T.A.R. Campania Napoli Sez. VII, Sent., 14-01-2011, n. 170

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con atto notificato in data 4 dicembre 2009 e depositato in data 23 dicembre 2009 il ricorrente, ha impugnato il decreto della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Napoli e Provincia in data 25 settembre 2009, con il quale è stato annullato il provvedimento del Comune di Vico Equense n. 177 del 24 luglio 2009, con cui è stato rilasciato, ai sensi dell’art. 32 della legge n. 47/1985, il nulla osta ambientale ai fini della sanatoria relativa al corpo di fabbrica abusivo in epigrafe indicato.

In punto di fatto il ricorrente espone che: a) nel corso dell’istruttoria relativa alla domanda di condono edilizio di cui trattasi il Comune di Vico Equense ha richiesto numerose integrazioni documentali e, in occasione dell’ultima integrazione, è stato trasmesso all’Amministrazione comunale un progetto di riqualificazione del manufatto da condonare; b) all’esito dell’istruttoria il Comune di Vico Equense con decreto n. 41 del 26 febbraio 2009 ha assentito, su conforme parere espresso dalla C.E.C.I. nella seduta del 20 gennaio 2009, la sanatoria ediliziaambientale dell’abuso; tuttavia la Soprintendenza con decreto in data 21 aprile 2009 ha annullato tale provvedimento di sanatoria; c) a seguito dell’istanza di riesame presentata in data 3 giugno 2009, il Comune di Vico Equense, con decreto n. 177 del 24 luglio 2009, ha nuovamente assentito la sanatoria dell’abuso di cui trattasi, richiamando il parere favorevole espresso dalla C.E.C.I. nella seduta del 18 giugno 2009, che risulta così motivato: "La Commissione, riallacciandosi al proprio parere favorevole già espresso in precedenza, in quanto nella procedura seguita si è osservato quanto dettato dal Protocollo d’Intesa tra Soprintendenza e Regione Campania,… precisa che le opere chieste in condono di cui alla legge 724/94, così come dalla domanda iniziale, debbono essere valutate nella loro interezza, in quanto funzionali all’attività produttiva ivi condotta e di interesse pubblico, e non come semplicistica superfetazione facilmente scindibile dal complesso principale. Alla luce di tali considerazioni questa Commissione riteneva e ritiene la pratica procedibile sotto l’aspetto urbanistico / ambientale per consistenza volumetrica, in quanto le opere chieste in condono non vanno ad occludere vedute panoramiche e quinte sceniche particolari; d’altro canto, ai fini della compatibilità relativamente ai materiali ed alla omogeneità con le linee architettoniche del fabbricato principale, valutava il progetto di riqualificazione trasmesso, in ottemperanza al Protocollo d’Intesa prima citato, come accoglibile sotto questi ultimi aspetti".

Ciononostante, la Soprintendenza con l’impugnato decreto ha annullato anche la nuova sanatoria, evidenziando in motivazione quanto segue: "L’intervento ricade in Zona Territoriale 4 (Riqualificazione insediativa e ambientale di I grado) del P.U.T. e in zona territoriale OH 1.2. (Ristorazione) dl P.R.G. attuativo del P.U.T.. Trattasi di riesame per la sanatoria edilizia L. 724/94 di una struttura con destinazione a ristorazione, in ampliamento ad un fabbricato realizzato C.E. 285/77, avente dimensioni di mq 133,58 e non 32,39. Si evidenzia che il precedente provvedimento del Comune n. 41 del 26/2/2009, relativo alla medesima opera, è stato oggetto di annullamento con decreto soprintendentizio del 21/4/2009, trasmesso in pari data con protocollo n. 6576. Il provvedimento comunale in esame si fonda sulla conformità del "progetto di riqualificazione" alle disposizioni del Protocollo d’Intesa del 25.7.2001 tra questa Soprintendenza e la Regione Campania in materia di abusivismo edilizio. Tale valutazione è fondata, però, su una parziale lettura della norma che nei "Criteri generali per la valutazione della compatibilità paesistica delle opere abusive" esclude espressamente dalla sanatoria le opere che per materiali e tipologia edilizia, ovvero per connotazione di precarietà strutturale ed esecutiva, come nel caso di specie, risultano ampliamento o modificazione in contrasto con l’organismo originario".

Di tale decreto il ricorrente chiede, quindi, l’annullamento deducendo i seguenti motivi.

