Cass. civ. Sez. II, Sent., 26-07-2011, n. 16311 confini

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Svolgimento del processo

Con atto notificato il 30.9.97 la società Erg Petroli s.p.a., proprietaria in (OMISSIS) di un terreno destinato a impianto (F. 6, mapp. 152), che assumeva delimitato dalla linea di mezzeria di un fossato, chiese regolarsi in tal senso il confine con i vicini fondi, appartenenti ad D.A. e P.P. (mapp. 169 sub 1 e 2), T.M. e P.L. (mapp. 170 sub 1 e 2), C.B. e P.A. (mapp. 171), con i quali erano insorte controversie, citandoli al giudizio del Pretore di Chieri, subordinatamente proponendo domanda di usucapione.

Costituitisi i convenuti, chiesero il rigetto della domanda, richiamando le risultanze, contrarie alla tesi dell’attrice, di un giudizio possessorio precedentemente svoltosi con la medesima.

All’esito dell’istruttoria orale e documentale e della disposta consulenza tecnica, il Tribunale di Torino, sez. dist. di Moncalieri, cui la controversia era transitata, con sentenza del 10.1.03 regolava il confine secondo l’elaborato peritale e rigettava la domanda di usucapione.

Tale decisione veniva confermata,rigettandosi l’appello della soccombente, con il carico delle spese, con sentenza 10.11.04-21.9.05 della Corte di Torino, che ribadiva la maggiore attendibilità, rispetto alla diversa ipotesi prospettata nel supplemento di indagine, dell’originaria individuazione del confine, peraltro conforme a quella acquisita in sede possessoria, nonchè l’insufficienza delle risultanze testimoniali (riferenti della pulizia della metà del fossato da parte dell’appellante attrice, pur essendo risultato provato che per tale manutenzione era stato costituito tra tutti i proprietari un consorzio) a comprovare un protratto possesso esclusivo sulla striscia di terreno in contestazione.

Contro la suddetta sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi,cui hanno resistito gli intimati con controricorso, costituendosi, in luogo del deceduto D. A., gli eredi D. e Da.De.).

Sono state infine depositate memorie illustrative da ambo le parti.
Motivi della decisione

Con il primo motivo si lamenta che la Corte d’Appello, in violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c., e con motivazione erronea,insufficiente e contraddittoria, non avrebbe compiuto un esame completo di tutte le deduzioni dell’appellante, segnatamente di quelle con le quali si era evidenziato la non rispondenza dell’originario parere del c.t.u. poi recepito dal giudice, alle risultanze dei titoli e catastali, con particolare riguardo all’individuazione dei punti fissi di riferimento, che sarebbe stata frutto di personali congetture, non verificate in contraddittorio, mentre una serie di altri obiettivi elementi, anche testimoniali e presuntivi, connessi alla situazione dei luoghi, pur nell’incertezza delle diverse conclusioni fornite dal c.t.u. all’esito del supplemento di indagini, avrebbero dovuto indurre a ritenere che il confine fosse segnato dalla mezzeria del fossato.

Con il secondo motivo, deducente, violazione e falsa applicazione dell’art. 950 c.c. e art. 116 c.p.c., e motivazione erronea ed insufficiente, vengono esposte censure del tutto analoghe, se non ripetitive, rispetto a quelle contenute nel precedente, denunciandosi malgoverno dell’art. 950 c.c., per non essersi i giudici di merito attenuti alla regola secondo cui, in difetto di precise risultanze dei titoli e nell’incertezza, risultata dalle "perizie integrative", derivante dall’"assenza materiale di punti di individuazione", il confine avrebbe dovuto essere ricostruito in base a tutti gli altri obiettivi elementi emersi dall’indagine ed evidenziati dall’appellante, che sarebbero stati convergenti nell’individuare nella mezzeria del fossato il "fondamentale punto di riferimento".

I due motivi, per la rilevata sostanziale identità delle censure esposte, vanno esaminati congiuntamente e respinti, risolvendosi in una serie di doglianze di merito, non evidenzianti alcuna violazione delle norme processuali e sostanziali citate, nè omissioni o illogicità della motivazione, che viene attaccata soltanto perchè i giudici di merito non hanno aderito alla tesi dell’appellante, che peraltro neppure all’esito della relazione suppletiva depositata dal c.t.u., aveva trovato riscontro.

