Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 26-01-2011) 23-02-2011, n. 6927 Associazione per delinquere

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 26.3.2007, il G.U.P. del Tribunale di Cagliari dichiarò entrambi responsabili del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (capo 1), K. del reato di cui all’art. 416 c.p. (capo 3), nonchè ciascuno di vari reati fine in tema di stupefacenti, unificati sotto il vincolo della continuazione e – concesse a T. le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti e con la diminuente per il rito per entrambi – condannò:

K. alla pena di anni 17 mesi 6 di reclusione; T. alla pena di anni 12 di reclusione.

Avverso tale pronunzia gli imputati proposero gravame e la Corte d’appello di Cagliari, con sentenza in data 17.3.2010, in parziale riforma della decisione di primo grado, ritenuto l’assorbimento di alcuni capi in altri, determinò la pena per K. in anni 16 mesi 2 di reclusione e per T. in anni 8 mesi 4 di reclusione.

Ricorrono per cassazione i difensori degli imputati.

Il difensore di K.F. deduce:

1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74; non sarebbero stati osservati i parametri di cui all’art. 192 c.p.p.; nessuno dei fatti posti a base della ritenuta sussistenza del vincolo associativo sarebbe idoneo a provarlo; da un lato si afferma che K. avrebbe svolto un ruolo apicale nell’associazione e dall’altro si dimostra che egli si occupava di vendita al dettaglio; le intercettazioni telefoniche non sarebbero idonee a provare l’esistenza dell’associazione per la discrepanza fra le trascrizioni della polizia giudiziaria e quelle del perito e l’impossibilità di attribuire correttamente le voci ai singoli imputati; le frequenza e confidenza dei rapporti sarebbero comunque compatibili con una pluralità di operazioni;

2. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 416 c.p. quale ramo autonomo dell’associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, finalizzata a commettere più delitti di riduzione in schiavitù, tratta di persone, acquisto ed alienazione di schiavi, induzione, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione; non vi sarebbero elementi idonei a provare l’adesione al pactum sceleris o un contributo causale apprezzabile alla realizzazione del programma criminoso; le intercettazioni non integrerebbero un quadro indiziario sufficiente. Il difensore di T.L. deduce:

1. violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 in quanto la valutazione del ruolo dell’imputato indurrebbe ad escludere che lo stesso fosse legato ad un’associazione ed avesse una posizione nella struttura organizzativa della stessa; la sentenza di primo grado era contraddittoria laddove attribuiva a T., pur ritenuto associato un ruolo limitato nel tempo e relativo solo ad incarichi specifici; le intercettazioni da cui emergeva la volontà dell’imputato di attivare traffici autonomi sono state interpretate come segno di livello di autonomia elevato anzichè insufficienza di elementi circa la consapevolezza dell’imputato di far parte dell’associazione; a fronte delle doglianze svolte la Corte territoriale si è limitata ad indicare una serie di intercettazioni, ma tali prove sarebbero equivoche stante al difformità fra trascrizioni della polizia giudiziaria e quelle effettuate dal perito; il nome dell’imputato L. è assonante con quello di un coindagato (tale " L.") ed il G.U.P. gli aveva attribuito anche conversazioni tenute da " G." e " L.", mentre il suo contributo sarebbe stato del tutto occasionale; la sua condotta avrebbe dovuto essere perciò ricondotta solo al concorso nei reati fine;

2. violazione di legge in relazione all’entità della pena inflitta, pur a fronte dello stato di incensurato e delle sue condizioni socio economiche.

Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di K. ed il primo motivo proposto nell’interesse di T. sono manifestamente infondati, generici e svolti al di fuori dei casi consentiti.

Anzitutto va ricordato che è possibile prospettare in sede di legittimità una interpretazione del significato di una intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito soltanto in presenza del travisamento della prova, ovvero nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale, e la difformità risulti decisiva ed incontestabile. (Cass. Sez. 2 sent. n. 38915 del 17.10.2007 dep. 19.10.2007 rv 237994).

In secondo luogo le doglianze circa la incertezza degli elementi di prova derivanti dalle intercettazioni, dalle difformità fra le trascrizioni di polizia giudiziaria e quelle peritali e della errata attribuzione a T. delle conversazioni effettuate da altri soggetti sono generiche, non essendo le stesse indicate con precisione e non essendo indicato l’aspetto di decisività degli eventuali travisamenti dei fatti. Tale genericità era del resto già stata segnalata nella sentenza d’appello.

In terzo luogo la Corte territoriale ha elencato gli elementi da cui ha desunto l’esistenza di un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, disponibilità di mezzi finanziari per l’acquisto di droga, per pagare i corrieri, autovetture, telefoni cellulari e schede per rendere più difficoltose le attività di contrasto, l’esistenza di una struttura di carattere gerarchico operante nella zona di Olbia, di cui K. era il capo come si evinceva da alcune conversazioni e dal fatto che procurava i difensori ai sodali arrestati. Quanto a T. è stato ritenuto il ruolo di partecipe sia pure con ampia autonomia, sulla scorta di conversazioni richiamate, dalle quali emergeva la esecuzione da parte sua di ordini di K..

Si tratta di apprezzamenti di merito, motivati in modo non manifestamente illogico e quindi insindacabili in questa sede.

Anche il secondo motivo proposto nell’interesse di K. è manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti.

La Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di un’adeguata struttura con la predisposizione di un appartamento, ove le ragazze fatte immigrare clandestinamente e da avviare alla prostituzione ed il ruolo di K. nella stessa è stato desunto dalle intercettazioni.

Nuovamente si tratta di valutazioni di merito motivate in modo non manifestamente illogico e quindi non sindacabili in sede di legittimità.

Il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse di T. è manifestamente infondato.

Non vi è alcuna violazione di legge nell’entità della pena posto che la stessa rientra nei parametri edittali.

Neppure può ipotizzarsi un vizio di motivazione sul punto. La determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicchè l’obbligo della motivazione da parte del giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 c.p. ed anche quelli specificamente segnalati con i motivi d’appello. (Cass. Sez. 6, sent. n. 10273 del 20.5.1989 dep. 12.7.1989 rv 181825. Conf. mass. N. 155508; n. 148766; n. 117242).

