Concorso (Competition)

In caso di concorso materiale di reati [Concorso (di reati)] si applica il cumulo materiale delle pene. Il principio del cumulo materiale è mitigato dal legislatore mediante la previsione di limiti massimi oltre i quali il giudice non può andare.
Così, ai sensi dell’art. 78 c.p.:
— trattandosi di reati che importino pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa specie, la pena da applicare non può mai essere superiore al quintuplo della più grave fra le pene concorrenti, né comunque eccedere:
— i 30 anni per la reclusione;
— i 6 anni per l’arresto;
— 15.493 euro per la multa;
— 3.098 euro per l’ammenda;
— trattandosi di reati che importano pene detentive diverse, la durata della pena da applicare non può comunque superare gli anni 30; la parte di pena eccedente tale limite è detratta in ogni caso dall’arresto.
I limiti di pena dell’art. 78 si applicano solo in caso di pluralità di pene comminate con unica sentenza o decreto. In caso di pluralità di condanne trova applicazione l’art. 80 c.p. (concorso di pene inflitte con sentenze o decreti diversi).
La legge prevede poi delle sostituzioni quando è impossibile cumulare le varie pene da infliggere.
(—) di persone nel reato (d. pen.)
Il (—) si ha nel caso in cui una pluralità di soggetti commette un reato.
Si distingue tra due tipi di (—):
— necessario: si verifica per quei reati (detti plurisoggettivi) che, per loro natura, non possono che esser commessi da due o più persone: si pensi, ad esempio, alla rissa;
— eventuale: ricorre, invece, per la maggior parte dei reati che possono essere commessi indifferentemente da una o più persone e per i quali il concorso costituisce una mera eventualità.
Nel nostro ordinamento, la disciplina del concorso eventuale di persone è dettata dall’art. 110 c.p., il quale ispirandosi al principio della pari responsabilità dei concorrenti, stabilisce che quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita.
Tale norma svolge una funzione estensiva dell’ordinamento penale: essa, infatti, consente di punire, oltre ai concorrenti che pongono in essere la condotta tipica prevista dalla norma incriminatrice, anche quelli che pongono in essere azioni atipiche che, in base alla sola norma incriminatrice, non sarebbero punibili. Il concorso di persone può essere materiale (consistente nella partecipazione alla esecuzione del reato o in un concreto aiuto al reo nella preparazione ed esecuzione del reato) o morale (consistente nella partecipazione alla esecuzione del reato o nel far sorgere o nel rafforzare in un soggetto un proposito criminoso).
Inoltre il legislatore ha previsto, malgrado il principio di pari responsabilità di tutti i concorrenti, la possibilità di graduare la responsabilità di ciascun concorrente a seconda del contributo apportato alla realizzazione del fatto criminoso, attraverso la previsione di un sistema di circostanze aggravanti ed attenuanti che si applicano specificamente al concorso (artt. 112 e 114 c.p.), oltre, beninteso, che attraverso i consueti parametri di cui all’art. 133 c.p.
Nel novero dei concorrenti possono esservi anche persone non imputabili o non punibili, purchè forniscano un contributo (commissivo od omissivo) alla realizzazione dell’evento, e sussista in ciascuno la volontà di cooperare nel reato.
L’elemento soggettivo nel concorso di persone nel reato risulta dalla somma di due precise volontà, e cioè:
— la volontà di realizzare il reato (cd. dolo del fatto tipico monosoggettivo);
— la volontà di realizzarlo insieme ad altro o ad altri (cd. dolo di concorso).
Sempre con riferimento all’elemento soggettivo, si pone il problema della ammissibilità di un concorso a titolo diverso tra i vari partecipi, e più precisamente di:
— un concorso doloso in delitto colposo (es. Tizio, notando che Caio e Sempronio, suoi nemici, stanno maneggiando negligentemente alcune armi ritenute scariche, ne sostituisce una con altra carica, così provocando la morte di uno dei due): la sua configurabilità è ammessa da chi ritiene che la posizione di ciascun concorrente sia autonoma, mentre è esclusa da chi ritiene necessariamente interdipendenti le posizioni dei concorrenti e, quindi, nega l’imputabilità del medesimo fatto a titoli soggettivi diversi;
— un concorso colposo in delitto doloso: per la dottrina e la giurisprudenza dominanti deve senz’altro escludersi per la mancanza di una norma che, in ossequio al principio sancito nel secondo comma dell’art. 42, lo preveda (l’art. 113 prevede, infatti, il solo concorso doloso nel delitto colposo); in senso contrario in alcune pronunce si è affermata la configurabilità non ostandovi l’art. 42 che, riferendosi alla parte speciale del codice, non interessa le disposizioni di cui agli artt. 110 e 113 c.p.