La corte di merito ha adeguatamente motivato il proprio giudizio, confermativo di quello del primo giudice, che, superati i dubbi che avevano determinato l’espletamento del supplemento di indagini, aveva recepito le originarie conclusioni dell’ausiliare, a loro volta confermative di quelle di una precedente consulenza espletata in sede possessoria.

Le ragioni del convincimento dei giudici di appello risultano chiare e conformi al dettato dell’art. 950 c.c., che autorizza, in mancanza di precise indicazioni desumibili dai titoli, il ricorso ad "ogni mezzo di prova" e, solo quale extrema ratio, alle risultanze delle "mappe catastali" (tra le altre, v. Cass. nn. 27251/09, 8814/03).

A tali canoni direttivi si sono nella specie attenuti i giudici di merito, spiegando chiaramente le ragioni di ordine tecnico – topografico, riconducibili al novero di quelle per le quali il secondo comma del sopra citato articolo conferisce ampio potere valutativo, per le quali hanno ritenuto più attendibile, per l’obiettività dei punti di riferimento assunti, la soluzione adottata negli originari elaborati, conseguenti ad indagini in loco sulla cui regolarità procedurale non risultano essere stati formulati tempestivi rilievi, rispetto a quella, sostanzialmente equitativa, ma sfornita di obiettivi riscontri tecnici, suggerita all’esito del supplemento di indagini.

L’adottato modulo argomentativo, oltre che rispettoso dei canoni normativi citati,in un contesto nel quale anche le risultanze catastali erano incerte e quelle della prova orale controverse, risulta del tutto esente da vizi logici testualmente rilevabili, e non può essere censurato per violazione degli artt. 112 e 116 c.p.c..

Al riguardo è sufficiente richiamare e ribadire il principio più volte enunciato da questa Corte, secondo cui il giudice, nel motivare la propria decisione, è tenuto soltanto ad esprimere in termini concisi, purchè comprensibili e giuridicamente corretti, gli elementi di fatto e di diritto posti a base della stessa e dunque anche le ragioni del "prudente apprezzamento" del materiale probatorio acquisito,senza essere anche tenuto ad esaminare espressamente tutte le argomentazioni difensive esposte dalle parti,che risultino,anche per implicito, incompatibili – e tanto deve ritenersi nel caso di specie, con riferimento a quelle esposte – con le ragioni della decisione adottata (v., tra le altre, Cass. nn. 24542/09, 22801/09, 10569/01).

La reiezione dei due motivi, in definitiva, discende dalla considerazione che con gli stessi, enza evidenziare violazioni di legge, insufficienze o illogicità di sorta, si tenta di accreditare una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, proponendo un raffronto con quella adottata dai giudizi, operazione non consentita nella presente sede di legittimità, nella quale il compito di questa Corte è limitato al controllo della tenuta logico-giuridica della soluzione adottata dal giudice di merito in sè considerata, a prescindere dalla plausibilità o meno di quelle alternative sostenute dalle parti.

Il terzo motivo, deducente violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e difetto di motivazione, perchè non sarebbe stata acquisita "la prova della proprietà della odierna resistente, nella consistenza affermata dalla Corte di Appello", è manifestamente infondato.

Va premesso che nel giudizio di cui all’art. 950 c.c., presupponente il ed "conflitto di fondi", per l’obiettiva incertezza del confine, e non "di titoli" (la cui sussistenza,rilevante sui piano della legittimazione,nel caso di specie non è stata mai, dall’una o dall’altra parte, contestata nei gradi di meritoria prova della effettiva consistenza spaziale della proprietà di una parte in relazione a quella dell’altra, non rappresenta un punto di partenza dell’azione, bensì proprio il risultato cui la stessa tende;

consegue da quanto precede che, soltanto dopo l’espletamento dell’indagine di merito, condotta secondo i dettami normativi in precedenza menzionati e nella specie osservati, tale specifica prova può ritenersi acquisibile.

Con il quarto motivo vengono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 1158, 1144 c.c., e motivazione erronea, insufficiente e contraddittoria, censurandosi la conferma del mancato accoglimento della subordinata domanda di usucapione, per omessa indicazione delle ragioni fondanti tale decisione, per malgoverno delle risultanze di prova e mancato esame delle specifiche doglianze esposte nell’atto di appello, segnatamente per avere ascritto a tolleranza, e non ad esercizio di possesso esclusivo, il compimento di attività di tipo dominicale esercitate dalla odierna ricorrente, in particolare la pulitura del fossato, che, essendo posto oltre il muro di recinzione, ove non anche appartenente alla medesima, non avrebbe trovato alcuna plausibile spiegazione.

