Cons. Stato Sez. V, Sent., 19-09-2011, n. 5285 Mansioni e funzioni Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il TAR Lazio -Sezione staccata di Latina dichiarava in parte inammissibile e per il residuo infondato il ricorso che le ricorrenti in epigrafe avevano proposto contro il Comune di Latina per conseguire sia l’inquadramento nella sesta qualifica ex d.P.R. n. 333/1990, sia la corresponsione delle differenze retributive per le mansioni superiori da loro asseritamente svolte.

Precisamente, il TAR riteneva inammissibile la richiesta avanzata di un inquadramento superiore (dopo aver rigettato l’eccezione di parziale improcedibilità sollevata al riguardo, da ultimo, dalle stesse interessate), ed infondata la domanda delle differenze retributive in quanto non risultava che le istanti avessero ricevuto un formale incarico di svolgere le vantate mansioni superiori.

Avverso detta sentenza le ricorrenti proponevano appello, deducendo l’erroneità della sentenza del primo Giudice nella parte in cui aveva disatteso l’eccezione di parziale improcedibilità che era stata articolata in dipendenza dell’intervenuto loro inquadramento con delibera del 13.10.1993, nelle more del giudizio, nella qualifica rivendicata. Le interessate insistevano, inoltre, sul riconoscimento del diritto a conseguire le differenze retributive per le mansioni superiori.

Resisteva all’impugnativa il Comune di Latina.

Questa Sezione respingeva l’appello con la sentenza in epigrafe, sulla scorta della seguente motivazione.

"4.1.Correttamente il TAR ha ritenuto di non dovere dichiarare la parziale improcedibilità del ricorso per essere intervenuto nelle more del giudizio l’inquadramento delle ricorrenti nella sesta qualifica con delibera del 13. 10.1993.

Invero detto inquadramento è stato effettuato a seguito di corsoconcorso e con effetto ex nunc, mentre le istanti chiedevano un inquadramento nella sesta qualifica ex d.P:R. n.333/1990, che aveva decorrenza economica dal 1° luglio 1988.

4.2.Priva di fondamento è la pretesa delle dipendenti, inquadrate nel quinta qualifica ex d. P.R. n.333/1990, ad ottenere la corresponsione delle differenze retributive per l’asserito svolgimento di mansioni superiori di sesta qualifica per il periodo antecedente all’intervenuto inquadramento in quest’ultima qualifica.

E’ orientamento pacifico della Sezione che al fine della corresponsione delle differenze retributive dovute, non solo deve essere vacante e disponibile il relativo posto in organico ma occorre anche un preventivo provvedimento di incarico (V. la decisione della Sezione 14 gennaio 2009 n. 100 e precedenti ivi indicati).

Nella specie l’incremento dei posti in organico nella sesta qualifica è intervenuto solo con la delibera del 5 aprile 1991 ed inoltre difettava pure un incarico formale da parte dell’Autorità competente in materia, che era all’epoca la Giunta municipale.

Detto indirizzo restrittivo è stato recentemente ribadito da questo Consiglio, osservandosi che il diritto del dipendente pubblico, che abbia svolto mansioni superiori, al trattamento economico relativo alla qualifica immediatamente superiore, va riconosciuto con carattere di generalità solo a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’art. 15 d.lg. 29 ottobre 1998 n. 387 (22 novembre 1998), atteso il carattere innovativo delle disposizioni in esso contenute (V. la decisione della Sezione 19 novembre 2009 n. 7234), mentre nella fattispecie si tratta di periodo antecedente al 1998.

Invero, non ha natura di norma di interpretazione autentica la disposizione contenuta nell’art. 15 d.lg. 29 ottobre 1998 n. 387, poiché tale carattere va riconosciuto solo alle norme dirette a chiarire il senso di quelle preesistenti, ovvero, in caso di interpretazioni polisense, ad enuclearne il senso ad esse più ragionevolmente ascrivibile, il che nel caso in esame non ricorre.

Per cui, nella specie, si deve fare applicazione dell’insegnamento tradizionale – affermato dalla Adunanza Plenaria n. 3 del 2006 – secondo il quale le mansioni svolte dal pubblico dipendente, eventualmente superiori rispetto alla qualifica rivestita, in mancanza dei relativi presupposti, sono del tutto irrilevanti sia ai fini della progressione in carriera sia ai fini retributivi."

Avverso tale decisione le stesse ricorrenti hanno ora esperito il presente ricorso per revocazione.