Un’ipotesi particolare di (—) è quella del c.d. concorso anomalo (o aberratio delicti concorsuale), disciplinata dall’art. 116 c.p. a norma del quale, quando il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave.
Nel (—) secondo la prevalente giurisprudenza per aversi desistenza volontaria non basta il semplice abbandono o l’interruzione dell’azione criminosa, ma è necessario evitare la realizzazione concorsuale della condotta o, quantomeno, instaurare un processo causale che elimini le conseguenze del proprio apporto.
(—) di reati (d. pen.)
Il (—) si verifica quando un soggetto viola più volte la legge penale, ed è quindi chiamato a rispondere di più reati.
Si distingue tra:
— concorso materiale: si ha quando l’agente pone in essere più reati con una pluralità di azioni od omissioni (es.: Tizio prima ruba, poi rapina, poi uccide);
— concorso formale: ricorre, invece, quando i vari reati vengono realizzati con una sola azione od omissione (es.: Tizio con una sola frase ingiuria contemporaneamente più persone).
Il (—), sia materiale che formale, può essere:
— omogeneo, quando con una o più azioni od omissioni vengano commesse più violazioni della medesima disposizione di legge;
— eterogeneo, quando con una o più azioni od omissioni si violino diverse disposizioni di legge.
Per la disciplina del concorso di reati, sono concepibili in astratto tre sistemi:
— l’assorbimento, in virtù del quale si applica solo la pena prevista per il reato più grave;
— il cumulo materiale, per il quale si applicano tante pene quanti sono i reati commessi;
— il cumulo giuridico, per il quale si applica la pena prevista per il reato più grave, aumentata proporzionalmente alla gravità delle pene previste per gli altri reati: la pena complessiva risulta però inferiore al cumulo materiale.
Il codice penale, nel disciplinare il concorso materiale, ha adottato il sistema del cumulo materiale delle pene [Concorso (di pene)], pur se con opportuni temperamenti consistenti nella fissazione di limiti massimi di pena (artt. 78 e 79 c.p.). La disciplina dettata dal codice penale per il concorso materiale di reati si applica sia nel caso che una stessa persona debba essere condannata per più fatti, sia nel caso che dopo una condanna si debba giudicare la stessa persona per un altro reato anteriore o posteriore, sia nel caso che contro la stessa persona debbano eseguirsi più condanne (artt. 71 e 80 c.p.).
Il codice Rocco prevedeva anche per il concorso formale il cumulo materiale delle pene, ma il D.L. 99/74, conv. nella L. 220/74, ha introdotto il sistema del cumulo giuridico, in virtù del quale il concorso formale è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo.
Peraltro, sia in caso di concorso formale che di reato continuato la pena, in tal modo determinata, non potrà mai essere superiore a quella che sarebbe applicabile in base al cumulo materiale delle pene stabilite per i reati in concorso formale o in continuazione. Tale regola generale trova conferma nel co. 4 dell’art. 81 (neointrodotto dalla L. 5-12-2005, n. 251, nota come legge ex Cirielli), previsione nella quale si precisa che, nel caso in cui i reati avvinti dal vincolo della continuazione col più grave o in concorso formale siano commessi da soggetti cui sia stata applicata la recidiva reiterata, l’incremento sanzionatorio non potrà essere comunque inferiore ad un limite minimo, pari ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.
Il concorso materiale non ha una rilevanza specifica quale autonomo istituto di diritto sostanziale, se non nella forma del reato continuato, ipotesi particolare di concorso materiale di reati uniti dalla medesimezza del disegno criminoso e punito con il sistema del cumulo giuridico.
(—) di responsabilità (d. civ.)
Si verifica quando il medesimo fatto integra sia gli estremi di un illecito contrattuale che extracontrattuale [Responsabilità].
L’obbligazione risarcitoria ha, pertanto, una duplice fonte: la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale.
I (—) contrattuali ed extracontrattuali agevolano il creditore, in quanto questi ha la possibilità di scegliere alternativamente l’azione di responsabilità che meglio lo tutela. Infatti, la responsabilità extracontrattuale gli permette di conseguire il risarcimento dei danni non patrimoniali e di quelli prevedibili ed imprevedibili, mentre egli può far valere la responsabilità contrattuale quando quella extracontrattuale sia prescritta.