I) Violazione e falsa dell’art. 159 del decreto legislativo n. 42/2004, nonché dell’art. del medesimo decreto legislativo e dell’art. 32 della legge n. 47/1985; eccesso di potere per contraddittorietà manifesta e carenza di istruttoria. Innanzi tutto il ricorrente sostiene che il provvedimento impugnato sarebbe viziato per contraddittorietà e difetto di istruttoria perché la Soprintendenza, a fronte della medesima situazione di fatto, ha motivato la decisione assunta con il decreto in data 21 aprile 2009 assimilando l’ampliamento da condonare ad una superfetazione, mentre nel provvedimento impugnato si fa riferimento ad "una parziale lettura della norma che nei "Criteri generali per la valutazione della compatibilità paesistica delle opere abusive" esclude espressamente dalla sanatoria le opere che per materiali e tipologia edilizia, ovvero per connotazione di precarietà strutturale ed esecutiva, come nel caso di specie, risultano ampliamento o modificazione in contrasto con l’organismo originario", senza considerare che l’ampliamento di cui trattasi non risulta affatto precario dal punto di vista strutturale, come dimostra il fatto che insiste in loco da circa un ventennio e non ha mai subito danni strutturali. Inoltre il ricorrente deduce che – avendo la Commissione edilizia comunale integrata ampiamente valutato la compatibilità ambientale dell’intervento anche in relazione ai materiali ed alla omogeneità con le linee architettoniche del fabbricato principale – la Soprintendenza, invece di svolgere il prescritto controllo di legittimità, avrebbe effettuato un inammissibile riesame nel merito delle valutazioni tecnicodiscrezionali riservate all’Amministrazione comunale.

II) Violazione e falsa applicazione dell’art. 9, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, nonché della legge regionale n. 35/1987 e del P.R.G. del Comune di Vico Equense; eccesso di potere per contraddittorietà, travisamento dei fatti e difetto di istruttoria. Secondo il ricorrente il provvedimento impugnato sarebbe viziato per difetto di istruttoria non solo perché l’ampliamento di cui trattasi non risulta affatto precario, ma anche perché la Soprintendenza non avrebbe tenuto conto della peculiare destinazione della zona in cui ricade l’area su cui è stato realizzato l’intervento.

III) Violazione e falsa applicazione del Protocollo d’Intesa RegioneSoprintendenza del 25 luglio 2001; eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione. Il ricorrente si duole del fatto che la Soprintendenza – in violazione dell’art. 3, comma 2, del predetto Protocollo d’Intesa – non abbia concretamente indicato le circostanze dalle quali avrebbe dedotto che l’opera da sanare sia precaria, per modalità di esecuzione o per la struttura stessa, o addirittura in contrasto con l’organismo edilizio originario.

2. L’Amministrazione intimata si è costituita in giudizio in data 4 gennaio 2010 per resistere al ricorso.

3. Con ordinanza n. 132 in data 14 gennaio 2010 questa Sezione ha accolto la domanda di sospensione del provvedimento impugnato, evidenziando in motivazione che – a fronte della articolata motivazione del parere favorevole espresso dalla C.E.C.I. – il provvedimento impugnato, lungi dall’evidenziare un vizio di legittimità che inficia il procedimento e le valutazioni svolte dall’Amministrazione comunale, si traduce in un’inammissibile sovrapposizione del giudizio della Soprintendenza sulla compatibilità paesistica delle opere al giudizio espresso nel provvedimento di sanatoria.

4. Con memoria depositata in data 7 giugno 2010 il ricorrente ha insistito per l’accoglimento del presente gravame.

Anche l’Amministrazione intimata in data 28 luglio 2010 ha depositato una relazione, con la quale ha insistito per la reiezione del gravame evidenziando, tra l’altro, che la Commissione edilizia comunale integrata ha motivato la compatibilità paesaggistica delle opere di cui trattasi con formule stereotipe e "non ha espresso alcuna valutazione in merito alla qualità e alle caratteristiche dell’opera esistente, ma ha operato l’esame della compatibilità sulla scorta del progetto di "riqualificazione" presentato dal ricorrente che, in sostanza, si concretizza in un abbattimento di quanto realizzato abusivamente e nella completa ricostruzione, con materiali e tipologia del tutto differenti, della struttura abusiva".

5. Alla pubblica udienza del 9 dicembre 2010 il ricorso è stato chiamato e trattenuto per la decisione.
Motivi della decisione

1. Il presente gravame – avente ad oggetto il decreto della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Napoli e Provincia in data 4 ottobre 2006, con il quale è stata annullata l’autorizzazione paesaggistica n. 134 in data 11 maggio 2006, rilasciata dal Comune di Vico Equense ai sensi dell’art. 32 della legge n. 47/1985, nell’ambito del procedimento per la sanatoria di un intervento abusivo di manutenzione ed ampliamento relativo al fabbricato in epigrafe indicato – risulta fondato per le seguenti ragioni.

