dallo stesso.

Naturalmente parlare di centralità del minore significa considerarlo nel suo essere in formazione, e dunque richiede con riferimento alla dimensione dell’ascolto, l’assunzione di tecniche di tutela particolari (circostanze ambientali, lessico, tono, e quant’altro faciliti l’esposizione del minore).

L’ascolto del minore capace di discernimento (art. 12 Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia del 2 novembre 1989; art. 3 Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 5 gennaio 1996; art. 155 sexies c.c.) è la nuova chiave interpretativa e di tutela, per garantire la crescita del minore, un normale sviluppo della sua personalità, delle sue reali esigenze in modo indipendente e responsabile, tenendo conto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni (art.147 c.c), e ciò si realizza non solo e non tanto per mero effetto del benessere economico, ma attraverso “assistenza personale ed aiuto psico-affettivo” (Cass. civ., 1° febbraio 2005, n. 1996; Cass. civ., 10 agosto 2006, n. 18113) che solo la famiglia e la presenza di entrambi i genitori può garantire.

La Giurisprudenza pronunciandosi nel tempo ha affermato che «Il minore ha diritto alla prestazione di cure idonee a garantirgli uno sviluppo ottimale (vale a dire armonioso ed equilibrato sotto ogni punto di vista) a vivere in un ambiente familiare moralmente sano e materialmente confortevole, che lo sottragga a influenze deleterie, che possano incidere negativamente sul suo processo di maturazione» (Trib. min. Roma, 6 febbraio 1984).

Quindi possiamo affermare che libertà di espressione, salute, educazione, formazione, socializzazione, gioco, ascolto, dignità, riservatezza, sicurezza, sono tutti diritti del minore.
Ma alcune patologie (handicap) aumentando da un lato la sensibilità dell’adulto, e dall’altro la fragilità del minore, impongono all’adulto, un incremento delle attenzioni, per garantire allo stesso i diritti di cui vanta; quando questo accade, vi è perfetta simbiosi tra adulto e minore, tanto da creare una perfetta armonia tra il genitore e il figlio.
Cosa non semplice e non frequente.
Tra i vari handicap dei minori, la sindrome di Down, crea un particolarissimo rapporto tra genitore e figlio.

La sindrome di Down è nota per la presenza di un ritardo mentale, e il futuro di queste persone non è prevedibile e la sua crescita dipenderà da una serie di aspetti costituzionali, famigliari e ambientali insieme.
Queste differenze dipendono soprattutto dalle capacità individuali delle persone con sindrome Down, dagli atteggiamenti educativi della loro famiglia e dalla disponibilità o meno di strutture socio-sanitarie adeguate.
In Italia un bambino su 1000 nasce con la sindrome Down. Il grado di ritardo mentale non è assolutamente prevedibile e varia molto da una persona all’altra.
Quello che è certo è che il bambino sarà in grado di capire, di imparare e di ricordare quello che ha imparato e il grado di autonomia e responsabilità datogli.
Spesso non viene permesso loro di fare delle scelte, né di sfruttare le proprie capacità relazionali, né di inserirsi in un contesto sociale adeguato.
Comunque si può dire che, data una situazione familiare, educativa e sociale adeguata, una persona con sindrome Down può imparare tutto quello che è necessario per avere una vita relativamente autonoma e soddisfacente, esprimendosi con un linguaggio verbale adeguato.
I genitori per aiutare il loro bambino a parlare, devono stimolarlo, conversando con lui, ascoltarlo, fare attenzione a quello che il bambino cerca di dire, rispondergli nel modo giusto, essere pazienti, concedendo al bambino lo spazio e il tempo per agire o per rispondere.
In altre parole bisogna farsi guidare dal bambino, rispettare il suo interesse del momento, mantenendo il passo del bambino, valorizzando il bambino, imparando a pensare come il bambino, considerando il suo punto di vista secondo il suo sviluppo cognitivo e, la sua diversa prospettiva sulle azioni, sul tempo e sullo spazio.

L’accettazione delle persone con ritardo mentale da parte della società è fortemente collegata al loro comportamento sociale, in altre parole un bambino con sindrome Down sarà accettato se si comportano in modo accettabile e adeguato socialmente.