Le medesime hanno allegato di non avere ricevuto il rituale avviso di fissazione dell’udienza di discussione dinanzi alla Sezione, atto inviato dalla Segreteria ma restituito dal Servizio postale al mittente con la motivazione "destinatario è sconosciuto". L’omissione, che ha impedito di presentare ulteriori memorie e documenti, oltre che di presenziare all’udienza, avrebbe integrato gli estremi dell’errore di fatto di cui all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ..

Ai fini della fase rescissoria, inoltre, le istanti, avendo esclusivo riguardo alla propria pretesa di ottenere le desiderate differenze retributive, hanno dedotto che un formale incarico, sia pure assunto "ora per allora", avrebbe potuto essere individuato nella delibera consiliare n. 12/1991; e soggiungevano che delle colleghe in posizione analoga avevano visto le loro domande accolte dallo stesso T.A.R..

Si costituiva in resistenza anche a questo ricorso il Comune di Latina, che ne deduceva l’inammissibilità e comunque l’infondatezza.

All’udienza del 15 luglio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

1 L’allegato motivo di revocazione sussiste.

La giurisprudenza ha difatti da tempo riconosciuto che nel sistema della giustizia amministrativa la rilevanza dell’errore di fatto di cui all’art. 395 n. 4, c.p.c. può essere affermata non solo rispetto a circostanze fattuali inerenti alla materia controversa, cioè propriamente alla fattispecie concreta dedotta in giudizio, ma altresì al "fatto" processuale, laddove rifletta la violazione di fondamentali regole procedurali poste a tutela dell’effettività del contraddittorio (C.d.S., IV, 22 aprile 1999, n. 695). E la pratica giurisprudenziale è pertanto uniforme nel riconoscere che la mancata comunicazione/ricezione dell’avviso di fissazione d’udienza da parte del difensore costituito in giudizio implica un errore di fatto che è rilevante (quando non determinato da un fatto imputabile al difensore, che non abbia comunicato la variazione dell’indirizzo alla Segreteria dell’organo giurisdizionale adìto: V, 10 febbraio 2009, n. 759; IV, 19 febbraio 2007, n. 858) ai sensi dell’art. 395 n. 4, c.p.c., poiché l’omissione dell’adempimento induce in errore il Giudice circa la regolare costituzione del contraddittorio (tra le tante in questo senso cfr. C.d.S., VI, 13 settembre 2010, n. 6560; V, 14 febbraio 2011, n. 963; ma v. anche, più indietro nel tempo, già IV n. 695/1999 cit.; V, 10 luglio 2000, n. 3860; per lo stesso indirizzo v. anche, ad es., Cassazione civile, sez. trib., 23 gennaio 2008, n. 1395; sez. unite, 30 dicembre 2004, n. 24170).

Ciò posto, in punto di fatto è emerso, dalle verifiche eseguite, che nella fattispecie la comunicazione al legale di parte dell’avviso di fissazione dell’udienza non è potuta andare a buon fine per un errore nell’intestazione di quest’ultimo.

La sentenza della Sezione deve quindi essere revocata.

2 L’appello di parte, nondimeno, deve essere respinto.

Sul punto dell’improcedibilità invocata dalle ricorrenti in virtù dell’intervenuto loro inquadramento nelle more del giudizio nella qualifica superiore, nessuna ragione è stata addotta per indurre la Sezione a discostarsi da quanto a suo tempo già osservato in occasione del proprio precedente decisum reiettivo. Per le ragioni poco sopra richiamate, dunque, questo profilo dell’appello non può che essere respinto.

Venendo al tema delle rivendicate differenze retributive, la decisione testé revocata succintamente già ricordava come la giurisprudenza di questo Consiglio è orientata ormai stabilmente e da tempo in senso contrario all’accoglimento delle istanze del personale tese al riconoscimento delle maggiori retribuzioni potenzialmente collegabili allo svolgimento di mansioni superiori.

Viene infatti costantemente affermato (cfr. la recente decisione n. 3314/2010 della Sezione, dalla quale si traggono i passaggi che qui di seguito si riportano) quanto di seguito:

"a) a meno che non via sia una specifica disposizione di legge che disponga altrimenti, lo svolgimento in via di mero fatto di mansioni superiori da parte del pubblico dipendente, rispetto a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento, costituisce circostanza irrilevante, oltre che ai fini della progressione in carriera, anche ai fini economici, non essendo sotto tale aspetto il rapporto di pubblico impiego assimilabile al rapporto di lavoro privato, sia perché gli interessi pubblici coinvolti sono di natura indisponibile, sia, comunque, perché l’attribuzione di mansioni superiori e del correlativo trattamento economico devono avere il loro presupposto indefettibile nel provvedimento di inquadramento.(cfr., tra le tante, Sez. VI, 8.1.2003, n. 17; 19.9.2000, n. 4871; 22.8.2000, n. 4553; 11.7.2000, n. 3882; Ad. Pl. 23.2.2000 n. 11);