Innanzi tutto il Collegio, in punto di fatto, osserva che la presentazione del progetto di riqualificazione relativo al manufatto abusivo in questione – secondo la prospettazione del ricorrente – non è frutto di una iniziativa del ricorrente stesso, ma consegue alle richieste di integrazione documentale formulate dall’Amministrazione comunale (sul punto non vi è comunque contestazione da parte dell’Amministrazione resistente), e che proprio grazie alla presentazione di tale progetto la Commissione edilizia comunale integrata nella seduta del 18 giugno 2009 ha confermato il parere favorevole al condono già in precedenza espresso, perché "relativamente ai materiali ed alla omogeneità con le linee architettoniche del fabbricato principale, valutava il progetto di riqualificazione trasmesso, in ottemperanza al Protocollo d’Intesa prima citato, come accoglibile".

Inoltre, in punto di diritto, si deve rammentare che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (ex multis, T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII, 19 febbraio 2009, n. 958), puntualmente richiamato dalla ricorrente, il potere di annullamento dell’autorizzazione paesistica attribuito alla Soprintendenza non può comportare un riesame complessivo delle valutazioni tecnicodiscrezionali compiute dall’Ente locale, tale da consentire la sovrapposizione o la sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione, ma si estrinseca in un mero controllo di mera legittimità. Infatti tale potere è da intendersi quale espressione non già di un generale riesame nel merito della valutazione dell’Ente locale, bensì di un potere di annullamento per motivi di legittimità, riconducibile al più generale potere di vigilanza, che il Legislatore ha voluto riconoscere allo Stato nei confronti dell’esercizio delle funzioni delegate ai Comuni in materia di gestione del vincolo, fermo restando che il controllo di legittimità può riguardare anche tutti i possibili profili dell’eccesso di potere (in tal senso anche Corte Cost., 7 novembre 2007, n. 367).

Ne consegue, secondo la giurisprudenza (ex multis, T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII, 8 giugno 2007, n. 6052; 21 maggio 2007, n. 5494), che, mentre la Soprintendenza nell’esercizio dei suoi poteri di controllo può solo verificare la legittimità delle autorizzazioni paesistiche, e quindi non può spingersi al punto di imporre prescrizioni o suggerire modifiche progettuali, di converso l’Amministrazione comunale, quale soggetto cui compete la valutazione della compatibilità paesistica degli interventi edilizi, può ben subordinare il rilascio dell’autorizzazione paesistica all’esecuzione di modifiche progettuali finalizzate a mitigare l’impatto ambientale dell’intervento abusivo.

Tali principi – come già posto in rilievo da questa Sezione in altre occasioni (T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII, 17 luglio 2008, n. 8937; 4 maggio 2009, n. 2282) – sono stati correttamente recepiti nel Protocollo d’Intesa per il coordinamento delle funzioni in materia di sanatoria degli interventi edilizi realizzati in aree soggette al vincolo paesaggisticoambientale nella Provincia di Napoli, sottoscritto dalla Soprintendenza e dalla Regione Campania in data 25 luglio 2001.

In particolare giova evidenziare che: a) nelle premesse del predetto protocollo d’intesa è stato evidenziato "che nella materia dell’abusivismo edilizio è interesse della Soprintendenza… che la sanabilità degli interventi abusivi realizzati nelle aree sottoposte a vincolo paesaggisticoambientale sia subordinata all’esecuzione di opere di riqualificazione ritenute idonee a consentire e/o migliorare l’inserimento dei manufatti abusivi nei contesti tutelati…"; b) all’articolo 1, comma 1, del medesimo protocollo d’intesa è stato stabilito che "il rilascio della concessione edilizia in sanatoria delle opere eseguite su aree sottoposte a vicolo paesaggisticoambientale è subordinato alla presentazione all’Amministrazione comunale, su richiesta di quest’ultima e laddove sia ritenuto necessario, di un progetto di completamento e/o riqualificazione dell’intervento abusivo"; c) nel successivo comma 2 è stato precisato che "il progetto di cui al comma 1 dovrà essere conforme alle direttive e prescrizioni tecniche contenute nell’allegato al presente Protocollo, definite dalla Soprintendenza d’intesa con la Regione, mediante l’individuazione di criteri omogenei rapportati agli specifici valori paesaggisticoambientali delle aree sottoposte a vincolo"; d) nei "criteri generali per la valutazione della compatibilità paesistica delle opere abusive", previsti dall’allegato al Protocollo d’intesa, è specificato che "indipendentemente dalle caratteristiche geomorfologiche delle aree in cui ricadono le opere abusivamente realizzate, la valutazione di ogni singolo caso dovrà accertare che le stesse… non costituiscano organismo in contrasto, per materiali, tipologia edilizia, ovvero per connotazione di precarietà strutturale ed esecutiva, con le caratteristiche ambientali e paesaggistiche del contesto, ovvero con le connotazioni specifiche della preesistenza di cui risultino eventuale ampliamento e/o modificazione"; e) nel medesimo allegato al Protocollo d’intesa è specificato altresì, con particolare riferimento agli "interventi per il completamento, la mitigazione e il miglioramento delle opere abusive", che "per il miglior inserimento delle opere abusive nel contesto ambientale, paesistico e naturale, al fine della riqualificazione dei manufatti abusivi", è prevista la possibilità di imporre "un insieme sistematico di opere atte a riqualificarne l’aspetto esteriore", ivi compresa la sostituzione degli intonaci, dei rivestimenti, delle coperture e delle opere di finitura in genere, laddove quelle esistenti "risultino incongrue con i caratteri architettonici ricorrenti ed i materiali tradizionalmente impiegati nell’architettura locale e/o nella zona di intervento".

