Cittadinanza (Citizenship)

Il termine indica lo status caratteristico di coloro che costituiscono il nucleo individuatore di ogni comunità politica.
È, però, importante sottolineare che l’idea di (—) si è formata solo in epoca recente, con il realizzarsi dello Stato moderno [vedi Stato]. Nell’antica Grecia, per esempio, erano esclusi dallo status di cittadino gli schiavi e le donne; cittadino, infatti, era solo colui che poteva partecipare attivamente alla «cosa pubblica» ed aveva abbastanza denaro per sostenerne le attività. Questo perché in Grecia fondamentale era l’appartenenza alla polis, città autonoma e sovrana, la cui struttura istituzionale era caratterizzata da una magistratura o anche una serie di magistrature diverse a seconda dei problemi da risolvere, da un consiglio, e da un’assemblea di cittadini detti politai. Il fenomeno della Città-stato, si ebbe anche nella Roma antica, ma qui cives erano solo coloro i quali erano nati da padre e madre romani, da padre romano e madre straniera, ma con capacità matrimoniale; oppure che esplicitamente chiedevano agli organi del governo di entrare a far parte della civitas di Roma, e che diventavano cives solo per concessione di questi; ed inoltre le donne potevano in qualche modo partecipare alla vita della città (si pensi che a Roma anche una donna poteva svolgere l’attività di avvocato, anche se solo per cause riguardanti i dettami della moda). Alla civitas romana, però non appartenevano i plebei e gli schiavi (questi potevano essere affrancati dalla schiavitù e divenire liberti), che solo dopo la cosiddetta rivoluzione plebea (367 a. C.), che dette poi origine alla famosa leggenda dei plebei che incrociarono le braccia contro il dispotismo dei patrizi, e più tardi con l’Editto di Caracalla (212 d. C.), furono considerati cives romani tutti gli uomini liberi che, organizzati in comunità cittadine, appartenessero all’impero romano. Nel periodo anteriore alla fine del secolo XVIII non esisteva neanche l’idea moderna di popolo, perché l’organizzazione della popolazione si fondava su gruppi chiusi ed esclusivi, importanti solo dal punto di vista giuridico (gli stati, le corporazioni professionali ecc.); né esisteva l’idea di (—), vi era il vincolo che legava la persona al re, in cambio di protezione, o una specie di contratto fra individuo e sovrano (e più tardi lo Stato).
Infatti nel periodo medievale, tutti i diritti erano fortemente limitati dallo status libertatis, da cui erano esclusi, per esempio, i servi della gleba che a causa del rapporto di mundio, il quale implicava una soggezione amministrativa verso il signore che disponeva di questi come un bene di sua proprietà, addirittura anche dal punto di vista ereditario. Nel comune medievale, cittadini erano solo coloro che partecipavano al contractus cittadinaticus, e cioè solo coloro che, da una posizione economica agiata, potevano in qualche modo agire politicamente, ma tale situazione ebbe breve durata, perché con l’avvento dei Principati tutti i diritti politici furono accorpati nelle mani del princeps e poi del sovrano che, nello Stato assoluto, diveniva solutus (sciolto) da ogni limite posto dalla legge e libero quindi da ogni impegno nei confronti del suddito.
Solo con la Rivoluzione francese del 1789, con il sorgere dello Stato nazionale e la nascita dello spirito nazionale, l’idea di cittadinanza venne esplicitata e divenne oggetto di una specifica considerazione da parte dei legislatori (si prenda ad esempio la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in essa per la prima volta non si parla solo di individuo, ma di «cittadino» come status di appartenenza politica e sociale ad una nazione).
Il popolo diviene sovrano, in quanto, come affermava anche Rousseau, in esso risiede la volontà generale, che si esprime a mezzo della legge e garantisce la libertà stessa del cittadino anziché limitarla. Con ciò non si vuole negare che questi fenomeni abbiano dei precedenti, ma si vuole evidenziare che è solo da questa epoca che l’istituzione tende ad avere dei contorni netti e definiti, sistematicamente difesi e tutelati attraverso l’esplicitazione in corpi legislativi (ad esempio le Carte Costituzionali e le Dichiarazioni dei diritti dell’Uomo).
Da questo momento in poi, quindi, i diritti del cittadino come la libertà politica e civile, la sicurezza, la resistenza all’oppressione, divengono diritti inalienabili, che ogni Stato ha il dovere di tutelare e garantire. Essi porteranno a numerose e rivoluzionarie battaglie in campo politico e sociale, come per esempio il diritto al voto della donna (che era considerata come una «cittadina di serie B» fino al 1946, quando appunto le fu concesso il diritto di voto, ribadito dall’art. 48 della Costituzione nel 1948), la lotta dei paesi sovietici contro lo sfruttamento dei lavoratori (nel 1918 fu approvata la Dichiarazione dei diritti dei lavoratori e degli sfruttati), e la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, scritta dall’ONU nel 1948, conseguenza degli eccidi della Seconda guerra Mondiale e uno dei punti di partenza per la costituzione di una Carta che potesse accorpare tutti i diritti dei cittadini europei.
In essa ad esempio nel preambolo si legge: «i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nella statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un migliore tenore di vita in una maggiore libertà», ed ancora nell’art. 13: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato».
Dal 1992 è entrato in vigore il trattato sull’Unione Europea che ha istituito la cittadinanza europea, in base alla quale i cittadini dei paesi dell’Unione hanno diversi diritti: la libertà di circolare liberamente e di soggiornare nel territorio di ogni paese dell’Unione europea, il diritto di proporre petizioni al Parlamento europeo e il diritto di rivolgersi ad un mediatore per i casi riguardanti la cattiva amministrazione delle istituzioni europee, il diritto di voto per le elezioni comunali nello Stato in cui si risiede (oltre che per quelle del Parlamento europeo).