b) la domanda volta ad ottenere una retribuzione superiore a quella riconosciuta dalla normativa applicabile non può essere basata sull’art. 36 Cost., che afferma il principio di corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità del lavoro prestato; tale norma, infatti, non può trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale, quali quelli previsti dall’art. 98 Cost. (che, nel disporre che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione, vieta che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla pura logica del rapporto di scambio) e quali quelli previsti dall’art. 97 Cost., contrastando l’esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita con il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione, nonché con la rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità dei funzionari (cfr. Sez. VI, 19.9.2000, n. 4871; Sez. VI, 11.7.2000, n. 3882; Sez. VI, 15.5. 2000, n. 2785; Ad. Plen. 18.11.1999, n. 22);

c) per effetto degli artt. 51 e 97 Cost. le attribuzioni delle mansioni e del relativo trattamento economico non possono essere oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi (cfr. Sez. VI, 8.1.2003, n. 17; 19.9.2000, n. 4871; Sez. VI, 11.7. 2000, n. 3882; Ad Pl. 23.2.2000, n. 11);

d) il diritto alle differenze retributive per lo svolgimento delle mansioni superiori da parte dei pubblici dipendenti va riconosciuto con carattere di generalità soltanto a decorrere dall’entrata in vigore del D.Lgs. 29.10.1998, n. 387, che con l’art. 15 ha reso anticipatamente operativa la disciplina dell’art. 56 D.lgs. 3.2.1993 n. 29, atteso che, prima di tale data, nel settore del pubblico impiego, salvo diversa disposizione di legge, le mansioni svolte da un pubblico dipendente erano del tutto irrilevanti ai fini della progressione di carriera ovvero agli effetti economici di un provvedimento di preposizione ad un ufficio di livello superiore (cfr., tra le tante, Cons. St., Ad. Plen. 23.2.2000, n. 11; Sez. VI 8.1.2003, n. 17; 27.11.2001, n. 5858; 7.5.2001, n. 2520).

Il Collegio non ignora che in senso favorevole al dipendente pubblico si è recentemente orientata la sentenza Cass. S. U. n. 25837 dell’11.12.2007, che ha espresso il seguente principio di diritto: "in materia di pubblico impiego – come si evince anche dalla lettura del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, art. 56, comma 6, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25, così come successivamente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15) – l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento, ha diritto, in conformità della giurisprudenza della Corte Costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.. Norma questa che deve, quindi, trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione all’attività spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni."

Peraltro, pur in presenza di detto diverso indirizzo della Cassazione favorevole a riconoscere natura retroattiva alla modifica di cui al D. L.vo. n. 387/1998, questo Collegio (in adesione alla decisione sez. VI n. 4346 dell’11.9.2008) non ritiene di doversi discostare dal pacifico orientamento del Consiglio di Stato, secondo cui il diritto del dipendente pubblico alle differenze retributive spettanti per lo svolgimento di mansioni superiori può essere riconosciuto in via generale solo a decorrere dalla data di entrata in vigore del D. L.vo n. 387/1998 (22 novembre 1998), in quanto detto Decreto possiede evidente carattere innovativo rispetto alla normativa precedente e non riverbera in alcun modo la propria efficacia su situazioni pregresse (v., da ultimo, Cons. Stato, Ad. Plen., n. 3/2006).

Per il periodo antecedente il 30 giugno 1998, cui si riferisce la presente controversia, non può, quindi, essere riconosciuto il diritto alle predette differenze retributive (Cons. St., V, n. 2740 del 29 aprile 2009" (C.d.S., V, n. 3314 cit.).

Sul tema della disciplina dettata dagli articoli 5657 del d.lgs. n. 29/1993 merita di essere poi più ampiamente ricordato il puntuale insegnamento dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 10 del 2000).

"Ora, non sfugge al Collegio che la cd. privatizzazione del pubblico impiego operata dal decreto n. 29/1993 abbia costituito una riforma radicale (non una semplice correzione di aspetti secondari), destinata perciò ad investire la forma precedente nei suoi principi direttivi.

Senonché una modifica ab imis di un istituto complesso postula quasi sempre un’attuazione graduale, con la conseguenza che alcuni tratti della riforma (come la disciplina delle mansioni superiori), elaborati sul fondamento di una pronta effettività del rinnovato assetto, mancando questa, debbano poi essere differiti, potendo altrimenti innescare risultati non voluti. Ciò spinge il legislatore ad ulteriori interventi: le modifiche al d.lgs. n. 29 sono state singolarmente numerose e denotano le difficoltà emerse, sul piano pratico, per inquadrare la realtà fattuale nel nuovo orizzonte normativo.

