Cass. civ. Sez. VI, Sent., 19-12-2011, n. 27346 Somministrazione di energia elettrica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza depositata il 19 gennaio 2010 il Tribunale di Napoli rigettò l’appello proposto da Enel Distribuzione S.p.A. avverso la sentenza del Giudice di Pace di Barra che l’aveva condannata a risarcire a A.A. il danno da inadempimento del contratto di somministrazione di energia elettrica.

2. – L’inadempienza venne ravvisata nel mancato rispetto del provvedimento dell’Autorità Garante per l’Energia Elettrica e il Gas che aveva previsto l’obbligo per il fornitore di predisporre una modalità gratuita di pagamento dell’energia, in tal senso integrando – ex art. 1339 c.c. – il contratto di somministrazione.

3 – Avverso la suddetta sentenza Enel Servizio Elettrico S.p.A., nella qualità di procuratore speciale di Enel Distribuzione S.p.A. ed Enel Servizio Elettrico S.p.A., nella qualità di beneficiaria di un ramo d’azienda di Enel Distribuzione S.p.A., hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

L’utente intimato non ha espletato attività difensiva.

Motivi della decisione

1.- Il primo motivo di ricorso adduce "violazione e falsa applicazione della L. 14 novembre 1995, n. 481, art. 2", assumendosi che la Delib. n. 200 del 1999 e particolarmente l’art. 6, comma 4, di essa non aveva avuto l’effetto di integrare il contratto di utenza, perchè la L. n. 481 del 1995 e in specie l’art. 2, comma 12, lett. h) di essa attribuirebbe questo effetto solo alle delibere in tema di produzione ed erogazione di servizi, mentre il citato comma 4 dell’art. 6 avrebbe riguardato materia estranea a tali concetti.

Il secondo motivo lamenta "difetto di motivazione in ordine ad un fatto decisivo e controverso" e si lamenta un’omessa motivazione del Tribunale su come la previsione dell’art. 6, suddetto comma 4, potesse essere ricondotta all’ambito del citato art. 2, comma 12, lett. h).

Il terzo motivo denuncia "violazione e falsa applicazione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 12, lett. H) in relazione all’art. 1196 c.c.; insufficiente e contraddittoria motivazione" in quanto il Tribunale ha attribuito alla AEEG un inesistente potere di derogare l’art. 1196 c.c..

Il quarto motivo adduce "violazione e falsa applicazione dell’art. 1339 c.c.", sotto il profilo che erroneamente il Tribunale avrebbe attribuito comunque efficacia integrativa del contratto all’art. 6, comma 4, citato, invocando l’art. 1339 c.c.: tale norma non poteva, invece, trovare applicazione, perchè rende possibile l’inserzione automatica di clausole del contratto solo in sostituzione di quelle difformi previste e non invece, l’inserimento in assenza di una specifica pattuizione contrattuale. D’altro canto, l’inserimento non era stato possibile anche perchè l’inosservanza della delibera da parte dell’Enel era espressamente sanzionabile dall’Autorità ai sensi della citata L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 20, lett. c).

Il quinto motivo lamenta"insufficiente motivazione su fatti decisivi e controversi", rappresentati dall’obbiettiva inidoneità dell’art. 6, comma 4, a porre un ipotetico precetto integrativo, sotto il profilo che non risultava determinato in che cosa dovesse consistere la modalità gratuita di pagamento, tenuto conto che il pagamento presso gli sportelli siti nei capoluoghi di provincia poteva costringere l’utente a sobbarcarsi spese ben maggiori di quelle del pagamento di un Euro tramite il bollettino postale.

2.- I primi cinque motivi, afferendo alla questione della idoneità dell’art. 6, comma 4, della nota deliberazione a svolgere efficacia integrativa del contratto, possono essere considerati unitariamente, con l’avvertenza che le considerazioni che si verranno svolgendo ed approderanno alla conclusione della sua inidoneità si giustificano sia a livello interno alla L. n. 481 del 1995, sia considerandola in riferimento al meccanismo civilistico di cui all’art. 1339 c.c., espressamente evocato dall’Enel, sia considerandola in riferimento alla norma sull’integrazione del contratto ai sensi dell’art. 1374 c.c., evocata fugacemente dalla decisione impugnata, ma non nei motivi della ricorrente.

3.- Il Collegio ritiene che l’art. 6, comma 4, della deliberazione non abbia determinato in alcun modo nè l’inserimento della relativa previsione nel contratto di utenza, nè l’integrazione di esso.

Queste le ragioni.

3.1 – Deve innanzitutto ritenersi che non è condivisibile la prospettazione dell’Enel secondo cui l’art. 2, comma 12, lett. h) sarebbe da interpretare nel senso che le deliberazioni adottate dalF A.E.G.G. ai sensi di essa (fra le quali rientra quella di cui all’art. 6, comma 4) possano svolgere efficacia integrativa dei contratti di utenza individuali, attraverso la mediazione dell’integrazione del regolamento di servizio predisposto dal concessionario, soltanto per quanto attiene alla produzione ed alla erogazione del servizio, intese come relative all’esecuzione della prestazione del concessionario del servizio e non invece quanto alle modalità di esecuzione della prestazione dell’utente, come nella specie la modalità dell’adempimento. Questa lettura della norma non appare conforme alla sua corretta esegesi sia sul piano letterale sia su quello teleologico.

3.2 – Le ragioni sono le seguenti. Va premesso che la L. n. 481 del 1995, art. 1, comma 1, (recante: "Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità"), prevede, sotto la rubrica "Finalità" che "Le disposizioni della presente legge hanno la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità, di seguito denominati "servizi" nonchè adeguati livelli di qualità nei servizi medesimi in condizioni di economicità e di redditività, assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, tenuto conto della normativa comunitaria in materia e degli indirizzi di politica generale formulati dal Governo. Il sistema tariffario deve altresì armonizzare gli obiettivi economico-finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse".

Il lettore della norma percepisce fra le finalità della legge v’è anche quella di promuovere "la tutela degli interessi di utenti e consumatori". Il successivo art. 2, comma 12, dopo avere previsto che "Ciascuna Autorità nel perseguire le finalità di cui all’articolo I svolge le seguenti funzioni", che poi provvede ad elencare in una serie di lettere, nella lett. h) dispone che l’A.E.G.G. "emana le direttive concernenti la produzione e l’erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi, definendo in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire all’utente, sentiti i soggetti esercenti il servizio e i rappresentanti degli utenti e dei consumatori, eventualmente differenziandoli per settore e tipo di prestazione; tali determinazioni producono gli effetti di cui al comma 37".

Ora, la struttura di questa norma consente di affermare che dall’esercizio da parte dell’A.E.G.G. del potere da essa previsto possa senz’altro derivare una integrazione del contratto di utenza ai sensi dell’art. 1339 c.c. (possibile anche senza una sostituzione di clausola prevista, sostituzione che può, comunque, essere anche solo parziale e, quindi, modificativa). Il punto da chiarire concerne, per un verso la definizione dell’ambito oggettivo di tale possibile integrazione e, per altro verso l’individuazione delle condizioni in presenza delle quali l’esercizio del potere può avere l’effetto integrativo.

Che in astratto l’integrazione possa avvenire si desume dal fatto che il potere di cui alla norma in esame è potere esercitarle attraverso atti di natura certamente amministrativa, qualificabili, allorquando abbiano carattere normativo, cioè idoneità a prescrivere comportamenti ai soggetti esercenti, come regolamenti propri del settore cui appartiene il singolo servizio e cui soprintende la specifica autorità, oppure, se si da rilievo alla limitatezza della platea di detti soggetti ed al loro carattere predefinito in un dato momento, e da tanto si inferisca la mancanza del carattere dell’astratta indeterminatezza dei soggetti destinatari, come atti amministrativi precettivi collettivi, cioè diretti verso soggetti determinati. Poichè tali atti sono emanati sulla base di una previsione di legge, allorchè il loro profilo funzionale ed il loro contenuto possa essere considerato come determinativo di una clausola rispetto al contratto di utenza, l’applicabilità dell’art. 1339 c.c. appare in linea generale giustificata, perchè, quando detta norma allude alle "clausole" imposte dalla legge non si riferisce soltanto al caso nel quale la legge individui essa stessa direttamente la clausola da inserirsi nel contratto (come sarebbe stato se il Codice avesse richiesto che la clausola sia prevista "direttamente" o "espressamente" dalla legge), ma allude anche all’ipotesi in cui la legge preveda che l’individuazione della clausola sia fatta da una fonte normativa da essa autorizzata.

