Cons. Stato Sez. VI, Sent., 17-01-2011, n. 251 Indennità di anzianità e buonuscita di fine rapporto o servizio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I ricorrenti hanno adito il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia per ottenere: a) la rideterminazione del lavoro straordinario svolto negli anni dal 1985 al 1988 con inclusione della indennità di contingenza e dei minimi contrattuali previsti dal CCNL del 12 luglio 1985; b) la inclusione nell’accantonamento per il trattamento di fine rapporto di cui alla l. 29 maggio 1982, n. 297, di tutte le spettanze corrisposte con carattere continuativo e/o non occasionale.

Secondo la loro tesi, l’inopinato "congelamento" dello straordinario (che hanno percepito nel periodo rivendicato in maniera identica a quella prevista sino all’1 febbraio 1985) è stato motivato dall’Azienda a rappresentanti sindacali, che avevano chiesto chiarimenti al riguardo, come applicazione dell’art. 7, penultimo comma, l. 22 dicembre 1984, n. 887 e dell’art. 6, comma 8, l. 28 febbraio 1986, n. 41, disposizioni di leggi finanziarie disponenti tetti retributivi per i dipendenti pubblici.

A loro dire, la tesi dell’Azienda e l’applicazione che ne è stata fatta non è condivisibile, poiché presuppone che le norme sugli oneri retributivi contenute nelle leggi finanziarie possano modificare clausole contrattuali e rapporto di lavoro, e perché nelle norme richiamate dall’Azienda non v’è alcun richiamo specifico alla retribuzione corrisposta con lo straordinario, la quale, attenendo non ad un elemento aggiuntivo della retribuzione bensì ad una prestazione aggiuntiva, non può non corrispondere in ogni sua componente alla retribuzione del lavoro ordinario. L’interpretazione dell’Azienda tra l’altro comporterebbe una parziale abrogazione della disposizione dell’art. 3 del r.d.l. 19 ottobre 1923, n. 2328. Inoltre, la loro ragione poggia sull’aver svolto e di svolgere lavoro straordinario in maniera continuativa e fissa per esigenze di servizio, talché erroneamente l’Azienda ha omesso di computarne il relativo compenso nella base di calcolo del TRF per gli anni successivi al 31 maggio 1982; l’omissione dell’Azienda riguarda poi tutta una serie di voci che invece sono computabili per il loro carattere continuativo e non occasionale e cioè l’EDR (elemento distinto della retribuzione), l’indennità aggiuntiva per il personale viaggiante, quella domenicale, la indennità supernastro lavorativo, indennità sfrido cassa; controvalore alloggio gratuito. (…).

Il giudice adito ha respinto la pretesa indicata sotto la lettera a), ossia la richiesta di computare, nel lavoro straordinario svolto negli anni dal 1985 al 1988, gli incrementi della indennità di contingenza e dei minimi contrattuali previsti dal CCNL di settore del 12 luglio 1985.

Infatti la legge finanziaria 22 dicembre 1984, n.887 precisava all’art. 7, comma 17, che tutti gli emolumenti, compensi, gratifiche ed assegni a qualsiasi titolo corrisposti, ad eccezione della tredicesima mensilità, dovevano corrispondersi nel 1985 in misura non superiore al 1984. La successiva legge finanziaria 28 febbraio 1986, n. 41 confermava all’art. 6, comma 8, le esigenze di contenimento della spesa pubblica, disponendo che tutte le indennità, compensi et cetera andavano corrisposti per gli anni 1986, 1987, 1988 nella stessa misura dell’anno 1985. Il "congelamento" operato dalle F.A.L., alla luce delle citate disposizioni, risulta legittimo.

In ordine alla pretesa indicata sotto la lettera b) – la corresponsione nell’accantonamento per il trattamento di TFR a partire dall’entrata in vigore della legge 297 del 1982 delle indennità di carattere fisso e continuativo – il giudice adito ha osservato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. VI,17 marzo 1999, n. 316) conduceva al riconoscimento di (sei) voci (ed esclusione di ogni altra indennità): lavoro straordinario al personale turnista dell’esercizio le cui prestazioni straordinarie siano programmate in anticipo; le indennità di diaria ridotta e pernottamento relativamente al personale viaggiante e dei lavori di linea per il quale sia sistematica l’utilizzazione in località diverse dalla propria residenza di servizio; indennità incentivante e di reperibilità e l’indennità fuori nastro nella misura dell’accordo aziendale dell’11dicembre 1984; indennità di presenza; indennità di spinta e di manovra; premi tariffari.

In detti termini quindi la pretesa dei ricorrenti poteva essere riconosciuta. Del resto, l’art.1 l. n. 297 del 1982 ha sostituito l’art. 2120 Cod. civ. abbandonando il requisito della continuità e sostituendolo con quello della non occasionalità (perciò non ogni voce retributiva può ricomprendersi ai fini in questione, ma solo quelle con carattere fisso e predeterminabile ex ante, come le indennità dianzi ricordate); che infine le stesse F.A.L. hanno dichiarato la disponibilità al riconoscimento formale della avanzata pretesa in relazione alla voci ora trascritte.

Con l’appello in trattazione i ricorrenti chiedono:

– il ricalcolo della loro indennità di buonuscita mediante la inclusione delle seguenti voci: lavoro straordinario; indennità di presenza; l’indennità domenicale; EDR;

il ricalcolo del loro TFR mediante la inclusione delle seguenti voci: indennità di presenza d cui all’accordo 4 maggio 1992; premio di produttività – premio di risultato di cui all’accordo dell’1 settembre 1997; premio di produttività di cui all’accordo 22 ottobre 1998.

Entrambe le parti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive domande.

