L’attività notarile

Il volume presenta i risultati della rilevazione annuale sull’attività notarile, eseguita presso tutti i notai in esercizio, circa cinquemila.

Oggetto di rilevazione sono gli atti stipulati dai notai nel corso dell’anno e le convenzioni in essi contenute, il numero dei protesti elevati attraverso i notai, le certificazioni e le vidimazioni.

Per gli anni dal 1997 al 2006 vengono esaminati i dati relativi agli atti e alle convenzioni, che rappresentano i fenomeni più significativi dal punto di vista socioeconomico, come per esempio le compravendite di abitazioni o le donazioni; l’analisi viene effettuata per ripartizione territoriale. Tavole statistiche di dettaglio sono presentate per gli anni 2005 e 2006.

fonte: istat

download: http://www.istat.it/dati/catalogo/20091006_00/att_notarile_1997-2006.pdf

La violenza contro le donne

Indagine multiscopo sulle famiglie “Sicurezza delle donne”

Il volume presenta i risultati dell’indagine multiscopo “Sicurezza delle donne” che l’Istat ha condotto nel 2006 intervistando telefonicamente 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni. L’indagine rileva la violenza contro le donne perpetrata da partner (violenza domestica) o da altri uomini non partner (parenti, amici, colleghi, conoscenti, sconosciuti). Sono state analizzate diverse forme di violenza fisica e sessuale, nonché la violenza psicologica dal partner e lo stalking, ovvero i comportamenti persecutori messi in atto dal partner al momento della separazione o dopo. La violenza è rilevata a partire dai 16 anni di età, solo alcuni quesiti riguardano il periodo di età precedente.
L’indagine offre una stima della prevalenza e dell’incidenza del fenomeno e offre informazioni sulla gravità, le conseguenze a breve e a lungo termine, le modalità di accadimento, la denuncia alle forze dell’ordine e altre informazioni di approfondimento. I dettagli sulle violenze si riferiscono all’ultimo episodio subito; per la violenza domestica alcune informazioni riguardano anche la storia complessiva della violenza. Ulteriori dati si riferiscono ad abusi subiti dalle donne nella famiglia di origine.

Fonte : www.istat.it

Download: http://www.istat.it/dati/catalogo/20091012_00/Inf_08_07_violenza_contro_donne_2006.pdf

