Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 30-01-2013) 15-02-2013, n. 7528

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza del 4.7.2012 il Tribunale di Torino, a seguito di accordo ex art. 444 c.p.p. tra le parti, applicava a V.T. A.D. – imputato del delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 per aver importato 81 ovuli di hashish per complessivi grammi 854,88 – la pena concordata di anni due e mesi 10 e gg. 20 di reclusione oltre la multa ed ordinando la confisca della somma di Euro 210,00, siccome provento del reato di importazione, ed, D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12 sextes di telefoni cellulari.

2. Avverso la sentenza propone personalmente ricorso per cassazione l’imputato dolendosi di:

2.1. inosservanza del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e mancanza di motivazione al riguardo della sussistenza nella specie dell’attenuante in parola, la cui valutazione doveva esperirsi nell’ambito del doveroso controllo sul patto intervenuto sulla pena;

2.2. erronea applicazione dell’art. 240 c.p. in relazione all’art. 445 c.p.p. e mancanza di motivazione in relazione alla somma di denaro confiscata, genericamente qualificata come profitto del reato.

2.3. erronea applicazione della L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies e mancanza di motivazione in relazione alla confisca dei telefoni cellulari in assenza di giustificazione in ordine alla sproporzione rispetto alle condizioni economiche.

3. Il P.G. ha chiesto l’annullamento con rinvio limitatamente alla statuizione sulla confisca dei telefoni cellulari.

4. Il primo motivo è manifestamente infondato. In tema di motivazione della sentenza di patteggiamento, non può essere censurato in sede di legittimità il difetto di motivazione in ordine a una circostanza attenuante non richiesta, dovendo il giudice investito della richiesta di applicazione della pena patteggiata pronunciarsi, in base all’art. 444 c.p.p., comma 2, solo sulla qualificazione giuridica del fatto e sulla applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti. (Fattispecie in tema di mancato riconoscimento della attenuante della lieve entità dei fatti, prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5) (Sez. 6, Ordinanza n. 3769 del 04/12/1996 Rv. 207115 Imputato: Carandente).

5. Quanto al secondo e terzo motivo – come già osservato da questa Corte (Sez. 6, Sentenza n. 17266 del 16/04/2010 Rv. 247085 Imputato:

Trevisan) – pur alla luce della novella apportata dalla L. n. 134 del 2003 al testo dell’art. 445 c.p.p., comma 1 con l’estensione dell’applicabilità – in caso di pena patteggiata – della misura di sicurezza della confisca a tutte le ipotesi previste dall’art. 240 c.p. (e non più soltanto a quelle previste dal detto art. 240 c.p., comma 2 come ipotesi di confisca obbligatoria), non è revocabile in dubbio che il giudice ha l’obbligo di motivare le ragioni per cui ritiene di dover disporre la confisca di determinati beni sottoposti a sequestro ovvero, in subordine, le ragioni per cui non possono reputarsi attendibili le giustificazioni eventualmente addotte sulla provenienza del denaro o degli altri beni confiscati. Ed analogo ragionamento va svolto per la confisca obbligatoria eventualmente disposta ai sensi del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, L. n. 356 del 1992, che richiede l’enunciazione dei motivi che rendono ingiustificata la provenienza del denaro addotta dall’imputato ed altresì richiedono l’esistenza di una palese sproporzione tra i valori patrimoniali accertati e il reddito dell’imputato o la sua effettiva attività economica. Di tal che la schematicità della motivazione propria del rito differenziato ex art. 444 c.p.p. non può estendersi semplicisticamente all’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale (v. da ultimo: Cass. Sez. 5, 3.11.2009 n. 47179, D., rv. 245387).

6. Siffatto obbligo di motivazione nel caso dell’impugnata sentenza del g.i.p. del Tribunale di Torino si rivela inadempiuto. Nella parte motiva della sentenza non v’è traccia, infatti, delle ragioni che presiedono alla confisca della somma di denaro di pertinenza del ricorrente e degli apparecchi cellulari rinvenuti in suo possesso essendosi il giudice limitato ad affermare la apodittica provenienza dal delitto della somma, come pure la sproporzione rispetto a condizioni economiche, neanche indicate.

