Cass. pen., sez. I 26-01-2009 (14-01-2009), n. 3422 Benefici penitenziari – Detenzione domiciliare – Collaboratori di giustizia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma, in data 30.06.2008, rigettava la sua istanza volta all’ammissione alla misura della detenzione domiciliare, propone ricorso per cassazione D.L., collaboratore di giustizia, chiedendone l’annullamento perchè viziata, a suo avviso, da violazione di legge ed illogicità della motivazione.
Denuncia, in particolare, la difesa ricorrente la violazione della L. n. 89 del 1991, art. 16-nonies e della L. n. 45 del 2001, nonchè difetto di motivazione sul punto, sul rilievo che nel caso di specie ricorrerebbero tutti i requisiti previsti da tale norma per la concessione del beneficio penitenziario richiesto, ivi compreso il ravvedimento del detenuto il quale, dopo aver interrotto ogni legame con la sua esperienza criminale, tanto da subire per questo pesantissime conseguenze personali, familiari e detentive, ha dato prove importanti di collaborazione giudiziale, correttamente comportandosi in carcere, lavorando e seguendo ogni prescrizione dell’amministrazione.
Censura altresì il ricorrente il provvedimento impugnato in relazione alle patologie mediche denunciate e per le quali immotivatamente, a suo avviso, sarebbe stata riconosciuta la compatibilità con il regime carcerario.
Con requisitoria scritta il P.G. in sede concludeva per l’inammissibilità del provvedimento.
La doglianza è manifestamente infondata.
Ed invero appare utile rilevare che attraverso le misure alternative al carcere l’ordinamento ha inteso attuare una forma dell’esecuzione della pena esterna al carcere nei confronti di condannati per i quali, alla luce dell’osservazione della personalità e di altre acquisizioni ed elementi di conoscenza, sia possibile formulare una ragionevole prognosi di completo reinserimento sociale all’esito della misura alternativa. I criteri ed i mezzi di conoscenza utilizzabili da parte del Tribunale di Sorveglianza per pervenire a tale positiva previsione sono indicati dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel reato commesso, ineludibile punto di partenza, nei precedenti penali (Cass., Sez. 1^, 4.3.1999, Danieli, rv 213062) nelle pendenze processuali (Cass., Sez. 1^, cit.) nelle informazioni di P.S. (Cass., Sez. 1^, 11.3.1997, Capiti, rv. 207998) ma anche, ed in pari grado di rilievo prognostico, nella condotta carceraria e nei risultati dell’indagine socio-familiare operata dalle strutture carcerarie di osservazione (Cass., Sez. 1, 22.4.199.1, Calabrese, in Cass. pen., 1992, 1894) dappoichè in queste ultime risultanze istruttorie si compendia una delle fondamentali finalità della espiazione della sanzione penale, il cui rilievo costituzionale non può in questa sede rimanere nell’ombra.
Nel caso di specie poi la norma che si assume violata, e precisamente il D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 16-nonies, convertito in L. 15 marzo 1991, n. 82, contempla il provvedimento per cui è causa in costanza del ravvedimento del detenuto.
Al riguardo il giudizio, secondo insegnamento di questa Corte (Cass., Sez. 1^, 26/09/2007, n. 37330) deve essere espresso in termini di certezza e non di mera probabilità, ossia basato su una valutazione complessiva della personalità del condannato in relazione all’evolversi in senso positivo della stessa durante l’arco della detenzione (Cass., Sez. 1A, 3 aprile 1985, n. 956).
Pertanto, la concessione della detenzione domiciliare, anche nei confronti dei collaboratori di giustizia, non comporta nessun automatismo in presenza delle condizioni elencate dalla legge di riferimento, essendo in ogni caso sempre necessaria la valutazione, da parte del competente tribunale, della complessiva condotta serbata dal soggetto, al fine di verificare se l’azione rieducativa globalmente svolta abbia avuto come risultato il compiuto ravvedimento del condannato, all’esito di una revisione critica della propria vita anteatta (Cass., Sez. 1A, 16 gennaio 2007, n. 3675,rv.
235796: Cass., Sez. 1A; 1 febbraio 2007, n. 9887, rv. 236548).
Ciò posto il provvedimento impugnato appare motivato in senso conforme a tali principi, in quanto, con argomentare corretto e logico, in esso appaiono compiutamente illustrati gli specifici e concreti elementi (evoluzione personologica non positiva secondo osservazione penitenziaria espletata; dinamiche relazionali accreditanti un ruolo di dominanza e preminenza; modesta partecipazione alle attività trattamentali; emersione di atteggiamenti irriverenti ed aggressivi nel quadro di una personalità fragile ed istintiva; omogeneità in siffatte conclusioni delle relazioni degli istituti di pena ove in precedenza il ricorrente risulta essere stato detenuto) che inducono obiettivamente a ritenere non intervenuto il ravvedimento dei condannato rispetto ad una devianza contraddistinta dalla consumazione di delitti di particolare allarme sociale.
Del pari manifestamente non fondata si appalesa la censura relativa al rigetto della richiesta di detenzione domiciliare per motivi sanitari ex art. 47-ter comma 1 O.P., dappoichè motivato il giudizio del giudice territoriale con la valutazione di compatibilità della detenzione in carcere con lo stato di salute del detenuto e con la emendabilità sanitaria di tale stato. Al riguardo è appena il caso di osservare che oltre detta motivazione, del tutto corretta sul piano logico, v’è il giudizio di fatto inibito a questa Curia.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile ed alla declaratoria di inammissibilità consegue sia la condanna al pagamento delle spese del procedimento, sia quella al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, somma che si stima equo determinare in Euro 1000,00.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende. DISPONE trasmettersi a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione Penale, Sentenza n. 4512 del 2011 Rito abbreviato. possibile l’aggravamento della pena in appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e diritto