I ricorsi devono pertanto essere dichiarati inammissibili. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – ciascuno al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 04-03-2011, n. 1415 Amministrazione pubblica

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Svolgimento del processo

Con ricorso iscritto al n. 247 del 2010, G.I. propone giudizio per l’ottemperanza alla decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 4839 del 31 luglio 2009 con la quale era stato accolto il ricorso proposto contro il Ministero della giustizia ed il Consiglio superiore della Magistratura per l’annullamento della sentenza del Tar Lazio, sezione I, n. 00925/2009, resa tra le parti e concernente la nomina a presidente aggiunto della Corte di cassazione.

Con detta pronuncia la Sezione ha ritenuto fondate le censure dedotte dal ricorrente, sotto il profilo del vizio di eccesso di potere per errore di fatto e travisamento, avverso i giudizi formulati dal Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti delle esperienze professionali maturate, rispettivamente, dai due magistrati controinteressati al giudizio.

Nel disporre l’annullamento delle determinazioni impugnate, con salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione, la Sezione non procedeva all’esame della domanda di risarcimento del danno, contestualmente presentata dal ricorrente, attesa la possibilità di una sollecita definizione, da parte dell’Organo di autogoverno, della specifica pretesa relativa al conseguimento dell’incarico in questione; escludeva, inoltre, la sussistenza del danno morale lamentato dal medesimo ricorrente.

Con successivo ricorso, iscritto al n. 247/2010, l’attuale ricorrente lamentava l’ulteriore inadempimento del Consiglio superiore della Magistratura in merito all’obbligo di rideterminarsi a seguito della deciusione di questa Sezione. Il ricorso veniva accolto, con la decisione n. 1715/2010, dalla quale emergeva l’obbligo dell’organo di autogoverno di procedere all’esecuzione della sentenza di accoglimento nel merito, evidenziando come le ragioni dedotte a sostegno della propria inadempienza, e soprattutto attinenti all’intervenuto collocamento a riposo del dott. I., non avessero alcuna efficacia esimente della mancata ottemperanza.

In esecuzione della decisione n. 1415/2010, il Consiglio superiore della Magistratura ha adottato, nella seduta del giorno 8 luglio 2010, una ulteriore delibera con la quale veniva sostanzialmente confermato il giudizio espresso nei confronti del dott. I..

Tale decisione veniva gravata, nell’ambito dello stesso procedimento, con atto per motivi aggiunti depositato il 16 luglio 2010, evidenziando come la delibera avesse sostanzialmente eluso il giudicato intervenuto tra le parti.

Con ordinanza n. 397/2010, la Sezione esperiva accertamenti istruttori, al fine di acquisire la delibera gravata.

All’udienza in camera di consiglio del 18 gennaio 2011, il ricorso è stato discusso ed assunto in decisione.
Motivi della decisione

1. – Il ricorso è fondato e merita accoglimento entro i termini di seguito precisati.

2. – Occorre in via preliminare evidenziare le ragioni che hanno spinto il Consiglio superiore della Magistratura nella seduta del giorno 8 luglio 2010 a confermare il giudizio di prevalenza, nella comparazione con l’attuale ricorrente, espresso in favore del controinteressato dott. G..

Si legge nella delibera gravata:

"Il relatore procede quindi a nuova comparazione, tenendo conto dei rilievi formulati dal giudice amministrativo sotto un duplice profilo: 1) non può ritenersi congruamente comprovato il dato – valorizzato in sede di comparazione con il dottor I.- della "maggiore varietà ed ampiezza di esperienze professionali" in favore del dottor G., risultando al contrario che lo stesso ha svolto le sue funzioni prevalentemente nel settore penale; 2) a fronte di precise indicazioni della normativa secondaria, non può attribuirsi maggiore rilevanza all’esercizio delle funzioni di legittimità, svolte più a lungo dal dottor G., rispetto alla maggiore durata – "di ben 4 anni" – dell’esercizio delle funzioni direttive superiori, che può vantare il dottor I..

Al fine di valutare il corretto apprezzamento dei requisiti di merito ed attitudinali del dottor G., che, in sede di comparazione, e è stato compiuto nella delibera del Consiglio Superiore deltla Magistratura del 30 aprile 2008, va ribadito in premessa che il giudizio di prevalenza del dottor G. sul dottor I. e è stato espresso, e deve essere riaffermato, tenendo conto delle caratteristiche e delle esigenze specifiche dell’ufficio da conferire: rispetto a tali esigenze, il dato della "pluralità di esperienze" maturate dal dottor G. diventa particolarmente significativo in quanto include e privilegia la sua maggiore competenza nel settore penale; tale competenza appare rispondente alla necessità di valorizzare – all’interno della Corte di Cassazione – la specifica conoscenza delle problematiche giuridiche ed organizzative del settore penale, in considerazione della specializzazione civilistica del Primo Presidente e del conseguente affidamento al Presidente Aggiunto delle attività relative al penale e, specificamente, alla Presidenza delle Sezioni Unite Penali.

Come chiaramente emerso anche dalle argomentazioni e considerazioni svolte nel dibattito di plenum, la maggiore varietà ed ampiezza delle esperienze del dottor G. assume rilevanza nel giudizio di comparazione e nella valutazione di prevalenza del candidato proposto sui dottor I. in quanto il primo assicura una maggiore conoscenza delle esigenze del settore penale della Corte, da tenere in particolare considerazione in vista delle funzioni delegate al Presidente Aggiunto e di fatto svolte dal dottor G. dopo il conferimento dell’incarico in esame. Ed infatti, nominato Presidente Aggiunto, il dottor G. ha ricevuto dal Primo Presidente I" incarico di coadiuvarlo nell’ organizzazione ed esplicazione della attività della Corte, in particolare coordinando l’attività giudiziaria" nel settore penale, e di presiedere le Sezioni Unite Penali.