Un’ipotesi frequente di (—) si verifica nel contratto di trasporto di persone [Trasporto (Contratto di)], ove la lesione imputabile alla persona integra sia gli estremi di un illecito contrattuale che extracontrattuale.
(—) pubblico (d. amm.)
È il sistema che consente ai cittadini italiani (nonché agli italiani non appartenenti alla Repubblica, ex art. 51 Cost.) di accedere in condizioni di eguaglianza agli uffici pubblici.
È il modo ordinario di accesso al pubblico impiego [Impiego (pubblico)], previsto direttamente dalla Costituzione (art. 97), salvi i casi espressamente indicati dalla legge.
La Costituzione, in particolare, dopo aver disposto in linea generale che alle pubbliche amministrazioni si accede mediante (—), impone nello specifico tale procedura per l’assegnazione di borse di studio e per la nomina dei magistrati, e ciò per garantire non solo la selezione di soggetti capaci e meritevoli, ma soprattutto l’indipendenza e l’autonomia delle persone assunte rispetto agli organi di governo dell’Amministrazione.
La legge di riforma del pubblico impiego (D.Lgs. 29/1993) all’art. 36, ora confluito nel D.Lgs. 165/2001 (art. 35) ribadisce la validità della procedura concorsuale per l’assunzione agli impieghi nelle amministrazioni pubbliche; tuttavia ammette l’esistenza di un sistema misto, per cui eccezionalmente è consentito il ricorso a forme di accesso extraconcorsuale rappresentate dall’assunzione obbligatoria dei soggetti appartenenti a categorie protette e dall’assunzione mediante liste di collocamento del personale di professionalità di basso contenuto e complessità, per le quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo.
Quanto ai principi generali che presiedono all’espletamento del (—), l’art. 353 del D.Lgs. 165/2001 stabilisce che il (—) deve svolgersi nel rispetto dei seguenti principi:
a) adeguata pubblicità della selezione;
b) modalità di svolgimento che garantiscano l’imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove opportuno, all’ausilio di sistemi automatizzati, diretti a realizzare forme di preselezione;
c) adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire;
d) rispetto delle pari opportunità;
e) decentramento delle procedure di reclutamento;
f) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza, che non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali.
Il D.Lgs. 29/1993 (abrogato dal D.Lgs. 165/2001) aveva introdotto il sistema del concorso unico, per assicurare un controllo unitario sul reclutamento del personale, ma la L. 59/1997 ha abrogato le norme che lo prevedevano, per cui ciascuna amministrazione statale potrà attivarsi autonomamente per l’assunzione del personale occorrente.

Concorrenza (Competition)

È quella particolare forma di mercato in cui, data la pluralità di imprenditori, nessuno di essi è in grado di determinare con le proprie decisioni il contenuto delle contrattazioni.
La disciplina della (—) (cioè della libera competizione tra imprenditori per l’acquisizione e la conservazione della clientela) è basata sulla regola della libertà, espressione del principio della libertà dell’iniziativa economica (art. 41 Cost.).
Lo stesso art. 41 della Costituzione autorizza però l’introduzione di limiti a tale libertà, per fini di utilità sociale.
Nella realtà, la libertà di (—) è però di fatto compromessa dalla presenza di strutture monopolistiche ed oligopolistiche, createsi mediante processi di concentrazione di imprese e intese tra gruppi industriali. A tale scopo il legislatore italiano ha approntato una serie di misure antitrust (L. 287/90) nel rispetto delle direttive comunitarie, sia per allinearsi ai partner europei sia per dare maggiore vigore all’azione di salvaguardia della libera concorrenza.
I limiti alla (—) possono essere generali, negoziali, legali.
Con riferimento ai primi, l’art. 2595 c.c., a tutela dell’interesse generale, stabilisce che la (—) non deve ledere gli interessi dell’economia nazionale e ciò perché ove tali interessi non venissero tutelati, l’attività imprenditoriale si porrebbe in contrasto con l’utilità sociale e quindi con la Costituzione (art. 41 Cost.).
Grande rilievo assumono anche i limiti negoziali introdotti con le clausole di esclusiva [Clausola], i patti di preferenza, i patti di non concorrenza nonché i cd. cartelli.
Questi ultimi operano essenzialmente a tutela di un determinato imprenditore o a tutela di tutti gli altri imprenditori, come avviene nel caso del generico dovere di astensione da determinate forme di (—), produttive di pregiudizi particolarmente qualificati.