7. L’indicata lacuna motivazionale impone, pertanto, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla disposta misura di sicurezza patrimoniale della confisca della somma di denaro e dei telefoni cellulari sequestrati a V.T.A.D..

Rimane, ovviamente, impregiudicata la statuizione di merito dell’impugnata decisione e della relativa pena principale applicata al ricorrente, che – a seguito dell’odierna pronuncia di legittimità – passa in cosa giudicata.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla disposta confisca del denaro e dei telefoni cellulari e rinvia per nuovo giudizio sul punto al Tribunale di Torino. Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2013
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. I 23-12-2008 (09-12-2008), n. 47749 Cosiddetto

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IN FATTO ED IN DIRITTO
la Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 18.06.2007, confermava quella resa in prime cure dal Tribunale della stessa città in data 30.06.2003 e con essa la condanna di M. E. alla pena di mesi otto di reclusione ed Euro 140,00 di multa per la detenzione illegale di cinque fucili, tutti qualificati armi comuni da sparo (L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 7).
Avverso detta pronuncia propone ricorso per cassazione l’imputato, chiedendone l’annullamento per violazione della legge processuale, difetto di motivazione e violazione di legge ed all’uopo illustrando tre motivi di doglianza.
Con la prima denuncia, il ricorrente, la violazione della L. n. 134 del 2003, art. 5, comma 2, sul rilievo che la Corte distrettuale avrebbe erroneamente interpretato la norma transitoria in materia di cd. patteggiamento allargato, negando la sospensione ivi contemplata sul presupposto che la disciplina non era applicabile al giudizio abbreviato (ammesso e non più revocabile) ma al solo dibattimento ordinano, secondo letterale indicazione normativa, giustificata dalla circostanza che con la scelta del giudizio abbreviato l’ordinamento aveva già riconosciuto all’imputato il vantaggio contemplato con l’applicazione della pena a richiesta delle parti, privandolo, con ciò, di ogni interesse alla richiesta di un diverso rito alternativo.
Osservava in contrario il ricorrente che sussisterebbe comunque un interesse dell’imputato al diverso rito alternativo, dappoichè possibile concordare una sanzione di maggior favore ed avendo introdotto l’art. 4 una modifica delle sanzioni penali allo stesso più favorevoli.
Denunciava infine sul punto l’impugnante che la Corte distrettuale, al pari del giudice di prime cure, non aveva rilevato che al momento della richiesta di sospensione L. n. 134 del 2003, ex art. 5, comma 2 risultavano pendenti anche due contravvenzioni relative ad altri due capi di imputazione per i quali era stata avanzata richiesta di oblazione e per i quali non era stata ancora dichiarata, con sentenza, l’estinzione dei reati.
Col secondo motivo di ricorso lamenta il ricorrente la mancanza di motivazione in ordine alla riconosciuta colpevolezza dappoichè per nulla valutate dai giudici del merito le importanti giustificazioni addotte nel corso del processo; in ordine alla entità della pena; in ordine alla mancata concessione del fatto di lieve entità ed in ordine alla mancata derubricazione del reato contestato in quello di omessa denuncia del trasferimento delle armi.
Col terzo motivo di doglianza censura il ricorrente la disposta confisca delle armi in sequestro, nonostante non si vertesse, a suo avviso, in ipotesi di confisca obbligatoria giacchè regolarmente denunciate esse armi.
Il primo motivo di ricorso è fondato.
Attiene la relativa doglianza alla interpretazione della L. 12 giugno 2003, n. 134, art. 5, la quale, come è noto, ampliò le possibilità di richiedere utilmente l’applicazione della pena a richiesta delle parti, pur mantenendo ferma una sostanziale differenza col patteggiamento di pena infrabiennale.
Secondo il giudice territoriale la possibilità processuale di invocare la nuova disciplina ai processi pendenti è stata limitata dal legislatore alla sola fase di primo grado e per quei processi "in corso di dibattimento", in corso cioè nelle forme e nei modi del processo ordinario, Sembrerebbe confermare tale assunto il successivo comma 2 il quale, nel disciplinare la sospensiva processuale di giorni 45 introdotta dalla disciplina transitoria quale periodo di riflessione (spatium deliberandi) per valutare l’opportunità o meno di avvalersi della nuova disciplina, là dove, ovviamente, possibile, esplicitamente statuisce che a richiesta dell’imputato "il dibattimento è sospeso".
In ciò da parte di taluno è stato rilevato un profilo di incongruenza costituzionale, attesa l’irragionevolezza di limitare in via transitoria l’applicazione della novella ai soli giudizi di primo grado pendenti in dibattimento ed ai relativi dubbi di costituzionalità il giudice delle leggi ha dato adeguata risposta.
Nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale ad essa sottoposte con i rilievi appena esplicitati e con riferimento alla L. 12 giugno 2003, n. 134, art. 5, commi 1, 2 e 3, – censurato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. in tali termini si è espressa la Corte: "la formulazione letterale del comma 1 precluderebbe l’applicazione della disciplina transitoria nel procedimento a citazione diretta e nel giudizio abbreviato", ma è compito dell’interprete "verificare se la formulazione della L. n. 134 del 2003, art. 5, comma 1, consenta di adottare una diversa interpretazione, tale da superare i profili di irragionevolezza e di illogicità connessi alle interpretazioni letterali acriticamente assunte a presupposto delle questioni, così venendo meno all’onere del giudice di esplorare eventuali interpretazioni conformi a Costituzione prima di sollevare q.l.c.".
Questa Corte di legittimità, pertanto, superando quelli che il giudice delle leggi ha definito "profili di irragionevolezza e di illogicità" dell’interpretazione letterale della disciplina transitoria per cui è causa, e ponendosi nella prospettiva interpretativa ispirata dai principi della costituzione – in particolare gli artt. 3 e 24 Cost. – ritiene di affermare il principio secondo cui la espressione utilizzata nella norma in esame "in corso di dibattimento", ha significazione più estesa e va intesa come "giudizi pendenti", destinati a chiudersi in primo grado con una sentenza di merito, di guisa che anche nel corso del giudizio abbreviato è possibile chiedere lo spatium deliberandi di cui alla norma transitoria in esame.
Nel caso in esame all’imputato è stato negato l’esercizio di tale vincolante facoltà processuale, con la conseguenza che il processo, previo annullamento delle relative pronunce consequenzialmente travolte dall’impugnato rigetto, va rimesso al giudice di prime cure per l’ulteriore corso.
P.Q.M.
la Corte annulla la sentenza impugnata e quella di primo grado e dispone trasmettersi gli atti al G.U.P. del Tribunale di Brescia per il corso ulteriore.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE – SENTENZA 28 giugno 2011, n.14278 CHANCE