Parere legale motivato di diritto civile – obbligazione del defunto (de cuius) -testamento- principio della responsabilità pro-quota degli eredi. Annullabilita della promessa di pagamento per inesistenza del rapporto sottostante.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Il caso in esame ci propone un caso debito ereditario di circa euro 600.000,00 dei sig. CAIO (defunto) e SEMPRONIA (coniuge).
Il debito risale a molti anni addietro, realizzatosi con diversi prestiti fatti da TIZIA a CAIO e SEMPRONIA.
CAIO E SEMPRONIA hanno tre figli.
Alla morte di CAIO, la moglie, SEMPRONIA, e due dei tre figli, MEVIA e FLAVIANO, dichiarano a TIZIA di aver ricevuto la somma di euro 600.000,00 e si impegnano personalmente e non a titolo ereditario a restituirla entro una data prefissa.
Il debito alla scadenza non viene estinto, e TIZIA, da prima, procede a richieste stragiudiziali per ottenere la restituzione della somma versata, e dopo, richiede ed ottiene ingiunzione di pagamento in danno di SEMPRONIA, MEVIA, e FLAVIANO per vedere restituita la somma asseritamente ricevuta.
MEVIA E FLAVIANO per meglio attuare un’adeguata linea difensiva dichiarano che nonostante quanto hanno asserito nella promessa di pagamento, non hanno mai chiesto e ricevuto in prestito alcuna somma dalla sig.ra TIZIA.
Per meglio comprendere la questione, a grandi linee affrontiamo gli istituti che lo regolano.
La morte della persona determina nell’ordinamento giuridico il problema della destinazione da dare ai beni e, più in generale, ai rapporti che alla persona facevano capo.
Che taluni rapporti non possano continuare al di là della vita del soggetto è agevole a comprendersi.
Alla morte è collegata la vicenda che va sotto il nome di successione a causa di morte.
Si parla di successione a causa di morte poiché è la morte il fatto che determina il trasferimento dei beni e il passaggio dei rapporti.
Con l’espressione successione a causa di morte si intende la vicenda traslativa di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, di una persona a seguito della sua morte, in forza della quale, il delato, a seguito dell’accettazione, subentra nella titolarità del complesso (o di una quota) dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al de Cuius, ed assume la qualità di erede (successione a titolo universale).
Il principio soffre alcune eccezioni, sia perché vi sono rapporti patrimoniali che si estinguono alla morte del titolare, e sia perché possono trasmettersi a causa di morte alcuni rapporti di natura non patrimoniale.
Il testamento non può pregiudicare «i diritti che la legge riserva ai legittimari».
La successione per legge si verifica quindi in caso di inefficienza totale o parziale della regolamentazione dei propri interessi per dopo la sua morte da parte del titolare, oppure in caso di sua disattenzione totale o parziale verso determinati soggetti (coniuge, discendenti, ascendenti) cui la legge riserva quote determinate e che definisce legittimari.
Dall’art. 457 e dagli artt. 553 e 556 si individua la successione, testamentaria e legale.
All’interno di quest’ultima, vi sono due specie quella ab intestato e l’altra necessaria.
Perché si apra la successione necessaria deve riscontrarsi 1) una lesione della quota riservata; 2) vi deve essere una dichiarazione giudiziale di inefficacia delle liberalità lesive.
Mentre per l’apertura della successione ab intestato basta che manchi in tutto o in parte il testamento.
Distinzioni e interrelazioni tra le successioni necessaria, intestata e testamentaria non sempre sono chiare.
Secondo la dottrina la necessaria si aprirebbe tutte le volte che l’acquisto ereditario risulti limitato alla quota loro riservata dalla legge quindi non soltanto quando vi sia lesione di legittima.
La successione si apre al momento della morte della persona, nel luogo del suo ultimo domicilio (art. 456). È importante fissare il momento della morte, in ragione delle disposizioni che fanno riferimento al tempo dell’apertura: in ordine alla capacità di succedere delle persone fisiche (art. 462), alla prescrizione del diritto di accettare l’eredità (art. 480, 2° co.), all’esercizio del diritto alla separazione dei beni ereditari (art. 516), alla continuazione del possesso in capo all’erede (art. 1146).
La delazione di un’eredità non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede perché a tale effetto è necessaria anche l’accettazione da parte del chiamato mediante aditio, oppure per effetto di pro herede gestio, oppure, per la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.
Solamente al delato sono attribuiti, oltre al diritto di accettare l’eredità, i poteri di cui all’art. 460 c.c.
Alla stregua del secondo comma dell’art. 479 c.c., se più siano gli eredi del chiamato e tutti accettino la delazione trasmessa, l’eredità sarà acquistata in proporzione alle rispettive quote di loro spettanza.
Alla vedova consegue complessivamente, metà a titolo di divisione della comunione legale, e sul rimanente, che forma l’eredità del coniuge, ancora metà o un terzo.
L’accettazione del chiamato rappresenta l’ultima fase del procedimento successorio, l’attività cioè che determina la successione.
L’accettazione può essere espressa o tacita (art. 474 c.c.).
L’eredità può essere accettata puramente e semplicemente o col beneficio d’inventario (art. 470, 1° co., c.c.).
L’accettazione con beneficio d’inventario è espressa ed è soggetta alle forme di cui all’art. 484 c.c..
La differenza tra i due tipi di accettazione sta nel fatto che, a seguito di accettazione pura e semplice, l’erede subentra nei debiti del de cuius, rispondendone illimitatamente; con quella beneficiata, l’erede risponde dei debiti e dei pesi ereditari nei limiti del valore dell’eredità, e non con il proprio patrimonio personale.
