Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-06-2012, n. 9421 Procedimento civile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Caltanissetta, con la sentenza n. 644 del 6 novembre 2009, decidendo sull’impugnazione proposta dal Consorzio per l’area e lo sviluppo industriale di ENNA, nei confronti di B. F.G., in ordine alla sentenza n. 29 del 2007 del Tribunale di Nicosia, la dichiarava inammissibile, per omessa notifica dell’atto di appello, compensando le spese di giudizio.

2. Il suddetto Tribunale aveva dichiarato il diritto del B. ad una retribuzione corrispondente all’incarico dirigenziale a lui conferito secondo i criteri di cui alla L.R. Siciliana n. 10 del 2000, artt. 35 e 36, con compensazione delle spese di lite.

3. Affermava la Corte d’Appello che il ricorrente non aveva prodotto agli atti la relata di notifica del ricorso in appello, e nessun ulteriore chiarimento era stato proposto in sede di udienza di discussione, avendo sostanzialmente ammesso parte appellante all’udienza del 23 aprile 2008 l’omessa notifica dell’atto di appello, che risultava pienamente provata.

Il giudice di secondo grado, quindi richiamava a sostegno della ritenuta inammissibilità la sentenza di questa Corte, a Sezioni Unite, n. 20604 del 2008.

4. Per la cassazione della suddetta sentenza, resa in secondo grado, ricorre il Consorzio per l’area e lo sviluppo industriale di ENNA. 5. Resiste con controricorso B.G.F..

6. In prossimità dell’udienza veniva depositata istanza di rinvio per trattative.

7. All’udienza pubblica le parti non comparivano.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 136 c.p.c., e dell’art.45 disp. att. c.p.c..

Deduce il ricorrente che dopo il deposito del ricorso non gli veniva comunicata, da parte della cancelleria, la data di fissazione della prima udienza, mentre proprio da tale comunicazione doveva decorrere il termine per la notificazione dell’atto di appello, la cui mancanza gli si addebitava.

Censura, quindi, la statuizione della Corte d’Appello circa l’equivalenza dell’asserito avvenuto ritiro della copia del decreto di fissazione da parte del difensore, rispetto alla comunicazione di cancelleria, dal momento che mancava la certezza dell’avvenuta individuazione e consegna al difensore, considerato che non vi era la sottoscrizione per ricevuta.

1.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Nel rito del lavoro, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 15 del 1977, poichè, nel quadro della garanzia costituzionale della difesa, ove un termine sia prescritto per il compimento di tale attività, la cui omissione si risolva in pregiudizio della situazione tutelata, deve essere assicurata all’interessato la conoscibilità del momento di iniziale decorrenza del termine stesso, onde poter utilizzare, nella sua interezza, il tempo assegnatogli, all’appellante deve essere comunicato l’avviso di deposito del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di discussione.

La Corte d’Appello ha affermato, nel non accogliere le deduzioni formulate in merito dal ricorrente, che nell’annotazione apposta sul retro del citato decreto risulta che il difensore ha ritirato sia le copie del ricorso per la notifica sia il citato decreto e quindi tale ritiro deve ritenersi in tutto equipollente alla avvenuta comunicazione, producendo il medesimo effetto processuale della conoscenza della data di udienza fissata.

Come ricordato dal ricorrente, a sostegno delle proprie difese, questa Corte con la sentenza n. 11319 del 2004 ha affermato che, sebbene le comunicazioni di cancelleria debbano avvenire, di norma, con le forme previste dall’art. 136 c.p.c. e art. 45 disp. att. c.p.c. (consegna del biglietto effettuata dal cancelliere al destinatario ovvero notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario), esse possono essere validamente eseguite anche in forme equivalenti, purchè risulti la certezza dell’avvenuta consegna e della precisa individuazione del destinatario. Sicchè il rispetto di queste condizioni consente di ritenere sufficienti prassi come il "visto per presa visione" apposto dal procuratore sull’originale del biglietto di cancelleria predisposto per la comunicazione o sul provvedimento del giudice (Cass., n. 11319 del 2004).

