Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 26-01-2011) 23-02-2011, n. 6965 Motivi di ricorso

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Svolgimento del processo

Con decreto in data 22 luglio 2009, il GIP del Tribunale di Roma, dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione proposta dalla persona offesa alla richiesta del PM, al rilievo che con essa l’opponente aveva contestato in diritto gli argomenti svolti dall’organo di accusa e che gli accertamenti richiesti erano irrilevanti e non pertinenti all’oggetto del procedimento in quanto riferiti a precedente autonomo procedimento (a sua volta archiviato), disponeva l’archiviazione del procedimento nei confronti di R.G., C.A.M. e S.A..

Contro tale decisione ha proposto tempestivo ricorso il difensore della persona offesa, munito di specifico mandato, che ne ha chiesto l’annullamento per violazione del diritto al contraddittorio, perchè in base all’univoco orientamento della Corte di cassazione, il GIP avrebbe dovuto fissare l’udienza camerale.

Nel caso in esame gli ulteriori temi di indagine e i relativi elementi di prova, indicati nell’atto di opposizione all’archiviazione erano sia pertinenti perchè inerenti strettamente alle notizie di reato, sia rilevanti perchè dai fatti prospettati dipende l’accertamento dei reati denunciati.
Motivi della decisione

Il ricorso è dedotto in maniera inammissibile, perchè generico, in quanto la sua lettura non consente di verificare quali fossero i temi di indagine proposti e su quali fatti si dovessero svolgere gli ulteriore accertamenti probatori, in modo da consentire in questa sede la verifica dell’erroneità della decisione adottata sul punto.

Ed invero al fine di verificare la fondatezza delle ragioni addotte sarebbe in questa sede necessario ripercorrere le argomentazioni svolte dal ricorrente in sede di opposizione al fine di enucleare i passaggi argomentati in tesi difensiva idonei a rappresentare la pertinenza e rilevanza delle prove, onere questo al quale, in ossequio al dettato dell’art. 581 c.p.p., lett. c), deve adempiere chi propone l’impugnazione.

Il difetto dell’obbligo di specificità (c.d. autosufficienza) del ricorso ne determina l’inammissibilità, secondo quanto previsto dall’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c) (cfr. Cass. Sez. 5^, 22.1- 26.3.2010 n. 11910).

Il ricorrente deve essere in conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali e della somma, che in ragione dei motivi di inammissibilità, si stima equo liquidare in Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 16-02-2011) 08-03-2011, n. 9000 Sicurezza pubblica

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Svolgimento del processo

M.M. proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza con la quale, in data 8 aprile 2010, il G.I.P. del Tribunale di Napoli convalidava il provvedimento questorile notificatogli il 7 aprile 2010 e con il quale gli venivano applicate le prescrizioni di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 6, comma 2.

Con il primo motivo di ricorso deduceva la violazione della menzionata L. n. 401 del 1989, art. 6, comma 1 bis, in quanto non sarebbe stato osservato il termine di 48 ore per la presentazione di memorie difensive.

Rilevava, a tale proposito, di aver ricevuto la notifica del decreto emesso dal Questore di Napoli il 7 aprile 2010 e che tale decreto riceveva la convalida del G.I.P. il giorno 8 aprile 2010, come da richiesta del Pubblico Ministero, privandolo, conseguentemente, della possibilità di esercitare il diritto di difesa.

Con il secondo motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione del provvedimento non avendo il giudice indicato in alcun modo le ragioni che lo avevano indotto alla convalida.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

Le censure mosse con il primo motivo di ricorso appaiono del tutto condivisibili e risultano assorbenti rispetto all’ulteriore motivo che, pertanto, questo Collegio è esonerato dall’esaminare.

Occorre ricordare, a tale proposito, che la giurisprudenza di questa Corte, dopo alcune oscillazioni iniziali, è ormai pacificamente orientata nel ritenere che il termine entro il quale l’interessato può depositare memorie difensive e formulare deduzioni al G.I.P. competente per la convalida del provvedimento questorile emesso ai sensi della L. n. 401 del 1989 non può essere inferiore a quello, di 48 ore, entro il quale il Pubblico Ministero deve richiedere la convalida (Sez. 3^ n. 20766, 3 giugno 2010; n. 86, 7 gennaio 2010; n. 2471, 17 gennaio 2008).

Tale giurisprudenza si fonda su una lettura costituzionalmente orientata della L. n. 401 del 1989, art. 6, comma 1 bis, il quale dispone che la notifica del provvedimento del questore deve contenere l’avviso che l’interessato ha facoltà di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie o deduzioni al giudice competente per la convalida del provvedimento.