Una persona con sindrome Down potrà quindi avere una vita sociale soddisfacente se i suoi genitori cureranno fin dai primi anni di vita lo sviluppo delle capacità autonome e le regole di un comportamento sociale maturo.
Queste competenze sono indispensabili per un reale inserimento nella scuola e nel mondo del lavoro, ma soprattutto per favorire una sicurezza e una stima di sé e delle proprie capacità senza le quali una vita insieme agli altri può essere difficile e improbabile.

Ecco, quindi, che i genitori devono essere gentili, devono curare al massimo gli aspetti legati all’insegnamento dell’autonomia e delle buone maniere, devono fare gli opportuni complimenti se ha imparato bene qualcosa o se si è comportato bene.

In altre parole il genitore deve creare un rapporto unico, ed armonioso con il figlio affetto da sindrome down, e come già detto cosa non semplice e facile, quando questo non accade, per i casi molto gravi il legislatore ha creato una figura particolare, ovvero l’amministratore di sostegno provvisorio o definitivo.

Il ricorso per la richiesta di detta figura è frutto di una azione coordinata dei servizi sociali e sanitari, del medico psichiatra, e dell’assistente sociale.
Anche in questo caso il Giudice può non ritenere, sufficiente la documentazione fornita, richiedendo solo ove vi siano delle ombre ulteriori informazioni al medico curante, e per le informazioni patrimoniali, interpellando direttamente gli istituti di credito interessati.

L’audizione dei parenti, del PM, non è sempre necessaria, nel senso che se non compaiono dopo la convocazione il giudice provvede ugualmente, ma l’audizione dell’interessato è un passaggio non solo dovuto ex art. 407 c.c. (il giudice sente l’interessato dovunque si trovi) ma anche essenziale per l’acquisizione delle informazioni utili a elaborare il decreto di nomina.

Va sottolineato che l’audizione è diretta a conoscere il beneficiario, a raccogliere i suoi desideri e le sue aspirazioni, a verificare anche le sue relazioni con l’ambiente, con i famigliari, con i parenti, con i vicini, conoscenti, ad accertare il suo grado di abilità, la sua tensione verso l’autonomia, la sua suggestionabilità, i rischi a cui è esposto se lasciato solo, i rapporti di forza presenti nelle dinamiche famigliari, le sue preferenze elettive e affettive, la sua fragilità, le sue abitudini di vita, “i riti” a cui non può rinunciare.
In altre parole l’audizione è sempre diretta a conoscerlo, a raccogliere elementi utili per la scelta dell’amministratore di sostegno da farsi avendo unicamente riguardo all’interesse del beneficiario.

Orbene osservando questo istituto possiamo comprendere quanto importante sia l’audizione allorquando il minore si affetto da handicap, ovvero da sindrome di Down, e in un procedimento di separazione dei coniugi, che il più delle volte avviene dopo un periodo alquanto lungo di crisi famigliare, dove il minore è stato spettatore e vittima di scontri, conflitti, ma soprattutto di disattenzioni da parte dei/del genitori, vedendo modificare, crollare, scomparire, quel particolarissimo rapporto di armonia, che come abbiamo già appreso risulta imprescindibile per la (futura) vita sociale dello stesso.

La Suprema Corte (22238/09), ha cambiato le regole "del gioco" nei processi di separazione e divorzio ove vengano in rilievo provvedimenti destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei figli minori, non ultimo, l’affidamento.

Le Sezioni Unite, con la sentenza 22238/09 ha introdotto uno specifico onere motivazionale che non provvede all’audizione del minore.

Il giudicante dovrà espressamente riferire per quale motivo non ha inteso sentire il minore, motivo che può attenere o alla capacità di discernimento del minore stesso o all’eventualità di pregiudizi ai suoi interessi superiori.

Con la sentenza n. 22238/09 viene inoltre asserito l’obbligatorietà dell’audizione dei figli minori nei procedimenti di separazione attinente l’affidamento.

La Cassazione sostiene che non si può ignorare l’opinione del minorenne nel caso in cui si debba decidere a quale genitore dovrà essere affidato, in quanto il minore è parte sostanziale del procedimento e portatore di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori.

Si asserisce, quindi, che il mancato ascolto dei minori costituisce una violazione dei due principi cardini dell’ordinamento italiano, precisamente il principio del contradditorio e quello del giusto processo.

L’audizione del minore è prevista e riconosciuta dall’art. 12 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, fatta a New York nel 1989, nella quale è previsto che «Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.