Certezza del diritto (Legal certainty)

È un valore intrinseco del diritto. Tale valore viene soddisfatto nei casi in cui al cittadino sia riconosciuta la possibilità di conoscere preventivamente la valutazione che il diritto darà delle sue azioni e situazioni concrete e di prevedere le conseguenze giuridiche che deriveranno dalla sua condotta. Ciò è reso possibile dall’essere il diritto composto da norme generali e astratte, chiare e intellegibili, pubbliche e non retroattive ed è privo di lacune e antinomie.
La (—) è stata oggetto delle valutazioni più diverse. Le teorie giuridiche ad essa favorevoli sono prevalentemente considerate formalistiche e considerano la certezza un elemento costitutivo del concetto stesso di diritto, con la conseguenza che il diritto o è certo o non è neppure diritto.
Le teorie che valutano in senso negativo la (—) sono invece considerate antiformalistiche. Ad esempio, per H. Kelsen la (—) è un’illusione: poiché l’attività interpretativa dell’organo incaricato di dare concreta applicazione alle norme generali e astratte ha un’inevitabile carattere creativo, è impossibile per il cittadino prevedere fino in fondo le decisioni degli organi esecutivi e giudiziari.
Per l’esponente del realismo giuridico americano Jerome Frank la (—) è un valore non solo irrealizzabile ma addirittura non degno di essere perseguito. Anzi, Frank conclude che il diritto non è composto di norme ma di decisioni giudiziarie che, in quanto non sono applicazioni di norme preesistenti, sono radicalmente imprevedibili.
Oggi l’opinione comune è che il diritto certo per eccellenza (il diritto di fonte prevalentemente legislativa, completo, chiaro, coerente, facilmente comprensibile e razionalmente sistemato) è un tipo ideale al quale gli ordinamenti storici possono solo avvicinarsi più o meno notevolmente, senza tuttavia mai realizzarlo completamente.
Senza dubbio la necessità di un diritto certo è particolarmente forte nel campo del diritto penale, ove spesso la reazione degli organi giuridici alle condotte umane valutate come reati consiste nella privazione di beni di notevole valore (la libertà personale e talvolta la vita). Nell’ordinamento penale italiano la (—) viene tutelata dal principio nullum crimen, nulla pona, sine lege che affida solo ad una legge (non retroattiva, per giunta) la previsione dei reati e delle pene.
Quando, invece, un diritto legislativo tende a produrre norme vaghe, ambigue, retroattive e incomprensibili sia per i destinatari sia per i giudici chiamati ad osservarlo si distacca definitivamente dall’ideale della certezza.
Questa situazione di degenerazione del diritto legislativo, caratteristica di numerosi ordinamenti dell’Europa continentale contemporanea, viene definita col termine di decodificazione.
Infine, la (—) non va confusa con la giustizia sostanziale del diritto; infatti, un diritto può essere certo ma ingiusto nel contenuto oppure giusto e ineccepibile nei contenuti ma incertamente applicato.