2. Poste tali premesse il primo motivo di ricorso risulta fondato, in base alle seguenti considerazioni.

Innanzi tutto – come correttamente evidenziato dal ricorrente – il semplice fatto che l’ampliamento oggetto della domanda di condono sia utilizzato da oltre venti anni per l’attività di ristorazione (circostanza questa non oggetto di contestazione da parte dell’Amministrazione resistente), di per sé, vale ad escludere che si tratti di un manufatto precario.

Inoltre non è condivisibile la tesi della Soprintendenza secondo la quale il giudizio di compatibilità ambientale espresso dall’Amministrazione comunale si fonderebbe "su una parziale lettura" del suddetto Protocollo d’Intesa "che nei "Criteri generali per la valutazione della compatibilità paesistica delle opere abusive" esclude espressamente dalla sanatoria le opere che per materiali e tipologia edilizia, ovvero per connotazione di precarietà strutturale ed esecutiva, come nel caso di specie, risultano ampliamento o modificazione in contrasto con l’organismo originario".

Infatti – premesso che tali considerazioni risultano ulteriormente sviluppate dalla Soprintendenza nella relazione depositata in data 28 luglio 2010, ove è stato posto in rilievo che l’Amministrazione comunale "ha operato l’esame della compatibilità sulla scorta del progetto di "riqualificazione" presentato dal ricorrente che, in sostanza, si concretizza in un abbattimento di quanto realizzato abusivamente e nella completa ricostruzione, con materiali e tipologia del tutto differenti, della struttura abusiva", il Collegio ritiene che sia piuttosto imputabile alla Soprintendenza una lettura parziale della disciplina posta dall’allegato tecnico al Protocollo d’intesa, perché tale disciplina – come già evidenziato in precedenza – prevede anche la possibilità di imporre "un insieme sistematico di opere atte a riqualificarne l’aspetto esteriore", ivi compresa la sostituzione degli intonaci, dei rivestimenti e delle coperture. Pertanto il progetto di riqualificazione presentato dal ricorrente, a ben vedere, non determina un "modificazione in contrasto con l’organismo originario" vietata dal suddetto Protocollo d’Intesa, sia perché il Protocollo d’Intesa prevede espressamente la possibilità di prescrivere l’esecuzione di un insieme sistematico di opere, sia perché il progetto de quo comporta solo la sostituzione di elementi preesistenti in modo da realizzare il miglior inserimento del manufatto abusivo nel contesto paesistico circostante.

Ne consegue che la tesi della Soprintendenza – secondo la quale, nella sostanza, l’ampliamento abusivo di cui trattasi non costituisce (come invece affermato dalla Commissione edilizia comunale integrata) un manufatto stabile, non facilmente scindibile dall’edificio principale a cui accede (in quanto funzionale all’attività produttiva condotta nell’edificio principale) e, nel contempo, richiedente un intervento di riqualificazione atto a realizzare il suo miglior inserimento nel contesto circostante, bensì un manufatto precario, costituente una superfetazione (si veda al riguardo la motivazione posta a fondamento del decreto con il quale è stato annullato il primo provvedimento di compatibilità paesaggistica adottato dal Comune di Vico Equense) e quindi destinato a produrre, per effetto dell’intervento di riqualificazione proposto dal ricorrente, una "modificazione in contrasto con l’organismo originario" – oltre a costituire il frutto di un difetto di istruttoria, si traduce in un inammissibile riesame nel merito delle valutazioni tecnicodiscrezionali svolte dall’Amministrazione comunale in ordine alla compatibilità ambientale del manufatto abusivo.