Va, tuttavia, richiamato il più recente orientamento che di tale principio ha fatto applicazione con riguardo al rilascio di copia dell’atto che avrebbe dovuto essere comunicato.

Questa Corte ha avuto modo di affermare che con l’estrazione di copia (nella fattispecie copia ordinanza del giudice dell’esecuzione, rilasciata ad uso opposizione) la forma di conoscenza è acquisita in via formale e non di mero fatto, in quanto trova origine in due convergenti attività tipicizzate sul piano processuale, quali la richiesta di copia autentica del provvedimento "ad uso opposizione" ad iniziativa del difensore della parte interessata e la consegna allo stesso ad opera del cancelliere della copia in questione (art. 58 c.p.c.). Nella specie la conoscenza del provvedimento non è acquisita, come sostenuto dal ricorso in esame, in via di mero fatto, ma all’esito di un’attività istituzionale di cancelleria, concretizzatasi in una attività di ufficio regolata dalla legge (il rilascio della copia autentica) che impone l’individuazione del soggetto richiedente e di quello che ritira la copia, nonchè dell’annotazione della data di rilascio della copia. Tale attività, al pari di quanto previsto in caso di "presa visione" dell’ordinanza, costituisce quindi forma equipollente della comunicazione di cancelleria, caratterizzata dagli stessi requisiti di certezza di avvenuta consegna della copia e di individuazione del destinatario (Cass. 24418 del 2008).

A tale principio va data continuità con riguardo alla fattispecie in esame.

In applicazione dello stesso, la statuizione impugnata è corretta in ragione delle regole legali sul rilascio delle copie degli atti giudiziari, che fondano, peraltro, sul mandato e sul conseguente ius postulandi, nonchè sulle complessive attribuzioni processuali del cancelliere, ed è congruamente motivata in ragione del rilievo attribuito all’attestazione del cancelliere in ordine all’avvenuta richiesta e rilascio di copie con l’indicazione dell’avvocato al quale venivano consegnate, che consentiva al giudice di appello di ritenere intervenuta la conoscenza dell’atto.

2. Con il secondo motivo d’impugnazione è dedotta insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio. Il giudice di appello ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, richiamando la sentenza n. 20604 del 2008, ma senza analizzare le ricadute della stessa con riguardo alla fattispecie concreta. La sentenza citata pone in rilievo l’esigenza di un processo celere nel quale viene rispettato il diritto di difesa delle parti. Perciò, assume il ricorrente, quando la parte tenuta alla notifica non ha interessi dilatori il giudice di merito deve esercitare i poteri officiosi per la prosecuzione nel merito del giudizio.

Un intento dilatorio non era configurabile con riguardo ad esso ricorrente, che aveva depositato appello avverso due sentenze negative, in ordine alle quali controparte aveva già avviato azioni esecutive.

2.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato. Ed infatti, il principio di diritto enunciato da questa Corte, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 20604 del 2008, non è compatibile con il distinguo che intende introdurre il ricorrente. La sentenza afferma, tra l’altro, "l’orientamento che queste Sezioni Unite intendono seguire, oltre a trovare un ulteriore conforto in una scissione degli effetti tra fase di deposito dell’atto di impugnazione (o dell’opposizione al decreto ingiuntivo) e fase di notificazione del ricorso-decreto – che ricalca, in qualche misura e con le dovute differenze stante le fattispecie a confronto, la scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il suo destinatario, correlata dal giudice delle leggi al principio di ragionevolezza ed al rispetto dei rispettivi interessi (cfr. Corte Cost. 26 novembre 2002 n. 477) – risulta obbligato, è bene ribadirlo ancora una volta, in ragione di una doverosa interpretazione costituzionalmente orientata del dato normativo, in applicazione del dictum di queste stesse Sezioni Unite, secondo cui la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo impone all’interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo, deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico-concettuale ma anche, e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione di detto obiettivo costituzionale (cfr. sul punto in motivazione: Cass., Sez. Un., 28 febbraio 2007 n. 4636 cit.)", così palesando una affermazione di principio non mutevole per il ruolo assunto da ciascuna delle parti processuali, in ragione degli interessi di cui sono portatrici in considerazione delle fattispecie concrete, come invece assume il Consorzio.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 435 c.p.c.; omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Esso ricorrente, essendo la vicenda verificatasi nell’aprile 2008, aveva invocato il principio del legittimo affidamento sulla concessione del termine per il rinnovo della notifica, ma sul punto la Corte d’Appello non argomentava, incorrendo in vizio di motivazione. L’applicazione del nuovo orientamento giurisprudenziale, quindi, sarebbe in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., sotto il profilo del diritto di difesa e del giusto processo.