La Corte d’appello di Napoli confermava la condanna inflitta nelle forme del rito abbreviato a B.V., limitatamente ai delitti di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, e a V.R. , D.F.P. e C.G. limitatamente agli episodi di estorsione aggravata dal metodo mafioso, assolvendoli dai restanti reati loro contestati; accoglieva nei loro confronti il ricorso del P. M., convertito in appello, in relazione alla quantificazione della pena, che veniva quindi aumentata.

Osservava che la condanna di V , D. F. e C. doveva essere confermata per l’episodio estorsivo, in quanto D.F. aveva ammesso il fatto, limitandosi a giustificare la sua condotta per la presenza di problemi economici, mentre per gli altri, la tesi sostenuta di non sapere perché avevano condotto d’imperio l’imprenditorie dal D.F. era priva di pregio; infatti già la costrizione costituiva prova di consapevolezza, ma in più vi erano le dichiarazioni della persona offesa la quale aveva riferito che i due si erano presentati nel suo locale a nome dell’organizzazione criminale operante ad Acerra e in ben due occasioni gli avevano imposto di recarsi al cospetto del boss. Sussisteva quindi l’aggravante dell’uso del metodo mafioso per essersi avvalsi dell’intimidazione per ottener il loro scopo; non sussisteva alcuna minore partecipazione del C. che al pari di V. aveva accompagnato l’imprenditore dal boss.