La dichiarazione deve essere preceduta o seguita dall’inventario, nelle forme prescritte dal codice di procedura civile (art. 484, 3° co., c.c.).
Dispone l’art. 490 c.c. che l’effetto del beneficio d’inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede.
Conseguentemente: a) l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto della morte; b) l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legatari oltre il valore dei beni a lui pervenuti; c) i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede.
Dal terzo comma dell’art. 480 c.c. si ricava che la prescrizione del diritto di accettare l’eredità è decennale.
L’inosservanza delle prescrizioni dell’art. 485 c.c. comporterà un’ipotesi di acquisto (puro e semplice) dell’eredità senza accettazione.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. prevedono la parziarietà delle obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell’apertura della successione, di una obbligazione nata unitaria con una pluralità di obbligazioni parziarie.
Ciascun erede risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni ereditari, e l’obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
Non soddisfare un obbligo del defunto è ritenuto indebito oggettivo o ex re.
Sorge in capo al creditore del defunto, il diritto alla restituzione di quanto prestato.
In materia di ripetizione di indebito oggettivo, incombe sull’attore (il solvens o il suo erede) l’onere di dimostrare i fatti costitutivi del preteso diritto alla restituzione di quanto prestato.
L’azione di ripetizione si fonda sull’inesistenza di una valida causa dell’attribuzione patrimoniale eseguita dal solvens a favore dell’accipiens.
Qualora per soddisfare quest’obbligazione ereditaria, vi sia un rafforzamento dato da una promessa di pagamento ( art. 1988 c.c.), questa dispensa il promissario dall’onere di provare il rapporto fondamentale della promessa, presumendone la sua esistenza fino a prova contraria.
La promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell’art. 1988 c.c. un’astrazione meramente processuale della "causa debendi", comportante una semplice "relevatio ab onere probandi" per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Cass. 11 dicembre 2000, n. 15575; Cass. 9 febbraio 2001, n. 1831; Cass. 10 agosto 2002, n. 11426).
Conseguentemente, l’onere di provare la mancanza del titolo giustificativo della solutio, deriverebbe dal fatto che la presunzione determina un’inversione dell’onere della prova.
L’inversione dell’onere probatorio si limita alla sola sussistenza del rapporto causale sottostante alla promessa.
L’attore deve provare l’inesistenza di un titolo giuridico giustificativo del pagamento. L’attore deve provare che nulla era dovuto.
Deve allora provare che non concluse vendite, non concluse locazioni, non interruppe indebitamente trattative contrattuali, non diffamò, non usurpò, non molestò, non ebbe rapporti societari di fatto, non vide sorgere a suo carico obbligazione.
L’attore, deve quindi provare l’inesistenza del titolo o causa del pagamento.
Il caso in cui accanto ad un debitore principale vi sia un ulteriore rapporto obbligatorio fa pensare ad una delegazione di pagamento.
Infatti la delegazione passiva può avere ad oggetto sia una promessa di futuro pagamento (delegatio promittendi, con funzione creditoria), sia un pagamento immediato (delegatio solvendi o dandi, con funzione solutoria); può assolvere, quindi, sia alla finalità di predisporre un futuro adempimento e di rafforzare il rapporto obbligatorio, aggiungendovi un nuovo debitore (delegato) con posizione di obbligato principale accanto al debitore originario (delegante), la cui obbligazione diventa, peraltro, sussidiaria (delegazione c.d. cumulativa), sia alla finalità di rendere possibile l’adempimento, in atto, di un’obbligazione già scaduta, ad opera di un terzo (delegato) anziché ad opera del debitore (delegante), con funzione immediatamente solutoria. Attesa la struttura unitaria della delegazione, che è composta di un rapporto unico con tre soggetti e due rapporti sottostanti, debbono sussistere, per gli effetti delegatori, due condizioni, e cioè che il delegante sia creditore del delegato e debitore del delegatario, e che il delegato abbia assunto l’obbligo di pagare a quest’ultimo il debito del delegante; la formazione del negozio giuridico di delegazione può essere anche progressiva e non contestuale, senza che ciò faccia venir meno la unicità del rapporto. (Cass. civ., 12/03/1973, n.676)
L’ipotetica astrattezza della delegazione non si traduce in alcun modo in una sua necessaria gratuità, operando i due concetti su piani affatto distinti". L’astrattezza infatti costituisce una mera qualità della delegazione che si traduce nella impossibilità per il delegato di opporre al delegatario le eccezioni attinenti ai rapporti sottostanti; mentre la gratuità attiene alla causa del contratto e ne è quindi un elemento costitutivo.
Degli artt. 1268 – 1270 C.C., si evince che la delegazione ben possa essere realizzata attraverso una pluralità di distinti negozi bilaterali e unilaterali – dotati ciascuno di una propria causa – pur se tra loro finalisticamente collegati: l’incarico delegatorio, come accordo tra delegante e delegato, non postula il consenso del delegatario; all’atto di assegnazione, come accordo tra delegante e delegatario, ben può rimanere estraneo il delegato; infine la promessa del delegato, come atto unilaterale, si perfeziona con la relativa dichiarazione di volontà ed è efficace – art. 1334 C.C. – dal momento in cui perviene a conoscenza del delegatario.