La Suprema corte rileva ulteriormente che l’audizione del minore è divenuta obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77/2003, in quanto si dispone che «nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare le informazioni che dispone, al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente (assicurandosi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti) nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore, permettendo al minore di esprimere la propria opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa».

Pertanto la Suprema corte deducendo la violazione della Convenzione di Strasburgo, la Convenzione ONU, l’art. 155 sexies del codice civile (che dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore ove capace di discernimento), ritiene necessaria ed obbligatoria l’audizione del minore nel procedimento di separazione.

Quindi, in presenza di una richiesta di audizione avanzata da uno dei genitori o dal Pubblico Ministero, il Giudice della separazione o del divorzio (anche nella fase presidenziale) dovrà procedere all’ascolto dei minori, a meno che, come già detto, non fornisca idonea motivazione in ordine al fatto che a)tale ascolto si ponga in contrasto con gli interessi fondamentali dei figli; b) manchi il necessario discernimento dei minori infradodicenni, che può giustificarne l’omesso ascolto.

L’audizione dei figli minori ha quindi un’indubbia valenza probatoria, quale fonte di preziose informazioni sulla vita familiare, al fine di realizzare l’affidamento più conveniente nel preminente interesse del minore.

La materia dell’affidamento è molto è cambiato rispetto al secolo scorso che stabiliva il principio dell’indissolubilità del matrimonio,e ammetteva la separazione solo in caso di colpa di uno dei coniugi, e disciplinava i provvedimenti riguardanti i figli, stabilendo che i medesimi fossero affidati al coniuge
"senza colpa".
Certamente 898/70, che ha introdotto il divorzio nel nostro ordinamento, per la prima volta ha fissato all’art. 6 un criterio guida per il giudice in tema di affidamento dei figli cioè quello della preminenza del loro interesse morale e materiale.
Detto principio viene introdotto nella successiva legge di riforma del diritto di famiglia (legge 21 maggio 1975 n.151), in materia di separazione.

La separazione non viene più pronunciata solo per colpa di uno dei coniugi, ma viene intesa come rimedio ad una situazione di fallimento della vita coniugale, e il giudice nello scegliere il genitore al quale affidare i figli deve tener presente solo ed esclusivamente la posizione dei figli, il loro interesse, le condizioni migliori per lo sviluppo della loro personalità.

In particolare, oggi il criterio unico che disciplina l’affidamento in caso di separazione è quello del superiore interesse della prole, inteso quale riorganizzazione di un modello di comunità familiare in cui il minore possa venire educato e realizzare il proprio diritto alla formazione ed alla crescita della sua personalità.

La separazione, tanto consensuale quanto giudiziale, determina lo scioglimento dell’eventuale regime di comunione legale dei beni e non solo, creando una rottura emotivo, economica, genitoriale, comunità, psichico.

In caso di separazione consensuale, i coniugi regolamentano i loro rapporti con un accordo che verrà poi omologato dall’autorità giudiziaria.

Il contenuto dell’accordo potrà avere ad oggetto la divisione di beni comuni, l’assegnazione ad uno dei coniugi di beni di proprietà comune o esclusiva dell’altro coniuge, il
riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge debole.

In ogni caso sono fatti salvi tutti i provvedimenti indispensabili all’interesse della prole, quali ad esempio l’assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario, l’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento per i figli o per il coniuge economicamente più debole.

Sempre nell’interesse della prole, vi è stato un ripetuto cambiamento di rotta nell’affidamento che ha visto concludere il percorso grazie alla Legge 8 febbraio 2006, n. 54.