Infatti, con la sentenza n. 144 del 23 maggio 1997, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, della legge predetta nella parte in cui non prevedeva che la notifica del provvedimento del questore contenesse l’avviso che l’interessato ha facoltà di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie o deduzioni al giudice per le indagini preliminari.

Il comma 1 bis veniva pertanto successivamente introdotto dal D.L. 20 agosto 2001, n. 336 convertito, con modificazioni, dalla L. 19 ottobre 2001, n. 377.

Si è così stabilito che, nella fase di convalida del provvedimento questorile, debba instaurarsi un contraddittorio, seppure meramente cartolare, che consenta all’interessato di esaminare la documentazione trasmessa al G.I.P. per la convalida ed interloquire mediante memorie e deduzioni.

La mancanza di un termine per l’esercizio del diritto di difesa che la legge non indica, pur prevedendo una precisa scansione temporale del procedimento di convalida, ha indotto la giurisprudenza di questa Corte a ritenere, anche alla luce del principio di parità delle parti fissato dall’art. 111 Cost., che esso debba essere comunque uguale a quello concesso al Pubblico Ministero per formulare le sue determinazioni e, pertanto, quantificato in 48 ore dalla notifica del provvedimento del questore (Sez. 3^ n. 21344, 4 giugno 2010. V. SS.UU. n. 44273, 12 novembre 2004).

Ciò premesso, si osserva che, nella fattispecie, come ricordato in ricorso, la notifica del provvedimento del questore è avvenuta il 7 aprile 2010, mentre la convalida del G.I.P. reca la data dell’8 aprile 2010, cosicchè il termine concesso è inferiore a quello di 48 ore, con lesione dei diritti della difesa cui consegue nullità ai sensi dell’art. 178 c.p.p., lett. c).

Tale lesione dei diritti della difesa comporta, anche alla luce di quanto evidenziato dalle Sezioni Unite (SS.UU. n. 4443, 3 febbraio 2006) e contrariamente a quanto richiesto dal Procuratore Generale, l’annullamento senza rinvio dell’impugnato provvedimento con conseguente perdita di efficacia del provvedimento del questore, limitatamente all’obbligo di presentazione.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’impugnato provvedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 09-02-2011) 23-03-2011, n. 11610 Eccesso colposo Scriminanti

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. CEDRANGOLO Oscar che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo

Si è proceduto nei confronti di Q.A. per il delitto di tentato omicidio commesso per motivi futili, accusandolo di aver cagionato a G.H., vibrandogli una coltellata all’emicostato di sinistra, lesioni gravi consistite in trauma toracico con emopneumotorace con riserva di prognosi e pericolo di vita, così compiendo atti idonei diretti in modo non equivoco a provocarne la morte, senza conseguire l’intento per cause indipendenti dalla sua volontà. In (OMISSIS).

Il Tribunale di Bologna, con sentenza in data 5.3.2009, dichiarava l’imputato colpevole del delitto ascrittogli e, esclusa l’aggravante contestata e concesse le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni cinque di reclusione.

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza in data 16.10.2009, diversamente qualificato il fatto ai sensi del combinato disposto dell’art. 590 c.p. e art. 59 c.p., comma 4, con le già concesse attenuanti generiche rideterminava la pena inflitta a Q. A. in mesi quattro di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.

In base alle prove raccolte, la sentenza della Corte d’appello ricostruiva il fatto nel modo seguente.

La parte lesa G., dopo essersi accertata per telefono che l’imputato fosse solo in casa, si recava presso la temporanea abitazione di Q. con l’intenzione di ottenere la restituzione del suo decoder. Appena l’imputato aveva aperto la porta, vi era stata tra i due una discussione relativa alle rispettive pretese e l’imputato aveva cercato di impedire di entrare in casa alla parte lesa, la quale però, spingendo la porta e vincendo la resistenza dell’imputato, era riuscita a introdursi in casa con violenza.

A quel punto l’imputato, impaurito dall’atteggiamento di G., probabilmente in seguito ad una breve colluttazione, aveva afferrato un coltello e l’aveva colpito all’emitorace.

Secondo la Corte non sussistevano oggetti va mente i presupposti della legittima difesa, in quanto non vi era la prova che la parte lesa volesse aggredire l’imputato, provocandogli lesioni; questi, però, legittimamente e incolpevolmente aveva ritenuto di agire in presenza dell’esimente della legittima difesa, temendo per la propria incolumità in seguito alla violazione di domicilio da parte di G..