Qualora a garanzia di un’obbligazione ereditaria viene effettuata una promessa di debito, da parte degli eredi, con una della parte principale questa è da intendere come ricognizione di debito titolata, se vi sono riferimenti espliciti al rapporto sottostante tale da dare prova del prestito di denaro eseguito.
In materia di promesse unilaterali l’art. 1987 c.c. stabilisce che la promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori al di fuori dei casi ammessi dalla legge.
Il successivo art. 1988 c.c. prevede che la promessa di pagamento o la ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria (Inversione dell’onere della prova in "colui a favore del quale la promessa è fatta -art. 1334 c.c.-Cass. 10253/1994; Cass. 130/1998; Cass. 9530 e 15575/2000).
La dimostrazione dell’esecuzione del contratto, deve provare la dazione del danaro e che tale consegna era stata effettuata per un titolo che ne implicava l’obbligo di restituzione da parte del de cuius. Solo tale scrittura integra una promessa di pagamento titolata.
In altre parole nonostante la promessa, e quindi l’obbligazione, bisogna sempre accertare il fondamento della pretesa, cioè si deve accertare che il credito risulti fondato a sufficienza da elementi probatori.
Nulla deve l’erede per il pagamento dei debiti del de cuius, se non è provata la qualità di erede, che non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, ma consegue solo alla accettazione della eredità, che può essere espressa o tacita.
Gli eredi del debitore rispondono del debito del de cuius in proporzione delle rispettive quote senza vincolo di solidarietà, ai sensi degli artt. 752 e 754 cod. civ..
Tuttavia se il creditore del de cuius, o gli eredi del de cuius facciano esplicito riferimento alla qualità di eredi, con l’indicazione del titolo ereditario, come causa della obbligazione dedotta, è idonea ad escludere che il creditore abbia voluto esporre i coeredi alla responsabilità solidale ultra vires per l’intero debito.
Nella fattispecie concreta in esame si rileva che la promessa di debito fatta da MEVIA e FLAVIANO mancano di un rapporto sottostante.
Quindi essi devono provare che nulla loro devono a TIZIA (art. 1988 c.c.), in quanto mai e già mai, essi percepirono alcuna somma da essa, ne a titolo di prestito, ne a titolo di donazione, ne a titolo di pagamento.
In altre parole sorge a carico di MEVIA e FLAVIANO l’onere della prova.
Essi devono dimostrare che non vi fosse alcun rapporto giustificativo dell’attribuzione patrimoniale in quanto inesistente nei loro confronti.
Infatti se pure volessimo considerare il debito cosi come dichiarato nella promessa, l’unica vera debitrice, era, e rimane, SEMPRONIA, coniuge di CAIO.
Essa era obbligata in solido con CAIO.
La solidarietà passiva scaturisce dalla contestuale presenza di comunanza del debito tra più dei debitori e l’identica causa dell’obbligazione.
Quindi TIZIA, può rivolgere le proprie pretese di ripetizione di quanto prestato, solo nei confronti di SEMPRONIA.
Infatti il riconoscimento del debito fatto da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri (art.1309 c.c.).
Tale è da considerarsi la promessa di debito fratta da SEMPRONIA.
Infatti con essa, SEMPRONIA ha riconosciuto il suo debito verso TIZIA.
Non cosi è accaduto per MAEVIA e FLAVIANO che hanno riconosciuto un prestito che iure proprio non è mai avvenuto.
Ritornando a MEVIA e FLAVIANO, dimostrata l’inesistenza del rapporto sottostante alla promessa, non sono più responsabili solidalmente con SEMPRONIA ex art. 1292 c.c..
Su di loro sorge solo una contribuzione alle obbligazioni del de cuius in proporzione delle rispettive quote ereditarie, solo se accettate con beneficio d’inventario.
Gli eredi del condebitore solidale rispondano dei debiti del defunto in proporzione alle rispettive quote (C. 4155/89).
Peraltro, osserva la giurisprudenza, con la morte del debitore in solido non cessa il vincolo di solidarietà, ma si determina un frazionamento pro quota dell’originario debito del de cuius fra gli aventi causa, nel senso che ciascun erede rimane obbligato solidalmente con i debitori originari fino a concorrenza della propria quota ereditaria (è C. 13291/99; C. 785/98; C. 771/83).
Il coerede che ha pagato oltre la parte a lui incombente può ripetere dagli altri coeredi soltanto la parte per cui essi devono contribuire a norma dell’articolo 752, quantunque si sia fatto surrogare nei diritti dei creditori ( art. 754 c.c.).
Quindi alla sig. SEMPRONIA, estinto il debito nei confronti di TIZIA, può in seguito esercitare il regresso verso gli altri coeredi ex art. 752 c.c.
A parere dello scrivente SEMPRONIA, MEVIA, e FLAVIANO devono proporre opposizione al decreto ingiuntivo di pagamento, avanzato da TIZIA, adducendo come motivo la mancanza della sussistenza del rapporto sottostante, delle promesse fatte da MEVIA e FLAVIANO.
Il decreto ingiuntivo dovrà considerarsi affetto da nullità avendo condannato ciascuno degli eredi al pagamento della intera somma non specificando nel modo più assoluto le quote imputabili a ciascun erede proporzionalmente alla propria quota come richiamato dall’art. 752 c.p.c..
Infatti con l’opposizione al decreto ingiuntivo, si intende permettere il riconoscimento del debito da parte, a titolo successorio da parte di SEMPRONIA, e non a titolo personale.
Il vantaggio e che gli eredi risponderanno solo in proporzione della propria quota.
Ma possiamo ipotizzare anche che gli eredi possano anche decidere di non accettare l’eredità qualora il debito fosse maggiore del lascito.
Inoltre, qualora il terzo figlio avesse accettato l’eredità, anch’egli è costretto con la propria quota a contribuire all’obbligazione del de cuius.