Anche tale mezzo d’impugnazione è privo di fondamento, risolvendosi nella deduzione di censure di mero fatto, non evidenzianti violazione delle citate norme civilistiche, nè carenze o illogicità della motivazione, fondata su ricostruzione dei fatti adeguatamente argomentata.

Richiamato il principio in precedenza ribadito, circa la non necessità da parte del giudice di merito di rispondere a tutte le argomentazioni esposte dalle parti a sostegno delle proprie domande o eccezion, deve rilevarsi che nel caso di specie i giudici di appello hanno compiutamente esaminato nel loro complesso, motivatamente disattendendole, le ragioni dedotte a sostegno del secondo motivo di appello, relativo alla reiezione di tale subordinata domanda.

E’ stato, in particolare, evidenziato come la dedotta circostanza, che la società Erg di fatto si prendesse cura di provvedere alla pulitura della riva di fossato antistante la sua proprietà, non fosse significativa di esercizio di un possesso esclusivo, risultando questo incompatibile con la costituzione di un consorzio, i cui regolari interventi manutentivi finalizzati ad assicurare il regolare deflusso delle acque e, tra l’altro, consistiti anche nel piantamento di alberi di alto fusto segnatamente sulla parte in questione, non avrebbero potuto che interessare l’intero alveo ed entrambe le sponde. Tale ragionamento risulta del tutto convincente e logico, prospettando una ricostruzione dei fatti, nell’ambito della quale le attività di pulizia, compiute anche dalla società odierna ricorrente, sulla sponda posta nelle immediate vicinanze del muro recingente la sua proprietà, avrebbero potuto al più essere significative del perseguimento di esigenze di più accurata igiene e assidua manutenzione dei luoghi, in ragione di interessi di fatto derivanti dalla prossimità alla suddetta proprietà, come tali tollerate, e non anche denotanti l’animus rem sibi habendi, compatibile con il contemporaneo esercizio dei più radicali interventi manutentivi compiuti dal consorzio per conto della collettività dei proprietari frontisti.

Il motivo va pertanto respinto.

Non miglior sorte, infine, merita il sesto ed ultimo mezzo d’impugnazione, con il quale si lamenta violazione dell’art. 91 c.p.c., quale conseguenza dell’asseritamente ingiusto rigetto dell’appello, avendo i giudici di appello correttamente applicato al riguardo il principio della soccombenza (nella specie totale per l’appellante attrice).

Il ricorso va conclusivamente respinto, con conseguente condanna della soccombente alle spese anche del presente giudizio.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrente società al rimborso, in favore dei resistenti, della spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-09-2011, n. 18385

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ersona del Dott. PIERFELICE PRATIS.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- La PREFETTURA UTG LIVORNO ha proposto ricorso per cassazione – affidato a un solo motivo – contro il provvedimento depositato in data 26.3.2009 con il quale il Giudice di pace di Livorno ha accolto l’opposizione proposta da K.Y. nei confronti del decreto di espulsione emesso nei suoi confronti.

L’intimata non ha svolto difese.

1.1.- La presente sentenza è redatta con motivazione semplificata così come deliberato dal Collegio in esito alla Camera di consiglio.

2.- Con l’unico motivo di ricorso la Prefettura ricorrene denuncia violazione di legge deducendo che la straniera era stata espulsa perchè, entrata nel 2004 con visto di ingresso per otto giorni, aveva omesso di chiedere il permesso di soggiorno nel termine di legge. Erroneamente il Giudice di pace avrebbe accolto l’opposizione affermando, nel provvedimento impugnato, che "l’unica contestazione corretta sarebbe stata quella di essere stata in possesso della dichiarazione di presenza ma di essersi poi trattenuta sul territorio nazionale oltre i 90 gg. o il minor termine previsto dal visto di ingresso, senza giustificato motivo".