All’udienza del 13 luglio 2010 il ricorso e stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

La domanda relativa al ricalcolo della buonuscita, con l’inclusione delle voci indicate in fatto, è inammissibile in quanto formulata per la prima volta in appello. Manca qualsiasi riferimento, nella sentenza appellata, a un’esplicita richiesta contenuta nell’atto introduttivo di giudizio. Né, d’altra parte, l’appello contiene censure per eventuali omissioni di pronuncia da parte del giudice di primo grado.

Per quanto attiene alla richiesta di ricalcolo del trattamento di fine rapporto, mediante la inclusione delle voci indicate in fatto, la Sezione non può che confermare l’orientamento espresso con la decisione 25 marzo 1999, n. 319.

Non vi ha dubbio sul fatto che la disciplina dell’indennità di buonuscita sia diversa da quella dell’indennità di fine rapporto, per cui le voci stipendiali da prendere in considerazione per calcolare l’una non devono necessariamente essere prese in considerazione per determinare l’altra.

Nel trattamento di fine rapporto devono essere computate, a mente dell’art. 2120 Cod. civ. – nel quale il riferimento alla continuità è stato sostituito, ai sensi della legge 29 maggio 1982, n. 297, da quello della non occasionalità – tutte le somme corrisposte al lavoratore, in dipendenza dell’opera prestata, in via obbligatoria, fissa e non occasionale, con correlativa esclusione degli emolumenti legati a prestazioni di carattere atipico. In applicazione di detto principio di fondo il Tribunale amministrativo ha riconosciuto il computo delle sole indennità caratterizzate dal crisma della regolarità e obbligatorietà in rapporto al particolare tipo di prestazione resa. Segnatamente, il computo del compenso per lavoro straordinario è stato riconosciuto per il personale adibito in via continuativa all’espletamento di detta attività, ossia al personale turnista dell’esercizio (cfr. al riguardo Cass., lav., 27 maggio 1996, n. 5935; 25 agosto 1997, n. 7966, in punto di computo ex lege 29 maggio 1982, n. 297, dello straordinario fisso). Del pari le indennità di trasferta, di diaria ridotta e di pernottamento sono state considerate ricomprensibili nella base di calcolo relativamente alle particolari figure professionali (personale viaggiante e dei lavori di linea) per il quale le attività retribuite con dette voci hanno il carattere della regolarità e della continuità (cfr., per le indennità di trasferta, Cass. 6 febbraio 1990, n. 825). Analoghe considerazioni devono svolgersi per le altre indennità il cui computo è stato riconosciuto dal primo giudice, corrisposte con i citati caratteri della continuità e della obbligatorietà.

In ogni caso, e per completezza di esposizione, le indennità indicate dagli appellanti e da computare ai fini del trattamento di fine rapporto sono tutte successiva all’anno 1991, anno in cui è stato incardinato il giudizio innanzi il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, cosicché quel giudice, in assenza di una domanda integrativa debitamente notificata, non aveva alcun obbligo di prenderle in considerazione.

Il ricorso va pertanto respinto.

Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello in epigrafe indicato.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-03-2011, n. 5740 Causa Contratto

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Svolgimento del processo

V.G., premesso di essere debitore in forza di un rapporto usuraio di G.S., a cui aveva conferito una procura a vendere un proprio immobile sito in (OMISSIS), procura che il creditore aveva effettivamente utilizzato trasferendo fittiziamente il bene alla propria moglie C.M. R. con atto stipulato a mezzo del notaio Ch.Va. in data 6 maggio 1998, convenne dinanzi al Tribunale di Milano G.I., C.R.M. e Ch.Va., chiedendo che L’atto di compravendila fosse dichiarato nullo per violazione del divieto del patto commissorio ovvero, in subordine, che venisse annullato, previa dichiarazione che esso era affetto da simulazione relativa, ai sensi dell’arT. 1395 cod. civ., in quanto contratto dal rappresentante con se stesso, o, in ulteriore subordine, che il G. fosse condannato a versargli il prezzo della vendita, pari all’importo di l. 280.000.000; chiese inoltre che il notaio rogante la compravendita fosse condannato al risarcimento del danno per avere incluso nell’atto anche il cortile antistante l’immobile, bene che non era compreso nella procura da lui rilasciata.

Si costituirono in giudizio i convenuti opponendosi alle domande contro di loro rispettivamente proposte e i coniugi G.I. e C.M.R. chiedendo altresì, in via riconvenzionale, la condanna dell’attore alla restituzione del debito di L. 280.000.000.

Il giudice di primo grado, disattese nel corso dell’istruttoria le richieste di prove orali avanzate dalle parti, respinse la domanda principale di nullità del contratto di compravendita per violazione delle divieto di patto commissorio e quella avanzata dall’attore nei confronti del notaio Ch.; accolse invece quella di annullamento della compravendita ai sensi dell’art. 1395 cod. civ., previa dichiarazione di simulazione del contratto, nonchè la domanda riconvenzionale dei convenuti G. e C., condannando l’attore al pagamento della somma richiesta, oltre interessi legali dalla data del 14 maggio 1996 al saldo.

Interposto gravame da parte del solo V., con sentenza n. 1112 del 26 aprile 2005 la Corte di appello di Milano confermò in toto la decisione impugnata, affermando, con riferimento alla riproposta domanda di nullità della compravendita ex art. 2744 cod. civ., che, nella specie, difettavano i presupposti del patto commissorio, per insussistenza di un nesso di interdipendenza tra l’assunzione del debito e la procura a vendere l’immobile, atteso che quest’ultima, nelle intenzioni delle parti, era destinata non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene in capo al creditore nel caso di inadempimento del debito, ma di consentire la vendita del bene a prezzo di mercato, con obbligo del creditore di versare al debitore la differenza in caso di realizzo ad un prezzo superiore al debito stesso; in relazione all’accoglimento della domanda riconvenzionale, il giudice di secondo grado ritenne invece che non era stata data la prova nè degli interessi usurari nè della eccepita restituzione del debito, confermando la valutazione del primo giudice di inammissibilità delle prove orali articolate dalla parte attrice su questi punti; ritenne infine infondato il gravame avverso il rigetto della domanda proposta dal V. nei confronti del notaio Ch., assumendo che l’accoglimento della domanda di annullamento del contratto da questi rogato determinava il venir meno dell’interesse ad affermare l’eventuale responsabilità del professionista ed all’accertamento dell’eventuale danno conseguente.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 17 maggio 2005, con atto notificato il 5 e 6 luglio 2005, ricorre V.G., affidandosi a cinque motivi.