In passato frequenti erano la svalutazione dell’altro genitore, manipolazione dei fatti o anche alla costruzione di false denunce di abuso, di violenza e inidoneità genitoriale con il solo scopo di allontanare un genitore escludendolo dalla funzione di genitore condizionando il minore a schierarsi a sua volta contro il genitore allontanato.
I danni che queste forme di comportamento arreca ai figli sono enormi creando nel minore un senso di perdita e di abbandono che potrà influenzarlo per tutta la vita. Questa sintomatologia si chiama Sindrome da alienazione genitoriale o PAS, provocando una regressione, una limitazione, un blocco delle capacità di pensiero. L’esperienza dimostra che, qualora venga meno l’influenzamento dei figli da parte del genitore alienante, i sintomi della PAS svaniscono. Consentire ai figli di maturare esperienze dirette e complete di vita con ciascun genitore separatamente dal genitore alienante è il modo migliore per prevenire la PAS, mitigando l’influenza delle azioni denigratorie.
Inoltre, la convivenza equilibrata con ciascun genitore senza la presenza dell’altro, in modo alternato, favorisce la
creazione di una relazione diretta e autentica.
Prima della legge 54/06, i figli in caso di separazione
legale dovevano essere affidati al padre e solo in casi gravi alla madre, con la L.151/75 i diritti del padre e della madre vengono parificati prevedendo l’affidamento monogenitoriale esclusivo ai sensi del disposto dell’art. 155 c.c. (il modello di affidamento più applicato sino ad oggi in caso di separazione).
Tale modello prevedeva l’affidamento dei minori ad un genitore mentre l’altro conservava un generico diritto di visita, di vigilanza sulla istruzione ed educazione. In ogni caso le decisioni di maggiore interesse dovevano essere adottate di comune accordo tra i genitori.
Mentre con l’affido congiunto come modalità alternativa di custodia dei figli minori previsto dall’art. 6 Legge 878/70 veniva superata il contrasto tra genitori, garantendo al minore, una continuità affettiva e di intervento di
entrambi i genitori.
Ne discende che tale soluzione dovesse essere esclusa laddove uno solo dei coniugi reclamasse l’affidamento per sé, sul presupposto che l’altro genitore non fosse in grado di assumersi il compito educativo con pienezza di poteri, e nei caso di conflittualità della coppia genitoriale.
Oggi con legge 8 febbraio 2006, n. 54, l’art. 155 c.c., così come riformato, prevede che <>.
Ecco quindi sorgere il principio della bi genitorialità.
Qualora il giudice ritenga che i genitori non siano in grado di comporre la loro conflittualità nell’interesse dei figli minori, permane l’alternativa dell’affidamento ad uno soltanto di essi. Un aspetto degno di nota della riforma in oggetto è l’introduzione all’art. 155 sexies c.c. (obbligo di ascolto del minore e l’attivazione dei percorsi di mediazione dei genitori).

L’affido condiviso è dunque oggi l’unica forma di affidamento dei figli includendo l’eccezione dell’affido a un solo genitore quando il comportamento dell’altro genitore nei confronti del figlio sia contrario all’interesse del minore stesso. Solo in tal caso potrà essere limitata la frequentazione ma non la potestà di quel genitore.
A differenza del passato non sono considerati validi motivi per l’affidamento a un solo genitore il conflitto tra i genitori.
L’affido condiviso consente l’esercizio della potestà anche in modo disgiunto (in caso di conflitto) cosicché ciascun genitore è responsabile in toto quando i figli sono con lui mantenendo inalterata la genitorialità di entrambi.
La permanenza del minore presso ciascun genitore viene ripartita in un progetto educativo genitoriale da presentare in allegato all’istanza di separazione, con la ripartizione dei compiti e dei capitoli di spesa assegnati a ciascun genitore.

L’affidamento condiviso costringe i genitori a distinguere la relazione di coppia dalla loro relazione genitoriale.

Le azioni che un genitore dovesse compiere, volte a ostacolare la frequentazione dell’altro genitore o a gettare
discredito sull’altra figura genitoriale, verranno considerate un valido motivo di esclusione.

Resta però la differenza fra amministrazione ordinaria e amministrazione straordinaria.
L’art. 155 c.c., aggiunge che limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.

Concludendo a parere dello scrivente CAIA può si proporre l’affidamento esclusivo, ma questo difficilmente potrà essere accolto, qualora non fossero presenti comportamenti di TIZIO contrari all’interesse di ANDREA.

Anzi ben può il giudice ritenere la sua richiesta volta ad ostacolare la frequentazione dell’altro genitore, escludendogli l’affido.

CAIA può, invece proporre un esercizio separato della potestà.

In merito all’ascolto di ANDREA, il giudice per quanto obbligato all’ascolto, può ritenerlo incapace di discernimento sia a causa della patologia di cui è affetto che per la sua tenera età (non avendo compiuto gli anni dodici).