In una situazione di elevatissima qualificazione che, per merito e attitudini, i due candidati possono vantare in eguale misura, deve dunque riconoscersi un rilievo specifico al diverso percorso professionale del dottor G., con l’acquisizione di una più attuale e maggiore competenza nella giurisdizione penale e in ruoli, come quello di Presidente delle Sezioni Unite Penali, che appare maggiormente rispondente alle esigenze dello specifico settore della Corte di Cassazione nel quale – tenuto conto della organizzazione concreta dell’ufficio- il Presidente Aggiunto e è chiamato ad operare. Tale circostanza ha trovato espresso riconoscimento anche nell’intervento in discussione plenaria del Primo Presidente Carbone che, nel motivare il suo voto favorevole alla proposta per il dottor G., espressamente manifestava il suo apprezzamento per la scelta di un "penalista", rispondente "all’interesse dell’ufficio".

Sulla base di tali considerazioni, va dunque ribadita la prevalenza del dottor G. nel giudizio di comparazione con il dottor I.".

2.1. – Le argomentazioni che fondano la delibera gravata appaiono oltremodo perplesse in quanto, sostanzialmente, danno vita ad un rovesciamento dei criteri di giudizio predisposti che, in rapporto alla situazione di fatto esistente, vengono rielaborati in funzione della conferma della precedente decisione.

Occorre ricordare che questa Sezione, nella decisione n. 4839/2009, aveva espressamente indicato come dagli atti emergesse la maggiore varietà di esperienze professionali in capo al ricorrente I., elemento che, alla stregua della normativa inerente il conferimento degli incarichi direttivi all’interno della magistratura ordinaria, è considerato elemento di distinzione. Si legge nella citata decisione che "non può ritenersi comprovato il dato (definito come "oggettivo" dal primo giudice) riguardante la ritenuta maggiore varietà e ampiezza di esperienze professionali in favore del dott. G., in presenza dei documenti che evidenziano funzioni svolte in assoluta prevalenza nel settore penale, costituendo marginale eccezione soltanto le funzioni esercitate durante il tirocinio e quelle pretorili per alcuni mesi tra il 1966 al 1967 mentre, per quanto riguarda le funzioni presso la Sezione per i minorenni della Corte di appello di Roma, detto magistrato risulta aver svolto servizio in maniera preminente nel settore penale e, per quanto riguarda le funzioni di Presidente della Sezione feriale presso la Corte di Cassazione, da parte dello stesso T.A.R. è stato riconosciuto che tale attività riguarda in modo ampiamente prevalente il settore penale. In proposito deve dunque concludersi che, mentre non è dato riscontrare "significative esperienze anche nel settore civile" del dott. G., non potendosi riconoscere la possibilità di un diverso apprezzamento in via discrezionale dei dati sopra riportati, risulta all’opposto documentalmente smentita l’affermazione della esclusiva esperienza nel settore civile dell’odierno appellante, il quale ha invece svolto funzioni penali per circa sei anni, sommando in particolare i periodi di servizio presso la pretura di Calvello nell’anno 1963 oltreché presso il tribunale di Melfi dal 1964".

Sulla base di tale dato incontestato, la delibera oggi gravata assume invece che la preferenza da attribuirsi al dott. G., rispetto al ricorrente I., è data proprio dall’aver svolto in assoluta prevalenza funzioni nell’ambito del settore penale. Detto in altri termini, quello che secondo il criterio positivo è un dato discriminante, ossia l’aver operato prevalentemente in un unico settore, viene qui valorizzato come dato premiante, giustificando la preferenza per un candidato invece che per l’altro, operando così una palese inversione del criterio di giudizio già utilizzato nelle precedenti determinazioni e ponendo nel nulla le determinazioni passate in giudicato contenute nella decisione di questa Sezione n. 4839/2009.

3. – Così evidenziato il contenuto del nuovo provvedimento consiliare e la sua perplessità motivazionale, al fine di evidenziare i limiti del sindacato di questo Consiglio in sede di ottemperanza, occorre richiamare alcuni principi fondamentali in materia di elusione del giudicato, ragione fondamentale che muove la doglianza di parte ricorrente.

La nullità per violazione o elusione del giudicato è oggi disciplinata dall’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dalla novella del 2005 sulla scorta dell’elaborazione giurisprudenziale. Mentre il vizio di violazione del giudicato, che si attualizza quando il nuovo atto emanato dalla pubblica amministrazione riproduca i medesimi vizi già in tale sede censurati, o comunque si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla pregressa statuizione del giudice, appare meglio delineabile, diventa più arduo definire i contorni dell’elusione del giudicato.

Questa Sezione, proprio in tema di delibere del Consiglio superiore della Magistratura, ha avuto modo di affermare (decisione n. 8252/2010) che anche sul piano sematicolessicale, l’elusione "configura un fenomeno diverso dall’aperta violazione del decisum, sussistendo in quei casi in cui l’Amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare esecuzione ai precetti rivenienti dal giudicato, tenda in realtà a perseguire l’obiettivo di aggirarli sul piano sostanziale, in modo da pervenire surrettiziamente al medesimo esito già ritenuto illegittimo. La non copiosa giurisprudenza che si registra in materia rileva che il vizio de quo sussiste laddove l’amministrazione, piuttosto che riesercitare la propria potestà discrezionale in conclamato contrasto con il contenuto precettivo del giudicato amministrativo, cerchi di realizzare il medesimo risultato con un’azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l’esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa in palese carenza dei presupposti che la giustificano (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2006, nr. 861; Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2003, nr. 5820; id., 15 ottobre 2003, nr. 6334).

Alla Sezione non sfugge la delicatezza della valutazione cui è chiamato il giudice amministrativo in sede di ottemperanza in casi come quello che occupa, laddove si tratta di individuare gli elementi sintomatici di un ipotetico sviamento di potere – nel senso appena precisato – all’interno di un contesto in cui le valutazioni dell’Amministrazione, almeno nell’esercizio ordinario delle proprie attribuzioni, sono connotate da amplissima discrezionalità, anche in connessione con la rilevanza costituzionale dell’organo di autogoverno cui dette attribuzioni sono conferite dal legislatore; per questo, è decisivo il momento dell’individuazione di criteri e parametri certi che possano guidare il sindacato giurisdizionale in subiecta materia.