Con distinti controricorsi resistono in giudizio sia G. I. e C.R.M., che Ch.Va.. Il ricorrente ed il controricorrente Ch. hanno depositato memorie.
Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 1418, 1344 e 2744 cod. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto essenziale della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di nullità del contratto di compravendita per violazione del divieto del patto commissario. Ad avviso del ricorso il giudice territoriale è pervenuto a questa conclusione in forza di una non corretta interpretazione del divieto sancito dall’art. 2744 cod. civ., il quale va esteso ad ogni atto negoziale che abbia il fine di far conseguire al creditore la proprietà del bene del debitore in caso di inadempimento del debito. Nel caso di specie, il nesso di interdipendenza tra l’assunzione del debito e la procura a vendere emergeva ictu oculi, essendo stato nel corso del giudizio pienamente provato che il V. era stato costretto a rilasciare la procura a vendere al G. nell’ambito di un rapporto debitorio, che la suddetta procura era stata rilasciata a garanzia delle somme mutuate e che la procura a vendere era stata in concreto utilizzata dal creditore al fine di acquisire, dietro lo schermo della moglie, l’effettiva proprietà del bene. La decisione di secondo grado è quindi incorsa anche nel denunziato vizio di motivazione, in quanto il giudicante, da un lato, ha sostenuto di condividere un’interpretazione estensiva dell’art. 2744 cod. civ., affermando la sola necessità dell’interdipendenza tra i due negozi, dall’altro, contraddicendosi, ha negato che la procura a vendere potesse considerarsi atto negoziale idoneo a far pervenire al creditore la proprietà del bene, limitandosi sul punto ad osservare che essa era destinata "a realizzare una vendita effettiva e al reale valore di mercato", ma senza rilevare che, nel concreto, essa era servita al creditore per intestarsi il bene attraverso lo schermo della sua vendita simulata alla moglie.

Nel proprio controricorso G.I. e C.M.R. eccepiscono l’inammissibilità del motivo, assumendo che la controparte non ha interesse a coltivare la domanda di annullamento del contratto per violazione del divieto di patto commissorio, atteso che il contratto di compravendita impugnato risulta essere stato già annullato in accoglimento della domanda subordinata ex art. 1395 cod. civ., in forza di una statuizione su cui, non essendo stata impugnata, si è ormai formato il giudicato. Il primo motivo di ricorso è fondato.

L’eccezione preliminare di inammissibilità del motivo per difetto di interesse non può essere accolta, risultando pacifico dall’esposizione delle vicende del processo che la domanda di nullità ex art. 2744 cod. civ. è stata proposta dall’attore in via principale e quella di annullamento ex art. 1395 cod. civ. in via soltanto subordinata. Questo ordine di proposizione delle domande, che costituisce esplicazione del diritto di azione in giudizio ( art. 24 Cost.), conferisce evidentemente alla parte il diritto di insistere sull’accoglimento della domanda principale fino all’esaurimento di tutti i gradi di giudizio, senza che su detto interesse possa minimamente incidere l’avvenuto accoglimento della domanda proposta in via subordinata e la mancata proposizione contro di essa di impugnazione. In disparte poi il rilievo che la differenza degli effetti sostanziali riconducibili alla dichiarazione di nullità del contratto rispetto alla pronuncia di annullamento conferisce un interesse anche obiettivo alla parte di insistere sulla propria richiesta.

Tanto precisato, quanto al merito del motivo, si osserva che il giudice territoriale ha escluso nel caso di specie che i negozi posti in essere dalle parti volessero aggirare il divieto del patto commissorio per l’assenza del nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di debito firmata dai V. e la procura a vendere, dal momento che quest’ultima "era destinata non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene in favore di G. stesso o di chi per lui, ma a realizzare una vendita effettiva e al reale valore di mercato del bene, tant’è che, stimando il bene di valore superiore all’ammontare del debito nei confronti di G., in caso di cessione dell’immobile si prevedeva che G. trattenesse per sè la somma capitale corrispondente al proprio credito, versando a V. la differenza".

Questo ragionamento non appare condivisibile, risultando del tutto inappagante l’indagine con cui il giudice territoriale ha escluso l’eventuale nesso di interdipendenza tra gli atti negoziali posti in essere dalle parti, nonchè la dedotta finalità degli stessi di realizzare il trasferimento del bene del debitore in caso di suo inadempimento.

In materia di violazione del divieto del patto commissorio, questa Corte ha già avuto modo di precisare come non sia possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità, occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l’illecita coercizione del debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell’altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione.

Più volte, di conseguenza, è stata ritenuta la nullità, ex art. 1344 cod. civ., per frode alla legge, in quanto finalizzati alla violazione o elusionedel divieto del patto commissorio, di atti negoziali di per se astrattamente leciti ovvero di operazioni negoziali complesse che, pur in assenza di formale costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato pagamento da parte del debitore, così costretto a sottostare alla volontà della controparte (Cass. n. 5426 del 2010; Cass. n. 437 del 2009; Cass. n. 2285 del 2006). Nel caso in cui il debitore abbia accettato preventivamente – quindi al di fuori di una concordata datio in solutum successiva all’inadempimento – la possibilità di alienazione del proprio bene a seguito di inadempimento, viene infatti a mancare la causa tipica dello scambio a parità di condizioni, che connota il contratto di compravendita e si verte in ipotesi di causa illecita, che vizia e rende nullo il negozio o l’operazione negoziale conclusa.