Esclusione di responsabilità: questo documento non ha carattere di parere legale, e si esclude l’autore da responsabilità derivanti da ogni altro uso fatto.

Parere legale motivato di diritto civile privacy-condominio-frazionamento -immobile- finestra -veduta-terrazzo .

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Dal caso in esame si evince che TIZIO da alcuni mesi è proprietario di un appartamento.
Detto immobile è stato acquistato da CAIO.
CAIO ha ricavato e realizzato detto appartamento frazionando un suo immobile più ampio, realizzando anche un suo appartamento.
L’immobile di TIZIO ha come pertinenza un terrazzo.
La parte sottostante di detto terrazzo è una porzione dell’appartamento realizzato da CAIO.
Su detto terrazzo da una stanza dell’appartameento di CAIO si apre una finestra.
Detta finestra infastidisce TIZIO.
TIZIO chiede al suo venditore CAIO di chiudere la finestra, o di trasformarla in punto luce, questo per tutelare la sua privacy personale, nell’uso del terrazzo di pertinenza del suo appartamento.
Esaminando l’atto di compravendita, non sorge alcun obbligo per entrambe le parti, e nulla si dice in merito al terrazzo e alla finestra.
Analizzando il caso sorge la necessità di commentare a grandi linee alcuni istituti giuridici.
Dispone l’art. 900 c.c. che "Le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce ed all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente".
Occorre tenere presente che, con il termine fondo, si intende far riferimento non soltanto ad un’area inedificata, ma pure alle costruzioni.
L’art. 902 c.c., ha codificato, come norma, il principio, per il quale, se non sono osservate le prescrizioni relative ai requisiti fissati dall’art. 901 per le luci, qualsiasi apertura – che non abbia le caratteristiche proprie della veduta – deve considerarsi luce.
In quest’ottica, il criterio differenziale tra luci e vedute deve derivarsi non solo dall’osservanza dei requisiti fissati dall’art. 901, ma anche dalla funzione effettiva e concreta dell’apertura.
Con la conseguenza che, ove non abbia le caratteristiche della veduta, l’apertura deve ritenersi luce a tutti gli effetti, anche se priva di alcuno dei requisiti di legge ed in tal caso si parlerà di luci irregolari.
In merito alle luci irregolari, la giurisprudenza ha ritenuto sempre ammissibile la costituzione per convenzione (Cass. 2.6.1993 n. 6165; 14.5.1990 n. 4117) quale espressione del basilare principio di autonomia contrattuale, ha invece mostrato incertezze circa la possibilità di acquisire la servitù di veduta irregolare tramite usucapione o destinazione del padre di famiglia.
Alcune volte ha escluso in modo categorico tale possibilità (Cass. 23.5.1988 n. 3570), in virtù del comb. Disp. degli artt. 901 e 902 c.c., che non prevedono un tertium genus oltre "luci" e "vedute", avendo il vicino "sempre il diritto" di esigere che la "luce irregolare" sia resa conforme alle prescrizioni legali e non potendo essere interpretato in modo univoco il suo comportamento omissivo.
Altre volte ha negato la costituzione di veduta irregolare per usucapione o destinazione del padre di famiglia basandosi essenzialmente sulla sussistenza o meno del requisito dell’apparenza (art. 1061 c.c.).
Certo è che, dal punto di vista funzionale, le luci hanno il solo scopo di consentire il passaggio di luce ed aria (funzione positiva), ma non anche quello dell’affaccio e cioè della possibilità di guardare nel fondo del vicino (funzione negativa).
Al contrario, le vedute o prospetti sono tutte le altre aperture verso la proprietà del vicino che consentano di guardare verso di essa, sia in direzione della superficie che dello spazio aereo sovrastante, senza sporgere il capo dall’apertura (inspectio), ovvero sporgendo il capo (prospectio), per guardare frontalmente, obliquamente o lateralmente nel fondo del vicino.
In particolare, l’art. 900 individua le vedute in relazione alla loro funzione di consentire la inspectio e la prospectio in alienum, a prescindere dalle caratteristiche costruttive dell’apertura.
In ogni caso, la congiunta possibilità di inspectio e di prospectio deve essere considerata non alla stregua di una mera eventualità, ma di una destinazione permanente e normale dell’apertura e cioè in funzione dello scopo essenziale e preminente per cui la veduta è stata aperta.