Altro limite è previsto, nel caso di cessione di azienda, dall’art. 2557 c.c. a carico dell’alienante che per 5 anni non può svolgere attività concorrenziali con quella esercitata dall’impresa ceduta.
(—) sleale
La (—) deve attuarsi con il rispetto di quelle norme di costume che costituiscono la correttezza professionale.
In particolare, deve ritenersi sleale la (—) di un imprenditore che, violando le norme di correttezza professionale (denigrando gli altrui prodotti, o valorizzando fuori misura i propri, o ricorrendo ad altri sistemi non consentiti), tenti di sviare a proprio vantaggio la clientela di altre imprese.
Nel nostro ordinamento il codice civile, agli artt. 2598-2601, qualifica gli atti di (—) sleale e ne determina le sanzioni, attribuendo in taluni casi la legittimazione ad agire anche alle associazioni professionali.
Si ricordi, inoltre, che anche il trattato CE tutela, nell’ambito dei Paesi membri, la sana (—) vietando le intese e lo sfruttamento delle posizioni dominanti.
Obbligo del lavoratore di non (—) (d. civ.)
Nel diritto del lavoro l’art. 2105 c.c., sotto la rubrica obbligo di fedeltà [Fedeltà (Obbligo di)], disciplina alcuni obblighi accessori al contratto di lavoro, tra cui quello di non (—). Il lavoratore ha l’obbligo di non trattare affari, per conto proprio o di terzi, che ponendosi in (—) con l’attività esercitata dall’impresa di cui è dipendente siano idonei, anche solo potenzialmente, ad arrecare danno all’impresa stessa. Tale obbligo vincola il lavoratore so.

Concordato (Concordat)

È una particolare forma di chiusura del fallimento con la quale si realizza la soddisfazione paritaria dei creditori senza ricorrere alla fase della liquidazione dell’attivo.
L’istituto del (—) fallimentare (artt. 124 ss. R.D. 267/1942) è stato significativamente modificato dalla riforma delle procedure concorsuali (D.Lgs. 9-1-2006, n. 5), nell’ottica di agevolare il ricorso alla procedura e di semplificare la stessa, e successivamente dal D.Lgs. 169/2007 (a decorrere dal 1 gennaio 2008).
La proposta di (—) può essere presentata da uno o più creditori o da un terzo, anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo, purché sia stata tenuta la contabilità e i dati risultanti da essa e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all’approvazione del giudice delegato.
Essa non può essere presentata dal fallito, da società cui egli partecipi o da società sottoposte a comune controllo se non dopo il decorso di un anno dalla dichiarazione di fallimento e purché non siano decorsi due anni dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo.
La proposta può prevedere:
a) la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei;
b) trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse, indicando le ragioni dei trattamenti differenziati dei medesimi;
c) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito.
La proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista designato dal tribunale.
Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione
La proposta presentata da uno o più creditori o da un terzo può prevedere la cessione, oltre che dei beni compresi nell’attivo fallimentare, anche delle azioni di pertinenza della massa, purché autorizzate dal giudice delegato, con specifica indicazione dell’oggetto e del fondamento della pretesa. Il proponente può limitare gli impegni assunti con il (—) ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta. In tale caso, verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito, fermo quanto disposto dagli artt. 142 ss. R.D. 267/1942 in caso di esdebitazione.
La proposta di (—) è presentata con ricorso al giudice delegato, il quale chiede il parere del curatore, con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione e alle garanzie offerte.
Una volta espletato tale adempimento preliminare, il giudice delegato, acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori, valutata la ritualità della proposta, ordina che la stessa, unitamente al parere del curatore e del comitato dei creditori venga comunicata ai creditori, specificando dove possono essere reperiti i dati per la sua valutazione ed informandoli che la mancata risposta sarà considerata come voto favorevole. Nel medesimo provvedimento il giudice delegato fissa un termine entro il quale i creditori devono far pervenire nella cancelleria del tribunale eventuali dichiarazioni di dissenso.
Il (—) è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto.
Ove siano previste diverse classi di creditori, il (—) è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi.
I creditori che non fanno pervenire il loro dissenso nel termine fissato dal giudice delegato si ritengono consenzienti.
(—) preventivo (d. fall.)
È un mezzo che la legge accorda al debitore per evitare gli inconvenienti della procedura fallimentare e a cui si può ricorrere prima della dichiarazione di fallimento; il (—) preventivo si dispone attraverso un accordo giudiziale tra debitore e creditori circa le modalità con cui dovranno essere estinte tutte le obbligazioni.