Fra questi ultimi, ad avviso della Sezione, assumono rilievo primario alcuni principi generali enunciati dalla giurisprudenza in tema di esecuzione del giudicato e doveri dell’amministrazione in sede di riesercizio del proprio potere a seguito di annullamento giurisdizionale: in particolare, si è più volte affermato che in tale sede l’amministrazione è tenuta non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal giudice e a determinarsi secondo i limiti impostile dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma anche a prendere diligentemente in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione, valutando non solo i profili oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull’oggetto della pretesa, all’evidente scopo di evitare ogni possibile elusione del giudicato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 maggio 2010, nr. 3382; Cons. stato, sez. V, 13 marzo 2000, nr. 1328).

Corollario di ciò è il dovere dell’amministrazione, in sede di riesame della vicenda controversa, di essere particolarmente rigorosa nella verifica di tutti i possibili profili rilevanti, esaminando l’affare nella sua interezza e sollevando tutte le questioni che ritenga d’interesse, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili ancora non esaminati; tanto allo scopo di evitare che la realizzazione dell’interesse sostanziale del ricorrente possa essere frustrata dall’artata reiterazione ad libitum di provvedimenti sfavorevoli, basati su sempre nuovi e inediti supporti motivazionali. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 dicembre 2004, nr. 7858; Cons. Stato, sez. V, 6 febbraio 1999, nr. 134).

Alla luce degli arresti appena richiamati, ritenere che in presenza di tali condizioni sia configurabile il vizio di elusione del giudicato, deducibile dinanzi al giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’ormai pacifica interpretazione del citato art. 21 septies, l. nr. 241 del 1990 (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2006, nr. 861), da un lato nella specie non contrasta con i limiti costituzionali connessi al rapporto tra l’effetto conformativo delle decisioni del giudice amministrativo e le prerogative istituzionali del C.S.M. (cfr., al riguardo, la nota sentenza della Corte Costituzionale nr. 435 del 15 settembre 1995), per altro verso appare maggiormente coerente col principio di effettività della tutela giurisdizionale, oggi sancito dall’art. 1 cod. proc. amm., al quale ripugnerebbe ogni lettura formalistica che obbligasse il ricorrente vincitore a instaurare sempre nuovi giudizi di cognizione per ottenere l’annullamento dei nuovi atti adottati dall’amministrazione in elusione del giudicato".

4. – I principi appena delineati appaiono del tutto in linea con la fattispecie in scrutinio.

Il dato pregnante del rovesciamento del criterio di giudizio utilizzato nella prima valutazione operata, e censurata dal giudice amministrativo, rende palese il sovvertimento operato dal Consiglio superiore della Magistratura del metro di valutazione derivante dalle stesse circolari dallo stesso adottate.

La Sezione reputa quindi che nella fattispecie sussistano fondati elementi per qualificare come elusive del giudicato le ulteriori determinazioni adottate a seguito della decisione n. 4839 del 2009, e segnatamente la delibera consiliare del giorno 8 luglio 2010 con la quale si è nuovamente proceduto a designare il dottor G. per l’incarico direttivo di Presidente aggiunto presso la Corte di cassazione.

In considerazione della reiterata inottemperanza dell’Amministrazione al giudicato, la Sezione reputa altresì di dover nominare fin d’ora un Commissario ad acta nella persona del Vice Presidente pro tempore del Consiglio Superiore della Magistratura: all’Amministrazione è pertanto assegnato per l’adempimento un termine di trenta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, dopo di che, perdurando l’inottemperanza, il Commissario ad acta avrà un ulteriore termine di trenta giorni, decorrente dall’inutile scadenza del periodo precedente, per provvedere a quanto di competenza.

In caso di infruttuoso decorso anche di tale ulteriore termine, la Sezione si riserva di provvedere direttamente, su istanza di parte, sostituendosi all’Amministrazione per l’adozione dei necessari provvedimenti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:

1. Accoglie il ricorso n. 247 del 2010 nei sensi di cui in motivazione;

2. Condanna il Ministero della giustizia ed il Consiglio superiore della Magistratura, in solido tra loro. a rifondere a G.I. le spese del presente grado di giudizio che liquida in Euro. 5.000,00 (euro cinquemila, comprensivi di spese, diritti di procuratore e onorari di avvocato) oltre I.V.A., C.N.A.P. e rimborso spese generali, come per legge.

3. Compensa integralmente le spese tra le rimanenti parti del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 21-03-2011, n. 243 Ricorso per l’esecuzione del giudicato

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anto segue.
Svolgimento del processo

Con il ricorso di cui in epigrafe, i ricorrenti chiedono l’ottemperanza al Decreto n. 323/06 con il quale il Presidente della Regione Siciliana, su conforme parere di questo Consiglio di Giustizia Amministrativa a sezioni riunite, n. 330/04, ha accolto il ricorso straordinario proposto dagli stessi ed ordinato al Dipartimento regionale del personale, dei servizi generali, di quiescenza, previdenza ed assistenza del personale della Presidenza della Regione Siciliana di darvi esecuzione.

Considerato che l’Amministrazione Regionale non ha provveduto – nonostante la diffida e messa in mora effettuata dai ricorrenti con atto notificato nei di 28-30/4-5/5/2010 – e, peraltro, ha disposto, con circolare del 9/2/2006 (prot. n. 25858), di applicare la prescrizione quinquennale e di ritenere prescritti i ratei maturati anteriormente al quinquennio antecedente la proposizione della domanda, i ricorrenti hanno chiesto che, previa ammissibilità del ricorso, questo Consiglio di Giustizia Amministrativa:

– ordini alle Amministrazioni intimate di dare integrale esecuzione, ognuna nell’ambito della propria competenza, al menzionato D.P.Reg. n. 323/06, provvedendo a corrispondere agli istanti il maggior importo, per differenze retributive a decorrere dall’1/7/1988, per straordinario, indennità di produttività ed indennità di buonuscita, il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione delle singole pretese al soddisfo;

– dichiari nulla la circolare prot. n. 25858/06 e tutti i provvedimenti presupposti, connessi e conseguenziali;

– nomini, in caso di ulteriore inerzia, un Commissario ad acta.