Non poteva però dirsi che l’imputato, seppure incolpevolmente convinto di agire in stato di legittima difesa, avesse reagito in modo proporzionato al pericolo che aveva ritenuto sussistere.

G., infatti, era disarmato e dalle testimonianze assunte non risultava che la lite tra i due fosse particolarmente violenta.

La sussistenza presunta ex lege del rapporto di proporzionalità, nel caso previsto dall’art. 52 c.p., comma 2 non poteva essere operante anche nel caso di legittima difesa putativa, ricorrendo l’ipotesi dell’art. 59 c.p., u.c. e non quella di cui all’art. 55 c.p..

Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, deducendo un vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento della scriminante della legittima difesa ovvero della legittima difesa putativa in senso pieno.

Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata non aveva adeguatamente motivato la ritenuta sproporzione tra la difesa attuata dall’imputato e l’offesa perpetrata dalla parte lesa.

In via generale, il fatto che la parte lesa sia disarmata e l’assenza di testimoni oculari non possono, di per sè soli, determinare una valutazione di assenza dei requisiti della legittima difesa.

La sentenza impugnata non aveva considerato che l’utilizzo dell’arma è normativamente previsto come proporzionato in via presuntiva, nel caso previsto dall’art. 52 c.p., comma 2.

Neppure aveva considerato che l’imputato si era trovato nella necessità di reagire alla violenta introduzione in casa della parte lesa.

La discordanza delle versioni fornite dall’imputato e dalla parte lesa, unitamente alla scarsa credibilità di quest’ultima ritenuta dal Giudice d’appello, non potevano comunque far ritenere provata la sussistenza di un errore colposo in capo all’imputato.

Gli elementi rilevati avrebbero dovuto portare il Giudice di secondo grado a ritenere sussistente la legittima difesa putativa in senso pieno, escludendo gli estremi della responsabilità a titolo di colpa nell’ambito dell’erronea supposizione dell’esistenza della scriminante della legittima difesa.
Motivi della decisione

Il ricorso è fondato, non essendo corretto il percorso logico seguito nella motivazione della sentenza.

L’art. 52 c.p., comma 2, introdotto dalla L. n. 59 del 2006, ha stabilito la presunzione della sussistenza del requisito della proporzione tra offesa e difesa, quando sia configurabile la violazione di domicilio dell’aggressore, ossia l’effettiva introduzione del soggetto nel domicilio altrui, contro la volontà del soggetto legittimato ad escluderne la presenza (V. Sez. 1^ sentenza del 16.2.2007, Rv. 236366).

In tal caso, l’uso dell’arma legittimamente detenuta è ritenuto proporzionato per legge, se finalizzato a difendere la propria o l’altrui incolumità ovvero i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.

In presenza delle suddette condizioni, non è più rimesso al giudice il giudizio sulla proporzionalità della difesa all’offesa, essendo il rapporto di proporzionalità sussistente per legge, e questo vale sia in ipotesi di legittima difesa obiettivamente sussistente sia in ipotesi di legittima difesa putativa incolpevole. Nel caso però in cui l’agente ha ritenuto per errore, determinato da colpa, di trovarsi nelle condizioni previste dalla difesa legittima, obiettivamente non sussistenti, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

La sentenza impugnata, dopo aver escluso la sussistenza oggettiva dei presupposti che giustificano la difesa legittima, ha erroneamente ritenuto che l’imputato, seppure incolpevolmente convinto di agire in stato di legittima difesa, potesse essere punito per aver ecceduto colposamente il criterio di proporzionalità.

La sentenza deve, quindi, essere annullata e il giudice del rinvio dovrà rivalutare giuridicamente il fatto, anche al fine di accertare se l’imputato ha colpevolmente ritenuto di essere nelle condizioni che giustificano la legittima difesa, tenendo però conto che, nel caso in cui riconoscesse la scriminante della legittima difesa o della legittima difesa putativa incolpevole, non potrà ritenere insussistente il rapporto di proporzionalità.
P.Q.M.

Annulla l’impugnata sentenza e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 01-04-2011, n. 2877 Sanità e igiene

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ricorso n. 6055/10, notificato in data 5 luglio 2010 e depositato il successivo 29 luglio la S. s.p.a., proprietaria della Casa di cura F.M., che opera quasi esclusivamente in regime di accreditamento, ha impugnato la delibera di Giunta regionale n. 304 del 23 giugno 2010 e le note di L. nn. 9021 e 9023 dell’1 luglio 2010.