3.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato. Lo stesso investe il tema della overruling. Ritiene la Corte di condividere quanto statuito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 15144 del 2011, laddove ha affermato che qualora "la overruling correttiva interessi una norma processuale, è difficile sfuggire alla conseguenza che l’atto compiuto dalla parte, od il comportamento da esso tenuto, in conformità all’orientamento ovveruled, risulti – ora per allora – non rituale, "inidoneo per effetto appunto del mutamento di indirizzo giurisprudenziale" (così già Sez. 2^ 14627/2010 cit.).

Ad una diversa conclusione potrebbe invero giungersi solo ove si ritenga che la precedente interpretazione, ancorchè poi corretta, costituisca il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con essa (ut lex temporis acti).

Ma con ciò, all’evidenza, si trasformerebbe una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice: soluzione non certo coniugabile con il precetto costituzionale dell’art. 101 Cost.".

Nè nella specie, come si evince dalla stessa motivazione della sentenza n. 20604 del 2008, la statuizione del suddetto principio di diritto, di cui la Corte d’Appello ha fatto applicazione, era imprevedibile, in ragione dell’articolato dibattito dottrinale giurisprudenziale sul punto.

Correttamente, la Corte d’Appello ha applicato il principio di diritto in questione, dando atto con congrua motivazione della sussistenza di un precedente orientamento e delle ragioni, in un bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, per superarlo, che escludono la lesione delle disposizioni costituzionali invocate.

4. Il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 30,00 per esborsi, Euro duemila per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-01-2013) 08-02-2013, n. 6334

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del 29 agosto 2012, il Tribunale del riesame di Milano ha respinto, ex art. 310 cod. proc. pen., l’appello proposto da M.P. avverso il provvedimento del 21 luglio 2012, con il quale il Tribunale di Milano ha rigettato la sua istanza, intesa ad ottenere la revoca o la sostituzione con altra meno afflittiva della misura cautelare della custodia in carcere, applicatagli dal G.I.P. di Milano il 5 luglio 2010, siccome gravemente indiziato per tre reati, concernenti cessione, detenzione e porto di armi da sparo, di cui due aggravati L. n. 203 del 1991, ex art. 7 per aver commesso il fatto al fine di favorire il sodalizio mafioso noto come ndrangheta, nell’ambito del procedimento penale denominato "Infinito".