In questo senso, occorre che l’apertura sia stata eseguita in modo tale da far presumere, non solo la possibilità di veduta, ma anche la volontà e la necessità di servirsene in termini oggettivi e per un determinato scopo.
Il possesso di luci irregolari, sprovvisto di titolo è fondato sulla mera tolleranza del vicino (Cass. civ. Sez. II 04.01.2002 n. 71).
Nell’ambito di un unico immobile condominiale le norme che regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione solo in quanto compatibili con la struttura dell’edificio e con le caratteristiche dello stato dei luoghi.
La funzione di copertura di uno stabile, oltre che dal tetto e dal lastrico solare, può essere svolta dalla terrazza.
La terrazza si presenta con caratteristiche strutturali simili a quelle del lastrico solare e solitamente si presenta accessibile e munita di parapetto o ringhiera.
Anche alle terrazze è applicabile la presunzione di comunione di cui all’art. 1117, n. 1, c.c., in quanto beni destinati all’uso comune.
Funzionalmente distinta dal lastrico solare e dalla terrazza di copertura è la c.d. terrazza a livello.
Essa infatti per il modo in cui è realizzata risulta destinata non tanto e non solo a coprire le verticali di edificio sottostanti, quanto e soprattutto a dare affaccio ed ulteriori comodità all’appartamento cui è collegata e del quale sostanzialmente rappresenta la proiezione verso l’esterno.
La terrazza a livello non rientra tra i beni oggetto di presunzione di comunione ex art. 1117 c.c. e pertanto, in difetto di contraria pattuizione, deve considerarsi di proprietà esclusiva del titolare dell’appartamento che ad essa dà accesso (art. 1126. c.c. Lastrici solari di uso esclusivo).
Perché una terrazza possa considerarsi «a livello» non è sufficiente che sia posta alla stessa altezza o allo stesso piano di un appartamento, ma occorre altresì che essa sia destinata all’utilizzo esclusivo di quel determinato appartamento, di cui venga a costituire una naturale estensione e che abbia accesso solo da esso.
La funzione di copertura dei piani sottostanti svolta dalla terrazza a livello, e propria del lastrico solare, si profila come meramente accessoria e secondaria (C. 8394/90; C. 1029/86).
Si precisa poi che, in assenza di titolo espresso, una terrazza a livello può ritenersi di proprietà esclusiva del proprietario dell’appartamento da cui si accede alla terrazza stessa, ove essa costituisca parte integrante da un punto di vista strutturale e funzionale del piano cui è annessa (C. 3832/94).
L’uso della terrazza può avere carattere reale o personale (C. 8532/99; C. 1501/74).
L’uso esclusivo da parte di un condomino deriva quindi da una proprietà esclusiva della terrazza.
La difficoltà di configurare, su di una stessa cosa, una comproprietà ed una proprietà esclusiva viene superata in dottrina considerando che nella terrazza è possibile sceverare due distinti beni: il primo costituito dall’insieme di opere aventi funzione di copertura dell’edificio, il secondo dalle opere necessarie per un’ulteriore destinazione.
Pertanto, mentre delle opere necessarie alla copertura dell’edificio (il vero e proprio tetto) non è possibile proprietà separata o uso esclusivo, per le altre ciò è possibile in quanto formano una nuova cosa appunto una terrazza.
Nei rapporti condominiali, la norma di cui all’art. 901 c.c., consente al vicino di chiedere la regolarizzazione delle luci irregolari.
Spetta al giudice del merito valutare e risolvere controversie che caso per caso, possono presentarsi.
Il giudice contempera i diversi interessi di più proprietari conviventi in un unico edificio, al fine di ottenere un’ordinato svolgimento di tale convivenza, propria dei rapporti condominiali (Cass. civ., Sez. II, 30/03/2000, n.3891).
Il giudice deve valutare concretamente il diritto della "privacy", come priorità nell’uso della cosa privata del condomino, assolutamente indispensabile al fine del completo godimento della cosa propria.
La tutela del diritto alla privacy è volta unicamente ad assicurare un uso più ampio e più comodo della stessa.
Il giudice, ove possibile, potrà imporre al vicino l’adozione di opportuni accorgimenti, che impediscano l’inspectio o la prospectio, come disporre l’inalzamento di un muro nella terrazza, oppure potra obbligare di trasformare in luce una veduta.