Nei loro confronti doveva essere accolto il ricorso del P.G., in quanto il giudice di primo grado aveva concesso le attenuanti generi che per adeguare la pena alla gravità del fatto, ma tale giudizio appariva del tutto incongruo, rispetto alla gravità obiettiva dei fatti commessi e alla personalità degli imputati, gravati da rilevanti precedenti penali, trattandosi di soggetti già condannati per art. 416 bis c.p.; quindi in accoglimento del ricorso del P.G. escludeva le attenuanti generiche e rideterminava la pena. Sul punto osservava che l’impugnazione conservava validità anche se il P.G. di udienza aveva chiesto la conferma della decisione di primo grado, in quanto la rinuncia al motivo doveva avere carattere formale e non poteva essere dedotta dalla richiesta formulata in udienza. Osservava che anche la condanna per tentata estorsione posta a carico di B. doveva essere confermata in quanto gli elementi di prova erano costituiti dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia D.P. che aveva ricostruito gli scontri in atto ad Acerra per la monopolizzazione della produzione e distribuzione dei latticini, ai quali aveva partecipato l’imputato. Tali dichiarazioni avevano trovato conferma nei risultati di intercettazioni dalle quali emergeva che numerosi imprenditori erano stati costretti ad acquistare latticini da B. , il quale al telefono si lamentava dell’omesso acquisto di ulteriori prodotti, rappresentando il rischio di tale comportamento. Vi erano poi ulteriori intercettazioni dalle quale emerge la preparazione di atti intimidatori contro i commercianti riottosi, così come appariva provata la permanenza dell’associazione anche dopo l’uccisione del capo clan, M. , come documentato dai contrasti con D.F. Anche in tale caso sussisteva l’aggravante del metodo mafioso, viste le minacce e le intimidazioni che larvatamente trasparivano dalle comunicazioni intercettate.
Doveva parimenti essere accolto il ricorso del P.G. sulla concessione delle attenuanti generiche, tenuto conto della personalità dell’imputato e della gravità dei fatti. Avverso la sentenza proponevano ricorso tutti gli imputati e deducevano quanto a C. – inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta partecipazione ai delitti di estorsione, fondata solo sulle dichiarazioni della persona offesa; l’invito a presentarsi al cospetto del boss D.F. non aveva un significato minaccioso, ma era giustificato dal fatto che il boss in quel periodo si trovava agli arresti domiciliari e non poteva allontanarsi dal domicilio; non vi era prova che C. si fosse presentato a nome del boss, non sussisteva l’aggravante di cui all’art. 7 L. 203/91 in quanto non vi era prova di una attività di intimidazione;
– violazione degli artt. 589 e 597 c.p.p. in quanto il P.G. di udienza aveva chiesto la conferma della sentenza e quindi aveva implicitamente rinunciato al ricorso;
– manifesta illogicità della motivazione in relazione all’esclusione delle già concesse attenuanti generiche, in quanto la decisione del giudice di prime cure era logica e congrua, visto il carattere isolato dell’episodio in contestazione e rilevato che i precedenti dell’imputato erano da “ladro di polli”;
erronea applicazione della legge in relazione all’art. 114 c.p. in quanto la posizione dell’imputato era diversa da quella degli altri due, avendo egli svolto il ruolo di accompagnatore silenzioso, mentre la persona offesa non aveva mai dichiarato che l’imputato si fosse presentato a nome della cosca mafiosa; quanto a D.F. ;
– violazione degli artt. 568 e 443 c.p.p. in quanto il procedimento di primo grado era stato celebrato nelle forme del rito abbreviato e si era concluso con condanna, per cui il P.M. non poteva presentare appello; il P.G. aveva quindi presentato ricorso per cassazione, poi convertito in appello, ma la corte territoriale doveva prima compiere una valutazione di ammissibilità del ricorso e solo dopo riacquistava i suoi poteri di giudice di merito; invece nel caso di specie tale valutazione non era stata compiuta altrimenti il ricorso sarebbe stato dichiarato inammissibile stante il suo contenuto di solo merito; quanto a V. ;
– violazione degli artt. 132 e 133 c.p. in quanto l’imputato era stato assolto dal delitto associativo e condannato per estorsione aggravata da metodo mafioso con una evidente contraddizione e illogicità, inoltre il calcolo della pena era incongruo in quanto gli aumenti per la recidiva erano ingiustificati.
quanto a B. :
– violazione di legge, illogicità della motivazione e travisamento della prova in relazione alla condanna per plurime tentate estorsioni, in quanto il collaboratore D.P., l’unico che aveva parlato dell’imputato, aveva solo riferito di un rimprovero del boss contro B. che aveva osato invadere il suo territorio e vendervi i propri latticini; le telefonate intercettate non offrivano alcun sostegno alla tesi accusatoria in quanto travisate nel loro contenuto, visto che l’attività dell’imputato era nata due anni dopo la morte del boss di riferimento e che non potevano mettersi a suo carico eventuali comportamenti tenuti da altri familiari; non vi era correlazione tra l’accusa contenuta nel capo di imputazione e il contenuto delle telefonate intercettate, visto anche che dal delitto di incendio era stato assolto.