2. Il Tribunale ha dato atto che, con il proposto appello, il M. non aveva contestato la gravità del quadro indiziario emerso nei suoi confronti; ha rilevato che le intercettazioni disposte nei confronti dell’appellante avevano confermato la disponibilità da parte sua di due pistole, di cui una nuova offerta in vendita a C.D. per Euro 1.800,00; un’altra dal ricorrente prestata a tale S.G. ed al medesimo chiesta in restituzione; ed il S. aveva aderito alla richiesta di restituzione, ritenendo tuttavia di dover acquisire l’assenso di B.C., noto esponente mafioso e capo della locale di Milano, assenso poi intervenuto, con restituzione dell’arma all’appellante; e, con riferimento a detta arma, era evidente che sussisteva la finalità di agevolare l’associazione mafiosa nota come ndrangheta, atteso che l’arma era palesemente in dotazione di tale ultimo sodalizio, tanto che, per la sua restituzione, era stata richiesta l’autorizzazione del B., uno dei capi del sodalizio anzidetto. Trattavasi quindi di fatti molto gravi, che denotavano uno stabile inserimento del M., peraltro pregiudicato per reati contro il patrimonio, nonchè per reato connotato da violenza in danno della sua ex fidanzata, in ambienti dediti al commercio di armi e relativo munizionamento, tali da provate come egli avesse ben assimilato le dinamiche relazionali proprie della sottocultura ndranghetista, con la quale viveva a stretto contatto, si che, nonostante la risalenza nel tempo dei fatti (2008) ed il periodo di detenzione sofferto, era da ritenere sussistente il concreto pericolo di reiterazione di gravi reati della stessa specie. Ha poi ritenuto l’irrilevanza, con riferimento al caso in esame, della recente ordinanza con la quale le SS.UU. della Corte di Cassazione avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 cod. proc. pen., comma 3, in relazione ai reati aggravati L. n. 203 del 1991, ex art. 7, in quanto, anche a prescindere dalla presunzione di legge contenuta nel citato art. 275 cod. proc. pen., comma 3, la misura cautelare inframuraria doveva essere mantenuta in considerazione dell’assoluta gravità dei fatti, dei tratti allarmanti della personalità dell’appellante, nonchè dei legami tuttora stabili e consolidati da lui tenuti con gravissimi contesti criminali.

3. Avverso detto provvedimento del Tribunale del riesame di Milano propone ricorso per cassazione M.P. per il tramite del suo difensore, che ha dedotto motivazione carente ed illogica, stante l’assoluta infondatezza delle affermazioni, secondo cui esso ricorrente sarebbe stato soggetto abituato a maneggiare armi e munizioni, in quanto mai egli aveva avuto a che fare con le armi, essendo stato egli in una sola occasione rimasto vittima di accoltellamento; il provvedimento impugnato non aveva poi tenuto conto di quanto disposto dalle SS.UU. della Corte di Cassazione con ordinanza del 19 luglio 2012, di rimettere alla Corte Costituzionale la questione della legittimità costituzionale dell’art. 275 cod. proc. pen., comma 3, nella parte in cui aveva previsto la presunzione assoluta di esigenze cautelari tali da esigere la custodia in carcere, in relazione ai reati aggravati ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7.

Non era poi adeguata la motivazione addotta dal provvedimento impugnato per ritenere, a prescindere dalla presunzione di cui all’art. 275 cod. proc. pen., comma 3, la sussistenza di gravi elementi tali da giustificare il mantenimento della sua custodia cautelare in carcere, non essendo sufficiente avere fatto riferimento solo all’estrema gravità dei fatti ed alla sua personalità, trattandosi di fatti risalenti nel tempo e tenuto conto della carcerazione preventiva già sofferta.

1. Il ricorso proposto da M.P. è infondato.

2. Esso è stato proposto dal ricorrente, ai sensi degli artt. 310 e 311 cod. proc. pen., avverso il provvedimento con il quale il Tribunale del riesame di Milano ha respinto l’appello da lui proposto avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano del 21 luglio 2012, di rigetto della sua richiesta di revoca o sostituzione della custodia cautelare in carcere, disposta nei suoi confronti dal G.I.P. di Milano con ordinanza del 5 luglio 2010, siccome gravemente indiziato per tre reati, concernenti cessione, detenzione e porto di armi da sparo, di cui due aggravati L. n. 203 del 1991, ex art. 7, per aver commesso il fatto al fine di favorire il sodalizio mafioso noto come ndrangheta, operante nell’ambito della città di Milano.