La Presidenza della Regione Siciliana, con memoria depositata il 26 ottobre 2010, si è costituita per resistere al ricorso suddetto, eccependo che la natura esclusivamente amministrativa e non giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana farebbe ritenere inammissibile il ricorso in epigrafe per difetto assoluto di giurisdizione del G.A.

La citata Amministrazione ha poi rilevato, in via di ulteriore subordine, l’infondatezza nel merito del gravame, stante il noto principio della irrinunciabilità della prescrizione da parte della P.A. imposto dall’art. 3 del D.Lgs. n. 295/1939 e, quindi, la legittima pretesa della stessa a procedere alla liquidazione degli emolumenti spettanti ai ricorrenti nei limiti del termine quinquennale di prescrizione (con esclusione, cioè, dei ratei maturati anteriormente al quinquennio antecedente alla proposizione della domanda).

Ha, infine, precisato che, l’eccezione di prescrizione sarebbe stata sollevata dall’Amministrazione regionale già durante l’istruttoria del ricorso straordinario con nota prot. 2385 del 24/11/04.

Alla camera di consiglio del 3 novembre 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1. Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso di cui in epigrafe, sollevata dall’Amministrazione appellata, alla luce delle considerazioni formulate, in analoga controversia, da questo Consiglio di Giustizia Amministrativa con la decisione n. 972/08, dalla quale non si ha motivo di discostarsi.

Giova, sul punto, richiamare lo stato della giurisprudenza.

La questione, concernente l’ammissibilità del ricorso in ottemperanza, ai sensi dell’art. 27, n. 4, del t.u. 26 giugno 1924, n. 1054, e dell’art. 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, su una decisione su ricorso straordinario, è stata definita in senso negativo dalla Cassazione SS.UU. (15978/2001) sul rilievo che il ricorso straordinario al Capo dello Stato è espressamente compreso dal legislatore tra i rimedi di carattere amministrativo e non può ritenersi di natura giurisdizionale per difetto dell’elemento indefettibile dei procedimenti giurisdizionali e, cioè, che "il procedimento si svolga davanti ad un giudice terzo e imparziale" ( art. 111 cost. riformulato dall’art. 1 L. cost. 23 novembre 1999 n. 2) e che avverso la decisione sul ricorso straordinario non è ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (Cass. sez. un., 17 gennaio 2005, n. 734).

Anche un certo orientamento della giurisprudenza amministrativa ha condiviso la citata impostazione evidenziando, in particolare, la natura amministrativa del ricorso straordinario e l’inidoneità della relativa decisione a concretare il presupposto del giudicato formale (ex plurimis: Cons. St., sez. IV, 5.7.2002 n. 3699; CGA 7 dicembre 2002, n. 604; Cons. St., sez. VI, 26 settembre 2003, n. 5501; Cons. St., sez. IV, 22 settembre 2003, n. 5393). Si è, altresì, affermato che il giudizio di ottemperanza è un rimedio giuridico che presuppone un giudicato, cioè un connotato del decisum non attribuibile al decreto che definisce il ricorso straordinario al Capo dello Stato, atteso che esso, pur svolgendo una funzione paragiurisdizionale, resta pur sempre un provvedimento amministrativo, non avendo tale decisione l’attitudine ad acquisire efficacia formale e sostanziale di giudicato. E di fronte all’ineludibile richiesta di giustizia si suggerisce che "al fine di far valere il titolo alla puntuale esecuzione della decisione sul ricorso straordinario, in base al principio di effettività che deve assistere le decisioni emesse in esito a procedimenti contenziosi volti alla tutela di situazioni soggettive del privato, la pretesa al pieno e corretto adempimento all’atto decisorio non resta sfornita di tutela, quest’ultima si rinviene nella possibilità di rendere significativo con rituale diffida il comportamento omissivo dell’amministrazione per poi avvalersi dello strumento apprestato dall’art. 21 bis della L. n. 241 del 1990 ai fini della declaratoria di illegittimità del silenzio rifiuto, con comminatoria dell’ordine di esecuzione" (Consiglio Stato, sez. VI, 4 aprile 2008, n. 1440).

Tale conclusione appare avvalorata anche dalla considerazione che la decisione è emanata da una autorità amministrativa o comunque non giurisdizionale (il Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro), che non è neppure vincolata in modo assoluto dal parere espresso dal Consiglio di Stato e può, quindi, risolvere la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti "dalla pura e semplice applicazione delle norme di diritto", caratterizzante le decisioni adottate in sede giudiziaria (art. 14 del D.P.R. n. 1199/1971 che, al primo comma, dispone che la decisione del ricorso straordinario è adottata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro competente. Questi, ove intenda proporre una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, deve sottoporre l’affare alla deliberazione del Consiglio dei Ministri).

2. Tuttavia, la più recente giurisprudenza ed anche questo Consiglio è andato in contrario avviso ed ha osservato che nello Statuto siciliano (cfr. D.Lgs. 15 maggio 1946 n. 455 e legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2) il ricorso straordinario al Presidente della Regione è espressamente previsto al titolo III (Organi giurisdizionali) e più precisamente all’art. 23, nel quale per quel che qui rileva si fissano i seguenti principi:

– Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione (comma primo);

– Le Sezioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti svolgeranno, altresì, le funzioni, rispettivamente, consultive e di controllo amministrativo e contabile (comma secondo);

– I ricorsi amministrativi, avanzati in linea straordinaria contro atti amministrativi regionali, saranno decisi dal Presidente della Regione sentite le Sezioni regionali del Consiglio di Stato (comma quarto).

In relazione al suddetto art. 23, sono stati adottati decreti legislativi attuativi e da ultimo il decreto legislativo 24 dicembre 2003 n. 373 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione Siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato).