E’ agevole comprendere, pertanto, come il legislatore, dopo aver introdotto all’art. 57 del d.lgs. n. 29 una disciplina generale del conferimento di mansioni (immediatamente) superiori, valida per tutte le amministrazioni pubbliche – quale fenomeno eccezionale e temporaneo (limitato a tre mesi e rinnovabile per eguale periodo, ma con conferimento ad altro dipendente) – ne abbia subito rinviato l’applicazione, subordinandola all’emanazione, in ciascuna amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione delle strutture organizzative. Ed ha, poi, rinnovato più volte la proroga sino all’abrogazione della norma.

Di fronte agli espliciti interventi del legislatore per differire l’attuazione della puntuale (e, tutto sommato, limitativa) disciplina delle mansioni superiori recata dall’art. 57, protrattisi sino alla sua caducazione, è arbitrario scorgere in esso l’espressione di un principio generale di più ampia portata e ritenerlo applicabile – in aperto conflitto con la contraria volontà espressa dal legislatore con i ripetuti rinvii – a far tempo dalla sua emanazione o, perfino, da data anteriore.

Attualmente la materia è disciplinata dall’art. 56 del d.lgs. n. 29/1993 (nel testo sostituito con l’art. 25 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80), che ha regolamentato (ben può dirsi ex novo, per la significativa apertura nei confronti del mansionismo) l’istituto dell’attribuzione temporanea di funzioni superiori nell’ambito del pubblico impiego. E’ prova eloquente del mutato atteggiamento del legislatore l’affermazione, per la prima volta rinvenibile in un testo normativo di portata generale per il pubblico impiego, che al lavoratore spetta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore anche nel caso di assegnazione nulla per violazione delle condizioni ivi previste (art. 56 citato, quinto comma).

Anche questa volta l’operatività della norma è stata rinviata. Il sesto comma dell’art. 56 stabiliva, infatti, che "le disposizioni del presente articolo si applicano in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita… Fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza può comportare il diritto a differenze retributive o ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore".

Ma in seguito l’art. 15 del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387 ha soppresso le parole "a differenze retributive o". Con tale ultimo intervento il legislatore ha manifestato la volontà – non è possibile attribuire altro significato alla modifica – di rendere anticipatamente operativa la disciplina dell’art. 56, almeno con riguardo al diritto del dipendente pubblico, che ne abbia svolto le funzioni, al trattamento economico relativo alla qualifica immediatamente superiore.

Tale diritto, pertanto, va riconosciuto con carattere di generalità a decorrere dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 387/1998.

E poiché, ad avviso del Collegio, il riconoscimento legislativo del diritto in questione, nei termini appena precisati, possiede un evidente carattere innovativo e non riverbera in alcun modo la propria efficacia su situazioni pregresse, esso non può trovare applicazione nei confronti dei ricorrenti, in quanto è posteriore all’ambito temporale oggetto della presente vertenza." (C.d.S., A.Pl. n. 10 del 2000).

Per tutto quanto precede, con riguardo al periodo temporale anteriore all’entrata in vigore delle modifiche apportate dall’art. 15 del d.lgs. n. 387/1998, che è proprio il lasso di tempo in cui si cala la pretesa qui sub judice, l’art. 56 del d.lgs. n. 29/1993 non consente che lo svolgimento di mansioni superiori alla qualifica ricoperta possa tradursi in un riconoscimento di differenze retributive.

Si è difatti ampiamente visto che lo svolgimento di mansioni superiori nell’ambito del pubblico impiego, anche se protratte nel tempo e assegnate con atto formale su posto vacante e disponibile, è giuridicamente ed economicamente irrilevante, un diritto alle differenze retributive potendo ammettersi unicamente per il periodo successivo all’entrata in vigore dell’art. 15 d.lgs. n. 387/1998 (C.d.S., IV, 8 giugno 2009, n. 3514; 26 settembre 2008, n. 4642).

Orbene, le precedenti considerazioni danno forma ad un impedimento al riconoscimento di differenze retributive che le argomentazioni svolte dalle odierne appellanti (sulla possibilità di individuare un formale incarico conferito "ora per allora" nella delibera n. 12/1991; e sull’esistenza di colleghe in posizione analoga che avrebbero visto le loro domande accolte in primo grado) non potrebbero in alcun modo superare.

L’appello in esame va pertanto respinto.

Le spese processuali possono essere tuttavia equitativamente compensate tra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) accoglie il ricorso per revocazione, e per l’effetto revoca la sentenza in epigrafe.