3. Stante quanto precede, il ricorso in esame deve essere accolto, con conseguente annullamento del decreto della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Napoli e Provincia in data 25 settembre 2009 e assorbimento delle restanti censure.

Le spese di giudizio, quantificate nella misura indicata nel dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso n. 7351/2009 lo accoglie e, per l’effetto, annulla il decreto della Soprintendenza per i beni architettonici e Paesaggistici per Napoli e Provincia, in data 25 settembre 2009.

Condanna il Ministero per i beni e le attività culturali al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese di giudizio, che si quantificano in complessivi euro 2.000,00 (duemila/00), oltre i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 9 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Michelangelo Maria Liguori, Presidente FF

Guglielmo Passarelli Di Napoli, Primo Referendario

Carlo Polidori, Primo Referendario, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 31-07-2012, n. 13652

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Svolgimento del processo

Con ricorso del 9 gennaio 2007 P.A. propose innanzi al Tribunale di Napoli, sez. dist. di Marano, opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. nei confronti di Pe.Gi., avverso il provvedimento in data 30 ottobre 2006 con il quale il giudice dell’esecuzione, risolvendo un incidente sollevato dal predetto Pe., nella sua qualità di ufficiale giudiziario dell’UNEP di Marano, aveva stabilito che nella procedura di espropriazione presso terzi l’agenzia bancaria presso la quale era possibile procedere per ottenere il pagamento era solo quella il cui direttore aveva reso la dichiarazione di quantità e che, ai fini della validità della dichiarazione di surroga del creditore, ex art. 1201 cod. civ., era necessaria l’autenticazione della sottoscrizione. Sostenne l’opponente la nullità del provvedimento, in quanto emesso in violazione del diritto di difesa, nonchè la sua erroneità.

Si costituì in giudizio il Pe., eccependo preliminarmente la tardività dell’opposizione.

Con sentenza del 30 giugno 2008 il giudice adito l’ha dichiarata inammissibile, in quanto proposta oltre il termine di venti giorni previsto dalla legge.

Avverso detta pronuncia propone ricorso per cassazione P. A., formulando un unico motivo. Resiste con controricorso Pe.Gi..

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo l’impugnante denuncia violazione degli artt. 617, 134, 325 e 326 cod. proc. civ. oggetto delle critiche è l’affermazione del giudice di merito secondo cui il principio della decorrenza del termine per la proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi dalla conoscenza legale dell’atto andava interpretato alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la proposizione o la notificazione di un’impugnazione, ancorchè inammissibile o improcedibile, equivaleva, sul piano della conoscenza legale, alla notificazione del provvedimento nei confronti dell’impugnante. Di talchè, considerato che nella fattispecie l’avvocato P., in data 24 novembre 2006, aveva proposto ricorso ex art. 700, lamentando l’inerzia dell’ufficiale giudiziario; che il Pe., costituitosi in giudizio, aveva, tra l’altro, depositato il provvedimento reso a seguito dell’incidente da lui sollevato; che in data 15 dicembre 2006 il giudice della cautela aveva dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700, segnatamente richiamando la sussistenza di un rimedio tipico, quale l’opposizione ex art. 617 cod. proc. civ., il termine di venti giorni di cui all’art. 617 cod. proc. civ., sia che lo si facesse decorrere dalla data dell’udienza di comparizione nel procedimento cautelare, sia che lo si facesse decorrere dal 19 dicembre 2006, giorno in cui era stata comunicata l’ordinanza di inammissibilità del ricorso, era ormai ampiamente spirato.

Sostiene invece il ricorrente che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, ai fini della decorrenza del termine, la conoscenza dell’atto non può desumersi da quella di altri atti o fatti, eventuali o estranei al processo esecutivo.

2. Il ricorso deve essere rigettato, anche se la motivazione della sentenza impugnata va corretta, ex art. 384 cod. proc. civ..

A ben vedere, infatti, preliminare allo stesso rilievo della inammissibilità dell’opposizione per tardività, è quello dell’assoluta carenza di legittimazione passiva del convenuto. Si ricorda, in proposito, che la legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità di una situazione giuridica idonea ad abilitare un soggetto a promuovere o a subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale versato in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento: da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito l’esame d’ufficio, poichè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata (confr.

Cass. civ. sez. un. 9 giugno 2011, n. 12538; Cass. civ. sez. un., 15 novembre 2005, n. 23022; Cass. civ. 10 gennaio 2008, n. 355).

3. Nella fattispecie l’opposizione è stata, in maniera del tutto anomala, indirizzata nei confronti dell’ufficiale giudiziario in proprio, che non è certamente parte del processo esecutivo, e che non è quindi neppure astrattamente legittimato ad assumere la veste di opposto nelle iniziative processuali dell’esecutato volte a contestare il quomodo dell’azione esecutiva, e cioè la regolarità formale del titolo esecutivo, del precetto o, come, in questo caso, di singoli atti dell’esecuzione.