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Motivi della decisione

Il ricorso merita accoglimento in ordine al motivo dedotto che deduce error in iudicando per la violazione e falsa applicazione del decreto legge 23 dicembre 1976 n. 857 convertito con modifiche dalla legge 26 febbraio 1977 n. 10, nonché la violazione e falsa applicazione della normativa sul tasso di interesse e sul risarcimento del danno da devalutazione monetaria.

Il ricorrente rammenta la giurisprudenza di questa Corte, da ritenersi consolidata, e intende che il criterio risarcitorio stabilito dalla legge speciale nel comma terzo dello art. 4 del Decreto legge citato, convertito senza modifiche su tale punto, sia un criterio autonomo di valutazione del danno patrimoniale subito dalla vittima come danno emergente o lucro cessante in conseguenza diretta del fatto illecito allorché per varie cause il soggetto leso non sia nelle condizioni di provare il reddito ovvero di produrlo a causa della età, della disoccupazione, della cassa integrazione o degli studi intrapresi e ancora in corso di perfezionamento, come è nella fattispecie in esame. La legge in questi casi adotta il parametro equitativo del triplo della pensione sociale ed alla base del calcolo si pone il reddito annuale ricostruito in relazione alla entità della invalidità permanente, in misura elevata pari al 25%, in un soggetto in età di studi superiori, che viene a subire una rilevante riduzione della capacità lavorativa, presentandosi come invalida alle offerte di lavoro ed a quelle selettive che attengono anche ad una particolare prestanza e presenza fisica. Basta leggere le conseguenze e la tipologia dei danni fisici e psichici considerati nella consulenza medico legale, per evidenziare che la giovane ventenne studentessa, ebbe a subire, oltre ai danni non patrimoniali biologici e morali, anche le perdite patrimoniali presenti e future, che invece la Corte di appello nega in radice senza alcuna adeguata motivazione.