Respinge l’appello.

Compensa integralmente le spese di lite tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 07-07-2011) 23-09-2011, n. 34690

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 14/10/10 il Giudice di Pace di Ancona assolveva A. H., perchè il fatto non sussiste, dal reato (acc. in (OMISSIS)) di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10 bis (illegale soggiorno, per assenza di permesso, nel territorio dello Stato). Ciò perchè mancava la prova che al momento del controllo fosse trascorso il tempo di legge (otto giorni) entro il quale lo straniero avrebbe dovuto e potuto compiere gli adempimenti amministrativi per ottenere il titolo di soggiorno.

Ricorreva per cassazione il PG presso la Corte di Appello di Ancona, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione: lo straniero trovato privo di permesso è di per sè in una situazione di illegalità di cui è consapevole e grava su di lui l’onere di dedurre condotte o di allegare documenti a sè favorevoli. Inoltre il tempo di 8 giorni per richiedere al Questore il permesso di soggiorno presuppone un ingresso legale certificato dal visto di ingresso, mentre nel caso in esame il soggetto era privo di qualsiasi documento.

Chiedeva l’annullamento della sentenza.

Alla pubblica udienza fissata per la discussione il PG concludeva per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata e la difesa (d’ufficio) per il rigetto del ricorso.

Il ricorso è fondato e va accolto nel senso richiesto dall’accusa.

Invero il tempo di otto giorni dall’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, entro il quale la legge ( D.Lgs. n. 286 del 1998) prevede che il permesso di soggiorno debba essere richiesto al questore della provincia in cui lo straniero si trova (art. 5, comma 2), presuppone che lo straniero medesimo, nel detto territorio, sia entrato regolarmente ai sensi del precedente art. 4 (art. 5, comma 1).

In mancanza di tale presupposto vale da subito la norma penale dell’art. 10 bis (Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato).

La sentenza impugnata va pertanto annullata con rinvio per nuovo giudizio al giudice di merito, che si atterrà al principio su affermato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Giudice di Pace di Ancona.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 05-03-2012, n. 3378 Sentenze ecclesiastiche di nullità, delibazione

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Svolgimento del processo

S.N. chiedeva alla Corte di appello di Bari di dichiarare l’efficacia nella Repubblica Italiana della sentenza del Tribunale ecclesiastico regionale pugliese (confermata in appello e resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica in data 27 agosto 2004) con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario celebrato a Bari il (OMISSIS) fra S.N. e D.C.L. per esclusione dell’indissolubilità del vincolo da parte del marito.

Si costituiva D.C.L. che chiedeva il rigetto della domanda con condanna del richiedente al risarcimento dei danni e, subordinatamente alla pronuncia di riconoscimento della sentenza ecclesiastica, la condanna di S.N. al pagamento di una congrua indennità ex art. 129 bis c.c..

La Corte di appello di Bari ha dichiarato l’efficacia in Italia della sentenza di nullità del matrimonio fra S.N. e D.C. L. e ha respinto le domande riconvenzionali proposte da quest’ultima.

Ricorre per cassazione D.C.L. affidandosi a due motivi di ricorso.

Si difende con controricorso S.S..

Le parti depositano memorie difensive.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 8 comma 2, lettera b) e c) dell’accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1929, ratificato con L. n. 121 del 1985 nonchè dell’art. 797 c.p.c., comma 6, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e assoluto difetto di motivazione circa un fatto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

La ricorrente pone alla Corte i seguenti quesiti di diritto:

1) "se l’evidente contrasto con l’ordinamento interno impedisce la delibazione di una sentenza il cui portato sia inconciliabile con le regole processuali e sostanziali vigenti in Italia". 2) "se, in riferimento al dettato normativo dell’art. 8, comma 2 lett. b), dell’accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1929, ratificato con L. n. 121 del 1985, la Corte di appello, chiamata a delibare nell’ordinamento italiano una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, debba limitarsi a verificare il rispetto formale ed apparente del principio del contraddittorio e del diritto di difesa o debba effettuare un esame concreto e dettagliato delle risultanze del processo ecclesiastico, al fine di stabilire se le parti hanno usufruito di un processo giusto ed equo, alla luce dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana". 3) "quali sono i criteri che la Corte di appello deve utilizzare per valutare il rispetto del diritto di agire e resistere nel processo ecclesiastico nonchè quali elementi della fattispecie concreta può utilizzare per la suddetta valutazione e se per la suddetta valutazione assume rilevanza il difetto e/o l’incongruità della motivazione della sentenza ecclesiastica da delibare".

Il primo quesito è inammissibile per la sua evidente genericità.