La Corte ritiene che tutti i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili. Il motivo relativo alla inammissibilità del ricorso del P. M., avanzato da D.F. ma estensibile a tutti, è manifestamente infondato, visto che correttamente la Corte territoriale ha rappresentato che il ricorso verteva sia sull’incongruità della motivazione nella parte in cui aveva concesso le attenuanti generiche, sia sulla applicazione di una pena illegale per il reato associativo, ne ha quindi valutato l’ammissibilità, effettuando il giudizio rescindente, e poi nel giudizio rescissorio, lo ha ritenuto fondato limitatamente alla concessione delle generiche, avendo assolto gli imputati per il reato associativo, e ha rideterminato la pena in aumento. La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che, qualora nel giudizio abbreviato sia intervenuta condanna, il ricorso del P.M. si converte in appello, se l’imputato aveva presentato appello, ma il giudice del gravame ha gli stessi poteri del giudice di legittimità e quindi deve prima valutarne l’ammissibilità e poi riacquista i suoi poteri, tra i quali vi è anche quello dell’aggravamento della pena (Sez. IV 11 luglio 2007 n. 39618, rv. 237986; Sez. IV 24 giugno 2008 n. 37074, rv. 241059; Sez. VI 23 ottobre 2008 n. 42694, rv. 241872;Sez. II 17 dicembre 2008 n. 4468, rv. 243277). Nel caso di specie il P.G. aveva rilevato l’assoluta contraddittorietà della motivazione nella parte in cui il giudice dopo aver ritenuto la gravità dei fatti, aveva concesso le attenuanti ai fini di adeguare la pena al caso concreto, senza considerare anche la personalità dei prevenuti gravati da precedenti per reati associativi.

Parimenti infondato è il motivo invocante la rinuncia al ricorso da parte del P.G. di udienza il quale aveva chiesto la conferma della condanna per gli imputati D.F. , V. e C., in quanto la giurisprudenza di legittimità, pronunciatasi più volte sulla medesima questione ha affermato che la rinuncia è un atto formale e non ammette come equipollente le conclusioni formulate dal P.M. in udienza, visto che il P.M, avendo concluso nel merito, aveva manifestato la chiara volontà di non rinunciare all’impugnazione (Sez. V 5 ottobre 2005 n. 43363, rv. 232454; Sez. III 29 ottobre 2009 n. 1591, rv. 245754).

Tutti gli altri motivi presentati dai quattro imputati sono manifestamente infondati in quanto prospettano in termini assolutamente generici questioni attinenti al merito e cioè alle valutazioni che dei fatti, delle dichiarazioni di persone offese e collaboratori, delle intercettazioni hanno dato i giudici di merito. Nessun travisamento del fatto viene in realtà denunciato ma solo una diversa interpretazione delle parole nei contesti nei quali esse sono state pronunciate e quindi si tratta di questioni di merito improponibili in sede di legittimità. La sentenza impugnata ha invece valutato in modo congruo gli atteggiamenti tenuti dagli imputati, il contesto di intimidazione nel quale venivano tenuti, ha dato congrua e puntuale risposta alle obiezioni della difesa.

Ha escluso che C. avesse tenuto un comportamento valutabile come minore partecipazione al fatto, tenuto conto che insieme a V. aveva costretto l’imprenditore a recarsi dal boss D.F. , a nulla rilevando che fosse rimasto in silenzio, essendo sufficiente l’atteggiamento intimidatorio assunto dai due.
I motivi di V. sono del tutto generici affermando in senso tautologico che chi viene assolto dalla partecipazione all’associazione a delinquere di stampo mafioso non può essere condannato per un reato aggravato dall’uso del metodo mafioso, nonché che la pena era stata determinata in modo incongruo.
Quanto ai motivi presentati da B. , il dedotto travisamento della prova sulle dichiarazioni di D.P., è insussistente in relazione ai fatti per i quali è intervenuta condanna, cioè alla tentata estorsione; in relazione a tale fatto le dichiarazioni di D.P. avevano dato conto del clima di intimidazione nel quale i commercianti di latticini del territorio erano costretti a vivere, essendo loro imposto di acquistare tale prodotto ora dal B. ora dal D.F. a seconda del prevalere nel territorio del potere dell’uno o dell’altro boss; per altro osserva la sentenza che se D.F. era giunto a minacciare l’imputato ciò significava che egli si era attivato per sottrargli i clienti. La sentenza aveva dato atto che il metodo intimidatorio dell’imputato era chiaramente provato dalle conversazioni telefoniche intercettate nelle quali era emerso che l’intimidazione era il mezzo per procacciare i clienti.