Espone, in fatto, che con nota del 17 settembre 2009 le è stata data la comunicazione di avvio del procedimento in ordine ad una possibile revoca dell’accreditamento per fatti di rilevanza penale che avevano coinvolto anche l’A.S.L. RM/C. Con successiva nota del 17 dicembre 2009 è stata ad essa comunicata la prossima revoca anche in considerazione della sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Lazio, n. 1951 del 2008, con la quale la società è stata, tra l’altro, condannata per danno erariale al pagamento della complessiva somma di Euro 1.533.073,08, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, a favore dell’Azienda sanitaria locale RM/C.

Con l’impugnata delibera di Giunta regionale n. 304 del 23 giugno 2010 è stata disposta la sospensione cautelare dell’accreditamento.

2. Avverso i predetti provvedimenti la ricorrente è insorta deducendo:

a) Violazione e falsa applicazione artt. 11 e 16 L. reg. Lazio n. 4 del 2003 – Eccesso di potere per illogicità e ingiustizia manifesta – Difetto di motivazione.

Il provvedimento di revoca è illegittimo perché non è stato preceduto da un’autonoma valutazione dei fatti addebitati alla società S., ma si fonda esclusivamente sulla sentenza della Corte dei conti, che è stata appellata.

b) Violazione art. 21 bis L. n. 241 del 1990.

La sospensione cautelare dell’accreditamento è stata disposta a far data dal 24 giugno 2010 e, dunque, da epoca anteriore alla comunicazione del provvedimento che l’ha disposta, avvenuta solo il 1° luglio 2010 da parte di L..

3. Con ricorso n. 9199/10, notificato il 20 ottobre 2010 e depositato il successivo 28 ottobre la S. s.p.a. ha impugnato il decreto del Commissario ad acta del Regione Lazio n. 56 del 12 luglio 2010, nella parte in cui, nel relativo documento allegato, sul presupposto della sospensione dell’accreditamento della Casa di cura F.M., la metà dei 29 posti letto di ostetricia e 9 di patologia neonatale è stata collocata presso le UOP del Policlinico Casilino e del Sandro Pertini (7 posti di ostetricia e 2 di patologia neonatale per ciascuna UOP), salvo a ricollocare gli ulteriori 15 posti di ostetricia e 5 di patologia neonatale, nonché il decreto del Commissario ad acta della Regione Lazio n. 59 del 13 luglio 2010, avente ad oggetto la rete Oncologica, nella parte in cui, nel relativo allegato, viene annotato che per la Casa di cura F.M. l’accreditamento è stato sospeso con delibera di Giunta regionale n. 304 del 2010, e di ogni altro atto connesso e consequenziale.

A fondamento dell’illegittimità dette delibere richiama i due motivi dedotti nel ricorso 6055/10.

Ha aggiunto il motivo di difetto di motivazione e di contraddittorietà, confliggendo l’inflitta radiazione dal piano e dalla rete con la precedente sospensione – e non revoca – dell’accreditamento provvisorio.

3. Si è costituita, in entrambi i giudizi nn. 6055/10 e 9199/10, la Regione Lazio, che ha sostenuto l’infondatezza dei ricorsi.

4. L. – Agenzia di Sanità Pubblica, evocata nel giudizio n. 6055/10, non si è costituita.

5. Si è costituito, nel giudizio n. 9199/10, il Commissario ad acta per la sanità della Regione Lazio e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, senza svolgere alcuna attività difensiva.

6. Si è costituita, nel giudizio n. 9199/10, l’Azienda USL Roma B, senza svolgere alcuna attività difensiva.

7. Si è costituita, nel giudizio n. 9199/10, E. s.p.a., senza svolgere alcuna attività difensiva.

8. Con memoria depositata il 18 febbraio 2011 nel ricorso n. 6055/10, la S. s.p.a. ha ribadito le proprie tesi difensive.

9. All’udienza del 23 marzo 2011 le cause sono state trattenute per la decisione.
Motivi della decisione

1. In via preliminare occorre disporre la riunione dei ricorsi nn. 6055/10 e 9199/10, stante la loro connessione soggettiva ed oggettiva.