Parere legale. Maltrattamenti in famiglia, collocati nel clima di tensione famigliare.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE
La questione giuridica in esame vede interessata CAIA, che da tempo subiva continue ingiurie, minacce e percosse dal marito.
Detto comportamento doveva ritenersi provato sulla base, delle sia pure parziali ammissioni del marito SEMPRONIO, nonchè da testimonianze di medici, conoscenti e di certificati medici, da cui si ricava una condotta abituale di sopraffazioni, violenze e offese umilianti, lesive della integrità fisica e morale di CAIA, poste in essere da SEMPRONIO.
Nei comportamenti di SEMPRONIO sembra mancare l’elemento dell’abitualità della condotta di sopraffazione, infatti è dato atto della circostanza che CAIA, per ammissione della stessa, si reputa di carattere forte, e non intimorita dalla condotta del marito.
Difatti in questa questione viene scambiando per sopraffazione esercitata da SEMPRONIO, quello che è un clima di tensione fra i coniugi.
I vari episodi di ingiurie, minacce e percosse andavano collocate nel clima di tensione famigliare, e interpretati conformemente a tale circostanza.
Come è ampiamente noto, perchè sussista il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), occorre che sia accertata una condotta (consistente in aggressioni fisiche e vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva della integrità fisica e del patrimonio morale della persona offesa, che, a causa di ciò, versa in una condizione di sofferenza (CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – 2 luglio 2010, n. 25138).
Nella specie è provato "uno stato di tensione" tra i coniugi e uno "stato di sofferenza" di CAIA, ritenuto dalla stessa conseguenza di una condotta abituale di sopraffazione da parte di SEMPRONIO.
Ma dagli elementi raccolti, tali affermazioni, fatte da CAIA, tuttavia, non poggiano su elementi idonei a rappresentare un’abitualità della condotta vessatoria dell’imputato.
Stando al tenore delle affermazioni, i fatti appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di circa tre anni.
Detti fatti, dunque non rendono di per sè integrato il connotato di abiutalità della condotta di sopraffazione richiesta per l’integrazione della fattispecie in esame.
Tanto più che, la condizione psicologica di CAIA è per nulla "intimorita" dal comportamento del marito.
Concludendo a parere di chi scrive la condotta di SEMPRONIO, non può integrare la fattispecie di maltrattamenti ex art. 572 c.p..

Gli atti «privi di capacità» di agire

& Poiché il difetto della capacità di agire ha rilievo unicamente per quegli atti e comportamenti per i quali la legge pone tale qualità come presupposto di validità (Falzea, 25), sono qualificabili come atti «privi» di capacità di agire tutti quelli che, realizzando un interesse del soggetto, o ponendosi quale esecuzione di un precetto giuridico, non potrebbero mai essere pregiudizievoli per l’agente (Rescigno, 216). Possono annoverarsi in tale categoria: le dichiarazioni di volontà non negoziali; le dichiarazioni richieste ai minori (artt. 296, 348, 3° co., 363, 1° co., 371, 1° co.); gli atti di godimento, l’esercizio del diritto di libertà; l’atto di adempimento; l’accessione; la specificazione; il ritrovamento e l’immissione; il trasferimento di domicilio e residenza nonché la destinazione del padre di famiglia.
Per quanto concerne il pagamento del debito è irrilevante lo stato di capacità o incapacità del debitore (art. 1191), mentre ove questi riceva una prestazione altrui, il debitore non è liberato se non provi che il pagamento effettuato sia andato a vantaggio dell’incapace (art. 1190).
! La condizione di inabilitazione del debitore è irrilevante ai fini dell’adempimento trattandosi di atto per il quale la capacità di agire è ininfluente: la costituzione in mora ha l’effetto di interrompere la prescrizione anche se fatta nei riguardi di soggetto incapace (C. 3616/89).
Per il possesso, in quanto atto volontario non negoziale, è ininfluente lo stato di incapacità del soggetto, essendo sufficiente che costui sia capace di intendere e volere (C. 22776/04; C. 6878/86).
Alla sola incapacità naturale di intendere o volere fa riferimento l’art. 2046, mentre l’incapacità di agire del minore di età non rileva nella commissione dell’illecito se non al limitato fine di far ricadere la responsabilità sui genitori o sul tutore (art. 2048).
& Il minore può compiere o ricevere tutti gli atti giuridici che non comportino conseguenze per lui sfavorevoli; è quindi capace di interrompere la prescrizione di un suo diritto nonché di mettere in mora il creditore (Bianca, 217).