Le vedute, permettendo l’inspectio e la prospectio in alienum, limitano in maniera incisiva la libertà del vicino, la sua sicurezza ed in particolare la sua privacy.
Pertanto, l’apertura di vedute in un condominio è assoggettata a particolari cautele, che consistono nel rispetto di determinate distanze tra la veduta stessa ed il fondo del vicino, e ciò per tutelare quest’ultimo dalle altrui indiscrezioni.
Il regime delle distanze per l’apertura delle vedute è articolato in modo diverso, a seconda che si tratti di vedute dirette, laterali o oblique.
Dall’articolo 905 c.c. si ricavano le distanze e i divieti.
L’obbligo delle distanze deve essere osservato pure quando la veduta si proietti sul tetto del vicino (art. 905 c.c.).
E’ fatto divieto di aprire vedute verso il fondo ed il tetto del vicino.
Per fondo deve intendersi, in senso estensivo, ogni immobile, recintato o meno, coperto o scoperto, praticabile o non.
Per le vedute dirette l’art. 905 c.c. impone la distanza minima di un metro e mezzo tra il fondo del vicino e l’apertura medesima.
In presenza di un edificio, il muro ove si vorrebbe aprire le vedute, deve in primo luogo rispettare la distanza dall’immobile frontista di cui all’art. 873 c.c. (tre metri).
Le disposizioni esaminate hanno natura privatistica, in quanto finalizzate alla tutela di interessi individuali.
Esse pertanto possono essere derogate dalle parti, anche con la costituzione di una servitù,
Agli effetti di una servitù di veduta, le modifiche soggettive della servitù di veduta – cioè le modifiche che riguardano i titolari del fondo dominante o del fondo servente – sono sempre irrilevanti.
Si pensi al caso della divisione di un fondo unico in due fondi.
In tal caso, la servitù di veduta continua a gravare sul fondo servente, indipendentemente dal cambio della titolarità dei fondi.
Abbiamo in tal caso la cosi detta destinazione del padre di famiglia, che impone al proprietario del fondo servente l’immodificabilità dell’altrui godimento.
La costituzione di una servitù prediale per destinazione del padre di famiglia, ai sensi dell’art. 1062 c.c., postula che le opere permanenti destinate al suo esercizio predisposte dall’unico proprietario persistono al momento in cui il fondo viene diviso tra più proprietari.
Il titolare di una veduta può godere della servitù solo rispetto ad un’apertura mantenuta nella sua originaria consistenza.
La servitù di aria e di luce è una servitù negativa, e non è una servitù apparente.
L’apparenza non consiste soltanto nella esistenza di segni visibili ed opere permanenti, ma esige che queste ultime, come mezzo necessario all’acquisto della servitù, siano indice non equivoco del peso imposto al fondo vicino, in modo da far presumere che il proprietario di questo ne sia a conoscenza.
Nè la circostanza che la luce sia irregolare è idonea a conferire alla indicata servitù il carattere di apparenza, non essendo possibile stabilire dalla irregolarità se il vicino la tolleri soltanto, riservandosi la facoltà di chiuderla nel modo stabilito dalla legge, ovvero la subisca come peso del fondo, quale attuazione del corrispondente diritto di servitù o manifestazione del possesso della medesima.
Di fronte ad una luce irregolare il vicino può esigere che l’apertura sia resa conforme all’art. 901, ovvero può farla eliminarla (C. 8930/00; C. 5081/83).
L’esercizio della facoltà di chiedere l’osservanza delle prescrizioni di cui all’art. 901 può avvenire in ogni tempo, poiché, trattandosi di facoltà insite nel diritto di proprietà, le stesse non sono soggette ad estinzione.
Il giudice che accolga la domanda del vicino può adottare un comando giudiziale alternativo, che ingiunga al titolare della luce di renderla conforme alle prescrizioni normative ovvero di chiuderla.
Qualora il proprietario dell’apertura non realizzi, nel termine assegnatogli una delle due condotte, il vicino potrà chiedere l’esecuzione, a spese dell’obbligato, della prestazione che ritenga più conveniente (C. 2368/88).
Il giudice sarà invece tenuto a disporre esclusivamente la chiusura ove sia impossibile far acquistare alle luci irregolari i requisiti richiesti dalla legge (C. 3508/75).
Di contro, il proprietario della luce, di cui sia stata ordinata dal giudice la regolarizzazione, può sempre provvedere alla loro totale eliminazione anziché procedere al loro adeguamento (C. 1312/84).