Parte ricorrente deduce che il Giudice di pace ha applicato una norma (la L. n. 68 del 2007, art. 1) che non era entrata in vigore quando la straniera è entrata nel territorio nazionale, ossia nel 2004, anche se il decreto di espulsione è stato emesso l’8.3.2008. 3.- Osserva la Corte che l’unico motivo di ricorso è fondato perchè la L. 28 Maggio 2007, n. 68 (pubblicata sulla Gazzetta. Ufficiale del 1 giugno 2007, n. 126, recante "Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio"), in forza dell’art. 2 dello stesso provvedimento legislativo, non ha effetto retroattivo. Si che correttamente l’Amministrazione ha fatto riferimento, nel provvedimento di espulsione, alla normativa vigente al momento dell’ingresso della straniera in Italia.

Il provvedimento impugnato, dunque, deve essere cassato, con rinvio per nuovo esame e per le spese, al Giudice di pace di Livorno in persona di diverso magistrato.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e rinvia per nuovo esame e per le spese al Giudice di pace di Livorno in persona di diverso magistrato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Campania Napoli Sez. II, Sent., 26-05-2011, n. 2862 Concessione per nuove costruzioni

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

In data 10 giugno 2009 la signora S.C. presentava al Comune di Palma Campania istanza per il rilascio di un permesso di costruire relativamente ad un fabbricato rurale da destinarsi ad uso agricolo su un fondo di sua proprietà sito alla via San Nicola e ricadente in Zona E – agricola.

Con nota n. 20682 del 10 novembre 2009 l’Amministrazione comunale inoltrava preavviso di rigetto ai sensi dell’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, evidenziando come la domanda non potesse trovare accoglimento per due ragioni: innanzitutto, si osservava che "le superfici adibite a porticatoessiccatoio a piano terra e primo piano, sono maggiori di quelle massime assentibili (20% del volume complessivo, art. 3, lettera e.6 d.p.r. 380/01); pertanto, vengono contemplate tra le superfici che concorrono a determinare superficie lorda d’uso, e quindi in contrasto con la normativa urbanistica vigente (art.37, punto 6 del REC)". Altro motivo ostativo era che "non è sufficientemente dimostrato che i manufatti edilizi siano necessari, congruenti e proporzionati alle necessità dell’azienda in relazione alla produttività della stessa, al tipo di coltura o allevamenti, alla fattibilità dei programmi di sviluppo, specificandone la quantificazione in mq e mc utili e la destinazione d’uso".

In data 23 novembre 2009, la signora S. presentava osservazioni, corredate da elaborati tecnici, onde modificare l’orientamento dell’Amministrazione, la quale, tuttavia, non ritenendole meritevoli di accoglimento, concludeva il procedimento con provvedimento definitivo di diniego n. 777 del 14 gennaio 2010.

Avverso tale provvedimento, nonché contro il preavviso di rigetto, ha proposto ricorso a questo Tribunale Amministrativo Regionale la signora S.C. chiedendone l’annullamento, previa concessione di idonee misure cautelari.

Ha dedotto in primo luogo la ricorrente che l’Amministrazione aveva erroneamente considerato come superficie lorda da calcolarsi ai fini dell’osservanza degli indici di fabbricabilità di zona anche i porticati, a torto considerati come delle pertinenze, eccedenti il 20% del volume dell’edificio principale ai sensi dell’art. 3, lettera e.6 del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380); si tratta, in realtà, di opere prive di autonomia ed individualità rispetto al fabbricato principale e costituenti opere accessorie complementari allo stesso, tali da non essere computabili ai fini della superficie lorda secondo le prescrizioni del vigente regolamento edilizio comunale.

Con la seconda censura è stato contestato che l’intervento non sarebbe proporzionato alle necessità dell’azienda, al riguardo richiamando parte ricorrente considerazioni espresse in un elaborato redatto da un consulente tecnico di fiducia; in detto contributo, è dato leggere che il fabbricato progettato ha una superficie di ingombro di mq. 114,20 ed una convenzionale di mq 517,74, di cui circa 52 mq destinati al residenziale e mq 465 all’attività agricola, aree in gran parte destinate all’essiccazione di prodotti, nonché a deposito.

Infine, si è stato dedotto un profilo di carenza di motivazione, ascrivibile al fatto che nella stessa zona l’Amministrazione aveva già rilasciato titoli edilizi analoghi a quello oggetto di diniego.