3. Il provvedimento impugnato ha invero adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza del concreto pericolo di reiterazione dei reati ascrittigli. E’ noto che, sul punto, la giurisprudenza di legittimità esige che la sussistenza di detto pericolo sia fondata non su elementi meramente congetturali ed astratti, ma su dati di fatto oggettivi ed indicativi delle inclinazioni comportamentali e della personalità del ricorrente, tali da consentire di affermare che il medesimo possa facilmente, verificandosene l’occasione, commettere reati similari (cfr. Cass. Sez. 6 n. 38763 dell’8/3/2012, Miccoli, Rv. 253372). Al riguardo il Tribunale ha rilevato come fosse ben sussistente nella specie il pericolo di reiterazione dei reati commessi, avendo rilevato che si trattava di fatti molto gravi, che denotavano uno stabile inserimento del M., peraltro pregiudicato per reati contro il patrimonio, nonchè per reato connotato da violenza in danno della sua ex fidanzata, in ambienti dediti alla fornitura di armi e relativo munizionamento, tali da provare che egli avesse ben assimilato le dinamiche relazionali proprie della sottocultura ndranghetistica, con la quale viveva a stretto contatto, si che, nonostante la risalenza nel tempo dei fatti (2008) ed il periodo di detenzione sofferto, era da ritenere sussistente il concreto pericolo di reiterazione di gravi reati della stessa specie.

4. Il provvedimento impugnato ha poi dimostrato di essere ben consapevole che, con riferimento ai reati, aggravati, come nella specie in esame, ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7 questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. ordinanza n. 34473 del 19 luglio 2012, Rv.

253186) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 cod. proc. pen., comma 3, nella parte in cui la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere viene prevista anche con riferimento ai delitti aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7.

Non si ritiene invero che il presente ricorso potrà in qualche modo essere influenzato da quanto andrà a decidere sul punto la Corte Costituzionale, avendo l’ordinanza impugnata motivato in modo esaustivo se pur sintetico in ordine alla sussistenza di concrete ed attuali esigenze cautelari anche a prescindere dalla presunzione di cui sopra, avendo fatto riferimento all’assoluta gravità dei fatti, ai tratti allarmanti della personalità del ricorrente, nonchè ai legami tuttora stabili e consolidati dal medesimo tenuti con ambienti connotati da gravissimo tasso criminale (le armi da lui detenute erano finalizzate al loro uso da parte di sodalizi mafiosi).

5. Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso in esame, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

7. Si provveda all’adempimento di cui all’art. 94 disp. att. cod. proc. pen..
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone che la Cancelleria provveda agli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 21-01-2011, n. 150

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Premesso:

– che il Comune di Gottolengo, dopo la proposizione del gravame, ha indetto una gara pubblica che è già stata portata a compimento;

– che pertanto deve essere dichiarata la sopravvenuta carenza di interesse ad agire in capo alla ricorrente, la quale ha promosso il giudizio allo scopo di ottenere l’espletamento di una procedura selettiva per l’individuazione dell’affidatario del servizio;

– che peraltro è stato dedotto che la stessa C. non avrebbe neppure partecipato al confronto comparativo;

Atteso:

– che la controinteressata si oppone ad una pronuncia di sopravvenuto difetto di interesse, evidenziando che la gara espletata è stata aggiudicata con decorrenza dall’1/1/2011, mentre l’atto impugnato prevedeva l’affidamento diretto per un periodo sperimentale di 6 mesi, dall’1/7/2010 al 31/12/2010;

– che pertanto gli atti assunti dall’amministrazione dopo la proposizione del gravame sarebbero coerenti con il provvedimento impugnato da C.;

– che sussisterebbe un interesse alla pronuncia nel merito sia con riguardo alle spese di giudizio, sia per chiedere al Comune il risarcimento del danno provocato dalla mancata esecuzione dell’appalto, sia per evitare il consolidarsi di una linea giurisprudenziale gravemente lesiva degli interessi delle Cooperative sociali di inserimento lavorativo;

Evidenziato:

– che sotto il primo profilo la condanna alle spese presuppone comunque una delibazione sommaria sulla fondatezza della pretesa;

– che per quanto riguarda la richiesta risarcitoria, non sembra che la stessa possa trovare ingresso in questa sede, mediante una semplice memoria non notificata;

– che infatti anche l’accertamento dei presupposti per la condanna risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 del c.c. esige ad avviso del Collegio un’apposita domanda giudiziale, che in tale controversia poteva essere introdotta in via riconvenzionale;

– che tale domanda deve essere effettuata nelle forme di rito, con la notifica alla controparte interessata (il Comune), per permettere il compiuto esercizio del diritto costituzionale di difesa;