Nondimeno è opportuno ribadire (in conformità a quanto affermato da Cass. civ. n. 3339 del 6 marzo 2003 e da Cass. civ. n. 814 del 15 maggio 2009) che il riconoscimento degli effetti civili della sentenza di nullità del matrimonio concordatario, pronunciata dai Tribunali Ecclesiastici, non è precluso dalla preventiva instaurazione di un giudizio di separazione personale tra gli stessi coniugi dinanzi al giudice dello Stato Italiano, giacchè il giudizio e la sentenza di separazione personale hanno petitum, causa petendi e conseguenze giuridiche del tutto diversi da quelli del giudizio e della sentenza che dichiara la nullità del matrimonio (cfr. in tale senso; Cass. A. civile n. 3339 del 2003).

Al secondo quesito deve rispondersi ribadendo il principio secondo cui la norma della L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8, comma 2, lett. b), che indica le condizioni alle quali possono essere dichiarate efficaci in Italia le sentenze di nullità dei matrimoni concordatari emanate dai tribunali ecclesiastici, va interpretata nel senso che sussiste una violazione del diritto delle parti di agire e resistere in giudizio solo in presenza di una compressione della difesa negli aspetti e requisiti essenziali garantiti dall’ordinamento dello Stato (cfr. Cass. civ. n. 6686 del 19 marzo 2010 secondo cui in tema di delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, la violazione, nel corso del procedimento, del diritto delle parti di agire e resistere in giudizio, quale situazione ostativa alla delibazione, è riscontrabile soltanto in presenza di una compromissione del diritto alla difesa negli aspetti e requisiti essenziali garantiti dall’ordinamento dello Stato, mentre resta irrilevante una mera diversità di regolamentazione processuale del diritto stesso). La Corte di appello ha accertato la regolarità della citazione in giudizio dell’odierna ricorrente. Le altre deduzioni difensive della D.C. attengono a rilievi che di certo non pongono in essere alcuna lesione del suo diritto di difesa.

Anche il terzo quesito appare manifestamente generico. Nel testo illustrativo del ricorso e nella memoria difensiva la ricorrente lamenta di non aver fruito di un processo giusto e imparziale e rileva che tale affermazione sarebbe stata facilmente riscontrabile da un esame della motivazione della sentenza del tribunale ecclesiastico in merito alle prove relative alle sue condizioni di salute e alle sue caratteristiche personali e comportamentali.

Correttamente sul punto la Corte di appello ha affermato che il tema delle condizioni di salute e della personalità della D.C. esulano dal giudizio di delibazione. Si tratta infatti di considerazioni che non hanno alcuna rilevanza nel nostro ordinamento e che si palesano del tutto ininfluenti al fine di accertare la rilevanza della dedotta riserva mentale dell’odierno controricorrente all’epoca della celebrazione del matrimonio.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, art. 797 c.p.c., comma 7, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e la insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

La ricorrente pone alla Corte i seguenti quesiti di diritto:

1) nel caso in cui la Corte di appello sia chiamata a delibare una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario per esclusione da parte di un coniuge dell’indissolubilità del vincolo, quali siano gli elementi obiettivi che possono essere considerati rivelatori della riserva mentale del coniuge, in assenza di una ammissione diretta all’altro coniuge.

2) quali sono i criteri e le regole ermeneutiche che il giudice della delibazione deve utilizzare per valutare la concreta presenza degli indici rivelatori della riserva mentale di un coniuge, ai fini della identificazione di un parametro univoco per la determinazione dell’obiettiva conoscibilità della il riserva mentale da parte dell’altro coniuge.

3) se la confessione della riserva implichi di per sè un efficiente grado di responsabilità nei confronti dell’ignaro coniuge.

Esclusa la rilevanza del terzo quesito, se rapportato al presente procedimento in cui è data per pacifica la non comunicazione della riserva mentale in epoca antecedente al matrimonio, si deve rilevare la consolidata giurisprudenza di questa Corte (si veda in particolare Cass. civ., 1^ sezione n. 24047 del 10 novembre 2006) che afferma come la declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei bona matrimonii, postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo in effetti conosciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza, atteso che, qualora le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole. In quest’ambito, se, da un lato, il giudice italiano è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione anzidetta da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità, dall’altro, la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in fase di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria; inoltre, il convincimento espresso dal giudice di merito sulla conoscenza o conoscibilità da parte del coniuge della riserva mentale unilaterale dell’altro costituisce, se motivato secondo un logico e corretto iter argomentativo, statuizione insindacabile in sede di legittimità.