Si è costituito in giudizio il Comune di Palma Campania, concludendo per il rigetto del ricorso e della domanda cautelare. L’Amministrazione, dopo aver premesso che le prescrizioni del PRG per la zona E consentono per l’intervento considerato un volume di mc 527,30 ad uso agricolo e di mc158,19 per uso residenziale, nonché una superficie lorda di mq 114,24, ha evidenziato che non poteva non essere considerata in tale calcolo la presenza di quattro porticati di superficie complessiva di mq 71,51 e ciò ai sensi dell’art.3, lettera e.6 del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380; né poteva trovare applicazione la previsione dell’art. 37.6 del regolamento edilizio comunale nella parte in cui esclude i porticati dal calcolo della superficie lorda d’uso, rivelandosi tale disposizione in contrasto con il primo comma dell’art. 3 del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380. Il Comune di Palma Campania ha altresì osservato che l’opera in progetto non risultava dimostrato fosse congrua e proporzionata rispetto alle esigenze dell’azienda.

Alla camera di consiglio del 13 maggio 2010 la causa è stata cancellata dal ruolo delle cautelari e all’udienza di discussione del 5 maggio 2011, in vista della quale parte ricorrente ha depositato una memoria conclusionale, trattenuta per la decisione.

Il ricorso non può trovare accoglimento.

Preliminarmente, va respinto il terzo motivo di impugnazione, dal momento che il corredo motivazionale dell’impugnato diniego, comprensivo anche di quanto rappresentato nel preavviso di rigetto, si rivela sufficiente ad esplicitare le ragioni in fatto e in diritto che hanno indotto l’Amministrazione a non consentire la realizzazione dell’intervento richiesto; né la completezza della motivazione, in sé bastevole, avrebbe dovuto essere diversa a cagione di una disparità di trattamento, pertanto soltanto ventilata nell’esposizione della censura.

Con riferimento al primo motivo di diniego, ossia l’eccedenza di superficie assentibile rispetto a quella effettiva dell’edificio da realizzare, rileva il Collegio che risulta incontestato tra le parti che la superficie dei porticati, in numero di quattro tra piano terra e primo piano e per una estensione complessiva di 71,51 mq, non sia stata considerata in fase progettuale ai fini del calcolo della volumetria e superficie massima.

Ebbene, osserva il Collegio che correttamente in sede di adozione del diniego il Comune di Palma Campania ha compreso l’area e le dimensioni di tali porticati come parte dell’intervento da realizzare – da ritenersi di nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, lettera e) del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380 – di guisa che le dimensioni complessive dell’edificio superavano i limiti di volume e superficie per gli interventi ammessi nella Z.T.O. di riferimento.

Al riguardo, la Sezione condivide quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il porticato non costituisce pertinenza, ma un’opera che, in quanto destinata ad incrementare la superficie del manufatto cui inerisce, ne costituisce una sua parte, condividendone così la natura, nella fattispecie scrutinata di intervento di nuova costruzione (Consiglio di Stato IV Sezione 13 ottobre 2010 n. 7481); d’altronde, il porticato risulta privo di quel carattere funzionale di autonomia e indipendenza necessario per poterlo qualificare come pertinenza.

Né può essere accolta la tesi prospettata dalla ricorrente, circa la natura di opera accessoria dei predetti porticati e quindi la loro non computabilità ai fini del volume complessivo del fabbricato; al riguardo, secondo giurisprudenza anche di questa Sezione, per porticato deve intendersi una struttura edilizia costituita da un piano di copertura sostenuto da pilastri o altri sistemi di supporto, con apertura su almeno tre lati, che ha una funzione accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale e, quanto alla destinazione, assolve la funzione di protezione degli accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e stazionamento dei residenti (TAR Campania Sezione II, 8 maggio 2009 n. 2457).

Ebbene, con riferimento a tale impostazione i porticati de quibus, anche in base ai dati che emergono dal progetto, non assolvono affatto ad una funzione accessoria, essendo invece destinati ad essiccatoi e quindi proprio all’esercizio dell’attività agricola cui la realizzazione dell’intervento è preordinata; ne consegue che il loro volume deve conteggiarsi in quello complessivo del fabbricato (TAR Campania Napoli Sezione IV, n. 11048 del 2003 e n. 10593 del 2005).