Ne deriva che l’opposizione andava dichiarata sì inammissibile, ma per assoluta improponibilità della domanda (confr. Cass. civ. 20 giugno 2006, n. 14266; Cass. civ. 17 dicembre 2001, n. 15893).

Al rigetto dell’opposizione segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.200,00 (di cui Euro 2.000,00 per onorari), oltre IVA e CPA, come per legge.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012
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Cass. pen., sez. I 24-12-2008 (04-12-2008), n. 48188 Ordinanze dibattimentali determinanti il regresso del procedimento – Termini per impugnare e loro decorrenza

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RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento in epigrafe, pronunziato nella udienza dibattimentale del 26.5.2008, il Tribunale di Milano dichiarava la nullità del decreto a giudizio perchè non proceduto dalla notificazione all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini (ex art. 415 bis c.p.p.).
A ragione osservava che la nomina a difensore dell’avvocato Loris Panfili e l’elezione di domicilio presso lo studio di questo non si riferiva al procedimento in oggetto.
2. Ha proposto ricorso il Pubblico ministero, con atto datato 21.6.2008, chiedendo l’annullamento della ordinanza che definisce abnorme perchè, dichiarando una nullità non prevista, avrebbe prodotto una indebita regressione del procedimento (cita sez. 6, n. 18474/2007).
Assume che la nomina di difensore e l’elezione di domicilio presso di lui erano avvenuti nell’ambito degli accertamenti di polizia giudiziaria espletati d’iniziativa a seguito di segnalazione di furto, per il quale il V. era stato tratto in arresto e giudicato per direttissima, ma dai quali scaturiva altresì l’imputazione D.Lgs. n. 268 del 1998, ex art. 14, comma 5 ter oggetto del procedimento in esame, separatamente instaurato "per evidenti ragioni di diversità del rito esperibile". E che dunque l’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. era stato correttamente notificato presso il domiciliatario.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva il Collegio che il ricorso appare inammissibile.
Il provvedimento impugnato è stato pronunciato, con la contestuale motivazione, in pubblica udienza il giorno 26.5.2008, mentre il Pubblico ministero ha redatto l’atto d’impugnazione il 21.6.2008 e lo ha depositato quindi ben oltre il termine di quindici giorni, decorrente dalla pronuncia dell’ordinanza in questione, imposto a pena di inammissibilità (art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c)) dall’art. 585 c.p.p., comma 1, lett. a).
Detta norma, pur riguardando formalmente i provvedimenti camerali e le sentenze accompagnate da contestuale motivazione, deve infatti ritenersi applicabile anche a tutti provvedimenti dibattimentali che determinino la regressione del processo (mentre, per le altre, vale il disposto dell’art. 586 c.p.p.). Il termine sopra precisato, d’altro canto, decorre dalla lettura del provvedimento in udienza, non essendovi ragione di non applicare nel caso in esame la previsione dell’art. 585 c.p.p., comma 2, lett. b), che, seppure pensata per le sentenze con contestuale motivazione, vale a fortiori per le ordinanze dibattimentali.
E se pure il Pubblico ministero "titolare" del procedimento non era materialmente presente al momento della pronuncia del Giudice di pace, il delegato che svolgeva le funzioni di pubblico ministero d’udienza aveva l’onere di dargliene tempestiva comunicazione. Il che, data l’unitarietà dell’ufficio del Pubblico ministero, rende irrilevante il fatto di quando possa essere avvenuta la trasmissione degli atti e dell’ordinanza impugnata alla Procura della Repubblica (cfr. per una fattispecie affatto analoga, benchè concernente provvedimento del Pretore, Sez. 6, Sentenza n. 2087 del 08/06/1999, Popolo, nonchè, più in generale, Sez. 3, Ordinanza n. 34656 del 14/06/2005, Mrichi).
Non v’è dubbio, d’altra parte, che il rispetto dei termini per impugnare va osservato anche in presenza di atti assertivamente abnormi (Cass., sez. un., 9 luglio 1997, Quarantelli), tali dovendosi ritenere quelli che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risultino avulsi dall’intero ordinamento processuale, nonchè quelli che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichino al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, oltre ogni ragionevole limite (Cass., sez. un., c.c. 10 dicembre 1997, Di Battista, Cass., sez. un., c.c. 9 luglio 1997, Baldan, rv.
208220; Cass., sez. un., c.c. 18 giugno 1993, Garonzi, rv. 194061).
2. E’ appena il caso di notare, perciò, che – come giustamente ha osservato il Procuratore generale nelle sue conclusioni scritte – il provvedimento in esame non scaturisce dalla rilevazione di una nullità in realtà non prevista, ma dichiara una nullità espressamente comminata seppure, secondo la prospettazione del pubblico ministero, erroneamente. Sicchè il provvedimento impugnato in nessun caso poteva considerarsi abnorme e suscettibile di autonoma impugnazione (cfr. da ultimo, per ipotesi affatto simile e con argomenti appieno condivisibili: Sez. 3, Sentenza n. 26770 del 28/05/2008, Amatucci e ivi citate).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione Penale, Sentenza n. 44803 del 2010 Niente mobbing ma violenza privata se manca un apprezzabile nesso di supremazia-soggezione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Pronunciando sull’appello proposto da [OMISSIS] avverso la sentenza del Tribunale monocratico di Torino in data 18-12-2007 che lo aveva dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 572 c.p. per maltrattamenti continuati in pregiudizio di un lavoratore ([OMISSIS]) della ditta di cui detto imputato era capo officina e, concessegli le attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di mesi otto di reclusione oltre al risarcimento danni morali e spese alla parte civile, in solido con il responsabile civile Auto industriale V. s.r.l., la Corte di Appello di Torino, con sentenza in data 20-11-2009, confermava il giudizio di I° grado, con aggravio di ulteriori spese in favore della parte civile, ribadendo la sussistenza del reato e la comprovata attribuibilità alla contestata condotta dell’imputato