La fondatezza del motivo deriva non solo dall’incipit di Cass. 1989 n. 2150 che riguarda appunto il caso di studente inoccupato ma proficuamente dedito agli studi. Qui la Corte riconosce la risarcibilità patrimoniale del danno derivante da invalidità permanente, consistente nella liquidazione del danno futuro a causa della menomata capacità lavorativa, e il danno derivante dalla invalidità temporanea e collegato alla distinta perdita del guadagno nella esplicazione della detta capacità, secondo criteri equitativi.

Tale incipit, confermato nella successiva giurisprudenza di questa Corte, tra cui Cass. 2002 n.101, Cass. 2004 n. 23298, trova un ulteriore conferma nel principio del risarcimento integrale del danno alla persona, ribadito alle SU civili del 24 novembre 2008 n. 26972 nel punto 4.8. del preambolo sistematico, che enuncia un principio generale di filonomachia ben riferibile al complesso pregiudizio, patrimoniale e non patrimoniale, consequenzialmente derivante dalla grave lesione della salute. Qui il complesso pregiudizio deve essere integralmente ed unitariamente ristorato, sia pure con criteri equitativi ed in relazione alla gravità delle lesioni come circostanziate. Tale gravità, medicalmente accertata, con le circostanze oggettive qualificanti le qualità ed aspettative di vita della giovane lesa, costituisce da un lato la prova oggettiva della lesione e del nesso causale con la condotta del soggetto agente,e d’altro lato la prova presuntiva circostanziata che costituisce la fonte della formazione del ragionevole convincimento, di natura probabilistica, non trattandosi di prova inferiore a quelle c.d. dirette o complete in relazione alla natura del danno. Vedi in tal senso il punto 4.10 delle SU citate, con la precisazione ivi indicata sugli elementi che nella concreta fattispecie siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti, attinenti alla perdita della capacità lavorativa, che consentano di risalire al fatto ancora ignoto, relativo alle perdite patrimoniali e di chances lavorative.

Il debito patrimoniale da illecito è debito di valore e dunque sarà calcolato con rivalutazione, interessi compensativi dal di dello investimento e con interessi legali sulla somma liquidata, a far tempo della sentenza. Lo accoglimento del ricorso determina rinvio alla Corte di appello di Palermo in diversa composizione che si atterrà ai principi di diritto come sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e rinvia anche per le spese di questo giudizio di cassazione alla Corte di appello di Palermo in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-02-2011, n. 3234 Disoccupazione

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Svolgimento del processo

Con sentenza del 26/1/09 la Corte d’Appello di Bari – sezione lavoro rigettò l’impugnazione proposta il 9/11/07 dall’Inps avverso la sentenza emessa il 3/7/07 dal giudice del lavoro del Tribunale di Bari con la quale era stata accolta la domanda di D.G. A., diretta al riconoscimento del diritto alla liquidazione del maggior trattamento dell’indennità di disoccupazione agricola erogatole nel 2005, sulla scorta del rilievo che l’istituto previdenziale non aveva calcolato detta prestazione con riferimento al salario reale, previsto dalla contrattazione collettiva provinciale, in quanto comprensivo della quota di indennità di anzianità e come tale superiore al cosiddetto salario medio convenzionale, rimasto fermo, per disposizione normativa (L. n. 549 del 1995, art. 2, n. 17), al 1995.