Il che accade nella specie, poichè la previsione di legge dell’art. 2, comma 12, lett. h), nell’attribuire all’autorità e fra queste all’A.E.G.G., il potere di direttiva – se si ritiene che tale potere possa concretarsi nell’individuare clausole dei contratti di utenza – avrebbe appunto l’indicata funzione autorizzatoria, nel senso che la direttiva determinerebbe l’integrazione del contratto in quanto abilitatavi da una previsione di legge. E’ vero che nella norma non v’è alcun riferimento ai contratti di utenza. Tuttavia, la mancanza di tale riferimento non è affatto decisiva, perchè l’ultimo inciso della norma, prevedendo che le determinazioni dell’autorità producano gli effetti del successivo comma 37, consente che l’integrazione dei contratti di utenza possa avvenire mediatamente.

L’art. 2, comma 37, infatti, stabilisce che "il soggetto esercente il servizio predispone un regolamento di servizio nel rispetto dei principi di cui alla presente legge e di quanto stabilito negli atti di cui al comma 36. Le determinazioni delle Autorità di cui al comma 12, lett. h), costituiscono modifica o integrazione del regolamento di servizio": è allora chiaro che una integrazione del regolamento di servizio, qualora si concreti nella previsione che il contratto di utenza debba contenere una certa clausola, rappresentando il regolamento di servizio sostanzialmente le condizioni generali di contratto alle quali debbono adeguarsi i contratti di utenza, si risolve in via mediata in una integrazione autoritativa dello stesso contratto.

3.3 – Ciò chiarito, riprendendo l’interrogativo su indicato a proposito della necessità di definire il possibile ambito oggettivo della integrabilità dei contratti di utenza per il tramite del potere di cui all’art. 2, comma 12, lett. h), si deve rilevare che l’oggetto di tale potere, là dove (oltre che alla produzione) si riferisce alla "erogazione dei servizi", ove venga messo in relazione con la proclamazione della L. n. 481 del 1995, art. 1, comma 1, in ordine alla tutela degli interessi di utenti e consumatori, si presta ad essere riferito all’intero ambito del rapporto di utenza individuale, perchè l’erogazione del servizio, essendo diretta verso gli utenti ed avvenendo sulla base dei rapporti individuali di utenza, è formulazione talmente generale da apparire di per sè idonea a comprendere anche il profilo del contenuto di detti rapporti. L’interesse degli utenti e dei consumatori, infatti, non può non essere tutelato anche con riferimento a quell’aspetto delle modalità di erogazione del servizio che si estrinseca nei rapporti individuali. Nè in senso contrario assume un qualche valore l’espressione con la quale la lett. h) specifica "in particolare" che le direttive debbono definire "i livelli generali di qualità riferibili al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferibili alla singola prestazione da garantire all’utente". In tal modo si assegna un contenuto minimo necessario alle direttive, ma non si sminuisce il valore onnicomprensivo del riferimento all’erogazione del servizio per come giustificato dall’art. 1, comma 1.

Inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale non appare fondata neppure una giustificazione delle lettura restrittiva della lett. h) nel senso – come scrive il Tribunale stesso – ch’esso riguarderebbe comunque solo la prestazione del concedente, mentre gli obblighi dell’utente sarebbero considerati dalle lett. l) ed n) dello stesso art. 2, comma 12. In disparte il rilievo che non è chiaro perchè prescrizioni contenutistiche circa i contratti di utenza, dirette a disciplinare gli obblighi del concedente, non afferiscono almeno indirettamente comunque, cioè anche quando siano dirette a regolare i comportamenti da tenersi da parte dell’utente, alla prestazione del concessionario, posto che ad essa essi si correlano nel sinallagma contrattuale, si osserva che il contenuto delle lett. l) ed n) semmai conferma la lettura estensiva della lett. h).

La lett. l) dispone che l’autorità "pubblicizza e diffonde la conoscenza delle condizioni di svolgimento dei servizi al fine di garantire la massima trasparenza, la concorrenzialità dell’offerta e la possibilità di migliori scelte da parte degli utenti intermedi o finali". E la lett. n) che l’autorità "verifica la congruità delle misure adottate dai soggetti esercenti il servizio alfine di assicurare la parità di trattamento tra gli utenti, garantire la continuità della prestazione dei servizi, verificare periodicamente la qualità e l’efficacia delle prestazioni all’uopo acquisendo anche la valutazione degli utenti, garantire ogni informazione circa le modalità di prestazione dei servizi e i relativi livelli qualitativi, consentire a utenti e consumatori il più agevole accesso agli uffici aperti al pubblico, ridurre il numero degli adempimenti richiesti agli utenti semplificando le procedure per l’erogazione del servizio, assicurare la sollecita risposta a reclami, istanze e segnalazioni nel rispetto dei livelli qualitativi e tariffarii". Invero, la previsione della lett. l) pertiene a compiti di diffusione di informazione presso gli utenti e la lett. n) disciplina i poteri di verifica dell’Autorità, ma l’una e l’altra attività nulla hanno a che fare con la possibile determinazione, attraverso le direttive cui allude la lett. h), del contenuto del contratto di utenza attraverso la mediazione dell’intervento sul regolamento di servizio.

3.4 – Deve, dunque, affermarsi che l’A.E.G.G. attraverso le direttive previste dalla lett. h), art. 2, comma 12, bene può dettare precetti che, in quanto integrano il contenuto del regolamento di servizio cui allude il comma 37 della norma dello stesso art. 12 possono produrre l’integrazione dei contratti di utenza pendenti attraverso la previsione dell’art. 1339 c.c.. A fini di nomofilachia, prima di definire le condizioni in presenza delle quali ciò può avvenire e, quindi, di chiarire se sia avvenuto in concreto con riguardo alla specie che si giudica, il Collegio reputa opportuno formulare una precisazione, che concerne sempre il profilo oggettivo dell’ambito entro il quale le direttive della lett. h) possono svolgere la funzione di integrazione ai sensi dell’art. 1339 c.c..

La precisazione è nel senso che, avvenendo l’integrazione con riferimento a rapporti pur sempre espressione della privata autonomia ed articolandosi attraverso manifestazioni normative secondarie regolamentari oppure integranti atti amministrativi precettivi collettivi, sia pure autorizzate dalla previsione di legge, essa può comportare interventi che incidano sui rapporti di utenza in modo derogatorio anche di norme di legge, se del caso dello stesso Codice Civile, che abbiano, però, un contenuto meramente dispositivo, cioè derogabile dalla privata autonomia, mentre deve escludersi che possa giustificare interventi in senso derogatorio di norme previste da disposizioni legislative di contenuto imperativo. Invero, mentre l’intervento sulle norme del primo tipo è pienamente giustificabile perchè incide su previsioni legislative che le stesse parti, con il loro accordo, potrebbero derogare, sì che appare giustificato a maggior ragione che sia l’Autorità preposta al settore a prevedere la deroga, seppure con il limite funzionale e di scopo di cui immediatamente si dirà, viceversa, in presenza di una norma imperativa di legge, il principio di legalità impone di intendere il fenomeno di attribuzione di poteri di disciplina, con fonti di rango secondario o addirittura non aventi nemmeno contenuto normativo, in modo restrittivo. E, dunque, in mancanza di un’espressa attribuzione del potere di deroga alle norme imperative da parte di una norma di legge (o, deve ritenersi, di rango comunitario ad effetti diretti nell’ordinamento interno), come non esercitabile in deroga ad esse.

Solo in questo senso e nei limiti ora detti si intende condividere l’affermazione di Cons. Stato, 6 Sezione, 11 novembre 2008, n. 5622 circa l’esegesi del potere di normazione di cui all’art. 2, comma 12, lett. h), che, invece, quel consesso parrebbe avere inteso come riferita ad ogni norma di legge.