In particolare, in detto decreto viene previsto, all’art. 9, che:

4. Sui ricorsi straordinari di cui all’articolo 23 dello Statuto il parere è obbligatorio ed è reso dalla adunanza delle Sezioni riunite del Consiglio di Giustizia Amministrativa.

5. Qualora il Presidente della Regione non intenda decidere il ricorso in maniera conforme al parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa, con motivata richiesta deve sottoporre l’affare alla deliberazione della Giunta regionale.

Va, altresì, considerato l’art. 12 del medesimo decreto legislativo, laddove si stabilisce:

1. Per l’organizzazione e il funzionamento del Consiglio di Giustizia Amministrativa in sede consultiva e in sede giurisdizionale si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni vigenti per il Consiglio di Stato.

In base a quest’ultima disposizione risulta quindi applicabile il D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, che disciplina il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, nell’ambito dei ricorsi amministrativi, ma, ad avviso del Collegio, con forme e garanzie proprie della giurisdizione.

Osserva, in particolare, il Collegio come dalla predetta disciplina emerga un istituto di natura atipica, con spiccate caratteristiche giurisdizionali, che gli interessati possono attivare ex art. 8 del D.P.R. n. 1199/1971, in alternativa al ricorso giurisdizionale con modica spesa, senza il bisogno dell’assistenza tecnico-legale (tuttavia, non esclusa) e con il beneficio di termini di presentazione del ricorso particolarmente ampi (artt. 8 e 9).

Viene, infatti, rilevato (Cass. SS.UU. n. 15978/2001 citata) che la disciplina del ricorso straordinario si differenzia per aspetti non irrilevanti da quella dettata per gli altri ricorsi amministrativi.

La garanzia del contraddittorio è, infatti, assicurata in modo più puntuale, essendo previsto, a carico del ricorrente, l’obbligo di notificare il ricorso "nei modi e nelle forme prescritti per i ricorsi giurisdizionali" ad almeno uno dei controinteressati, ed essendo a questi ultimi assegnato un termine "per presentare … deduzioni e documenti ed eventualmente per proporre ricorso incidentale" (art. 9, D.P.R. n. 1199/71). Né minor rilievo riveste la circostanza che la decisione del ricorso sia preceduta da un "parere" del Consiglio di Stato, che costituisce espressione di un’attività "di pura e semplice applicazione del diritto oggettivo" (come è confermato dalla previsione che la sezione o la commissione speciale investita del parere può rimettere la questione all’Adunanza generale, onde evitare l’insorgere di "contrasti giurisprudenziali": art. 12, secondo comma, D.P.R. cit.) e dal quale l’autorità decidente può discostarsi (solo) sulla base di una delibera del Consiglio dei Ministri (art. 14, primo comma), quando "sia prospettata una decisione del caso concreto che possa arrecare pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione o all’indirizzo politico" (C. Cost. 31 dicembre 1986, n. 298).

Non meno peculiare è, infine, la disciplina dei rapporti con la tutela giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo, regolata secondo il principio di alternatività; principio che comporta l’inammissibilità del ricorso al giudice amministrativo proposto contro il medesimo atto impugnato in via straordinaria, sia per il ricorrente che per i controinteressati che non si siano avvalsi della facoltà di chiedere la decisione del ricorso in sede giurisdizionale (art. 10, primo comma, D.P.R. cit.), ed ha significativi riflessi sull’impugnazione in sede giurisdizionale della decisione del ricorso straordinario, ammessa solo "per vizi di forma o di procedimento" (art. 10, terzo comma, D.P.R. cit.), salvo che per i controinteressati che non siano stati posti nelle condizioni di chiedere la trasposizione del ricorso in sede giurisdizionale.

3. Interpretando il richiamato quadro normativo di riferimento, si potrebbe pervenire alla conclusione che il provvedimento in questione abbia i presupposti per l’instaurazione del giudizio di ottemperanza e che, conseguentemente, l’obbligo dell’Amministrazione di conformarsi all’eventuale accoglimento del ricorso avrebbe il carattere "assoluto e vincolante", proprio delle sentenze passate in giudicato. Ed infatti il provvedimento finale rappresenterebbe solo "l’atto conclusivo di esternazione di un momento decisionale" contenuto nel parere del CGA, il quale si collocherebbe "al di fuori della fase amministrativa della procedura, di cui costituirebbe un presupposto necessario e imprescindibile" che ne vincolerebbe l’esito.

Ciò troverebbe conferma nella decisione della Corte di Giustizia C.E., secondo cui il Consiglio di Stato ha natura di organo giurisdizionale ai sensi dell’art. 177, ora art. 234, del Trattato anche quando esprime il proprio parere sul ricorso straordinario al Capo dello Stato (Corte di Giustizia, 16 ottobre 1997, C 69-96-79-96), e nella giurisprudenza, secondo cui il Consiglio di Stato può sollevare questioni incidentali di legittimità costituzionale anche nell’ambito della procedura prescritta per l’espressione di detto parere (Cons. Stato, sez. I, parere 19 maggio 1999, n. 650-96).

L’alternatività del ricorso straordinario al Capo dello Stato con quello proponibile innanzi alla giurisdizione amministrativa generale (artt. 8 e 10, D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199) e l’esplicita previsione, contenuta nell’art. 15 dello stesso decreto, dell’impugnabilità del decreto conclusivo della procedura "per revocazione nei casi previsti dall’art. 395 c.p.c.", e quindi anche per contrasto con altra sentenza avente tra le parti autorità di cosa giudicata, legittimerebbero la soluzione positiva.

Ne consegue che per il potere giurisdizionale attribuito, in tema di esecuzione della sentenza, al giudice amministrativo, la sua cognizione è estesa al merito (art. 27, primo comma, n. 4, R.D. 26 giugno 1924, n. 1054; art. 7, primo comma, legge 6 dicembre 1971, n. 1034) e implica la possibilità di esercitare, se del caso mediante un commissario appositamente nominato, tutti i poteri di valutazione e di scelta spettanti all’amministrazione inadempiente (Cass. sez. un., 30 giugno 1999, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 3 marzo 1988, n. 125), non trattandosi di un provvedimento amministrativo e, quindi, in un’ipotesi in cui la cognizione del giudice amministrativo è limitata ai profili di sola legittimità, senza alcuna possibilità di esercizio di poteri di amministrazione attiva, sia pure al limitato fine di assicurare l’osservanza del comando giuridico inevaso.