2. Principiando dall’esame del ricorso n. 6055/10, va sottolineato che la delibera di Giunta regionale n. 304 del 23 giugno 2010 ha disposto la sospensione cautelare dell’accreditamento in relazione ai fatti accertati dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Lazio, con sentenza n. 1951 del 10 dicembre 2008, con la quale la società ricorrente era stata, tra l’altro, condannata, in solido con il Rag. Porcari (all’epoca dei fatti suo Amministratore unico) e con l’avv. Aiello (all’epoca dirigente e responsabile dell’ufficio legale dell’Azienda sanitaria RMC) per danno erariale, sub specie di responsabilità diretta, alla complessiva somma di Euro 1.533.073,08, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria, a favore dell’Azienda sanitaria locale RMC. Tale condanna ha, ad avviso della Regione, minato "l’affidamento della struttura in parola e quindi il suo poter continuare ad essere erogatore di servizi per conto dell’Amministrazione regionale", mettendo così in discussione l’accreditamento ad operare quale soggetto affidatario di servizio pubblico. La stessa Regione ha peraltro chiarito che dal punto di vista sanitario alcun addebito è imputabile alla S. s.p.a., che potrà continuare a svolgere l’attività sanitaria in forma privata. Ha infine fatto riserva di rivedere la decisione di sospendere l’accreditamento all’esito del’appello.

Dunque la decisione di sospendere l’accreditamento si fonda sulla sentenza di primo grado del giudice erariale che, con riferimento alla S., ha affermato che "si tratta di una struttura sanitaria che gestisce più case di cura che, nell’amministrare fondi pubblici, ha perseguito fini egoistici e deplorevoli, a danno degli interessi dell’intera collettività".

Privo di pregio è il primo motivo, con il quale la ricorrente afferma che illegittimamente la Regione Lazio non ha fatto precedere il provvedimento impugnato da un’autonoma valutazione dei fatti in relazione ai quali la struttura privata era stata condannata, in primo grado, dalla Corte dei conti, essendosi limitata a recepire acriticamente le conclusioni alle quali il giudice erariale era pervenuto.

Rileva infatti il Collegio che la vicenda fattuale non è mai stata contestata nei suoi accadimenti né è stato messo in dubbio il ruolo da protagonista che ha avuto l’Amministratore unico della società ricorrete.

Stando così le cose, non si vede quale istruttoria avrebbe dovuto effettuare la Regione Lazio e dunque quale omissione le possa essere imputata. I fatti in sé sono sufficienti a supportare la decisione di adottare – in via cautelativa – una sospensione dell’accreditamento, in attesa della definizione giudiziale della controversia.

Ritiene anzi il Collegio che la Regione ha dato prova di aver ben valutato le conseguenze che la revoca dell’accreditamento avrebbe avuto sulla Casa di Cura F.M. (e sul suo numeroso personale) ed ha cautelativamente deciso di adottare un provvedimento di carattere temporaneo, auspicando in un esito favorevole dell’appello, che restituisse fiducia e credibilità alla società.

Non è poi assecondabile la tesi di parte attorea secondo cui anche dalla sentenza della Corte dei conti non si evincerebbe un comportamento della società tale da minare il suo affidamento. Tale conclusione è infatti vera solo per quanto attiene all’aspetto prettamente sanitario. Ma di ciò è ben consapevole la Regione, che non ha mosso alcun addebito in relazione all’efficienza prettamente sanitaria della Casa di cura, tanto è vero che l’autorizzazione ad operare non è stata sospesa. Oggetto del provvedimento cautelare è solo l’accreditamento, che condivisibilmente la Regione decide di accordare alle sole strutture che danno garanzia di correttezza e di capacità. Dalla ricostruzione che emerge dalla sentenza del giudice erariale risulta che la società ha dimostrato di non saper vigilare sull’operato del proprio Amministratore, che è riuscito ad organizzare una frode a danno del Servizio sanitario senza che gli organi di controllo della società se ne avvedessero.

Contrariamente a quanto afferma parte ricorrente nei propri scritti difensivi, depositati in vista dell’udienza di merito, non è in grado di scalfire la legittimità del provvedimento impugnato la sentenza della Corte dei conti, sezione centrale di appello di Roma n. 539 del 22 settembre 2010 intervenuta nel corso di questo giudizio. Tale sentenza – modificando in parte qua la decisione di primo grado – ha addebitato alla società un comportamento inficiato da colpa grave e non più da dolo. In particolare, l’imputazione è di culpa in vigilando. "Certamente è mancato, in capo ai proprietari della società – agli azionisti riuniti in assemblea e anche uti singuli – il doveroso svolgimento di attività di controllo dell’operato dell’amministratore unico, proprio al fine, nel’interesse della stessa società, che essa non venisse impiegata e piegata al raggiungimento di fini personali, come è avvenuto".