3.5- Sciogliendo la riserva espressa poco sopra, il Collegio ritiene, inoltre, che la stessa possibilità di deroga a norme di legge meramente dispositive sia, però, da restringere sotto il profilo funzionale in senso unidirezionale, cioè sia limitata ad una deroga a favore dell’utente o del consumatore. Lo impone sempre il precetto espresso nel comma 1, art. 1 della legge di settore in precedenza ricordato circa il necessario indirizzarsi dell’attività dell’Autorità a tutela degli interessi di utenti e consumatori.

Ciò, naturalmente, con l’eccezione che vi sia una norma di legge o di rango comunitario ad efficacia diretta che abiliti anche alla deroga a norme imperative.

Sicchè il principio di diritto che può affermarsi è il seguente:

"Il potere normativo secondario (o, secondo una possibile qualificazione alternativa, di emanazione di atti amministrativi precettivi collettivi) dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. h), si può concretare anche nella previsione di prescrizioni che, attraverso l’integrazione del regolamento di servizio, di cui allo stesso art. 2, comma 37, possono in via riflessa integrare, ai sensi dell’art. 1339 c.c., il contenuto dei rapporti di utenza individuali pendenti anche in senso derogatorio di norme di legge, ma alla duplice condizione che queste ultime siano meramente dispositive e, dunque, derogabili dalle stesse parti, e che la deroga venga comunque fatta dall’Autorità a tutela dell’interesse dell’utente o consumatore, restando, invece, esclusa – salvo che una previsione speciale di legge o di una fonte comunitaria ad efficacia diretta – non la consenta – la deroga a norme di legge di contenuto imperativo e la deroga a norme di legge dispositive a sfavore dell’utente e consumatore". 3.6 – Può passarsi a questo punto a definire le condizioni in presenza delle quali la normazione o l’atto di esercizio di poteri amministrativi precettivi a contenuto collettivo ai sensi dell’art. 2, comma 12, lett. h), con i limiti indicati, può integrare, attraverso la mediazione dell’integrazione del regolamento di servizi, i contratti di utenza individuale. Tale definizione deve partire dal dato che il potere di normazione o di amministrazione de quo è qualificato con un’espressione, quella di direttiva, che si presta a comprendere: a) l’imposizione di precetti al destinatario sub specie di indicazione di un risultato da raggiungere, se del caso con o senza assegnazione di un limite di tempo, salva la individuazione da parte di esso del modo con cui pervenire al risultato, ch’egli, dunque, può in sostanza poi scegliere; b) l’imposizione di un precetto specifico che non lasci al destinatario alcuna possibilità di scelta sui tempi e sui modi. Ebbene, l’idoneità della direttiva a determinare, tramite la mediazione dell’integrazione del regolamento di servizio, l’integrazione dei contratti di utenza per la via dell’art. 1339 c.c. è configurabile soltanto nel secondo caso. Non lo è, invece, nel primo. Soltanto nel secondo caso, l’imposizione di un precetto specifico si può connotare sub specie di clausola, cioè di diretta regolamentazione prima del regolamento di servizio e, quindi, del contratto di utenza.

Invero, una clausola, identificando una parte del regolamento contrattuale deve avere di norma un contenuto determinato, cioè specifico ( art. 1346 c.c.). E’ vero che la clausola può avere anche un contenuto determinabile (sempre art. 1346 c.c.), ma allora – ammesso che sia sostenibile un’integrazione ai sensi dell’art. 1339 c.c. di un contratto, attraverso una norma che si limiti a prevedere che debba assicurarsi un risultato, lasciandone però i modi alla determinazione di una delle parti del contratto – l’onere di specificazione si trasferisce almeno al procedimento ed ai contenuti della determinazione.

Ora, la previsione della Delib. n. 200 del 1999, art. 6, comma 4, imponendo all’esercente "di offrire al cliente almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta" si connotava certamente come prescrizione del tutto inidonea ad integrare una clausola di contenuto determinato. In tanto, la previsione della modalità come concorrente con altre di effetto diverso lasciava al concessionario il potere di individuare questa modalità in concorso con altre e, quindi, lo facultava a prevedere più di una modalità. In secondo luogo, il concessionario era facultato ad individuare gli stessi termini della modalità gratuita. Nè potrebbe dirsi che la prescrizione integrasse una clausola il cui contenuto era rimesso all’individuazione dello stesso concessionario, sì da integrare una clausola di contenuto determinabile: occorre, infatti, tenere presente che la determinabilità, una volta che la modalità gratuita non veniva prevista come esclusiva, era sostanzialmente insussistente, in quanto l’esercizio del potere di determinazione da parte del concessionario doveva muoversi pur sempre lasciando intatta la previsione del codice civile, di cui alla norma dispositiva sul pagamento, prevista nell’art. 1196 c.c., secondo la quale "le spese del pagamento sono a carico del debitore". Previsione questa che implica che il costo dell’attività necessaria al debitore per pagare è di norma a suo carico e che, per essere apprezzata nel suo effettivo significato, dev’essere coordinata anche con quelle sul luogo del pagamento, espresse nell’art. 1182 c.c., e particolarmente con quella sul luogo del pagamento delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro determinate, che il primo inciso del terzo comma della norma, indica nel domicilio del creditore. L’art. 1196, in sostanza, in riferimento a dette obbligazioni, fra le quali rientrano quelle dell’utente relative al pagamento della bolletta (o fattura) (modalità di richiesta del pagamento sostanzialmente prevista come necessaria dall’art. 6, comma 1, della nota deliberazione), comportava che la spesa necessaria all’utente per recarsi a pagare al domicilio del soggetto esercente fosse a carico di lui. Onde, la previsione di una modalità gratuita di pagamento, in mancanza sia di un’espressa deroga all’art. 1196 c.c., sia di una deroga implicita, siccome rivelava la previsione come soltanto una delle modalità (e, quindi, alternativa) di quella gratuita, non poteva certo implicare che l’utente dovesse essere esentato da detta spesa, ma, semmai, poteva giustificare che l’esercente non potesse imporre in caso di pagamento al suo domicilio (o ad uno dei suoi domicili) un addebito ulteriore: la spesa per l’esecuzione del pagamento al detto domicilio e, quindi, il costo dell’attività ed il dispendio di attività per farlo ai sensi dell’art. 1196 c.c. erano a carico dell’utente, stante la mancata deroga a detta norma. Nel contempo, la mancanza di deroga all’art. 1196 e, quindi, la conservazione dell’onere del debitore di sopportare eventuali costi per l’attività necessaria per adempiere al domicilio dell’esercente, implicava che lo stesso parametro della "gratuità" dovesse essere valutato comparativamente con il costo di modalità di pagamento che, pur imponendo all’utente un costo, come il pagamento con domiciliazione bancaria o su conto corrente postale, tuttavia, l’avessero esentato dalla spesa necessaria per recarsi presso il domicilio (più o meno lontano) dell’esercente, spesa che poteva essere più o meno rilevante a seconda della sua distanza. In questa situazione la prescrizione dell’art. 6, comma, 4 non aveva nemmeno un contenuto tale da poter essere mutuato come clausola a contenuto determinabile e, dunque, – anche a voler (problematicamente) concedere che un’integrazione ai sensi dell’art. 1339 c.c. sia possibile da parte di una clausola a contenuto rimesso alla determinazione di una parte – non era idonea a modificare o integrare il regolamento di servizio all’epoca vigente e, quindi, di risulta i contratti di utenza individuali.

3.7 – In realtà, una prescrizione come quella in discorso, per la sua indeterminatezza assegnava all’esercente una sorta di obbligo di perseguimento di un risultato con ampi poteri di scelta, salva la valutazione dell’A.E.G.G. circa il raggiungimento del risultato attraverso i poteri di ispezione, accesso ed acquisizione di documentazione e notizie, previsti dall’art. 2, comma 12, lett. g) e quelli di valutazione di reclami, istanze e segnalazioni della successiva lett. m), con conseguente possibilità dell’Autorità all’esito di esercitare il potere previsto dall’art. 2, comma 20, lett. d), cioè di ordinare "al soggetto esercente il servizio la cessazione di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, imponendo, ai sensi del comma 12, lett. g), l’obbligo di corrispondere un indennizzo al soggetto esercente il servizio la cessazione di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, imponendo, ai sensi del comma 12, lett. g), l’obbligo di corrispondere un indennizzo".