I ricorrenti debbono essere condannati ciascuno al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti, ciascuno, al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle Ammende.

Depositata in Cancelleria l’8 febbraio 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-02-2011, n. 3254 Orario di vendita e turni di apertura Ordinanza ingiunzione di pagamento: opposizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

E.P.G. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza del Giudice di pace di Afragola, depositata in data 10 novembre 2005, con la quale è stata rigettata la sua opposizione all’ordinanza-ingiunzione emessa dal Comune di Cardito per violazione del D.Lgs. n. 114 del 1998, art. 11, comma 4, per non avere osservato la giornata di chiusura domenicale.

L’intimato Comune non ha svolto attività difensiva Fissata la trattazione della causa in camera di consiglio, con ordinanza n. 7879 del 2010 la Corte ha disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio, che, pur essendone stata fatta richiesta dalla ricorrente, non era stato trasmesso dalla Cancelleria del Giudice di pace di Afragola.

Ricevuto il fascicolo d’ufficio è stata nuovamente fissata la discussione del ricorso in camera di consiglio.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 156 cod. proc. civ. e della L. n. 689 del 1981, artt. 18 e 23, denunciando la nullità della sentenza perchè il Giudice di pace non ha dato lettura in pubblica udienza del dispositivo della sentenza, così come prescritto dalla citata L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 7.

Il motivo è fondato.

Nel fascicolo d’ufficio non si rinviene alcuna attestazione dell’avvenuta lettura del dispositivo in pubblica udienza; nè una simile attestazione è contenuta nella sentenza impugnata. Nel verbale d’udienza, invero, si afferma che "il Giudice di pace decide come da dispositivo a parte", mentre nel modulo sul quale il medesimo giorno in cui il Giudice di pace ha dato atto che avrebbe deciso come da dispositivo a parte è stato compilato il dispositivo non vi è alcuna attestazione di lettura del dispositivo.

Ne consegue che, non potendosi ritenere che del dispositivo sia stata data lettura, trova applicazione il principio per cui "nel giudizio di opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione che irroga una sanzione amministrativa, l’omessa lettura del dispositivo in udienza, prevista dalla L. n. 689 del 1981, art. 23, determina la nullità della sentenza, nullità che sussiste anche nel giudizio svoltosi davanti al giudice di pace sebbene le norme sul procedimento davanti a tale giudice non prevedano la lettura del dispositivo in udienza" (Cass., n. 19920 del 2007; Cass., n. 4438 del 2007).

L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento degli altri.

La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio a diverso Giudice di pace di Afragola, il quale provvederà anche alla regolamentazione della spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri;

cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altro Giudice di pace di Afragola.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-12-2010) 04-02-2011, n. 4209 Revoca e sostituzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 06/09/2010, il Tribunale di Napoli rigettava l’appello proposto da V.A. avverso l’ordinanza pronunciata in data 28/05/2010 con la quale il g.i.p. del Tribunale della medesima città aveva respinto la richiesta di revoca o attenuazione della misura cautelare in carcere.

2. Avverso la suddetta ordinanza l’indagato, con due separati ricorsi proposti dai suoi difensori, ha presentato ricorso per Cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. Violazione dell’art. 649 c.p.p. per avere il Tribunale erroneamente ritenuto che sul punto, si era formato il c.d. giudicato cautelare contravvenendo alla giurisprudenza di legittimità;

2. violazione della L. n. 203 del 1991, art. 7 in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante senza alcuna motivazione;

3. Motivazione illogica in ordine alla ritenuta sussistenza della presunzione di pericolosità ed inadeguatezza della misura cautelare degli arresti domiciliari;

4. difetto di motivazione in ordine: a) alla inidoneità degli elementi successivi all’applicazione della custodia cautelare in carcere esistenti al fascicolo ed addotti dalla difesa a sostegno dell’istanza di revoca o sostituzione della misura; b) alla sussistenza della gravità indiziaria in relazione alla persona del ricorrente.
Motivi della decisione

3. Entrambi i ricorsi nei termini in cui sono state dedotte le censure, sono infondati per le ragioni di seguito indicate. Va premesso che, oggetto della procedimento in esame, è la revoca o l’attenuazione della misura cautelare in carcere, sicchè i consolidati principi di diritto (ex plurimis Cass. 4042/1999 Rv.