L’inconferenza di detta decisione, ai fini del decidere, emerge sotto due distinti profili.

In primo luogo perché è successiva al provvedimento impugnato ed è noto che la legittimità di un atto va accertata con riferimento all’epoca in cui lo stesso è stato adottato. Si tratta, come si è detto, di un provvedimento cautelare disposto all’indomani della sentenza di condanna della Corte dei conti e che si fonda sul dovere, che fa capo a chi eroga denaro pubblico, di affidare quest’ultimo a soggetti che diano dimostrazione di comprovata affidabilità. La società ricorrente non si è avveduta che il proprio Amministratore unico, approfittando del posto ricoperto, aveva frodato il Servizio sanitario nazionale emettendo una fattura relativa ad un credito inesistente.

In secondo luogo, e soprattutto, perché la sentenza della Corte dei conti di appello non ha mandato assolto la ricorrente dagli addebiti ma ha solo derubricato l’elemento soggettivo del capo di imputazione, da comportamento doloso a colposo, sub specie di culpa grave in vigilando, il che, con riferimento ad una struttura alla quale, in virtù di un rapporto fiduciario, è assegnato denaro pubblico, è un’accusa tutt’altro che trascurabile.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto che illegittimamente L., con le impugnate note nn. 9021 e 9023 del 1 luglio 2010, ha fatto decorrere la sospensione cautelare dell’accreditamento dal 24 giugno 2010 e, dunque, da epoca anteriore alla ricezione della delibera di GR n. 304 del 23 giugno 2010 che l’ha disposta, comunicata solo il 1° luglio 2010 e ricevuta il successivo 2 luglio.

Il motivo è fondato, non potendo la sospensione dell’accreditamento decorrere retroattivamente ad un momento anteriore alla sua conoscenza, da parte della ricorrente. Quest’ultima, infatti, nell’arco temporale intercorrente tra la data di efficacia della sanzione (24 giugno 2010, secondo le note di L. nn. 9021 e 9023 dell’1 luglio 2010) e quella della sua ricezione, avvenuta il 2 luglio 2010, potrebbe aver accettato ricoveri in regime di accreditamento senza sapere di non avere più la copertura regionale.

4. Passando all’esame del ricorso n. 9199/10, è inammissibile il primo motivo, con il quale la soc. S. si riporta ai vizi già dedotti nel ricorso n. 6055/10 senza riassumerli. Ed è noto che è inammissibile il motivo di ricorso che si limita ad un generico richiamo ai vizi già denunciati con precedente ricorso del quale non si propone né un riassunto né una spiegazione, sicché non è possibile ricostruirne il contenuto ai fini dell’intellegibilità della censura.

Né tale profilo di inammissibilità può ritenersi sanato per effetto della riunione dei due ricorsi disposta dal Collegio, atteso che detta riunione, effettuata per ragioni di economia processuale, non incide sull’autonomia, a fini decisori, dei due ricorsi.

5. E’ invece infondato il secondo motivo, atteso che le impugnate delibere del Commissario ad acta della Regione Lazio nn. 56 del 12 luglio 2010 e 59 del 13 luglio 2010 assumono come presupposto la sospensione dell’accreditamento disposta con delibera di Giunta regionale n. 304 del 23 giugno 2010, sospensione che ha resistito ai dedotti profili di illegittimità, salvo sotto il profilo della decorrenza, profilo che non rileva agli effetti della perdita dei posti letto di ostetricia e di patologia neonatale.

6. Giova peraltro precisare che l’impugnato provvedimento regionale ha carattere solo temporaneo, nel senso che i suoi effetti di sospensione dell’accreditamento sono stati dichiaratamente limitati all’arco temporale precedente la sentenza del giudice di appello, dopo la quale la Regione si è riservata di adottare una deliberazione definitiva, che allo stato non risulta ancora intervenuta.

7. Le spese di entrambi i giudizi, considerata la questione oggetto della controversia, possono essere integralmente compensate fra le parti costituite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sui ricorsi nn. 6055/10 e 9199/10, come in epigrafe proposti: a) li riunisce; b) accoglie il ricorso n. 6055/10 nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla le note di L. nn. 9021 e 9023 del 1 luglio 2010 nella parte in cui individuano al 24 giugno 2010 la decorrenza della delibera di DGR n. 304 del 23 giugno 2010; c) respinge il ricorso n. 9199/10.

Compensa integralmente tra le parti in causa le spese e gli onorari di entrambi i giudizi.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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