Inoltre, l’A.E.G.G., a parte il potere di intervenire con una prescrizione nuova sufficientemente specifica da produrre l’effetto dell’art. 1339 c.c., avrebbe avuto anche il potere di segnalare all’amministrazione concedente, in sede di parere ai sensi della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 34, l’opportunità all’atto del rinnovo della concessione o di una sua revisione di prevedere nella convenzione o nel contratto di programma di cui al comma 36 la prescrizione.

4. – Deve, dunque, sulla base delle complessive considerazioni svolte escludersi che la prescrizione dell’art. 6, comma 4, della Delib.

A.E.E.G. n. 200 del 1999 abbia comportato la modifica o integrazione del regolamento di servizio del settore esistente all’epoca della sua adozione e, di riflesso, l’integrazione dei contratti di utenza ai sensi dell’art. 1339 c.c., di modo che l’azione di responsabilità per inadempimento contrattuale esercitata dalla parte attrice risulta priva di fondamento, perchè basata su una clausola contrattuale inesistente, perchè non risultava introdotta nel contratto di utenza.

5.- Va a questo punto precisato che nella specie, avuto riguardo al riferimento della sentenza impugnata all’integrazione per effetto della deliberazione dell’A.E.E.G. anche ai sensi dell’art. 1374 c.c. le stesse considerazioni svolte a proposito della inidoneità a svolgere la funzione di cui all’art. 1339 c.c., sarebbero riproponibili anche sotto il profilo dell’art. 1374 c.c..

Mette conto di osservare, tuttavia, che la pertinenza nella specie dell’istituto di cui all’art. 1374 c.c. sembrerebbe doversi escludere, poichè la norma postula l’integrazione del contratto con riguardo ad aspetti non regolati dalle parti e, quindi, svolge tradizionalmente una funzione suppletiva e non di imposizione di una disciplina imperativa, come accade per l’istituto di cui all’art. 1339 c.c..

Nella logica del sistema di cui alla L. n. 481 del 1995, la previsione del potere di integrazione del contratto di utenza, esercitarle dall’A.E.E.G. nei sensi su indicati, è certamente espressione non di supplenza, ma di imposizione di un regolamento ritenuto autoritativamente dovuto.

6. – Conclusivamente il ricorso è accolto per quanto di ragione sulla base dello scrutinio complessivo ed unitario dei primi cinque motivi e la sentenza è cassata.

Gli ulteriori due motivi di ricorso restano assorbiti, perchè, se l’integrazione del contratto non è avvenuta, non può esservi stato alcun inadempimento. Il Collegio reputa a questo punto che non vi sia necessità di rinvio, potendo la causa essere decisa nel merito, in quanto non occorrono accertamenti di fatto per ritenere che la domanda proposta dall’utente debba essere rigettata. Al riguardo, la sua infondatezza emerge anche per il profilo subordinato, inerente il preteso inadempimento dell’obbligo di informazione: è evidente che, se la delibera non ha integrato il contratto per la sua indeterminatezza, l’oggetto dell’obbligo de quo non può essere insorto.

7. – Le spese delle fasi di merito, sulle quali questa Corte deve provvedere, possono essere integralmente compensate, giacchè è notorio che nella giurisprudenza di merito la questione di diritto dell’efficacia della norma della nota deliberazione è stata decisa in modi opposti, come risulta anche da ricorsi esaminati nella stessa odierna udienza, nei quali l’Enel era convenuta.

Le spese del giudizio di cassazione seguono invece la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione riguardo ai primi cinque motivi. Dichiara assorbiti i successivi. Cassa in relazione la sentenza impugnata e, decidendo la causa sul merito, accoglie l’appello e rigetta la domanda della A.. Compensa le spese dei gradi di merito. Condanna la A. alla rifusione alle ricorrenti delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro seicento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 14-06-2011) 17-08-2011, n. 32137 Danno non patrimoniale

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Svolgimento del processo

1. Il GUP del Tribunale di Treviso, a seguito di rito abbreviato con sentenza in data 03/10/2006, dichiarava G.S. colpevole per i reati di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme sulla circolazione stradale, per due fattispecie di lesioni colpose gravi, per una fattispecie di lesioni colpose e per la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza alcolica. Lo condannava alla pena di anni due mesi otto di reclusione. Lo condannava pure al risarcimento del danno uiure hereditatis" in favore delle parti civili, riconoscendo l’importo di Euro 60.000,00 a titolo di danno morale maturato in capo alla vittima deceduta, rimettendo le parti avanti al Giudice Civile competente ai fini dell’integrale determinazione dell’ammontare delle restanti componenti risarcitone.

In fatto era avvenuto (in data 04/08/2005) che l’imputato, alla guida della propria autovettura BMW mentre si immetteva nell’abitato di (OMISSIS), aveva accelerato eccessivamente andando a sbandare verso sinistra e collidendo con il muro perimetrale di un’abitazione e così aveva travolto i componenti dei gruppi familiari Grassedonio- Musa, i quali stavano procedendo a piedi nella direzione opposta. In particolare, l’automobilista aveva provocato la morte di Gr.Me. di anni dieci, avvenuta tre ore dopo l’occorso; gravi lesioni a Gr.Da. di anni otto con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni e possibile indebolimento permanente della funzione emuntoria; gravi lesioni personali a M.F. con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni superiore ai 40 giorni; lesioni personali a Gr.Br., di mesi otto, per le quali la bambina subiva 2 giorni di ricovero in ospedale. Il G. era stato rinvenuto in stato di ebbrezza alcolica (tasso riscontrato dalla Polizia di g/l 1,49 e 1,42 ); altresì, veniva accusato di procedere a velocità assolutamente eccessiva anche in considerazione della presenza di numerosi pedoni nel centro abitato dove si svolgeva la locale sagra annuale.

2. Proposta impugnazione da parte dell’imputato, la Corte di Appello di Venezia, con sentenza in data 15/06/2010, dichiarava non doversi procedere per il reato ex art. 186 cod. strada perchè estinto per prescrizione; riduceva la pena per gli altri reati accertati in anni due mesi sette giorni dieci di reclusione.

La Corte di merito rilevava che era stato effettuato dopo pochi mesi dall’occorso il risarcimento del danno, per alcune voci di pregiudizio, in favore dei congiunti delle parti offese. Peraltro, nella vicenda era ravvisabile anche la ricorrenza di danno biologico e morale sofferto dalla minore Gr.Me. deceduta, nel periodo intercorso tra l’incidente ed il decesso (circa tre ore dopo), danno questo trasmissibile "iure hereditatis" e correttamente preteso dalle parti civili costituite. Invero, risultava che Me. era sopravvissuta per circa tre ore dopo l’accaduto in condizioni vigili, essendo entrata nel pronto-soccorso ospedaliere "vigile e lamentosa". Dal che conseguiva che non poteva riconoscersi all’imputato l’attenuante ex art. 62 c.p., n. 6, dell’avvenuta riparazione del danno prima del giudizio.

3. G.S. proponeva ricorso per cassazione.

Si doleva per il mancato riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno. Sul punto, osservava che non era ravvisatale in concreto la sussistenza del c.d. danno biologico e morale terminale, riconoscibile a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, e che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della "fine". In tal senso, i Giudici di merito non avevano apportato alcun elemento probatorio. Per cui, doveva ritenersi del tutto satisfattivo il risarcimento tempestivo compiuto da esso prevenuto prima del giudizio.

SI doleva per la revoca della sospensione condizionale della pena disposta dal Giudice di primo grado in riferimento alla sentenza del Tribunale di Traviso in data 13/06/2000 a carico dell’istante, divenuta definitiva il 27/09/2000. Al riguardo, riteneva non corretta, perchè non conforme al dettato costituzionale, l’interpretazione secondo cui l’anteriorità del reato per il quale era stato concesso il beneficio rispetto all’ultimo per cui si procede va determinata con riferimento alla data in cui è divenuta irrevocabile la prima sentenza e non piuttosto dalla data di pronuncia di quest’ultima.

Chiedeva l’annullamento della decisione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso deve essere rigettato perchè infondato.