Avverso tale sentenza il [OMISSIS] ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, a motivi del gravame, sostanzialmente ed in sintesi:

l) Violazione ed erronea applicazione dell’art. 572 cit.,. Interpretazione analogica della norma.

In proposito la difesa, con analitica esposizione in diritto, segnala che innanzitutto l’imputato non è datore di lavoro ma solo capo-officina rispetto al lavoratore sicché viene a difettare “a monte” un potere autoritario verso il soggetto passivo e quindi una concreta e ragionevole condizione di soggezione dell’agente sul soggetto passivo; difetta, in sostanza, una posizione di supremazia che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo”, come ribadito anche da questa Corte di legittimità.

Ne deriva, ad avviso del ricorrente, che occorre la necessità della sussistenza di un “quid pluris” del semplice rapporto “di autorità” che si sostanzi in una subordinazione assoluta. Nella specie puntualizza la difesa, il rapporto di autorità si risolve in quello di semplice responsabilità del capo-officina nei confronti dell’azienda, senza nessun potere reale nei confronti dei sottoposti, neppure di carattere disciplinare, quale quello del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti.

Né è possibile estendere alla fattispecie di cui all’art. 572 c. p. la figura del c. d. “mobbing” in violazione dell’art. I c.p. in tema di divieto di interpretazione ed applicazione analogica della norma;

2) Violazione dell’art. 5 L. 46/06, criterio al quale le sentenze dei giudici di merito di I^ e 2^ grado non sembrano essersi adeguate, con asserito conseguimento di tale prova in termini affatto concludenti, acritici e sommari delle risultanze processuali segnatamente riferite al contributo della prova specifica non solo d’accusa ma anche della difesa ed all’attendibilità dell’assunto dell’asserita vittima e dello stesso imputato in difetto di un “collante unificatore” delle singole condotte contestate da doversi ricondurre ad un quadro unitario sia a livello oggettivo che soggettivo per integrare il reato contestato.

Violazione dell’art. 606 lett. b) c.p.p. per erronea, applicazione della legge penale circa l’interpretazione concernente i profili comportamentali del reato di maltrattamenti, avendo i giudici di merito trascurato quanto tempestivamente segnalato dalla difesa ed emergente in punto di logica in atti, ossia che l’intera vicenda andava riportata nei limiti di un “conflitto interpersonale sul luogo di lavoro” privo di rilevanza penale, il che colloca il fatto fuori dalla fattispecie contestata, proponendo un discorso di “bilateralità e reciprocità”delle condotte dei protagonisti, con conseguente perdita della connotazione di “persecutorietà e sopraffazione” strutturalmente insite nella fattispecie in esame.

Nel ricorso si passa, quindi, ad esaminare talune singole condotte riferite nell’imputazione, onde escluderne i caratteri tipicizzanti l’ipotesi contestata, tanto più che era risultato provato, ad avviso della difesa, che il ricorrente “presunto persecutore” era stato invece aggredito violentemente dalla “presunta vittima”, senza, che vi fossero conseguenze grazie al tempestivo intervento di terzi.