La Corte territoriale spiegò tale decisione sulla base della considerazione che la voce retributiva oggetto di causa era da ritenere solo impropriamente qualificata come TFR, non essendo conforme alla relativa disciplina legale, e non poteva, pertanto, essere oggetto dei particolari benefici della esclusione dalla base imponibile ai fini contributivi e della esenzione entro certi limiti dall’imposizione fiscale, così come previsti in materia di trattamento di fine rapporto, per cui, dovendo essere computata ai fini contributivi, doveva essere anche calcolata tra gli emolumenti che concorrevano alla formazione della retribuzione giornaliera utile dei lavoratori agricoli a tempo determinato, costituente, a sua volta, quest’ultima, il parametro per la determinazione delle prestazioni previdenziali.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Inps affidando l’impugnazione ad un solo articolato motivo.

Resiste con controricorso la D.G..

Motivi della decisione

Con l’unico motivo l’Istituto ricorrente, lamentando violazione degli artt. 46, 51 e 55 del CCNL per gli operai agricoli e florovivaisti del 10 luglio 2002 in relazione al D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, art. 6, comma 4, lett. a) nonchè in relazione agli artt. 1362, 2120 cod. civ. ed alla L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 4, commi 10 e 11, (art. 360 c.p.c., n. 3), censura la sentenza per avere incluso nella retribuzione da prendere a base per la liquidazione dell’indennità di disoccupazione anche la voce denominata "quota di TFR", la quale invece non dovrebbe esserlo, per avere – contrariamente a quanto affermato la Corte territoriale – effettiva natura di retribuzione differita. Il ricorso va accolto.

1. Viene in applicazione ne caso di specie, per la determinazione dell’indennità di disoccupazione agricola spettante alla ricorrente, il D.Lgs. 16 aprile 1997, n. 146, art. 4 ("Attuazione della delega conferita dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 24 in materia di previdenza agricola"). La norma recita quanto segue: "A decorrere dal primo gennaio 1998 il salario medio convenzionale, determinato con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale e rilevato nel 1995, resta fermo, ai fini della contribuzione e delle prestazioni temporanee, fino a quando il suo importo per le singole qualifiche degli operai agricoli non sia superato a quello spettante nelle singole province in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. "Si tratta di stabilire se la indennità di disoccupazione spettante per l’anno che interessa la presente causa sia stata correttamente liquidata dall’Inps sulla base dei salari medi convenzionali congelati al 1995 dalla L. n. 549 del 1995, oppure la liquidazione non sia corretta ai sensi del disposto del D.Lgs. n. 146 del 1997, perchè, per quell’anno, detti salari medi convenzionali erano già stati superati dalle retribuzioni spettanti ai sensi dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

La questione posta alla Corte è quindi quella di cui al quesito, e cioè, se – nell’effettuare il raffronto tra i salari medi convenzionali congelati al 1995 (salario convenzionale) e la retribuzione determinata dalla contrattazione collettiva provinciale (salario reale), in relazione all’anno che interessa – quest’ultimo debba o no essere calcolato in modo da comprendervi la quota trattamento di fine rapporto.

2. Va in primo luogo riconfermato il principio già enunciato con la sentenza di questa Corte n. 10546/2007 per cui "ai fini della liquidazione delle prestazioni temporanee in agricoltura, ai sensi del D.Lgs. 16 aprile 1997, art. 4, n. 146, la nozione di retribuzione – definita dalla contrattazione collettiva provinciale, da porre a confronto con il salario medio convenzionale – non è comprensiva del trattamento di fine rapporto". A sostegno di tale affermazione è sufficiente richiamare il combinato disposto di due norme: il D.L. 21 marzo 1988, n. 86, art. 7, comma 2, convenuto nella L. 20 maggio 1988, n. 160, per cui "La retribuzione di riferimento per la determinazione della indennità giornaliera di disoccupazione è quella media soggetta a contribuzione …"ed il D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, che, all’art. 6 "Determinazione del reddito da lavoro dipendente ai fini contributivi", esclude espressamente da contribuzione le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto.

3. In via generale, della correttezza di tale principio non dubita neppure la sentenza impugnata che pure è andata di diverso avviso.