Si osserva che, come è noto, in caso di uccisione di un familiare, ai congiunti superstiti spetta il risarcimento del danno patrimoniale e di quello morale, essendovi reato. Spetta ai predetti "iure successionis" anche il risarcimento del danno biologico c.d. terminale che spettava al morto, purchè però il decesso sia intervenuto al termine di un’agonia e non sia stato istantaneo o quasi, non essendo configurabile un danno da morte in sè. In tal guisa, è appunto rilevante, in caso di lesioni seguite da morte dopo breve tempo, la consapevolezza della parte offesa che n si sta per morire", quale sofferenza psichica risarcibile nel contesto del pregiudizio morale da reato, perchè nel frangente vale l’intensità del dolore e della paura, anche se di breve durata, (v. in tema, Cass. Sez. 3 Civile 23/02/2005 n. 3766).

Nel caso di specie, i Giudici di merito hanno accertato in fatto, con argomentazione corretta ed esaustiva correlata ai dati concreti acquisiti della vicenda, la ricorrenza delle condizioni per riconoscere il danno non patrimoniale terminale subito dalla vittima, spettante "iure hereditatis" ai congiunti. Il che ha comportato anche la non configurabilità dell’attenuante ex art. 62, n. 6, (riparazione del danno), poichè il ristoro effettuato dall’imputato prima del giudizio non aveva ricompreso appunto la voce ulteriore (danno biologico terminale) riconosciuta dal giudice di primo grado e confermata dal Collegio di Appello.

Parimenti, infondata si palesa la seconda censura proposta. Invero, questa Corte di legittimità, con adeguata argomentazione condivisibile, ha ripetutamente affermato che il termine della sospensione condizionale della pena decorre dal giorno in cui la sentenza di condanna che concede il beneficio diviene irrevocabile, (v. così, da ultimo, Cass. 10/02/2010 n. 8222).

2. La reiezione dei ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 31-01-2012, n. 1357 Amministrazione Pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Mg Advertising s.r.l. premesso che negli ultimi mesi del 1995, il Servizio Affissioni e Pubblicità del Comune di Roma aveva proceduto, senza preavviso, alla rimozione di diciotto impianti pubblicitari di sua proprietà (impianti regolarmente autorizzati), conveniva detto Servizio, il direttore dell’ufficio tecnico dello stesso, innanzi al Tribunale di Roma, per sentir dichiarare l’illegittimità dell’azione dei convenuti in quanto effettuate in violazione delle procedure di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, con condanna dei convenuti in solido al risarcimento di tutti i danni sofferti, sia di natura patrimoniale che non patrimoniale.

In data 25.9.2000, l’adito Tribunale di Roma, dichiarava il difetto di legittimazione passiva del servizio affissioni e pubblicità del Comune (ritenendo invece sussistente dei dirigenti convenuti) e rigettava la domanda.

A seguito dell’appello della società, la Corte d’Appello di Roma, con la decisione in esame depositata in data 6.12.2005, rigettava il gravame, ritenendo che la società istante non avesse dato prova dell’autorizzazione dei cartelloni pubblicitari in questione e che comunque "la pronuncia del Consiglio di Stato che ha ritenuto l’illegittimità della condotta del Comune di Roma, nella rimozione dei cartelloni pubblicitari, per non aver dato all’interessato rituale comunicazione dell’avvio di procedimento amministrativo, non può, infatti, in nessun modo influire sul tema del contendere in questa sede, non valendo a conferire alla società la legittima titolarità di mantenere quei cartelloni pubblicitari, che avrebbero richiesto le autorizzazioni amministrative, come già detto, non prodotte e, quindi, da ritenere non esistenti".

Ricorre per cassazione la Mg con sei motivi; resiste con controricorso il Comune.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 183 e 187 c.p.c., e difetto di motivazione. Si fa presente che la sentenza è erronea "per non avere considerato la censura relativa alla negazione della concessione dei termini ai sensi dell’art. 183 c.p.c., da parte del giudice di primo grado che si era riservato la decisione sulle eccezioni preliminari svolte dal Comune di carenza di legittimazione passiva dei convenuti e, ignorando che la società aveva richiesto, dopo la decisione di rito, la remissione della causa sul ruolo per i provvedimenti di cui all’art. 183 c.p.c., aveva deciso nel merito".

Con il secondo motivo si deduce difetto di motivazione e violazione dell’art. 105 c.p.c.; "si precisa che, al contrario di quanto sostenuto, il Comune era intervenuto in giudizio al solo fine di fare rilevare la carenza di legittimazione di tutti i convenuti da cui l’evidenza della posizione subordinata comunale quale interventore adiuvandum e, quindi, l’impossibilità per lo stesso di svolgere azioni e di produrre documenti di contumacia dei convenuti".

Con il terzo motivo si deduce ancora difetto di motivazione; "si censura la sentenza per non essersi pronunciata sull’eccezione inerente la domanda della ricorrente volta ad ottenere il riconoscimento dei danni a causa del comportamento dei convenuti i quali hanno deliberatamente e reiteratamente ignoratole richieste di chiarimenti avanzata dalla ricorrente, venendo meno ai principi di correttezza, imparzialità e trasparenza".

Con il quarto motivo si deduce ancora difetto di motivazione sul punto in cui è stata dichiarata l’inammissibilità della domanda di risarcimento danni per omessa restituzione del materiale rimosso.

Con il quinto motivo si deduce sempre difetto di motivazione "per omesso esame della documentazione della società e per non aver ritenuto la violazione del diritto di difesa in primo grado per mancata concessione dei termini ex art. 183 c.p.c.".

Con il sesto motivo si deduce violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione alla nota n. 6511/95.

Il ricorso non merita accoglimento in relazione a tutte le suesposte doglianze.

Inammissibile è il primo motivo in quanto, la società ricorrente, affermando che il giudice di appello ha omesso di pronunciarsi sulla richiesta da essa avanzata nel giudizio di primo grado in sede di comparsa conclusionale avente ad oggetto la censura relativa alla negazione della concessione dei termini ai sensi dell’art. 183 c.p.c., manca del tutto di autosufficienza espositiva, in quanto non indica gli atti con cui tale proposta venne formulata, riportandone il testo specifico, al fine di consentire a questa Corte di valutare la dedotta omessa pronuncia e la decisività della richiesta stessa.

Non meritevole di accoglimento è anche il secondo motivo. La ricorrente, nell’affermare che la motivazione della sentenza è carente sul punto della qualifica dell’intervento effettuato dal Comune, da un lato prospetta una quaestio facti non ulteriormente esaminabile nella presente sede, in relazione alla posizione sostanziale fatta valere dal Comune, dall’altro pecca anche in tal caso di autosufficienza (nel punto in cui assume di aver chiesto l’inammissibilità dell’intervento), dall’altro ancora non indica la rilevanza sul piano processuale del tipo di intervento come effettuato dal Comune e come ritenuto dai giudici di secondo grado.

Anche il terzo e il quarto motivo sono inammissibili per mancanza di autosufficienza in quanto la ricorrente non indica le modalità formali e i relativi atti, ex art. 366 c.p.c., n. 6, mediante i quali, rispettivamente, fu sollevata l’eccezione riguardante la domanda della ricorrente volta a ottenere il risarcimento dei danni e fu proposta l’eccezione di inammissibilità della domanda di risarcimento danni per omessa restituzione del materiale.

Inammissibili ancora sono il quinto e il sesto motivo anch’essi per mancata osservanza del principio di autosufficienza (la ricorrente non indica i motivi di appello non esaminati come le questioni proposte in relazione all’annullamento del dedotto provvedimento del Comune).

Inammissibile è infine anche l’ultimo motivo, rientrando il governo nelle spese del potere discrezionale del giudice del merito.

Le spese della presente fase seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese della presente fase che liquida in complessivi Euro 5.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre spese generali ed accessorie come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Toscana Firenze Sez. II, Sent., 04-11-2011, n. 1650

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società ricorrente, S.C.I. S.p.A. espone di svolgere attività di cava nel Comune di S. Vincenzo (frazione S. Carlo) dal 1928. Il calcare estratto a S. Vincenzo costituisce una delle materie prime indispensabili per il ciclo industriale che si svolge nello stabilimento chimico della predetta società, ubicato in Rosignano. L’autorizzazione all’attività di cava, rilasciata per la durata di venti anni dal Sindaco di S. Vincenzo nel 1981, è stata, poi, rinnovata, su richiesta della società, con provvedimento dirigenziale n. 5 del 7 febbraio 2006, che ha autorizzato l’esercizio dell’attività in questione per altri venti anni.