In applicazione di questi principi, si è ritenuto quindi, per quanto qui specificatamente interessa, che anche una procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione de mutuo, comporti violazione del divieto del patto commissorio, qualora si accerti che essa sia funzionalmente connessa con il mutuo (Cass. n. 6112 del 1993) collegamento questo necessario dal momento che il patto commissorio è configurabile solo quando il debitore sia costretto al trasferimento di un bene a tacitazione della sua obbligazione e non anche ove tale trasferimento sia frutto di una scelta (Cass. n. 4064 del 1995; Cass. n. 4283 del 1990). La considerazione che il patto commissorio costituisce un vizio che attiene alla causa del contratto, che viene piegata all’interesse del creditore ad acquisire una garanzia reale diretta, autonoma ed atipica sul bene del debitore, con conseguente snaturamento della causa tipica del negozio di scambio, autorizza d’altra parte l’interprete a svolgere, ai fini di tale accertamento, un’indagine penetrante, che non si può fermare agli aspetti formali del negozio, ma deve inoltrarsi anche a verificarne la causa in concreto. In particolare, ciò richiede che, in caso di operazione complessa, i singoli atti vengano valutati alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale e che a tal fine venga apprezzata ogni circostanza di fatto relativa agli atti compiuti e, non ultimo, il risultato concreto (la funzione) che, al di là delle clausole negoziali ambigue o non vincolanti, l’operazione negoziale nel suo complesso era idonea a produrre ed ha in concreto prodotto (cfr.

Cass. n. 9466 del 2004).

Ora, se si legge la decisione impugnata alla luce di tali principi, non si sfugge alla conclusione che essa li abbia sostanzialmente disattesi. La Corte territoriale ha respinto la prospettazione dell’esistenza di un patto commissorio limitandosi ad osservare che non era ravvisabile un nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di assunzione del debito sottoscritta da V. e il rilascio della procura al creditore a vendere il proprio immobile dal momento che quest’ultima era effettivamente diretta a vendere l’immobile al reale valore di mercato, tanfo che era prevista la consegna al rappresentato del prezzo di vendita per la parte eventualmente eccedente l’ammontare del suo debito. Si tratta di un’indagine e di una motivazione, come detto, inappaganti. In particolare, ciò che difetta è una lettura complessiva degli atti posti in essere dalle parti, che costituisce, come sopra si è evidenziato, nel caso di operazioni complesse, il momento centrale dell’indagine volta ad accertare la presunta violazione del divieto di patto commissario. La Corte territoriale ha omesso di svolgere un’interpretazione funzionale e complessiva del comportamento negoziale delle parti, di accertare che tipo di relazione o collegamento esse avesse inteso stabilire tra la dichiarazione di debito e la procura a vendere l’immobile ed il risultato concreto da esse voluto, mancando, a tal fine, di prendere in considerazione e valorizzare non solo i singoli atti negoziali, con le relative clausole, ma anche ogni elemento o circostanza di fatto, anche temporale, in presenza della quale erano stati posti in essere, nonchè del risultato con essi in concreto voluto, anche alla luce del comportamento successivo delle parti (risulta ad esempio trascurato il dato secondo cui la dichiarazione di debito e la procura a vendere risultano entrambe sottoscritte lo stesso giorno, il 14 maggio 1996, nonchè la circostanza che la procura a vendere ha avuto esecuzione, attraverso la stipulazione del rogito impugnato, circa due anni dopo, il 6 maggio 1998). Trattasi, per le ragioni sopra esposte, di accertamenti tutti necessari al fine di dare risposta al quesito se in realtà le parti con la procura a vendere l’immobile intendessero effettivamente trasferire a terzi l’immobile al fine di realizzare una provvista da destinare all’estinzione del debito ovvero, come ritenuto dal ricorrente, costituire un garanzia reale a favore del creditore tale da consentire allo stesso, in caso di mancata restituzione della somma dovuta, di acquisire la proprietà del bene o comunque il potere di disporne.

Il motivo va pertanto accolto.

Il secondo motivo di ricorso denunzia "violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 2733 c.c.; ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia; in relazione alla infondatezza della domanda riconvenzionale dei convenuti C. e G. "Con esso il ricorrente lamenta che la Corte di appello. Dell’accogliere la domanda riconvenzionale della controparte di restituzione della somma mutuata, non abbia correttamente valutato le prove documentali in atti, che dimostravano chiaramente che il prestito era stato dato ad interessi usurari e che la procura a vendere l’immobile del debitore era stata data nell’ambito di tale rapporto di mutuo ed al fine di costituire una garanzia del prestito, in tale senso depongono, ad avviso del ricorrente, le dichiarazioni rese dalle controparti dinanzi al pretore di Milano nel corso del giudizio possessorio da lui intentato e le stesse ammissioni fatte nella loro comparsa di risposta, cui va riconosciuto valore confessorio.

Il terzo motivo di ricorso denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione o falsa applicazione dell’art. 2724 cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per avere disatteso, con motivazione facente mero rinvio a quella dell’ordinanza di rigetto adottata dal giudice di primo grado, le istanze di prova orale articolate dall’attore al fine di opporsi alla domanda riconvenzionale di restituzione del debito, volte a dimostrare che esso era stato integralmente rimborsato, omettendo per di più di pronunciarsi sullo specifico motivo di appello che aveva contestato la legittimità e fondatezza della decisione di primo grado sulle istanze di prova.