Per quanto riguarda i requisiti della prova che il giudice della delibazione deve riscontrare al fine di accertare che la riserva mentale non sia stata nota all’altro coniuge esclusivamente a causa della sua negligenza si deve ritenere che il rispetto di un principio fondamentale quale quello della tutela della buona fede e dell’affidamento trova una particolare ragion d’essere con riferimento all’istituto del matrimonio che presuppone, per definizione e nella generalità dei casi, una concorde volontà dei coniugi nell’assunzione di un vincolo di particolare rilevanza e con incisive conseguenze sulla loro vita personale sicchè la prova della mancanza di negligenza deve essere particolarmente rigorosa e basarsi su circostanze oggettive e univocamente interpretabili che attestino la consapevole accettazione dello stato soggettivo dell’altro coniuge. La Corte di appello di Bari non si è attenuta a questo criterio in quanto ha reso sul punto una motivazione meramente assertiva e/o insuscettibile di controllo da parte del giudice di legittimità.

Il ricorso va pertanto accolto relativamente al secondo motivo per le ragioni illustrate, con rinvio alla Corte di appello di Bari anche per le spese di questo giudizio, e ciò determina l’assorbimento del terzo motivo con il quale la ricorrente ha dedotto che il giudice della delibazione deve poter valutare il diritto alla corresponsione degli emolumenti economici previsti dall’art. 129 bis c.c., in favore del coniuge in buona fede, sulla base delle risultanze del processo canonico e dei documenti allegati dalle parti senza necessità di una precipua deduzione del periculum in mora da parte dell’istante.

La richiesta di cancellazione di frasi offensive del decoro e della dignità della magistratura contenute nel ricorso non può essere accolta in quanto le espressioni citate nel controricorso, se pure ispirate a un tono espositivo iperbolico che (può non, essere apprezzato, sono comunque riconducibili a un diritto di critica dei provvedimenti giurisdizionali che deve essere garantito alla difesa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Bari che, in diversa composizione, deciderà anche sulle spese processuali del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 10-04-2012, n. 5650

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con atto notificato il 25 febbraio 2008 M.L. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia depositata il 27 febbraio 2007 nella causa di cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalla ricorrente con Ma.Er.. La Corte di merito, accogliendo l’appello proposto dal Ma., in riforma della sentenza del Tribunale di Brescia del gennaio 2005 – che aveva posto a carico del predetto un assegno mensile in favore della M. di Euro 100,00 ed il pagamento, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, di somma pari al 40% del T.F.R. percepito dal medesimo prima della domanda di divorzio, all’atto della cessazione del rapporto di lavoro dipendente, ha rigettato tali domande della M.. La Corte ha ritenuto che nella specie non ricorre lo squilibrio economico tra i coniugi. In tal senso, premesso che la M. nulla aveva preteso in sede di separazione consensuale, ha osservato che, se da un lato il Ma., usufruente di pensione di Euro 28.206,00 lordi, durante il periodo della separazione ha ricevuto in eredità quattro appartamenti in Brescia (tre dei quali poi venduti), dall’altro il divario economico sopravvenuto tra tale condizione e quella della M. – che percepisce una pensione di Euro 800,00 netti al mese – è da ritenere compensato dal fatto che quest’ultima ha ricevuto in donazione dal Ma. il diritto di usufrutto di uno di detti immobili (nel quale abita), diritto il cui valore, tenendo presente l’ubicazione centralissima e prestigiosa del bene, è da ritenere sensibilmente superiore a quello di Euro 500 mensili considerato dal Tribunale. A tali considerazioni deve aggiungersi, secondo l’impugnata sentenza, il mutamento in senso migliorativo delle condizioni economiche della M. derivante dalla convivenza more uxorio intrapresa con altro uomo residente in (OMISSIS), che la medesima ha ammesso, sia pure in termini riduttivi di amicizia priva dei caratteri di stabilità e convivenza, e che invece trova conferma nei soggiorni di alcuni mesi -documentati dal passaporto esibito su ordine della Corte- che essa ha compiuto periodicamente, almeno dal 2000 al 2006, in (OMISSIS). I quali peraltro, valutati unitamente alla circostanza costituita da un ulteriore viaggio di 20 giorni in (OMISSIS) nel 1997, dimostrano un tenore di vita più che agiato, che, ove non dovuto al contributo del nuovo compagno, deve ricollegarsi comunque a mezzi suoi propri. Resiste con controricorso il Ma..

MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Preliminarmente, deve rilevarsi che la ricorrente, che con procura a margine del ricorso aveva nominato suoi difensori l’avv. Mina del Foro di Brescia e l’avv. Dettori Masala del Foro di Roma, ha sostituito quest’ultimo difensore (deceduto nelle more) con l’avv. Daniele Manca Bitti del Foro di Roma, mediante procura speciale apposta a margine della memoria di costituzione del nuovo difensore.