Infine, l’art. 3, comma 4, della legge n. 205/2000 ha previsto che nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica può essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili derivanti dall’esecuzione dell’atto, la sospensione dell’atto medesimo.

La sospensione è disposta con atto motivato del Ministero competente ai sensi dell’art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199, su conforme parere del Consiglio di Stato.

Pertanto, alla stregua delle considerazioni di cui sopra e di quanto è già stato affermato da questo stesso Consiglio con le decisioni 19 ottobre 2005, n. 695, e 28 aprile 2008, n. 379, il ricorso in esame va dichiarato ammissibile.

Per i motivi suddetti, il Collegio non ritiene di dover rimettere gli atti all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, così come richiesto dalle Amministrazioni appellate.

4. Nel merito, osserva il Collegio che le parti hanno versato note esplicative di opposto contenuto.

In particolare, parte ricorrente, rilevando che la P.A. ha disatteso la decisione straordinaria di cui al citato D.P. n. 323/06, chiede di darvi integrale esecuzione ovvero di nominare, in caso di ulteriore inerzia, un Commissario ad acta.

L’Amministrazione ritiene legittima l’applicazione della prescrizione quinquennale ai crediti vantati dai ricorrenti, prescrizione che avrebbe già eccepito nell’ambito del procedimento per ricorso straordinario (cfr. nota n. 2385 del 24/11/2004).

Le pretese dei ricorrenti sono fondate.

Preliminarmente, il Collegio rileva che, in sede di esecuzione, non può essere eccepita la prescrizione.

Tale eccezione, invero, non formulata nel giudizio di merito, non può essere proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza, atteso che il giudicato amministrativo copre il dedotto e il deducibile, determinando le conseguenti preclusioni processuali (Consiglio Stato, sez. IV, 7 luglio 2008, n. 3385).

Infatti, nonostante l’affermazione delle Amministrazioni appellate, secondo cui le stesse avrebbero sollevato tale eccezione in sede di istruttoria, va rilevato, tuttavia, che nella relazione n. 3764/693.01.8 del 3 marzo 2004, con la quale l’Ufficio legislativo e legale della Presidenza della Regione Siciliana ha chiesto il parere a questo C.G.A, in sede consultiva, non vi è specifico riferimento al riguardo.

Invero, dalla relazione suddetta si evince, al par. 2, nella descrizione del fatto, che con nota 1799 del 10 giugno 2003, il Dipartimento regionale del personale e dei servizi generali ha sottolineato che in ogni caso "i pretesi crediti sono colpiti da prescrizione estintiva".

Tuttavia, nelle conclusioni della relazione, di cui al par. 3, detto Ufficio Legale non ha formulato alcuna richiesta al riguardo ed anzi, richiamando la giurisprudenza di questo C.G.A., formatasi in materia, ha rilevato che: "il ritardo, nella corresponsione del giusto dovuto, ovviamente, comporta una diminuzione del credito principale che nella fattispecie in esame deve potersi integrare mediante la corresponsione in favore dei ricorrenti degli interessi al tasso legale e della rivalutazione, se superiore, da riconoscersi a far data dal di dovuto".

D’altra parte – considerato l’esito favorevole, per i ricorrenti, cui è pervenuto al riguardo questo C.G.A. con il parere n. 330/04, poi recepito dal D.P. n. 323/06 – le Amministrazioni resistenti, se avessero puntualmente sollevato l’eccezione in argomento nella relazione sopra richiamata, avrebbero dovuto – al fine di vedersi riconosciuto il diritto di applicare legittimamente l’invocata prescrizione quinquennale ai crediti vantati dai ricorrenti – proporre istanza di revocazione avverso il suddetto Decreto Presidenziale, di cui oggi questi ultimi chiedono l’ottemperanza.

5. Conclusivamente, il Collegio accoglie il ricorso e dichiara l’obbligo delle Amministrazioni intimate di dare integrale esecuzione al menzionato D.P.Reg. n. 323/06 entro il termine di 30 (trenta) giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, riconoscendo ai ricorrenti i crediti agli stessi spettanti come da parere n. 330/04 di questo C.G.A., nei termini in esso indicati ed integralmente richiamati nel citato D.P. 323/06.

Condanna, per l’effetto, parte appellata a versare ai ricorrenti le somme dovute, da calcolarsi con le modalità e nei termini disposti con il suddetto parere n. 330/04.

Per il caso di ulteriore inerzia, va disposta, fin d’ora, la nomina di un Commissario ad acta, per l’effettuazione dei pagamenti che risultino ancora dovuti, nella persona dell’Assessore delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana, o funzionario dallo stesso delegato, con l’incarico anche di relazionare a questo Consiglio sugli esiti dell’attività svolta.

Viene, altresì, disposta l’erogazione di Euro 1.000,00 (mille/00) a carico di parte soccombente ed in favore del Commissario ad acta, a titolo di anticipo sul compenso complessivamente dovuto, qualora questi sia chiamato a svolgere effettivamente l’incombente demandato.

Ritiene altresì il Collegio che ogni altro motivo od eccezione possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente sentenza.

Il Collegio, considerate le circostanze in cui è maturata la presente controversia, ritiene che sia equo disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, ordina alle Amministrazioni intimate di dare integrale esecuzione al D.P.R.S. n. 323/06 nei termini indicati nella superiore parte motiva, entro 30 (trenta) giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.

Nomina, fin d’ora, in caso di ulteriore inerzia, per lo svolgimento degli incombenti di cui in motivazione, l’Assessore delle Autonomie Locali e della Funzione Pubblica della Regione Siciliana, o funzionario dallo stesso delegato, con l’incarico anche di relazionare a questo Consiglio sugli esiti dell’attività svolta.