I due motivi di ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente in ragione della loro connessione oggettiva, sono entrambi infondati.

In questo senso spinge l’assorbente rilievo che le censure sollevate, che criticano la valutazione operata dal giudice di merito del materiale probatorio raccolto nel corso del giudizio e delle stesse istanze istruttorie della parte, si collegano ad eccezioni svolte dal V. nei confronti della domanda della controparte di restituzione della somma data a mutuo prive del necessario carattere di specificità e concretezza. La difesa del ricorrente appare infatti sul punto, per come riprodotta nel ricorso, eccessivamente generica; si assume, da un parte, che nella somma pretesa sarebbero stati computati interessi usurari e che comunque essa sarebbe stata restituita ne tempo, ma senza invero indicare l’esatto ammontare del prestito ricevuto, dato all’evidenza indispensabile al fine di verificare la sussistenza del tasso di interesse usurario, nè in quali momenti e con quali pagamenti si sarebbe verificata la dedotta restituzione del prestito; nè, merita aggiungere, tali indicazioni appaiono concretamente ricavabili dai capitoli di prova articolati dalla parte e non ammessi dal giudice di merito, che pure il ricorso riproduce. L’onere di provare tali fatti incombeva sicuramente sul ricorrente, ma sul punto è opportuno precisare che l’onere della prova implica anche il preventivo onere di specificare in modo preciso e puntuale i fatti che si ritengono idonei a paralizzare la pretesa della controparte. Ora, poichè le censure sollevate nel ricorso si riferiscono, come sottolineato, alla mancata valutazione ed ammissione delle prove, ne consegue che l’indeterminatezza dei fatti opposti dall’attore alla domanda della controparte si trasmette anche alle relative prove e porta a ritenere generiche e, quindi, inammissibili, le relative doglianze.

Il quarto motivo di ricorso, che denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 116 e 112 cod. proc. civ. e dell’art. 1283 cod. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, lamenta che la sentenza impugnata, in accoglimento della domanda riconvenzionale, abbia condannato il ricorrente anche al pagamento degli interessi legali maturati e maturandi sulla somma da restituire, nonostante che la stessa fosse stata determinata dalle parti computando gli interessi usurari, in aperta violazione del divieto di anatocismo.

La Corte – prosegue il ricorrente – ha poi omesso di pronunciarsi sulla domanda formulata dall’appellante in estremo subordine di compensazione del credito vantato dalla controparte con gli interessi maturati sul prezzo di vendita dell’immobile, mai versato dal G., tra la data del contratto e l’adozione della pronuncia di annullamento di primo grado. Anche questo motivo è infondato.

La prima censura, con cui il ricorrente sostanzialmente lamenta di essere stato condannato anche al pagamento degli interessi usurari, non può essere accolta in quanto la parte, come affermato dal giudice di merito, non ha fornito alcuna prova della convenzione usuraria.

La seconda censura è invece infondata in quanto la richiesta di pagamento degli interessi sulla somma riscossa dal G. a titolo di prezzo sulla vendita dell’immobile si collegava chiaramente all’altra a domanda avanzata dal V. di restituzione del prezzo, domanda proposta in via subordinata e di fatto rimasta assorbita dalla pronuncia di annullamento della vendita, che ha altresì accertato la simulazione dell’atto di trasferimento posto in essere dal G.. Il quinto motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 91 ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere omesso di prendere in considerazione il motivo di appello con cui l’attuale ricorrente assumeva che il giudice di primo grado non poteva limitarsi a rigettare la domanda avanzata nei confronti del notaio in ragione del sopravvenuto annullamento del contratto da questi rogato, ma avrebbe dovuto, sia pure al limitato fine della decisione sulle spese di causa, verificare se tale domanda era o meno fondata o comunque compensare tra le parti le spese di lite. Si assume inoltre che la Corte di appello, condannandolo alla rifusione delle spese pur in assenza di soccombenza sia reale che virtuale, ha violato l’art. 91 cod. proc. civ., adottando sul punto una motivazione contraddittoria, dal momento che, da un lato, ha rilevato che la domanda avanzata nei confronti del notaio era divenuta priva di interesse per effetto dell’annullamento del contratto, dall’altro ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato tale domanda. Il mezzo è infondato.

Il motivo censura la statuizione con cui l’appellante è stato condannato al pagamento delle spese di giudizio nei confronti del notaio Ch., ma non anche il capo della decisione che ha dichiarato la domanda di risarcimento avanzata contro quest’ultimo assorbita dalla pronuncia di annullamento del contratto per mezzo di questi stipulato. Occorre poi chiarire che la domanda di risarcimento era motivata non già perchè il notaio avesse rogato un atto nullo, ma perchè aveva dato corso alla vendita anche di un bene non compreso nella procura a vendere rilasciata dall’attore.

Tanto precisato, la regolamentazione delle spese adottata dal giudice di merito appare giuridicamente corretta, in quanto rispondente al principio di causalità che governa la materia. Questa conclusione si impone non solo perchè il notaio era stato chiamato in causa dall’attore, ma in quanto questi aveva chiesto in via principale che il contratto stipulato tramite il professionista fosse dichiarato nullo o annullato, accettando pertanto la possibilità che, a seguito dell’accoglimento di tali domande, il giudice di merito non si pronunciasse, ritenendola assorbita, sulla successiva domanda di risarcimento del danno. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso e rigettati gli altri. La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Milano che, nel decidere, si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio.