– che di conseguenza la pretesa ad ottenere una pronuncia diffusa sul merito non può sorreggersi sull’esigenza di mutare l’indirizzo di questa Sezione e del Consiglio di Stato, poiché anche questa istanza presuppone una domanda ritualmente formulata;

Considerato:

– che pertanto deve essere dichiarata la sopravvenuta carenza di interesse della ricorrente alla prosecuzione del giudizio;

– che la controinteressata può comunque agire giudizialmente per esperire la domanda risarcitoria nei confronti del Comune;

– che le spese del presente giudizio possono essere compensate, alla luce dell’orientamento già espresso dalla Sezione sulla vicenda controversa ed altresì perché sussistono dubbi sull’invocato difetto di legittimazione ad agire in capo alla ricorrente, trattandosi di "prima gara" avente per oggetto un servizio non sostanzialmente dissimile da quello in precedenza svolto;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda) il T.A.R. per la Lombardia – Sezione staccata di Brescia – definitivamente pronunciando, dichiara la sopravvenuta carenza di interesse alla definizione del gravame.

Spese compensate.

La presente sentenza è depositata presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 13 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Giorgio Calderoni, Presidente

Mauro Pedron, Primo Referendario

Stefano Tenca, Primo Referendario, Estensore
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. VI 30-12-2008 (19-12-2008), n. 48496 Convenzione europea di estradizione – Pendenza in Italia di un procedimento per gli stessi fatti – Individuazione – Iniziative investigative potenzialmente finalizzate all’esercizio dell’azione penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Venezia dichiarava sussistenti le condizioni per la estradizione verso la Confederazione Svizzera di L.P., in relazione a un provvedimento di cattura emesso in data 28 febbraio 2008 dal Procuratore pubblico di Lugano per il reato di truffa, previsto dall’art. 146 c.p. elvetico.
Rilevava la Corte di appello che non era ravvisatale alcuna preclusione all’accoglimento della domanda, regolarmente presentata dall’autorità svizzera, e, in particolare, che non poteva costituire ostacolo, ai sensi dell’art. 705 c.p.p., la presentazione di una autodenuncia da parte dello stesso L. all’autorità giudiziaria di Brescia per fatti che si prospettavano come coincidenti con quelli oggetto della domanda di estradizione, non risultando essere stata esercitata l’azione penale da parte dell’a.g. italiana.
Ricorre per Cassazione il difensore dell’estradando, avv. Antonio Bondi, il quale deduce:
1. Violazione dell’art. 705 c.p.p., posto che per lo stesso fatto, come documentalmente provato, pendeva procedimento penale a carico del L. davanti all’autorità giudiziaria di Brescia, il che, a norma della citata disposizione, costituiva un ostacolo all’accoglimento della domanda di estradizione.
In particolare, nel memoriale presentato dal L. alla Procura della Repubblica bresciana si sottolineava che i fatti di cui alla domanda di estradizione si erano svolti almeno in parte in Italia.
Ad avviso del ricorrente, il momento dal quale derivava la pendenza del procedimento penale in Italia non poteva essere individuato, come ritenuto dalla Corte di appello, in quello dell’esercizio dell’azione penale ma in quello della iscrizione del nominativo dell’indagato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., come anche si ricavava logicamente dal coordinamento di tale disposizione con quella degli artt. 8 e 9 della Convenzione europea di estradizione.
Nel merito, era incontrovertibile che una parte dell’azione si era svolta in territorio italiano.
2. Violazione dell’art. 704 c.p.p., comma 2, non avendo la Corte di appello dato seguito alla richiesta formulata dalla difesa, con l’avallo del Procuratore generale di udienza, di accertare la pendenza del procedimento penale a carico del L. presso la Procura della Repubblica di Brescia.
L’avv. Bondi ha poi depositato documentazione circa la pendenza del procedimento a carico del suo assistito presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, a seguito di trasmissione degli atti, per competenza, da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia.
Ad avviso della Corte il ricorso è infondato.