Nondimeno, con deliberazione del Consiglio Comunale n. 87 del 19 settembre 2005, il Comune di S. Vincenzo ha approvato del Piano di classificazione acustica che, per quanto riguarda l’esponente, reca prescrizioni ad avviso dell’esponente stessa lesive dei suoi interessi connessi allo svolgimento dell’attività di cava. In particolare, la S. S.p.A. lamenta che detta attività potrebbe essere svolta soltanto nell’ambito di una zonizzazione acustica che classifichi l’area di cava come esclusivamente industriale (e quindi in classe VI) ed il centro abitato limitrofo come area ad intensa attività umana. Tuttavia, le osservazioni sul punto avanzate dall’esponente non sono state accolte dal Comune, che ha controdedotto al riguardo.

Avverso la riferita deliberazione consiliare n. 87/2005, di approvazione del Piano di classificazione acustica, è insorta la S.C.I. S.p.A., impugnandola con il ricorso indicato in epigrafe e chiedendone l’annullamento nelle parti in cui classifica la zona dove la società ricorrente esercita la propria attività parzialmente in classe V e parzialmente in classe IV.

A supporto del gravame, ha dedotto i seguenti motivi:

– violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 1, lett. a), della l. n. 447/1995, in riferimento al successivo art. 6, comma 1, lett. a), ed al d.P.C.M. 14 novembre 1997 ed eccesso di potere sotto i profili del travisamento dei fatti, del difetto di motivazione e dell’illogicità manifesta, nonché della contraddittorietà con l’autorizzazione all’esercizio dell’attività di cava, giacché le motivazioni poste a base del rifiuto di classificare la zona interessata dall’attività mineraria come area esclusivamente industriale (sviluppo futuro del territorio; scoppio delle mine) sarebbero del tutto erronee, ignorando esse le previsioni del Piano strutturale (che prefigurano per detta area uno sviluppo esclusivamente industriale) e la decisione della società di collocare il silos di carico del materiale estratto (una delle maggiori fonti di impatto acustico) ben lontano dall’abitato di S. Vincenzo;

– ulteriore violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 1, lett. a), della l. n. 447/1995, in riferimento al successivo art. 6, comma 1, lett. a), ed al d.P.C.M. 14 novembre 1997 ed eccesso di potere sotto i profili del travisamento dei fatti, del difetto di motivazione e dell’illogicità manifesta, poiché erroneamente la P.A. avrebbe preteso di fondare l’inserimento in classe V dell’area destinata all’attività di cava sulle previsioni delle linee guida regionali in materia di zonizzazione acustica, le quali, invece, imporrebbero di procedere per dette aree ad una valutazione caso per caso. Inoltre, in base alla deliberazione del Consiglio Regionale n. 77/2000, la classificazione acustica del territorio comunale avrebbe dovuto muovere dall’individuazione delle zone particolarmente protette e delle aree industriali, per far derivare da questi estremi la successiva classificazione delle aree intermedie, mentre nella vicenda per cui è causa sarebbe avvenuto esattamente il contrario. Infine, sarebbero del tutto incomprensibili i motivi per cui una parte delle aree oggetto della (legittima) attività estrattiva sono state inserite nella classe IV;

– eccesso di potere sotto i profili dello sviamento, dell’illogicità e della contraddittorietà, in quanto il Comune – in presenza di un piano di coltivazione della cava che specificherebbe con precisione i limiti di classificazione acustica che ne consentono l’esecuzione – del tutto arbitrariamente avrebbe, da un lato, assentito un’attività che potrebbe essere svolta solo all’interno di certe classi acustiche, dall’altro, previsto per le aree dove questa attività è esercitata classi acustiche che, sostanzialmente, non ne consentirebbero l’esercizio;

– violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della l.r. n. 89/1998, eccesso di potere sotto i profili del travisamento dei fatti e dell’illogicità, giacché il Comune di S. Vincenzo avrebbe illegittimamente subordinato le scelte di classificazione acustica alle previe scelte effettuate dal confinante Comune di Castagneto Carducci per il proprio territorio comunale, anziché attivare il sistema di superamento dei conflitti tra pianificazioni acustiche di Comuni limitrofi regolato dall’art. 6, comma 2, della l.r. n. 89/1998.

Si è costituito in giudizio il Comune di S. Vincenzo, depositando una memoria difensiva, con cui ha eccepito l’infondatezza dei dedotti motivi di ricorso, chiedendone la reiezione.

La società ricorrente ha depositato una memoria, cui ha fatto seguito anche una memoria di replica alle difese comunali, insistendo per l’accoglimento del gravame.

All’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

Con il ricorso indicato in epigrafe la S.C.I. S.p.A. ha impugnato la deliberazione del Consiglio Comunale di S. Vincenzo n. 87 del 19 settembre 2005, recante approvazione del Piano di zonizzazione e classificazione acustica, lì dove ha inserito l’area nella quale la ricorrente esercita la propria attività estrattiva in parte in classe V ed in parte in classe IV.

Più in particolare, dalla relazione al Piano comunale (cfr. all. 2 al ricorso) si evince che alla zona di coltivazione della cava di calcare della S. S.p.A. è stata assegnata la classe V, mentre la classe IV è stata assegnata alle aree di proprietà della società stessa non destinate a cava (ossia: il tracciato ferroviario, la zona attigua alla cava destinata al caricamento degli inerti sulla teleferica e l’area di carico e scarico della roccia calcarea in arrivo dalla cava di S. Carlo delimitata ad ovest dalla linea ferroviaria e ad est dalla via ex Aurelia).

Il Collegio ritiene necessario far precedere la disamina del ricorso da una sintetica ricognizione del quadro normativo regolante la materia di cui si discute.

Detto quadro è costituito, anzitutto, dalla l. n. 447/1995 (legge quadro sull’inquinamento acustico). L’art. 4, comma 1, lett. a), di questa attribuisce alle Regioni il compito di definire con legge i criteri in base ai quali i Comuni, ai sensi del successivo art. 6, comma 1, lett. a), provvedono a classificare il rispettivo territorio "nelle zone previste dalle vigenti disposizioni per l’applicazione dei valori di qualità" ex art. 2, comma 1, lett. h), della legge stessa (e cioè "i valori di rumore da conseguire nel breve, nel medio e nel lungo periodo con le tecnologie e le metodiche di risanamento disponibili", al fine di realizzare gli obiettivi di tutela stabiliti dalla l. n. 447). Nell’effettuare tale classificazione, i Comuni, alla stregua dell’art. 4, comma 1, lett. a), cit.:

– tengono conto delle preesistenti destinazioni d’uso del territorio;

– indicano aree da destinare a spettacoli a carattere temporaneo, ovvero mobile o all’aperto;

– stabiliscono il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a Comuni confinanti, quando i suindicati valori di qualità si discostino in misura superiore a 5dB(A) di livello sonoro equivalente, misurati secondo i criteri generali di cui al d.P.C.M. 1° marzo 1991;

– qualora, nell’individuazione delle aree "nelle zone già urbanizzate" non sia possibile rispettare il predetto divieto a causa di preesistenti destinazioni d’uso, adottano i piani di risanamento acustico previsti dal successivo art. 7 della l. n. 447/1995.

L’art. 6, comma 1, lett. a), della l. n. 447 cit. conferma, poi, la competenza dei Comuni a procedere alla classificazione del territorio comunale secondo i criteri dell’ora visto art. 4, comma 1, lett. a).