Si rinvengono invece giusti motivi, tenuto conto delle ragioni della decisione, per compensare interamente le spese di giudizio tra il ricorrente ed il Ch..
P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese, ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Compensa le spese di lite tra il ricorrente ed il Ch..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 08-04-2011, n. 8095

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Svolgimento del processo

Con atto notificato il 5.7.97 l’architetto D.R.M. citò al giudizio del Tribunale di Nola la Comunità Montana Vallo di Lauro e Baianese, al fine di sentirla condannare al pagamento della somma di L. 1.532.685.892, quale corrispettivo per la progettazione di un impianto per il trattamento dei rifiuti solidi affidatogli con delibera di giunta del 9.9.88, confermata da quella del commissario regionale ad acta del 6.8.93, o, in subordine, a titolo di indennizzo ex art. 2041 c.c..

La domanda, contestata dalla convenuta, venne respinta sotto ambo i profili dal Tribunale di Nola, con sentenza n. 1845/01, con condanna dell’attore alle spese.

L’appello del soccombente, resistito dall’appellata ha trovato limitato accoglimento nella sentenza 10/17.6.04 della Corte di Napoli, in relazione al solo regolamento delle spese, che sono state interamente compensate per ambo i gradi, confermandosi invece le reiezione delle richieste attrici, ribadita sulla base delle seguenti essenziali considerazioni:

a) la mancanza di un contratto scritto,richiesto ad substantiam R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, ex art. 23, in considerazione della natura pubblica di una delle parti, che avrebbe dovuto essere sottoscritto da parte di un organo rappresentante quest’ultima verso l’esterno;

b) la non configurabilità di tale ultimo requisito nelle delibere richiamate dall’attore,nè in quella 19.12.89 del CIPE di concessione del finanziamento, trattandosi atti interni, preliminari ed autorizzativi, che, quand’anche conosciuti dalla controparte, non sarebbero stati idonei a dar luogo alla formazione del contratto, tanto meno perchè non contenevano alcuna esplicitazione delle clausole regolanti il rapporto;

c) la non invocabilità delle disposizioni sull’arricchimento senza causa, per avere il professionista rilasciato una preventiva dichiarazione scritta, nella quale "nel caso in cui l’opera non venga ammessa al finanziamento o comunque non venga dato corso al conferimento di incarico per la progettazione definitiva… si impegna(va) ad accettare a titolo di rimborso la somma di L. —-", costituente una valida rinuncia al compenso, per l’ipotesi, alternativa all’ammissione al finanziamento, di mancata concessione dello stesso; e tale ipotesi si era verificata perchè la menzionata delibera de CIPE era stata revocata il 3.8.93 e quella del commissario ad acta, emessa nonostante detta revoca, era stata prima sospesa dal Co.Re.Co e poi annullata l’11.11.96 dal medesimo commissario.

Avverso la suddetta sentenza l’arch. D.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi,illustrati con successiva memoria.

Ha resistito l’amministrazione intimata con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce, richiamando l’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, "illogicità della motivazione e violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la corte di merito, da una parte, considerato che il contratto non si era perfezionato e, dall’altro, contraddicendosi, ritenuto lo stesso nullo, in un contesto processuale in cui, peraltro, era stata eccepita solo la nullità.

"Ulteriore difetto di motivazione" sarebbe consistito nell’avere del tutto ignorato la "portata integrativa del patto scritto", circa l’inderogabilità delle tariffe professionali, dedotto dall’appellante.

Il motivo è manifestamente infondato sotto il primo profilo, non sussistendo alcun contrasto logico tra le ragioni d’invalidità dell’assunto rapporto contrattuale ravvisate dai giudici di merito, che, lungi dall’essere tra loro incompatibili, si integrano, evidenziando il difetto nella fattispecie concreta di due indefettibili requisiti, nel concorso dei quali soltanto, secondo principi da decenni consolidati nella giurisprudenza di legittimità, la pubblica amministrazione può validamente impegnarsi sul piano contrattuale: l’esistenza di una manifestazione di volontà, proveniente dall’organo rappresentativo dell’ente e la consacrazione della stessa e della relativa accettazione in atto scritto (v. e plurimis, Cass. 8621/06, 1702/06, 12223/06, 26047/05, 7422/02, 5922/99, 6262/96, 4742/87, quest’ultima con specifico riferimento ad una comunità montana).

Il residuo profilo è inammissibile, per genericità, ai limiti dell’incomprensibilità, e comunque per difetto di rilevanza, rimanendo assorbita dalla dichiarazione di nullità del rapporto la questione, logicamente e giuridicamente subordinatacela derogabilità o meno, nell’ambito dello stesso, delle tariffe professionali.

Con il secondo motivo, deducente violazione e falsa applicazione dell’art. 1418, comma 1, in rel. art. 1350 c.c., R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 16, art. 11 "preleggi" in rel. D.L. n. 66 del 1989, art. 23, comma 4, artt. 2229, 2232, 2233, 1326 e 1327 c.c., riprendendo e sviluppando il precedente, si censura la dichiarazione di nullità dell’assunto contratto, sulla base di ulteriori rilievi, tutti immeritevoli di accoglimento, per le ragioni di seguito rispettivamente esposte:

a) non sussiste alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., considerato che il giudice, rigettando la domanda di pagamento, sulla scorta della pregiudiziale dichiarazione di nullità del rapporto professionale, in quanto invalido sotto il profilo sia della forma, sia della sussistenza dei poteri rappresentativi dell’ente nell’organo, dal quale, secondo la domanda, proveniva la manifestazione di volontà della controparte, non ha sconfinato dai limiti oggettivi del thema decidendum devoluto dalla domanda e dalle eccezioni;

b) non sussiste la violazione degli artt. 1418, 1350, 2229, 2232 e 2233 c.c., perchè, contrariamente a quanto dedotto, già esistevano nell’ordinamento, anche prima dell’emanazione del D.L. n. 66 del 1989, e come ripetutamente precisato nella già citata giurisprudenza di questa Corte cui si rimanda, precise norme (gli R.D. n. 2440 del 1923, artt. 16 e 17) aventi caratteri di specialità rispetto a quelle civilistiche, imponenti, per i contratti della P.A., la forma scritta ad substantiam, provenienza della manifestazione di volontà della parte pubblica, quand’anche agente iure privatorum, dall’organo istituzionalmente munito della relativa rappresentanza esterna, ed il preventivo stanziamento dei fondi;