Essa infatti lo ha giustificato con il rilievo che, ancorchè il contratto collettivo applicabile denomini come quota di TFR il compenso giornaliero spettante all’operaio agricolo a tempo determinato (pari all’8,63% di paga base, contingenza e salario integrativo provinciale) esso, in realtà, non avrebbe natura di TFR, ma si tratterebbe di una voce retributiva al pari delle altre e quindi andrebbe computata nella retribuzione giornaliera su cui commisurare sia i contributi previdenziali, secondo i principi di onnicomprensività della retribuzione contributiva (L. n. 153 del 1969, art. 12 e D.Lgs. n. 314 del 1997, art. 6, comma 5) sia, di conseguenza (L. n. 153 del 1969, art. 12, u.c. e D.Lgs. n. 314 del 1997, art. 6, comma 10), le prestazioni, e cioè la indennità di disoccupazione che interessa in questa sede, di talchè, con l’inclusione di questa voce, la retribuzione contrattuale avrebbe superato quella di cui ai salari medi convenzionali congelati al 1995, e quindi ad essa dovrebbe essere commisurata la indennità di disoccupazione ai sensi del già citato D.Lgs. n. 146 del 1997, art. 4. 4. Va preliminarmente rilevato che la normativa previdenziale, in talune fattispecie, riconnette l’ammontare della retribuzione contributiva non già e non solo all’ammontare della retribuzione di fatto erogata al lavoratore, ma alla retribuzione determinata dai contratti collettivi del settore di appartenenza stipulati dalle 00.SS. maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Ed infatti, per quanto riguarda il "minimale", ossia la retribuzione minima al di sotto della quale non si può scendere ai fini del calcolo dei contributi, prevista dalla L. n. 389 del 1989, art. 1, comma 1 la norma non indica direttamente detta soglia minima, ma rimanda e conferisce una sorta di delega, per la quantificazione, alla suddetta contrattazione collettiva. Analogo meccanismo si prevede nel caso di cui al D.Lgs. n. 146 del 1997, art. 4 che viene in applicazione nella specie, in cui la disposizione di legge non determina il momento in cui contributi e prestazioni temporanee cesseranno di essere determinate sulla base del vecchio sistema del salario medio convenzionale, ma lo ricollega alla introduzione del nuovo sistema del salario contrattuale, e precisamente al momento in cui quest’ultimo verrà determinato in misura superiore rispetto a quella di cui ai salari medi convenzionali.

5. Se tale è il sistema, si comprende che la contrattazione collettiva "qualificata", ossia quella determinata dalle 00.SS. maggiormente rappresentative sul piano nazionale, costituisca elemento centrale del sistema previdenziale, giacchè la norma di legge si riempie di contenuto operando ad essa un pieno rinvio.

Proprio in ragione di ciò il legislatore ha avuto cura di dettare una disposizione di interpretazione delle determinazioni dell’autonomia collettiva per evitare il pericolo che diverse opzioni ermeneutiche rendessero incerta la misura dell’obbligo contributivo e, correlativamente, delle prestazioni. Si tratta del D.L. n. 318 del 1996, art. 3 convertito nella L. 29 luglio 1996, n. 302, che reca come titolo "Determinazione contrattuale di elementi della retribuzione da considerarsi agli effetti previdenziali…" e recita:" La retribuzione dovuta in base agli accordi collettivi di qualsiasi livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accordi stessi dalle parti stipulanti, in riferimento alle clausole sulla non computabilità nella base di calcolo di istituti contrattuali e di emolumenti erogati a vario titolo, diversi da quelli di legge, ovvero sulla quantificazione di tali emolumenti comprensiva dell’incidenza sugli istituti retributivi diretti o indiretti….. Le predette disposizioni operano anche agli effetti delle prestazioni previdenziali". 6. Con questa disposizione il legislatore rinvia alla contrattazione collettiva non soltanto per quanto riguarda il contenuto dell’obbligazione retribuiva, ma anche per quanto riguarda quella contributiva, con la conseguenza che il risultato deve essere il medesimo sia per la quantificazione del credito retributivo del lavoratore, sia per la determinazione della contribuzione dovuta all’ente previdenziale.