Detta situazione di reciproca conflittualità tra le parti era stata immotivatamente e scorrettamente ritenuta irrilevante dall’impugnata sentenza, con conseguente palese vizio di motivazione, in dispregio delle necessarie garanzie difensive a tutela del giudizio di responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ciò premesso ed a prescindere da non isolati, quanto inammissibili riferimenti in punto di mero fatto, il ricorso dell’imputato propone, con apprezzabile e non irrilevante, ne irragionevole prospettazione del fatto in punto di corretta qualificazione in diritto del reato contestato, la problematica di tale qualificazione nell’ambito del rapporto di lavoro.

S’impone, in via preliminare, cogliere i termini letterali ed essenzialmente modali dell’imputazione di cui all’art. 572 c.p. nel contesto della quale si attribuisce all’imputato la qualità di “capo officina” ed al soggetto passivo la qualità di “meccanico”, il tutto nell’ambito della ditta [OMISSIS] di [OMISSIS], con specifico riferimento al fatto che detto passivo fosse sottoposto alla “autorità” di quello attivo, la cui condotta (analiticamente riferita in imputazione) valeva a determinare una situazione di “abituale sofferenza che si estrinsecava in comportamenti mortificanti diretti a denigrare ed a svalutare il lavoratore”.

Ciò posto ed in necessaria osservanza dei termini formali e sostanziali di detta imputazione, non può che ribadirsi quanto questa Corte di legittimità ha, anche di recente, osservato circa la configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., nell’ambito di un rapporto di lavoro (cfr. in termini Cass. pen. Sez. VI, 29-5-2009 n. 6701, Tomeo)

Si è, in proposito, osservato che perché sia configurabile il reato di cui all’art. 572 c.p., occorre un rapporto tra soggetto agente e soggetti passivi caratterizzato da un potere autoritativo esercitato, di fatto o di diritto, dal primo sui secondi, i quali, specularmente, di apprezzabile soggezione. Tale situazione è tradizionalmente confinata nell’ambito familiare (rapporti marito-moglie, tra conviventi, tra figli e genitori) e successivamente estesa con il vigente codice anche ai rapporti educativi di istruzione, cura, vigilanza e custodia o a quelli che si instaurano nell’ambito del rapporto di lavoro.

Proprio con riferimento a tale rapporto occorre che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia non solo formale ma sostanziale che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere specularmente ipotizzabile una apprezzabile soggezione, anche di natura meramente morale e psicologica«dei soggetto passivo ad opera di quello attivo (cfr., anche Cass. pen. Sez. 3^, 5-6-08 n. 27469, Di Venti).

Nella specie, considerato che dagli atti e dalle convergenti risultanze della prova specifica (cfr. testi [OMISSIS], [OMISSIS], [OMISSIS] e le stesse dichiarazioni dell’imputato) non sembra potersi riconoscere, pur nella comprovata ripetitività e valenza modale della condotta del ricorrente verso il [OMISSIS], quell’apprezzabile e determinante nesso di vera a propria “supremazia-soggezione” tra il soggetto passivo e quello attivo, tanto da assimilarne i caratteri peculiari alle situazioni tipicamente a carattere familiare (ad esempio tra colf e persone della famiglia, ovvero tra mastro d’arte ed apprendista in un contesto di stabilità e non di occasionalità di rapporto), non è configurabile il reato contestato né quello ex art. 612 bis c. p. (cosìdetto Mobbing) tanto più che per quest’ultimo i caratteri tipicizzanti condotta attiva e effetti passivi assumono connotazioni modali e sostanziali sfuggenti ai reali termini dell’accusa (Cass. pen. Sez. VI, 26-6-2009, n. 26594).

Sembra piuttosto correttamente configurabile, proprio attraverso una motivata valutazione ed apprezzamento della richiamata prova specifica, peraltro motivatamente segnalata nell’impugnata sentenza a ribadita conferma di quanto già dedotto in I^ grado (cfr. foll. 7 ss.gg. sentenza appello) nella condotta del [OMISSIS] il reato di violenza privata continuata aggravata ex art. 61 n. II c.p.

In tali sensi va opportunamente qualificato il fatto, proprio avuto riguardo alle concludenti emergenze tipicizzanti il rapporto tra un capo officina ed un meccanico nel contesto di un’azienda organicamente strutturata in termini affatto riconducibili a situazioni ancorate ad ambiti familiari come innanzi segnalati.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, assorbito in detti termini, il motivo sub 2), per la segnalata convergenza della prova specifica, previa qualificazione del fatto nei termini anzidetti. S’impone l’annullamento dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino per la determinazione della pena.

P.Q.M.

Qualificato il fatto come violenza privata continuata aggravata ex 61 n. II c.p., annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Torino per la determinazione della pena.

Depositata in Cancelleria il 21.12.2010

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