c) infondata e comunque irrilevante è la censura di falsa applicazione dell’art. 16 sopra citato, sotto il lamentato profilo dell’esigenza di contestualità tra proposta ed accettazione, non solo perchè la stipulazione a distanza non è ammessa per il conferimento di incarichi professionali (v.,tra le altre, Cass. 1702/06, 24826/05, 19301/05, 3042/05, 14570/04), ma anche,e più radicalmente, perchè nella specie la mancanza di un valido accordo non è stata correlata alla non contestualità delle manifestazioni di volontà, bensì alla non provenienza del conferimento dell’incarico da parte dell’organo rappresentativo della Comunità Montana;

d) l’evidenziato carattere di specialità delle norme previgenti al citato D.L., determinanti la non valida instaurazione del rapporto,comportano l’inconferenza della censura di violazione dell’art. 11 preleggi, secondo cui sarebbe stato applicata retroattivamente la disciplina contenuta in tale ultimo intervento legislativo;

e) le considerazioni sub b),sulla specialità delle norme disciplinanti i contratti della P.A. comportano il reiettivo assorbimento sia delle censura di mancata applicazione delle regole contenute negli artt. 1326 e 1327 c.c., sulla conclusione del contratto e sulla "valenza dell’esecuzione dello stesso come accettazione della proposta", non essendo configurabile in subiecta materia una stipulazione per facta concludentia (v. tra le tante le già citate Cass. 1702/06, 3042/05, 19301/05, 24826/05), sia di quella di mancata osservanza dell’inderogabilità dei minimi tariffaria ritenuti sensi dell’art. 2233 c.c., questione che non si pone in assenza di un valido rapporto.

I successivi motivi di ricorso attengono tutti al mancato accoglimento della subordinata domandaci indennizzo per l’indebito arricchimento conseguito dalla comunità montana.

Con il terzo, in particolare, si lamenta illogicità e contraddittorietà della motivazione, su un punto decisivo, per avere la corte partenopea, posto a fondamento del rigetto della domanda, sotto il profilo dell’art. 2041 c.c., il rilascio della dichiarazione, in precedenza riportata al punto c) della narrativa, così contraddittoriamente attribuendo efficacia ad un atto di natura negoziale, pur avendo affermato la nullità del contratto.

Il motivo è fondato,poichè la dichiarazione in questione, a parte ogni considerazione sulla sua dubbia valenza di totale rinunzia ad ogni forma di compenso o indennizzo (risultando testualmente formulata in termini di accettazione preventiva e condizionata di un compenso ridotto, peraltro rimasto indeterminato nell’essenziale elemento del quantum), in quanto inserita nell’ambito di una convenzione totalmente nulla, per difetto dei prescritti requisiti formali, come tale correttamente dichiarata improduttiva di alcun effetto giuridico tra le parti, era anch’ essa inficiata datale radicale invalidità e, pertanto, non avrebbe potuto essere in alcun modo utilizzata dai giudici di merito, sia pure ai fini dell’esclusione del ristoro indennitario di cui all’art. 2041 c.c..

Con il quarto motivo si lamenta omessa motivazione, in funzione della suddetta subordinata domanda, su ulteriori punti decisivi, per avere la corte di merito respinto la stessa sui rilievi che il finanziamento non era stato concesso e l’opera non realizzatacela tener conto che era stato documentato il riconoscimento dell’utilità della prestazione e che la revoca del finanziamento, in effetti concesso in un primo tempo, era intervenuta per inerzia della Comunità Montana nell’individuazione dell’area ..nonostante le sollecitazioni del progettista.

Anche tale motivo è fondato, evidenziando un difetto di prospettiva della valutazione compiuta dai giudici di merito, i quali non hanno tenuto conto che la concessione del finanziamento ai fini della realizzazione dell’opera pubblica costituiva si l’obiettivo finale e mediato del conferimento dell’incarico, ma che il relativo risultato tuttavia, esclusa la validità della clausola di "rinuncia" in precedenza menzionata, non poteva esaurire l’utilità conseguita ed, eventualmente, riconosciuta dall’ente, posto che già l’aver acquisito la progettazione ed allegato la stessa ai fini della pratica de qua (quale che ne fosse l’esito) avrebbe integrato, in termini di risparmio di una spesa funzionale al conseguimento di una finalità pubblica, l’utilitas richiesta dall’art. 2041 cod. civ. (in tal senso v. Cass. nn. 16577/08, 12580/05, 1884/02, 6981/86).

L’indagine, dunque, è stata carente, non tanto perchè si è data per scontata una circostanza controversa, quella secondo cui il finanziamento non fosse stato concesso (mentre l’appellante assumeva che era stato revocato per inerzia dell’amministrazione), quanto per aver omesso di accertare se gli elaborati progettuali fossero stati allegati alla relativa richiesta, con riconoscimento dell’utilità a tal fine da parte degli organi deputati a manifestare la volontà dell’ente pubblico.

Con il quinto motivo si deduce insufficienza della motivazione e violazione e falsa applicazione degli artt. 1353, 1362, 1363 e 1370 c.c. e art. 132 c.p.c., per aver la corte sostanzialmente ritenuto, senza spiegarne le ragioni e non osservando i citati canoni ermeneutici, che la suddetta dichiarazione integrasse una rinuncia al compenso e non una condizione dello stesso.