La previsione dell’art. 705 c.p.p., comma 1, secondo cui costituisce ostacolo alla pronuncia di una sentenza favorevole alla estradizione l’ipotesi in cui "per lo stesso fatto, nei confronti della persona della quale è domandata l’estradizione, … è in corso procedimento penale … nello Stato", evoca sia letteralmente sia logicamente una situazione nella quale da parte del pubblico ministero siano state assunte iniziative investigative potenzialmente finalizzate all’esercizio dell’azione penale.
Così, mentre non può dirsi che per integrare tale ipotesi occorra l’effettivo esercizio dell’azione penale (come invece afferma Cass., sez. 6, 17 maggio 2002, Stankovic), deve d’altro canto escludersi che sia sufficiente la mera iscrizione di una notitia criminis nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. (questo, appunto, era il caso preso in esame ex professo dalla citata sentenza Stankovic).
Infatti, la sola iscrizione della notizia di reato nel predetto registro, che è un atto dovuto per effetto della presentazione di una denuncia o querela o di un referto a norma dell’art. 331 c.p.p., e segg., integra una mera appostazione burocratica conseguente a tale presentazione, ma non implica che un procedimento penale sia "in corso"; prova ne sia che, senza necessità di alcun atto di indagine, alla iscrizione della notizia di reato può seguire, immediatamente, la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero.
Occorre dunque innanzi tutto che il pubblico ministero, non ritenendo infondata, prima facie, la notizia di reato, espleti concretamente, anche per il tramite della polizia giudiziaria, formali atti di investigazione nei confronti della persona indicata come autore del reato, che solo a seguito di tale attività, tipicamente descritta dall’art. 358 c.p.p., e segg., assume la qualità sostanziale di "persona sottoposta alle indagini preliminari" (art. 61 c.p.p.).
In secondo luogo si richiede la ricognizione ad opera del pubblico ministero di un preciso addebito, che, senza necessariamente costituire atto di esercizio dell’azione penale, integri una ipotesi di provvisoria incolpazione, ai fini, ad esempio, della richiesta di adozione di misure cautelari personali (questo è il caso considerato da Cass., sez. 6, 18 ottobre 2006, Miah) o reali, o iniziative che comunque implichino l’intervento del giudice per le indagini preliminari (ad es., richieste di decreti autorizzativi di intercettazioni telefoniche, di assunzione di incidente probatorio, di proroga del termine per le indagini): solo, infatti, a seguito di simili iniziative, può dirsi che "per lo stesso fatto, nei confronti della persona della quale è domandata l’estradizione, … è in corso procedimento penale … nello Stato".
A non diversa conclusione conduce il raffronto tra la normativa interna e quella recata dalla Convenzione europea di estradizione, che, all’art. 8, nel testo in lingua francese, riferimento a un procedimento nell’ambito del quale il soggetto di cui è domandata l’estradizione si oggetto di "poursuites" per lo stesso fatto nello Stato richiesto (ovvero, nel testo in lingua inglese, "if the competent authorities of such Party are proceeding against him").
Ora, nel caso in esame, dalla stessa documentazione prodotta dal ricorrente si desume solo che il L. ha presentato autodenuncia, a quanto pare, per gli stessi fatti per cui è stata domandata l’estradizione, e che essa è stata, doverosamente, iscritta nel registro delle notizie di reato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, senza peraltro che risulti alcuna attività di indagine concretamente espletata dal Pubblico Ministero; chè anzi, stando alla attestazione di segreteria circa le risultanze del registro delle notizie di reato, emerge che detta autodenuncia riguarda un reato di cui all’art. 640 c.p. commesso "in luogo estero sconosciuto".
Stanti dette risultanze, deve affermarsi che non ricorre nella specie il caso ostativo alla estradizione di cui all’art. 705 c.p.p., comma 1, posto che nessuna attività significativa di una iniziativa investigativa per un fatto coincidente con quello per il quale è stata presentata la domanda di estradizione da parte delle autorità svizzere appare essere stata avviata dalla autorità giudiziaria italiana.
Il ricorso va dunque rigettato, e da ciò consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.