Anche questa procedura è stata modificata dal D.Lgs. 169/2007.
Per l’ammissibilità della proposta di (—) è sufficiente che l’imprenditore versi in uno stato di crisi (art. 160 L. fall.), ossia in una condizione che precede lo stato di insolvenza vero e proprio. Tuttavia, per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza (art. 160, ult. co., R.D. 267/1942).
Il debitore propone ai creditori un piano di risanamento che può prevedere:
— la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma (come la cessione dei beni, l’attribuzione ai creditori di azioni, quote, obbligazioni o altri strumenti finanziari e titolo di debito);
— l’attribuzione delle attività del debitore a un terzo assuntore, che può anche essere costituito dai creditori medesimi, da società da questi partecipate o da costituirsi nel corso della procedura ma le cui azioni sono destinate ad essere assegnate ai creditori medesimi.
Inoltre, il piano presentato dal debitore può prevedere la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizioni giuridiche ed interessi economici omogenei, nonché trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.
La proposta può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista.
Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione.
Il (—) è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi.
I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, dei quali la proposta di (—) prevede l’integrale pagamento, non hanno diritto al voto se non rinunciano in tutto o in parte al diritto di prelazione. Qualora i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca rinuncino in tutto o in parte alla prelazione, per la parte del credito non coperta dalla garanzia sono equiparati ai creditori chirografari; la rinuncia ha effetto ai soli fini del (—).
Sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto grado, i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta di concordato.
Il (—) omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato.
Ciascuno dei creditori può richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento, purché non si tratti di inadempimento di scarsa importanza (art. 1455 c.c.).
Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato.
Le disposizioni che precedono non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore.

Conciliazione (Reconciliation)

È il tentativo che il giudice compie allo scopo di pervenire al componimento della controversia, sì da determinare la cessazione della materia del contendere.
Prima delle modifiche introdotte dalle leggi 80/2005 e 263/2005, il giudice era tenuto ad effettuare il tentativo di (—) alla prima udienza di trattazione, dopo aver provveduto ad interrogare liberamente [Interrogatorio (nel processo civile)] le parti sui fatti di causa. Si trattava, secondo quanto previsto dal vecchio art. 183 c.p.c., di un tentativo obbligatorio di (—), che tuttavia nella pratica era diventato, di fatto, discrezionale, tanto che la giurisprudenza riteneva che la sua omissione non comportasse alcuna nullità.
Il legislatore del 2005, prendendo atto di ciò, ha reso facoltativo il tentativo di (—), che adesso è disposto soltanto se le parti ne fanno richiesta congiunta in qualunque stato e grado del processo (art. 185 c.p.c.), ferma restando la facoltà del giudice di disporre d’ufficio, in ogni momento, la comparizione personale delle parti (anche) per tentarne la (—), ai sensi dell’art. 117 c.p.c.
Il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione.
In sede di tentativo di (—) le parti possono farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale il quale deve essere a conoscenza dei fatti di causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. La mancata conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti di causa da parte del procuratore, è elemento valutabile come argomento di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c.
Quando le parti si sono conciliate si forma processo verbale dell’accordo raggiunto.
Il processo verbale costituisce titolo esecutivo.
[Conciliazione (in sede non contenziosa)].
(—) giudiziale nel processo penale (d. proc. pen.)
Istituto previsto dall’art. 5553 c.p.p. (riscritto, come l’intero Libro ottavo del codice, dalla L. 16-12-1999, n. 479), a norma del quale nell’udienza di comparizione, a seguito della citazione diretta, il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, verifica se il querelante è disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione. Nel vecchio rito pretorile l’istituto era disciplinato dall’art. 564, come figura di definizione procedimentale alternativa al dibattimento, svolta dal P.M., nella fase delle indagini preliminari, anche prima di compiere atti di indagine. La riforma del rito monocratico ha, invece, collocato l’istituto nella fase dibattimentale. Si ritiene, per ragioni sistematiche, che il tentativo di conciliazione si debba effettuare prima dell’apertura del dibattimento, e sul presupposto della comparizione delle parti nello stesso.
(—) giudiziale in materia tributaria (d. trib.)
Istituto che consente di estinguere una esposizione debitoria nei confronti dell’erario, costituita da tributi o sanzioni, mediante il patteggiamento delle somme dovute.
La (—) può aver luogo solo davanti alla commissione tributaria provinciale e non oltre la prima udienza.