Tale sostituzione è inammissibile a norma dell’art. 83 c.p.c., comma 2, nel testo – qui applicabile ratione temporis – vigente prima della modifica apportata dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 9, lett. a), che ha esteso alla procura apposta a margine dell’atto in questione la facoltà del difensore di certificare la sottoscrizione della parte, in deroga al principio generale previsto dal comma 2, dell’art. 83. Inefficace deve dunque considerarsi la nuova elezione di domicilio della ricorrente in (OMISSIS), senza peraltro che da ciò derivi la necessità di un differimento dell’udienza (cfr. Cass. Sez. 2 n. 22020/07; S.U. n. 477/06).

2. Il ricorso si basa su quattro motivi, tutti diretti a denunciare violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ( L. n. 898 del 1970, art. 5, art. 2697 c.c., art. 112 c.p.c., artt. 115 e 116 c.p.c.) e omessa, o insufficiente, o contraddittoria motivazione. Con il primo si lamenta che la Corte di merito ha valutato l’usufrutto dell’immobile ricevuto in donazione senza l’espletamento di una c.t.u., in assenza di altra prova e sulla base della sola presunzione data dalla ubicazione dell’immobile, quindi in violazione delle norme sulla prova e con motivazione insufficiente. Con il secondo, si deduce che la Corte ha ritenuto la sussistenza di una convivenza more uxorio in assenza di prova circa la stabilità continuità e regolarità (non ammesse), e comunque in assenza di prova circa il conseguente miglioramento delle condizioni economiche. Con il terzo, si censura la motivazione circa il tenore di vita agiato sulla base del compimento di lunghi viaggi e soggiorni all’estero, senza indicazione del luogo di destinazione, del tempo di permanenza e della tipologia di alloggio godute. Con il quarto, si censura il rigetto, senza alcuna motivazione, della domanda di attribuzione del 40% del T.F.R. percepito in relazione alla durata del rapporto di coniugio.

3. Nessuno dei motivi di ricorso merita accoglimento. 4. Quanto al primo, con esso si critica una valutazione – sul valore dell’usufrutto di immobile – riservata dall’art. 116 c.p.c. al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale peraltro non è tenuto ad avvalersi a tal fine di una consulenza tecnica d’ufficio, specie ove, come nella specie, esprima una valutazione di massima basata sui dati disponibili e sulla comune esperienza. In tale contesto, la critica della motivazione espressa nella sentenza impugnata si risolve – in mancanza di specificazione circa gli elementi di prova che il giudice avrebbe omesso di considerare, o di vizi di illogicità o contraddittorietà – nella richiesta di riesame nel merito, precluso al giudice di legittimità. 5. Considerazioni analoghe valgono per il secondo e terzo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente attesa la loro connessione. Invero, il convincimento espresso dalla Corte di merito in ordine alla sussistenza di un rapporto di convivenza instaurato dalla ricorrente con altro uomo si mostra congruamente motivato con il riferimento non solo alle parziali ammissioni della ricorrente ma anche a dati oggettivi di riscontro, quali quelli – tratti dalla copia del passaporto della M. – attinenti ai ripetuti viaggi, con relativi soggiorni durati alcuni mesi, in (OMISSIS), dove risiede il predetto. Esclusa, in tale iter logico, una violazione delle norme sulle prove,che del resto non è stata neppure precisata dalla ricorrente, deve d’altra parte ritenersi non priva di logica nè contraddittoria tale motivazione. Il che vale anche per il convincimento tratto dal giudice di merito in ordine alla sussistenza di una condizione di agiatezza (tale da escludere il presupposto della indisponibilità di mezzi economici adeguati) dalla ripetuta effettuazione da parte della ricorrente di viaggi e soggiorni all’estero notoriamente dispendiosi. 6. Quanto alla mancanza di motivazione del rigetto della domanda di attribuzione del 40% del T.F.R. percepito in relazione durata del rapporto di coniugio, va osservato come tale attribuzione sia subordinata, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, alla titolarità, in capo al richiedente, dell’assegno divorzile a norma dell’art. 5 stessa legge.

Si che, la Corte d’appello, avendo escluso che alla ricorrente spetti tale assegno, ha implicitamente considerato assorbita ogni questione in ordine alla suddetta domanda ex art. 12 bis, disponendone il rigetto sotto il profilo preliminare anzidetto. Il rigetto del ricorso si impone dunque, con la conseguente condanna delle ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, in Euro 2.000,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.

Dispone, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, comma 5, che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.