A livello di disciplina regionale di dettaglio, la Regione Toscana ha provveduto a dettare norme in materia di inquinamento acustico con la l.r. 1° dicembre 1998, n. 89. Quest’ultima:

– all’art. 4, comma 1, ha attribuito ai Comuni il compito di approvare, con la procedura stabilita dal successivo art. 5, il Piano di classificazione acustica, in base al quale (ed in applicazione dell’art. 1, comma 2, del d.P.C.M. 14 novembre 1997, recante la determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore) il territorio comunale viene suddiviso in zone acusticamente omogenee, tenendo conto delle preesistenti destinazioni d’uso del territorio stesso, per come individuate dagli strumenti urbanistici in vigore;

– all’art. 5 ha regolato la procedura del Piano comunale di classificazione acustica, suddividendola in due fasi, la prima di adozione del progetto di Piano e la seconda di approvazione del Piano stesso, inframmezzate dalla possibilità di presentare osservazioni (relativamente alle quali la deliberazione di approvazione deve contenere un riferimento puntuale, con l’espressa motivazione delle decisioni di conseguenza adottate);

– all’art. 6, comma 1, ha reiterato il divieto di contatto diretto di aree, anche appartenenti a Comuni confinanti, laddove i valori di qualità (di cui al successivo art. 8, comma 2) si discostino in misura superiore a 5dB(A) di livello sonoro continuo equivalente, prevedendo, al comma 2, un sistema di composizione dei conflitti insorti tra Comuni confinanti in relazione al divieto in parola (intervento della Provincia territorialmente competente, che provvede con propria deliberazione) e prescrivendo inoltre, al comma 3, l’adozione di Piani di risanamento acustico, se non risulti possibile rispettare il divieto.

Ancora, si deve menzionare la disciplina in tema di limiti di determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore dettata dal già ricordato d.P.C.M. 14 novembre 1997, il quale:

– alla tabella A ha elencato le classi in cui deve suddividersi, ai fini della pianificazione acustica, il territorio comunale. Per quanto qui rileva, ha inserito in classe IV le aree di intensa attività umana (aree urbane interessate da intenso traffico veicolare, ad alta densità di popolazione, ecc.), in classe V le aree prevalentemente industriali (aree interessate da insediamenti industriali e con scarsità di abitazioni) ed in classe VI le aree esclusivamente industriali (aree interessate da attività industriali e prive di insediamenti abitativi);

– alle tabelle B, C e D ha individuato, rispettivamente, valori limite di emissione e di immissione e valori di qualità distinti (in orario diurno e notturno) per ciascuna delle predette classi;

– in particolare, con riferimento ai valori limite di emissione e di immissione, per le classi V e VI vi sono livelli diversi per l’orario notturno (fascia dalle ore 22.00 alle ore 6.00), mentre i valori limite sono uguali per la fascia diurna. Quanto ai valori di qualità (tabella D), le zone inserite in classe V e quelle inserite in classe VI hanno limiti diversi non solo per la fascia notturna, ma anche per quella diurna. Da ultimo, la classe IV ha valori limite di emissione e di immissione e valori di qualità più restrittivi per ambedue le fasce orarie.

Da quanto appena detto si desume, dunque, la lesività, per gli interessi della società ricorrente, delle prescrizioni del Piano comunale gravate, per avere esso imposto, attraverso l’inserimento delle aree dove si svolge l’attività della predetta società in classe V ed in classe IV (anziché in classe VI, come dalla medesima richiesto) limiti acustici più gravosi a carico di tale attività.

Nel merito, il ricorso è fondato e deve, quindi essere accolto, nei termini di seguito esposti.

In particolare, è fondata la censura, avanzata con il primo motivo, di illegittimità del Piano gravato, per non avere il Comune di S. Vincenzo, nell’opera di classificazione acustica delle aree in esame, tenuto adeguatamente conto del criterio della preesistente destinazione d’uso del territorio, sebbene si tratti di criterio prescritto dalla vigente normativa. Ed invero, il cd. preuso è indicato, tra i criteri che i Comuni devono seguire nell’opera di zonizzazione acustica, dall’art. 4, comma 1, lett. a) della l. n. 447/1995, nonché, a livello regionale, dall’art. 4, comma 1, della l.r. n. 89/1998, per il quale la P.A. deve tenere conto delle preesistenti destinazioni d’uso, "così come individuate dagli strumenti urbanistici in vigore". Dalla documentazione versata in atti si ricava, invece, che l’Amministrazione ha tenuto esclusivamente conto del criterio fondato sul cd. divieto di continuità.

In dettaglio, la mancata o comunque insufficiente considerazione, da parte del Comune, del criterio del cd. preuso si evince dalla lettura delle controdeduzioni alle osservazioni presentate dalla S. Chimica S.p.A., contenute nel documento del 9 settembre 2005 allegato alla deliberazione gravata e che costituisce, per espressa indicazione della deliberazione de qua, parte integrante della stessa (v. all. 3 al ricorso). La società aveva, infatti, presentato osservazioni (cfr. all. 4 al ricorso) sul progetto di Piano adottato con deliberazione consiliare n. 56/2004, domandando il riesame:

– dell’inquadramento in classe V dell’area interessata dalle attività industriali (cava di estrazione del calcare) del gruppo S., per la quale si chiedeva l’inserimento in classe VI;

– dell’inquadramento dell’area interessata dalla presenza della linea ferroviaria, per cui si chiedeva l’inserimento in classe V (al riguardo, l’atto di controdeduzioni alle osservazioni indica il passaggio di tale area dalla classe III – dove era stata originariamente inserita – alla classe IV);

– dell’inquadramento in classe III dell’area limitrofa al tracciato dell’area ferroviaria, per la quale si chiedeva l’inserimento in classe IV.

Orbene, nelle controdeduzioni, elemento comune a tutte le risposte negative alle osservazioni della S. Chimica S.p.A., è l’argomento fondato sull’assenza di condizioni sufficienti con il Comune limitrofo (Castagneto Carducci), "essendo la distanza minima di 120 metri e la zona di confine con il Comune di Castagneto Carducci……..di classe III (la classe deve essere minimo di 100 metri di larghezza, non sono permessi salti di classi e comunque sono sconsigliati eccessivi frazionamenti di classi)". Per il solo rigetto dell’osservazione volta ad ottenere l’inserimento dell’area dove si svolge l’attività estrattiva in classe VI, si aggiunge l’argomento secondo cui le linee guida per la redazione dei Piani di classificazione acustica compilate dall’A.R.P.A.T. e pubblicate dalla Regione Toscana nel maggio del 2004 consigliano di inserire le aree di cava in classe V. Quest’ultima giustificazione, però, non è confortata dalla lettura di tali linee guida (riportate dalla ricorrente sub all. 13), lì dove – parag. 1 ("Individuazione puntuale di siti a grande impatto acustico") della parte 2 ("Localizzazioni puntuali" – le cave risultano comprese nell’elenco (solo esemplificativo) di aree per cui è ammessa l’assegnazione alla classe IV, V o VI (e, perciò, non esclusivamente in classe V). Ma ai fini che qui interessano, rileva soprattutto l’altro argomento giustificativo addotto dalla P.A. – comune, si è già visto, a tutte le risposte negative alle osservazioni della ricorrente -, cioè le scelte di classificazione acustica compiute dal limitrofo Comune di Castagneto Carducci: infatti, ciò dimostra che la P.A. ha tenuto conto solo di tale criterio, senza assegnare il rilievo previsto dalla normativa alla preesistente destinazione d’uso del territorio, ad onta di quanto si afferma nella relazione al Piano impugnato (v. all. 2 del Comune). Quest’ultima reca in proposito enunciazioni opposte (come quella contenuta a p. 25, per cui l’assegnazione delle classi I, V e VI è avvenuta mediante considerazioni qualitative sulla destinazione d’uso) che, però, a fronte delle motivazioni addotte a fondamento della reiezione delle osservazioni della società, appaiono mere clausole di stile.

Nel senso di quanto appena visto depone anche la circostanza dell’omessa attivazione, da parte del Comune di S. Vincenzo, del sistema di composizione dei conflitti tra Comuni confinanti previsto, in caso di contrasti tra i Comuni stessi circa il divieto di far confinare zone inserite in classi acustiche separate da un intervallo superiore a 5 dB(A), dall’art. 6, comma 2, della l.r. n. 89/1998: omissione, questa, di cui la ricorrente si lamenta con il quarto motivo del gravame, che deve, perciò, a sua volta trovare accoglimento.

Il punto necessita di una precisazione.