In applicazione di tali principi si è ritenuto che nel caso di apertura di veduta abusiva, sanare la violazione mediante la trasformazione della medesima in luce è sempre praticabile ai sensi dell’art. 903.
Quindi la questione si risolve nell’eliminazione della veduta abusiva, con conseguente restaurazione del diritto del vicino da essa leso (C. 2159/02 ; Cass. civ. 09.03.1988 n. 2368 ).
A parere dello scrivente TIZIO, per tutelare il suo diritto all’utilizzo comodo, della terrazza, e per veder tutelare il suo diritto alla privacy, può adire il giudice.
Premesso che nonostante il piano di calpestio della terrazza in questione sia in parte di CAIO, essa è da ritenersi pertinenza dell’immobile di TIZIO.
Come già detto essa è terrazza a livello e da affaccio ed ulteriori comodità all’appartamento cui è collegata e del quale sostanzialmente rappresenta la proiezione verso l’esterno.
Detta terrazza è destinata all’utilizzo esclusivo di quel determinato appartamento, di cui venga a costituire una naturale estensione e che abbia accesso solo da esso, e si precisa che mancando nel contratto di compravendita alcun riferimento, in assenza di titolo espresso, la terrazza è da ritenersi di proprietà esclusiva di TIZIO, costituendo parte integrante dell’appartamento.
Si precisa poi che la terrazza è da ritenersi di proprietà esclusiva del proprietario dell’appartamento da cui si accede alla terrazza stessa.
L’uso esclusivo da parte di un condomino deriva quindi da una proprietà esclusiva della terrazza.
Al giudice và chiesto di accertare se la finestra in questione, cioe quella di CAIO che si affaccia sulla terrazza di TIZIO, sia da considerare a norma di legge, veduta.
Innfatti potrebbe ipotizzarsi che detta finestra non abbia i requisiti di veduta, ma di luce, mancando la funzione effettiva e concreta dell’apertura cioe della prospectio.
Infatti vi è ben poco da vedere verso un terrazzo altrui, senza invadere la sfera personale di altri condomini.
Pertanto ad essa va applicato quanto già detto per le luci irregolari.
Di fronte ad una luce irregolare il vicino può esigere che l’apertura sia resa conforme all’art. 901, ovvero può eliminarla (C. 8930/00; C. 5081/83).
Sempre al giudice va chiesto di far rispettare l’obbligo delle distanze nel caso di veduta (art. 905 c.c.) e le distanze di un edificio frontista (art. 873 c.c.).
In merito alla costituzione della servitù prediale per destinazione del padre di famiglia, ai sensi dell’art. 1062 c.c., essendo la finestra presistente al momento al momento in cui vi è stata la compravendita, di essa si dovrebbe mantenere l’originaria destinazione, e CAIO dovrebbe continuare a mantenere il pieno godimento.
Ma nell’atto di compravendita manca ogni riferimento al peso imposto a TIZIO in merito alla finestra.
Manca quindi un’indicazione non equivoca del peso imposto al fondo vicino, in modo da far presumere che TIZIO ne sia a conoscenza.
Ben potrebbe aver inteso TIZIO che detta finestra servisse per permettere l’ingresso nelle stanze di CAIO la sola luce e aria.
Non essendo possibile stabilire con certezza, la regolarità oggettiva della servitù di veduta, TIZIO può aver tollerato la finestra, riservandosi la facoltà di chiuderla nel modo stabilito dalla legge.
Nel caso concreto manca quindi una convenzione tra le parti per veder riconoscita la servitù qualora fosse luce irregolare (Cass. 2.6.1993 n. 6165; 14.5.1990 n. 4117).
In quanto ipotizzando che la finestra in questione sia una servitù irregolare di luce la giurisprudenza ha mostrato incertezze circa la possibilità di acquisire la servitù di veduta irregolare tramite destinazione del padre di famiglia (Cass. 23.5.1988 n. 3570), non prevedendo il codice un tertium genus oltre "luci" e "vedute", avendo il vicino "sempre il diritto" di esigere che la "luce irregolare" sia resa conforme alle prescrizioni legali e non potendo essere interpretato in modo univoco il suo comportamento omissivo.
In relazione allo stato di fatto e di diritto dell’immobile traslato, riveste carattere determinante, l’assenza di precisazioni del venditore, sul bene traslato.
Sempre al giudice andrebbe chiesto di bilanciare e tutelare, nel caso concreto, la pivacy personale, la sicurezza di TIZIO, e la veduta di CAIO.
Quindi è ipotizabile che il giudice obblighi CAIO di trasformare la finestra in un punto luce, come richiesto anche da TIZIO.

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