214578 – Cass. 14236/2008 Rv. 239661) ai quale attenersi sono i seguenti:

– lo strumento della revoca delle misure cautelari, in quanto diretto a consentire la valutazione della sussistenza ex ante e della persistenza ex post delle condizioni di applicabilità delle misure, non giustifica, in relazione alla sua funzione, alcun limite alla verifica dell’attualità delle stesse, anche con riferimento ai soli fatti preesistenti all’adozione della cautela, dei quali può essere effettuato nuovo e diverso apprezzamento. Ne deriva che, nel caso di istanza dell’interessato, è imposto al giudice il dovere di esaminare qualsiasi elemento e questione attinente alla legittimità del mantenimento della misura;

– al giudice è impedito di entrare nel merito dell’istanza di revoca quando il controllo delle condizioni di applicabilità: 1) sia stato già in concreto effettuato e sul punto si sia formato il ed giudicato cautelare (per tale dovendosi intendere il giudicato attinente alle singole questioni e non al procedimento previsto dall’art. 299 c.p.p., che può essere sempre attivato dall’interessato): in tal caso, infatti, si applica il principio di cui all’art. 649 c.p.p.; b) sia stato già in concreto effettuato anche se la precedente decisione sia priva dell’effetto del giudicato: infatti, anche in tal caso, la suddetta decisione produce, nei confronti delle parti interessate, un’efficacia analoga a quella prevista dall’art. 666 c.p.p., comma 2, (secondo cui è inammissibile la proposta di incidente di esecuzione consistente nella mera riproposizione di una richiesta già rigettata basata sui medesimi elementi) il cui principio è di generale applicabilità;

– la ratto delle suddette preclusioni, che cristallizzano l’esito dei pregressi accertamenti, è, infatti, quella di evitare che l’interessato possa rinnovare continuamente la presentazione di istanze di revoca o di modifica dei precedenti provvedimenti, con il concreto effetto di determinare il venir meno del valore delle pronunce già adottate.

In punto di fatto, va osservato che il Tribunale:

– ha preso in esame l’istanza di revoca;

– si è fatto carico del contenuto dell’istanza e, motivatamente, dopo avere esaminato, punto per punto, la censura, ha rigettato l’appello dimostrando che tutte le doglianze erano identiche a quelle già disattese dal tribunale in sede di riesame della custodia cautelare (la cui decisione era ancora sub indice essendo stata impugnata avanti questa Corte).

Pertanto, deve concludersi che:

– la pretesa violazione dell’art. 649 c.p.p. è insussistente perchè, in ogni caso, la preclusione deriva dall’art. 666 c.p.p.;

– la dedotta illogicità della motivazione in ordine alle ragioni che avevano indotto il Tribunale a ritenere l’insussistenza della novità o sopravvenienza di motivi nuovi, è fuorviante. Il Tribunale, nell’ordinanza impugnata, si è, infatti, correttamente limitato a rilevare che i motivi nuovi tali non erano perchè erano stati già trattati e respinti dal Tribunale del riesame limitandosi a ribadire la pregnanza degli elementi indiziali posti alla base dell’ordinanza di custodia cautelare. Il ricorrente, quindi, avrebbe dovuto dedurre che aveva addotto fatti nuovi o sopravvenuti (indicandoli espressamente) che giustificavano l’istanza di revoca e che il tribunale non aveva esaminato: il che non ha fatto;

– quanto alla presunzione di pericolosità ed inadeguatezza della misura cautelare degli arresti domiciliari, va osservato che la questione della configurabilità della L. n. 203 del 1991, art. 7, è, come ha rilevato il Tribunale, la medesima di quella già sollevata e respinta dal Tribunale del riesame. Tanto basta, pertanto, per ritenere l’inammissibilità della doglianza diretta ad ottenere un giudizio di merito sulla proporzionalità ed adeguatezza della misura cautelare (giudizio, peraltro, sul quale il Tribunale, sia pure ad abundantiam, si è espresso negativamente), essendo ostativa la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3. 4. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.