La norma inoltre intende promuovere una corretta utilizzazione della fonte collettiva da parte del legislatore previdenziale, erigendo uno scudo difensivo a protezione di quella contrattazione nelle sue varie espressioni contro le mutuazioni e le invadenze, non solo degli organi ispettivi dell’Inps ma anche di qualsiasi interprete. Infatti nella determinazione dei predetti istituti diretti o indiretti assume rilevanza la volontà delle parti stipulanti attraverso le clausole che determinano la non computabilità in essi di compensi vari. In altri termini, i contratti collettivi possono legittimamente escludere dalla base di calcolo delle varie voci retributive, tutti quei compensi da essi istituiti e disciplinati.

Si tratta, invero, di una casistica indicata dalla norma in commento che è solo esemplificativa delle variegate formule che può assumere la contrattazione collettiva, per cui, al di là della formulazione non perspicua, ciò che la norma ha inteso salvaguardare è la volontà delle parti stipulanti in tutte le sue articolazioni.

7. In forza di detta legge si dovrebbe allora concludere che, poichè la contrattazione collettiva indica la voce per cui è causa come "quota TFR", la medesima non dovrebbe essere computata nella retribuzione da considerare per determinare la indennità di disoccupazione, essendo a ciò sufficiente la denominazione utilizzata dalle parti, che non è consentito all’interprete di disattendere, andando alla ricerca di una sua diversa causale, come hanno fatto i Giudici di merito, che ne hanno negato la natura di retribuzione differita e l’hanno considerata invece come voce retributiva a compensazione della specificità del lavoro a termine, con conseguente sua inclusione nel calcolo della indennità di disoccupazione.

8. Inoltre, più specificamente, anche a negare valore cogente alle indicazioni espresse dalla autonomia collettiva quando questa regoli istituti di fonte legale (nella specie il TFR) stravolgendone i principi, come sostengono i Giudici di merito, le argomentazioni della sentenza impugnata sono comunque errate, perchè, rispetto alla voce che interessa, non è ravvisabile alcuna alterazione delle regole legali da parte degli stipulanti.

Infatti, l’analisi del contratto collettivo da applicare, che la Corte deve esaminare perchè è ad esso che la norma di legge – di cui al D.Lgs. n. 146 del 1997, art. 4 – rimanda per riempirne il contenuto (l’individuazione del momento in cui l’importo delle retribuzioni determinate dai contratti collettivi risulta superiore rispetto ai salari medi convenzionali, implica necessariamente la lettura e l’interpretazione diretta del CCNL) convince della genuinità della denominazione della voce che interessa come quota del TFR, con conseguente sua esclusione dal conteggio.

9. Valgono, infatti, al riguardo i rilievi già formulati dall’Istituto ricorrente (sulla base dei CCNL depositati in copia integrale unitamente al ricorso):

a) in primo luogo non è vero che, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, per gli operai agricoli a tempo determinato detta quota debba essere corrisposta giornalmente e unitamente alla normale retribuzione. E’ vero, invece, che il CCNL (art. 44 CCNL del 1991) determina la quota che ogni giorno si matura a titolo di TFR, che è pari all’8,63% di paga base, contingenza e del salario integrativo provinciale e dispone che questa voce vada evidenziata nelle tabelle paga e corrisposta al lavoratore "nei tempi e secondo le modalità previste dall’Accordo allegato". Ma la evidenziazione di tale quota nel prospetto della paga giornaliera risponde ad evidenti esigenze di trasparenza e di comodità di conteggio (giacchè per questo tipo di personale la prestazione può anche limitarsi ad una sola giornata o ad un numero esiguo di giornate, talvolta cambiando qualifica da specializzato a qualificato ecc), e non significa che essa venga di fatto erogata giornalmente, perchè l’Accordo, a cui il citato articolo del CCNL rimanda, prevede che, agli operai a tempo determinato, l’azienda erogherà il TFR al termine del rapporto di lavoro, rispettando cioè la regola inderogabile che disciplina il TFR;