La richiesta di conciliazione, sia totale che parziale, può provenire da entrambe le parti tramite un’apposita istanza.
Qualora una delle due parti abbia proposto la conciliazione e l’altra non vi abbia aderito, la commissione può stabilire un termine, non superiore a 60 giorni, per la formulazione di una nuova proposta.
Se la (—) ha luogo, viene redatto apposito processo verbale, nel quale sono indicate le somme dovute a titolo d’imposta, di sanzioni e interessi. Tale processo costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute mediante versamento diretto in un’unica soluzione o in forma rateale secondo le disposizioni dell’art. 48 D.Lgs. 546/1992. Se il contribuente non provvede ad effettuare il versamento dell’intero importo o della prima rata nel termine di 20 giorni, decade dal beneficio della riduzione delle sanzioni amministrative ad un terzo del minimo.
Ulteriori vantaggi conseguibili con la (—) consistono nella:
— diminuzione fino alla metà delle pene previste per i reati tributari;
— non applicazione delle sanzioni accessorie;
— compensazione delle spese di giudizio.
Il pagamento delle somme dovute dal contribuente può essere effettuato anche in forma rateale: in tal caso è necessaria la prestazione di un’idonea garanzia (titoli di Stato o garantiti dallo Stato, fideiussione rilasciata da un istituto di credito).
È chiaro infine che se la conciliazione è totale si estingue il giudizio, se è parziale la causa continua per le controversie non conciliate.
Oltre alla (—) propriamente detta è possibile una conciliazione stragiudiziale sulla base di un preventivo accordo tra gli interessati.
(—) in sede non contenziosa (d. proc. civ.)
È il tentativo di pervenire ad una preventiva composizione della lite al fine di evitare il giudizio (art. 322 c.p.c.).
La relativa istanza si propone al giudice di pace territorialmente competente, senza limiti di valore, sempreché la controversia verta su diritti disponibili e a condizione che non siano previsti dalla legge appositi organi per la composizione stragiudiziale della lite (es.: commissioni provinciali di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c.). Se la conciliazione riesce, se ne redige processo verbale che, qualora la controversia rientri tra quelle devolute alla competenza per materia e per valore del giudice di pace, costituisce titolo esecutivo. Se, invece, la causa non è di competenza del giudice di pace, il verbale ha valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio.
In particolare si ricorda il tentativo di conciliazione, previsto dall’art. 410 c.p.c., nel processo del lavoro che, ai sensi del D.Lgs. 80/1998, è ora obbligatorio quale condizione di procedibilità dell’azione processuale.
(—) stragiudiziale davanti alle Commissioni provinciali del lavoro (d. lav.)
Si sostanzia nell’accordo fra le parti di una controversia di lavoro, che si matura a seguito del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 410 c.p.c.
Originariamente tale tentativo di conciliazione era meramente facoltativo e non precludeva l’inizio del processo.
Attualmente, invece, l’art. 410 c.p.c. (modif. dall’art. 36 D.Lgs. 80/1998 e successivamente dall’art. 19 D.Lgs. 387/1998) prevede che il tentativo di conciliazione extragiudiziale sia obbligatorio: esso è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, in suo difetto, il giudice deve sospendere il giudizio, fissando alle parti un termine perentorio per proporre il tentativo (art. 412bis c.p.c.).
Pertanto, chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di lavoro di cui all’art. 409 c.p.c. deve:
— o avvalersi delle procedure di conciliazione eventualmente previste dai contratti o accordi collettivi (conciliazione sindacale);
— o promuovere, anche tramite l’associazione sindacale di appartenenza, il tentativo di conciliazione presso la apposita commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all’art. 413 c.p.c. (conciliazione amministrativa).
La comunicazione della richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Il tentativo di (—), anche se nelle forme previste dai contratti e accordi collettivi, deve essere espletato entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta.
Trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera comunque espletato (art. 410bis c.p.c.).
Se il tentativo di conciliazione riesce, si forma processo verbale che è depositato nella cancelleria del tribunale competente per territorio; il giudice, su istanza della parte interessata, accertatane la regolarità formale, lo dichiara esecutivo con decreto (art. 411 c.p.c.).
Se la conciliazione non riesce, si forma processo verbale con l’indicazione delle ragioni del mancato accordo; in esso le parti possono indicare la soluzione anche parziale sulla quale concordano, precisando, quando è possibile l’ammontare del credito che spetta al lavoratore. In quest’ultimo caso il processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo, osservate le disposizioni all’art. 411 c.p.c. (art. 412 c.p.c.).