Parere legale motivato di diritto penale – concorso di persone nel reato, concorso eventuale, concorso anomalo, aberratio delicti concorsuale,- OMICIDIO-

TIZIO legato a CAIO da un rapporto di amicizia, gli riferisce l’intenzione di punire SEMPRONIO, a causa di un torto ricevuto dallo stesso, quindi prende una pistola carica, chiede a CAIO di accompagnarlo a casa di SEMPRONIO, incaricandolo di controllare la zona.
TIZIO precisa a CAIO l’intenzione di volerlo ferire ad una gamba.
Giunti in prossimità dell’abitazione di SEMPRONIO, incontrano MEVIO giovane fratello di CAIO.
Allo stesso riferiscono genericamente che si recavano a casa di un conoscente per affari.
MEVIO si offre di accompagnarli.
Allo stesso gli è ordinato attendere per strada e di avvisarli se qualcuno fosse salito le scale del palazzo.
Quindi TIZIO entra in casa di SEMPRONIO, CAIO attende fuori dal pianerottolo, e MEVIO attende per strada nei pressi del portone dell’abitazione di SEMPRONIO.
Tra TIZIO e SEMPRONIO segue una accesa discussione.
TIZIO esplode tre colpi di arma da fuoco, verso SEMPRONIO ferendolo agli arti inferiori, e all’addome.
La ferita dell’addome risulta essere mortale, tanto da causarne il decesso.
Per omicidio s’intende la morte di una persona causata da un’altra persona fisica con dolo, colpa o preterintenzione.
L’interesse tutelato è la vita umana.
L’elemento oggettivo della fattispecie e che un uomo provochi in qualsiasi modo la morte di un altro uomo.
Il Codice prevede diverse specie di omicidio .
Nel caso vi sia un omicidio volontario, allo stesso possono contribuire, e partecipare più persone.

Il reato può essere commesso o da una sola persona o da due o più persone: in tale ultimo caso ricorre l’ipotesi del concorso di persone nel reato.

Le condotte “tipiche” integrano la fattispecie di concorso.

Le condotte “atipiche”( quelle non conformi alla condotta tipica monosoggettiva), al contrario non integrano la fattispecie di concorso.

Il concorso può essere a) concorso necessario (reati che non possono che essere commessi da più persone); b) concorso eventuale (reati che possono essere commessi da una o più persone).

Il concorso eventuale è disciplinato dall’art. 110 C.P., che stabilisce che il reato, anche se commesso da più persone, rimane unico ed indivisibile in quanto l’azione posta in essere da ciascuno dei concorrenti perde la sua individualità e confluisce nel risultato finale, per cui viene applicata la stessa pena per tutti i concorrenti.

Il concorso può essere a) materiale (tutti i concorrenti pongono in essere la fase ideativi e quella esecutiva); b) morale, (istigatore o determinatore del reato).

Tra gli elementi del concorso ricordiamo la volontà di cooperare nel reato, ovvero che ciascuno dei concorrenti sia consapevole di cooperare con altri alla realizzazione di un reato, anche se non vi è un previo accordo.

L’elemento soggettivo del concorso consiste nella coscienza e volontà di concorrere con altri alla realizzazione del reato, e richiede innanzi tutto la coscienza e volontà di tutti gli elementi costitutivi di tutta la fattispecie monosoggettiva.

In tema di concorso di persone nel reato, anche la semplice presenza sul luogo dell’esecuzione del reato, purché non meramente casuale, è sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa, qualora sia servita a fornire all’autore del reato un maggiore senso di sicurezza, rivelando chiara adesione alla condotta delittuosa. (Cass. pen., sez. V 26-06-2009 n.26542).

L’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento che fornisca un contributo, alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso (Cass. pen., sez. V 19-06-2009 n. 25894).

Le sezioni unite della cassazione affermano in merito che è sufficiente che vi sia la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta (Cass. pen., sez. Unite 03-05-2001 n. 31).

È statisticamente riscontrabile, e logicamente comprensibile, che la realizzazione plurisoggettiva di un reato aumenta le possibilità che in sede esecutiva si verifichi per taluno dei concorrenti una divergenza fra quanto da lui voluto e quanto oggettivamente realizzato dagli altri.

Quando in sede esecutiva si verifichi un errore che cagiona un evento diverso da quello voluto si verifica il caso del reato aberrante (aberratio delicti).

Si tratta di una sorta di “aberratio delicti concorsuale”.

Detta aberratio trova applicazione solo in presenza dei seguenti presupposti: 1) la sussistenza di un nesso causale fra la condotta, ed il fatto diverso realizzato; 2) l’assenza di dolo, rispetto al fatto diverso; 3)la necessaria presenza di un nesso psichico, individuato nella “prevedibilità” del reato realizzato non voluto, che deve potersi rappresentare come uno “sviluppo logicamente prevedibile” di quello voluto.