Con il sesto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1359 e 2232 c.c. in rel. all’articolo unico della L. n. 340 del 1976 e all’art. 36 Cost., aver ritenuto valida detta dichiarazione, in violazione dei principi del diritto al compenso dell’opera professionale, all’inderogabilità dei minimi tariffari ed alla non condizionabilità del corrispettivo ad eventi afferenti al buon esito della prestazione, non costituente obbligazione di risultato.

Con il settimo motivo si lamenta, infine, violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., per non avere la corte tenuto conto del risultato utile conseguito dalla Comunità Montana e del relativo riconoscimento,essendosi la stessa servita del progetto ai fini della pratica di finanziamento.

I suesposti rimanenti mezzi d’impugnazione rimangono assorbiti, deducendo questioni già comprese nei due motivi accolti, o rispetto agli stessi subordinate.

La sentenza impugnata va, conclusivamente, cassata in relazione alle accolte censure, con rinvio per nuovo esame della subordinata domanda ex art. 2041 c.c., ad altra sezione della corte di provenienza, cui si demanda anche il regolamento delle spese del grado di legittimità.
P.Q.M.

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo ed il quarto, dichiara assorbiti i rimanenti, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-05-2011, n. 10116 Responsabilità civile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.

P.S. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli L.L. e Augusta Assicurazioni s.p.a., per ivi sentirli condannare a risarcirgli i pregiudizi subiti nel sinistro verificatosi il (OMISSIS). Espose che quel giorno, mentre era fermo a un semaforo alla guida della sua auto, era stato violentemente tamponato dal veicolo di proprietà del convenuto e che l’urto, oltre a danneggiare la vettura, gli aveva provocato gravi lesioni.

Costituitasi in giudizio, la società assicuratrice contestò l’avversa pretesa.

Con sentenza del 15 novembre 2002 il giudice adito condannò i convenuti in solido al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 34.060,77, oltre accessori e spese. Su gravame principale del P. e incidentale della società assicuratrice, la Corte d’appello, in data 27 febbraio 2006, per quanto qui interessa, ha condannato Augusta Assicurazioni s.p.a. al pagamento dell’ulteriore importo di Euro 7.555,47.

Avverso detta pronuncia propone ricorso per cassazione, illustrato anche da memoria, P.S. formulando un unico motivo e notificando l’atto ad Augusta Assicurazioni s.p.a. e a L. L..

Solo la prima ha resistito con controricorso, mentre nessuna attività difensiva ha svolto l’altro intimato.
Motivi della decisione

1 Con l’unico mezzo l’impugnante lamenta vizi motivazionali ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5. Deduce che nei motivi di gravame non aveva censurato la diagnosi del secondo consulente, che aveva sostanzialmente confermato quella dell’esperto nominato in prima battuta, ma la corrispondenza alle affezioni riscontrate dei danni da postumi permanenti, quantificati nella misura del 7-8%. Evidenzia che, secondo il motivato parere del tecnico di parte, la valutazione della psicopatologia del P., assimilabile per analogia a una nevrosi ipocondriaca di media entità, variava, in base alle Tabelle di invalidità civile di cui al D.M. 5 febbraio 1992, da un minimo del 21% a un massimo del 30%. Denuncia quindi che il decidente avesse inteso la doglianza come volta a contestare il tipo di lesioni e di disturbi lamentati dall’infortunato per effetto del sinistro, non già la valutazione della loro incidenza sul danno biologico.

2 Le critiche non hanno alcun fondamento.

Nel motivare il suo convincimento, ha osservato il decidente che correttamente il Tribunale si era conformato alle conclusioni del secondo consulente, essendo questi, a differenza del primo, uno specialista in neurologia e avendo inoltre sottoposto il P. a un accurato esame, corroborato da indagini specialistiche e da una visita psichiatrica presso il Dipartimento di Medicina Pubblica e della Sicurezza Sociale dell’Università di Napoli. In tale contesto la Corte ha reputato condivisibile sia la diagnosi di trauma cranico chiuso, come conseguenza del sinistro, sia l’individuazione dei postumi permanenti in un discreto disturbo nevrotico ansioso- depressivo con significativi aspetti di tipo ipocondriaco e cefalea post-traumatica di carattere tensivo cronico. Considerato tuttavia che erano state escluse rilevanti ripercussioni di tali affezioni sull’inserimento sociale e familiare dell’infortunato, ha ritenuto corretta la quantificazione del danno biologico da postumi permanenti nella misura del 7-8%. 3 A fronte di tale apparato motivazionale ritiene il collegio che non abbia fondamento il denunciato travisamento dei motivi di gravame e che i rilievi formulati in ricorso si risolvano, in definitiva, in critiche di carattere valutativo, inammissibili in questa sede.

E’ del resto consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio per cui, quando il giudice di merito aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella sua relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, di talchè non è necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni degli esperti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perchè incompatibili con le argomentazioni accolte. Le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere allegazioni difensive, che non possono integrare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (confr.

Cass. civ. 9 gennaio 2009, n. 282; Cass. civ. 3 aprile 2007, n. 8355).

4 Non è superfluo aggiungere, per completezza, che le previsioni di cui alla Nuova tabella indicativa delle percentuali d’invalidità per le minorazioni e malattie invalidanti sulla base della classificazione internazionale dell’organizzazione mondiale della sanità, di cui al D.M. 5 febbraio 1992, n. 147, richiamato dal ricorrente, distinguendo i disturbi nevrotici e psichici in lievi, medi e gravi, non prevedono tra malattia diagnostica e percentuale di invalidità alcun automatismo, ancorchè relativo, che prescinda dalla gravità dell’affezione, previsione che sarebbe del resto assolutamente illogica. In tale contesto il ricorso deve essere integralmente rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00 (di cui Euro 200,00 per spese), oltre I.V.A. e C.P.A., come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.