b) Non rileva il fatto che il TFR non sia onnicomprensivo, ossia che il CCNL escluda il terzo elemento, perchè ai sensi della L. n. 297 del 1982, art. 1 l’autonomia collettiva può ben non comprendere alcune voci retributive, dal momento che il nuovo art. 2120 cod. civ., comma 2 come è noto, fa salva la diversa previsione dei contratti collettivi. Peraltro la autonomia della quota di TFR risulta anche dal fatto che, fino al 1979, la contrattazione collettiva degli operai agricoli a tempo determinato aveva sempre incluso nel "terzo elemento" non solo le mensilità aggiuntive, le festività e le ferie, ma anche l’indennità di anzianità, mentre solo a partire dal CCNL del 1991 il TFR è stato estrapolato dal terzo elemento e calcolato nella misura che sopra si è indicata;

c) Non corrisponde al vero l’assunto secondo cui il presupposto del pagamento del TFR è costituito da una rapporto di lavoro di durata non inferiore ai quindici giorni, mentre le frazioni inferiori rimarrebbero prive di copertura, giacchè è stato affermato (Cass. n. 13934 del 25/09/2002) che "in tema di trattamento di fine rapporto, l’art 2120 cod. civ. (nel testo di cui alla L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 1), nel prevedere che il trattamento di fine rapporto è dovuto "in ogni caso" di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, fissa il principio dell’arrotondamento al mese delle frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni, ma non quello della irrilevanza delle frazioni di mese inferiori a quindici giorni.". d) E’ vero poi che il CCNL determina la quota oraria del TFR nella misura dell’8,33% della paga base nazionale, dell’indennità di contingenza e del salario integrativo provinciale, ma detta indicazione, che incide sul rapporto di lavoro ed è estraneo all’aspetto previdenziale, vale a precisare le voci che devono entrare nel conteggio (stante la facoltà riservata all’autonomia collettiva di eliminarne alcune), ma ciò non toglie che, ove la retribuzione percepita sia inferiore o superiore a quella di cui al CCNL, il conteggio del dovuto al lavoratore si debba liquidare sul percepito. e) Appare, infine, irrilevante, ai fini che interessano, il regime fiscale, per cui detta voce sarebbe assoggettata ad Irpef nella stessa misura della retribuzione giornaliera e non con le aliquote per la tassazione separata, non potendo questo solo elemento mutarne la natura come voluta dalle parti.

10. Conclusivamente il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e, non essendovi necessità di ulteriori accertamenti, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda di cui al ricorso introduttivo, sulla base del seguente principio:

"Confermandosi quanto già ritenuto dalla precedente sentenza di questa Corte n. 10546/2007, per cui ai fini della liquidazione delle prestazioni temporanee in agricoltura, la nozione di retribuzione – definita dalla contrattazione collettiva provinciale, da porre a confronto con il salario medio convenzionale D.Lgs. 16 aprile 1997, n. 146, ex art. 4 – non è comprensiva del trattamento di fine rapporto", va ulteriormente affermato che, sulla base del suddetto principio, la voce denominata "quota di TFR" dai contratti collettivi vigenti a partire da quello del 27.11.1991, va esclusa dal computo della indennità di disoccupazione, in considerazione della volontà espressa dalle parti stipulanti, che è vietato disattendere in forza della disposizione di cui al D.L. 14 giugno 1996, n. 318, art. 3 convertito in L. 29 luglio 1996, n. 402, a norma del quale, agli effetti previdenziali, la retribuzione dovuta in base agli accordi collettivi non può essere individuata in difformità rispetto a quanto definito negli accordi stessi. Dovendo escludersi che detta voce abbia natura diversa rispetto a quella indicata dalle parti stipulanti, non è ravvisabile alcuna illegittima alterazione degli istituti legali da parte dell’autonomia collettiva".

La novità delle questioni giustifica la compensazione tra le parti delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di cui al ricorso introduttivo. Compensa le spese dell’intero processo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.