Con quanto ora detto, non si intende in nessun modo estendere il sindacato giurisdizionale al merito delle scelte amministrative e, pertanto, non si intende sostenere che il Comune di S. Vincenzo fosse tenuto ad attivare il rimedio ex art. 6, comma 2, della l.r. n. 89/1998 con il rivolgersi alla Provincia, rientrando la valutazione se attivare o no tale rimedio, per il Collegio, tra le scelte discrezionali che rimangono riservate in via esclusiva alla P.A.. Ciò che si intende dire è che la scelta di non attivare il meccanismo de quo rappresenta un indizio, il quale – se letto unitamente alle risposte fornite dalla P.A. nelle controdeduzioni alle osservazioni della S. S.p.A. – dà conto del percorso logico che è stato seguito dal Comune nelle scelte di pianificazione acustica delle aree in esame. In sostanza, il Comune, una volta individuate le criticità derivanti dalla zonizzazione acustica delle aree confinanti operata dal Comune di Castagneto Carducci (puntualmente riportate in sede di controdeduzioni alle osservazioni), le ha ritenute determinanti e, pertanto, non ha pensato di attivare il rimedio ex art. 6, comma 2, cit., ma ha scelto di far dipendere dalle suddette criticità la classificazione delle aree dove si svolge l’attività della ricorrente, senza considerare il criterio del cd. preuso. È, invece, verosimile che, qualora il Comune fosse partito da tale criterio – come avrebbe dovuto, atteso che, in base alla deliberazione del Consiglio Regionale 22 febbraio 2000, n. 77, ai fini della classificazione acustica del territorio comunale, l’individuazione delle aree da inserire nelle classi I, V, e VI deve precedere quella delle aree da inserire nelle classi II, III e IV (cfr. T.A.R. Toscana, Sez. II, 4 maggio 2011, n. 776) – il conflitto che ne sarebbe derivato, tra la classificazione delle aree della ricorrente basata sul cd. preuso e le scelte di zonizzazione acustica del Comune di Castagneto Carducci, avrebbe indotto il Comune di S. Vincenzo ad attivare il rimedio previsto dall’art. 6, comma 2, della l.r. n. 89/1998. In questi limiti – si ribadisce: di semplice indizio dell’erroneo percorso logico seguito dal Comune di S. Vincenzo nelle scelte di classificazione acustica, a causa dell’illegittima prevalenza assegnata ai criteri della cd. contiguità scalare e del divieto di continuità, sul criterio del cd. preuso – la scelta dell’Amministrazione intimata di non attivare il rimedio previsto per i conflitti tra Comuni dalla l.r. n. 89/1998 risulta sindacabile, in quanto frutto di un’erronea applicazione dei criteri che, per legge, presiedono alla zonizzazione acustica. Il Comune di S. Vincenzo avrebbe, dunque, dovuto almeno precisare esaustivamente le ragioni per cui ha scelto di non attivare siffatto rimedio, in modo da far ritenere che tali ragioni non avessero nulla a che vedere con l’illegittimo scarso "peso" assegnato al criterio della pregressa destinazione delle aree.

Del resto, proprio con riguardo alla zonizzazione acustica, la giurisprudenza ha chiarito che le scelte effettuate dal Comune in materia di classificazione acustica non afferiscono al merito dell’attività pianificatoria o programmatoria dell’Ente, insindacabile in sede di giudizio di legittimità, ma sono espressione di discrezionalità tecnica, ancorata all’accertamento di specifici presupposti di fatto, il primo dei quali è proprio il preuso del territorio: ciò, poiché non è possibile sacrificare oltremodo le aspettative consolidate di coloro che si sono legittimamente insediati in zone qualificate industriali e, quindi, funzionalmente deputate all’espletamento di attività produttive, che non debbono subire limitazioni, a causa della classificazione acustica, non adeguatamente giustificate, diversamente da ciò che potrebbe avvenire, ad es., per le attività industriali localizzate in zona impropria (cfr. T.A.R. Veneto, Sez. III, 24 gennaio 2007, n. 187). Donde la sindacabilità di tali scelte, nei limiti, appunto, in cui è ammesso il sindacato degli atti che costituiscono espressione di discrezionalità tecnica (per illogicità manifesta, travisamento dei fatti, palese disparità di trattamento: T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 30 settembre 2010, n. 32618).

La giurisprudenza ha anche ribadito l’importanza del criterio del cd. preuso, evidenziando che nella zonizzazione acustica del territorio, le scelte della P.A. non si possono sovrapporre meccanicamente alla pianificazione urbanistica, poiché l’art. 6 della l. n. 447/1995 prevede il solo coordinamento con gli strumenti urbanistici, e devono tenere conto delle attività economiche precedentemente insediate sul territorio, le cui esigenze trovano tutela in virtù della loro risalente ubicazione, per cui non sono cedevoli rispetto agli insediamenti che si radichino sul territorio successivamente (T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 24 ottobre 2008, n. 271). Si è poi chiarito che il piano di classificazione acustica va rapportato – dal punto di vista delle fonti di inquinamento acustico – in primo luogo alla situazione di fatto in cui si trova il territorio comunale, e solo indirettamente a quella che in astratto può ricavarsi dalla pianificazione urbanistica (cfr. T.A.R. Liguria, Sez. I, 21 febbraio 2007, n. 354). Il che si spiega perché, se è pur vero che la zonizzazione acustica si caratterizza per la sostanziale omogeneità con la zonizzazione di cui agli strumenti urbanistici e che, pertanto, ai sensi della l. n. 447/1995, il piano regolatore è il termine di riferimento della classificazione del territorio, tuttavia tale corrispondenza non è perfettamente biunivoca ed anzi, vi è un naturale scollamento fra le due tipologie di pianificazione: infatti, lo strumento urbanistico disciplina l’assetto del territorio ai fini prettamente urbanistici ed edilizi, individuando le zone omogenee sulla base di criteri quantitativi, mentre la classificazione acustica ha riguardo all’effettiva fruibilità dei luoghi, avvalendosi di indici qualitativi (T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 2 aprile 2008, n. 348).

Da ultimo, va rimarcato che elementi diversi non possono ricavarsi dalla discussione del Consiglio Comunale riportata nel testo della deliberazione gravata. Al contrario, detta discussione rafforza le suesposte conclusioni, poiché l’Assessore all’urbanistica, nel suo intervento, ha spiegato il mancato inserimento delle aree della S. S.p.A. in classe VI, ancora una volta con la tesi dell’indicazione da parte della Regione della classe V per le aree di cava: tesi di cui si è già indicata l’erroneità, con il corollario della fondatezza della censura formulata sul punto dalla S. S.p.A. (con il secondo motivo di ricorso). L’Assessore all’Urbanistica ha, inoltre, giustificato le scelte comunali attraverso l’argomento (altrettanto erroneo, per quanto esposto) della vincolatività delle scelte di zonizzazione acustica dei Comuni confinanti, senza, dunque, alcun accenno al criterio del cd. preuso.

L’importanza del criterio del cd. preuso, come sopra illustrata, dà conto, altresì, della fondatezza del terzo motivo di gravame: ed invero, ad avviso del Collegio esiste una contraddizione tra la proroga dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività estrattiva e le coeve scelte di zonizzazione acustica, le quali non sembrano tener conto del carattere risalente di detta attività. Si rammenta, sul punto, che secondo la giurisprudenza (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 6 ottobre 2009, n. 6094), sussiste il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà in presenza di un provvedimento che rechi contraddizioni o incongruenze rispetto a precedenti valutazioni della stessa Autorità emanante, o di manifestazioni di volontà che si pongano in contrasto fra di loro.

In definitiva, il ricorso è fondato, attesa la fondatezza del primo e del secondo (per i profili specifici sopra esaminati), nonché del terzo e del quarto motivo. Esso va, dunque, accolto, disponendosi, per l’effetto, l’annullamento del Piano gravato nelle parti oggetto di impugnazione.

Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese, in ragione della complessità delle questioni trattate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana – Seconda Sezione – così definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie e per l’effetto annulla la deliberazione di approvazione del Piano di classificazione acustica del Comune di S. Vincenzo, limitatamente alle parti oggetto di impugnazione.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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