Sorge quindi un differente titolo di responsabilità.

In altre parole, del reato diverso risponderanno anche i concorrenti che non l’hanno voluto, a condizione che il reato diverso fosse uno sviluppo logicamente prevedibile dell’azione.

Il concorso eventuale è disciplinato dall’art. 110 C.P., e da luogo ad una forma di responsabilità anomala, perché ad una imputazione di natura sostanzialmente colposa, corrisponde una responsabilità a titolo di dolo.

L’art. 116 c.p. prevede, infatti, che “qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”.

In concreto nel caso il reato diverso è più grave di quello voluto la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave (art. 116 comma 2° c.p.).

Naturalmente, secondo la Cassazione, il concorrente che non voleva il reato diverso più grave, era certo che questo, pur in astratto prevedibile, non si sarebbe verificato; se viceversa egli riteneva probabile il suo verificarsi e se ne assumeva il rischio, egli risponderà di concorso vero e proprio e non avrà diritto a nessuna riduzione della pena applicandosi l’art. 110 C.P. (concorso pieno), senza alcuna riduzione di pena.

Detto principio è affermato anche nella sentenza della Cass. pen., sez. I del 17-11-2006 n. 37940.

Infatti è ribadito che la responsabilità per concorso anomalo è ravvisabile solo quando l’evento diverso più grave di quello voluto dal compartecipe costituisca uno sviluppo logicamente prevedibile quale possibile conseguenza della condotta concordata non interrotta da fattori accidentali e imprevedibili.

Quindi l’evento diverso non deve essere voluto neanche sotto il profilo del dolo alternativo od eventuale, perché altrimenti sussisterebbe la responsabilità di cui all’art. 110 cod. pen..
Infatti se l’evento sia stato previsto come certo o come altamente probabile non può
prospettarsi l’ipotesi di cui all’art. 116 cod. pen..( Cass. pen., sez. I 27-03-2008 n. 12954 ).

A parere di chi scrive CAIO risponderà di concorso pieno applicandosi l’art. 110 C.P., e non potrà vedere diminuita la pena pur volendo il reato meno grave.

Infatti CAIO aveva certamente in astratto previsto il reato diverso più grave, ritenendolo probabile il suo verificarsi e se ne assumeva il rischio.

Egli quindi risponderà di concorso vero e proprio e non avrà diritto a nessuna riduzione della pena (art. 110 C.P.).

Certamente CAIO ha contribuito materialmente all’esecuzione, ed alla programmazione, dell’evento criminoso, cooperando nel reato, consapevolmente, e coscientemente.
Conosceva tutti gli elementi del reato, ovvero a)la volontà di TIZIO di gambizzare SEMPRONIO, b) che TIZIO possedesse un’arma da fuoco; c) che la stessa arma sarebbe stata usata da TIZIO ; d) ed ha accettato di partecipare alla realizzazione del reato, accompagnando TIZIO alla casa di SEMPRONIO; f) ed accettando di controllare la zona, agevolando l’esecuzione del reato da parte di TIZIO, dandogli un maggiore senso di sicurezza, rivelando così una chiara adesione alla condotta delittuosa..

Quindi l’azione posta in essere da CAIO confluisce nel risultato finale dell’omicidio di SEMPRONIO ed è prevedibile l’ applicazione della stessa pena inflitta a TIZIO, ovvero omicidio volontario.

Sempre a parere di chi scrive la responsabilità di MEVIO è diversa da quella del fratello CAIO.

Infatti la condotte di MEVIO è certamente“atipica”, non integrano la fattispecie di concorso, perché priva dell’elemento soggettivo.

MEVIO ha si contribuito materialmente all’esecuzione dell’evento criminoso, attendendo per strada nei pressi del portone dell’abitazione di SEMPRONIO cooperando nel reato, ma non era consapevole e non conosceva la volontà di TIZIO di gambizzare SEMPRONIO, cosi come non conosceva che TIZIO possedesse un’arma da fuoco e che la stessa sarebbe stata usata contro SEMPRONIO.

Nei confronti di MEVIO nessuna responsabilità può essere ascritta, ne di concorso eventuale (art. 110 C.P), ne di concorso anomalo (art. 116 c.p), per mancanza dell’elemento psicologico.