Infine, nemmeno può essere invocata l’applicazione dell’art. 37, sesto comma lettera g) del regolamento edilizio comunale che esclude i porticati dal computo delle superfici lorde, trattandosi di una disposizione su cui è destinata a prevalere, ai sensi dell’art.3, secondo comma del d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380, la diversa definizione di porticato come evincibile dal primo comma del medesimo art. 3 secondo i richiamati arresti giurisprudenziali.

L’eccedenza di superficie, costituendo valida ed autonoma ragione per il diniego dell’istanza, rende inammissibile per carenza di interesse l’esame del il secondo motivo di censura.

Le spese seguono la soccombenza, con condanna della parte ricorrente in favore del Comune di Palma Campania al relativo pagamento nella misura complessiva di Euro1.500,00(Millecinquecento/00).
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del Comune di Palma Campania nella misura complessiva di Euro1.500,00(Millecinquecento/00)

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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Cons. Stato Sez. III, Sent., 13-06-2011, n. 3578 Stranieri

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

sussistono i presupposti per definire il giudizio nel merito ai sensi della citata disposizione della cui applicabilità è stato dato avviso alle parti presenti alla camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza incidentale di sospensione della sentenza appellata.

Con il ricorso di primo grado proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, gli odierni appellanti S. G. B. e S. B. hanno impugnato il provvedimento prot. N. 103090/sanatoria del 29/09/2010, notificato in data 29/09/2010, recante rigetto dell’istanza di emersione del lavoro irregolare presentata dal signor S. G. B. in favore del signor S. B.. Il provvedimento è motivato sul presupposto dell’esistenza a carico del ricorrente di pregiudizi penali ostativi, per il reato di violazione all’ordine di espulsione previsto dall’art. 14, comma 5ter, del D. Lgs. n. 286/1998.

Avverso la sentenza di reiezione pronunciata dal T.A.R. egli ha proposto appello lamentando, in particolare, la non riconducibilità del reato previsto dall’art. 14, comma 5ter, cit. ai reati previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p., in relazione ai quali l’art. 1ter della menzionata legge n. 102/2009 espressamente esclude la possibilità di regolarizzazione.

L’appello è fondato e dev’essere accolto, alla stregua dei seguenti, risolutivi, principii di diritto e precedenti giurisprudenziali conformi:

– la questione giuridica della riconducibilità o meno ai reati previsti dagli articoli 380 e 381 c.p.p. del delitto di violazione dell’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato, previsto dall’art. 14, comma 5ter, del D. Lgs. n. 286/1998, deve ormai ritenersi del tutto priva di rilevanza, dal momento che l’applicazione della norma da ultimo indicata è oggi preclusa dagli artt. 15 e 16 della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008 n. 2008/115/CE (le cui disposizioni risultano sufficientemente precise ed incondizionate e dunque come tali suscettibili di immediata applicazione negli Stati membri una volta che è decorso il termine del 24 dicembre 2010 fissato per il suo recepimento senza che il legislatore italiano abbia a ciò provveduto), che "deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro…. che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo" (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 28 aprile 2011 in causa C61/11 PPU);

– per effetto, dunque, dell’entrata in vigore della indicata Direttiva si è determinata l’abolizione del reato previsto dall’art. 14, comma 5ter, del d. lgs. n. 286 del 1998, che, a norma dell’art. 2, comma 2, c.p., ha effetto retroattivo, facendo cessare l’esecuzione della condanna ed i relativi effetti penali (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 7 e n. 8 del 10 maggio 2011);

– Il provvedimento amministrativo oggetto del presente giudizio, adottato sul presupposto di una condanna per un fatto che ormai non è più previsto come reato in quanto tuttora sub iudice, non può ritenersi insensibile al veduto mutamento della normativa di riferimento, sì che, non potendo più la condanna penale a suo tempo riportata dal lavoratore per il reato di cui all’art. 14, comma 5ter, cit. essere considerata ostativa all’accoglimento della sua istanza di emersione dal lavoro irregolare presentata dal suo datore di lavoro a suo favore, esso deve ritenersi illegittimo per insussistenza dei presupposti sui quali l’Amministrazione ha fondato il rigetto di detta istanza, che pertanto dev’essere dalla stessa nuovamente esaminata conformandosi alle statuizioni della presente decisione (Cons. St., III, n. 2845/2011).

In definitiva l’appello va accolto, con conseguente accoglimento, in riforma dell’impugnata sentenza, del ricorso di primo grado. La novità della questione consente di compensare integralmente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa..

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