Dispone l’erogazione di Euro 1.000,00 (mille/00) a carico di parte soccombente ed in favore del Commissario ad acta, a titolo di anticipo sul compenso complessivamente dovuto, qualora questi sia chiamato a svolgere effettivamente l’incombente demandato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 3 novembre 2010, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Filoreto D’Agostino, Gabriele Carlotti, Pietro Ciani, estensore, Giuseppe Mineo, componenti.

Depositata in Segreteria il 21 marzo 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-06-2011, n. 14437 vigili urbani

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 3.9.2001 C.P., dipendente del Comune di (OMISSIS) con mansioni di vigile urbano, deduceva di avere prestato lavoro straordinario non retribuito dall’1.7.2000 al 31.12.2000, per 28 ore, di cui 13 di festivo notturno; e dall’1.1.2001 al 29.6.2001, per 45 ore. Aggiungeva che sin dal 1987, secondo la normale turnazione, era stato in servizio per due domeniche consecutive, riposando solo una domenica e che, inoltre, aveva prestato lavoro festivo infrasettimanale senza usufruire del riposo compensativo e senza percepire la maggiorazione per lavoro straordinario festivo. Lamentava che il Comune non aveva dato attuazione al contratto integrativo decentrato con riguardo all’art. 13, comma 20, prevedente in favore degli agenti adibiti alla viabilità un’indennità giornaliera di L. 3.500, e all’art. 8 sul riconoscimento di percentuali sui proventi contravvenzionali del 2000. Chiedeva che fosse dichiarato il suo diritto a percepire il pagamento del lavoro straordinario, compresa la maggiorazione per lavoro straordinario festivo infrasettimanale, nonchè la maggiorazione del 20 % per il lavoro ordinario festivo prestato durante le domeniche, occorrendo anche ai sensi dell’art. 2041 c.c., quale arricchimento senza causa; chiedeva anche il risarcimento del danno da usura psico-fisica derivante dal mancato godimento del riposo in coincidenza con le domeniche Si costituiva tardivamente in giudizio il Comune di San Pietro Vernotico, deducendo di avere corrisposto le somme spettanti per straordinario prestato nel periodo luglio-dicembre 2000 e per quello festivo infrasettimanale da gennaio a ottobre 2001 e nell’estate del 2000, nonchè l’indennità di viabilità dal gennaio al dicembre 2001, come da apposite delibere.

Contestava invece la pretesa relativa alla prestazione in due domeniche consecutive e la richiesta di maggiorazione ex art. 24, comma 20, del c.c.n.l.. Eccepiva il difetto di giurisdizione per le pretese anteriori al 30.6.1998 e la prescrizione dei crediti vantati fin dal 1987.

Il Tribunale di Brindisi, rigettata l’eccezione di difetto di giurisdizione dichiarava la nullità dell’atto introduttivo. Al riguardo rilevava che il ricorrente non aveva specificato i turni osservati e la loro articolazione; se il lavoro ordinario e straordinario fosse stato prestato in giorni festivi e in quali; se egli fosse stato retribuito in misura fissa o meno e se avesse usufruito di riposo compensativo dopo sei giorni di servizio continuo; se vi fossero state coincidenze di festività con la domenica; che vi erano difetti di allegazioni circa la domanda di risarcimento del danno e comunque difetto di interesse rispetto alla relativa domanda dichiarativa.

Il lavoratore proponeva appello sostenendo la ritualità del ricorso introduttivo e riproponendo conclusioni di merito.

La Corte d’appello di Lecce; con sentenza depositata il 3.2.2006, rigettava l’appello.

Premesso che la domanda relativa all’accertamento del diritto ai proventi (punto n. 5 del ricorso introduttivo) non era stata riproposta in appello, osservava che per le domande riproposte sarebbe stata giustificata la pronuncia di nullità fondata sull’omessa indicazione e allegazione di fatti essenziali con riferimento ad un petitum diretto ad ottenere statuizioni meramente dichiarative sulla sussistenza di determinati diritti di derivazione contrattuale. La Corte rilevava anche, però, che la nullità del ricorso per mancata indicazione, ex art. 414 c.p.c., n. 4, degli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda è sanabile ex art. 164 c.p.c., comma 50, e che la sanatoria di tale della nullità è comprovabile dalla mancata assegnazione da parte del giudice di un termine per la rinnovazione del ricorso o l’integrazione della domanda o dalla non tempestiva eccezione circa la nullità da parte del convenuto. Osservava pure che la sanatoria non vale tuttavia a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati e specificati in ricorso, con le conseguenze negative che possono derivarne per la medesima parte in base ai criteri legali sulla ripartizione dell’onere della prova, nei termini conseguenti anche alla affermazione del principio secondo cui anche la prova documentale è soggetta alle generali decadenze in materia di istanze probatorie.

Con riferimento alla specie osservava che il giudice di primo grado, ai fini della puntualizzazione del fondamento della pretesa, avrebbe dovuto fissare un termine per la rinnovazione del ricorso, pur non essendosi il convenuto costituito tempestivamente; ma rilevava anche che la concessione di tale termine non avrebbe evitato le preclusioni probatorie in cui il ricorrente era già in corso, alla stregua dei principi indicati in materia dalla giurisprudenza, in quanto, in particolare, la prova testimoniale faceva riferimento a inadeguate specificazioni dei fatti. In altri termini, nella specie l’integrazione della domanda non avrebbe potuto colmare processualmente la mancanza di richieste istruttorie utilmente formulate con l’atto introduttivo, mentre la carenze probatorie in concreto non risultavano ovviate neanche dalla documentazione prodotta.

Il lavoratore ricorre per cassazione con quattro motivi.

Il Comune di San Pietro Vernotico resiste con controricorso seguito da memoria.
Motivi della decisione

Il primo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione di norme di diritto, censura la sentenza impugnata per avere ritenuto la nullità del ricorso introduttivo.

Sostiene che il ricorso conteneva tutti gli elementi necessari per caratterizzare il petitum e la causa petendi e che comunque il Comune aveva articolato pienamente le sue difese, non aveva eccepito tempestivamente la supposta nullità del ricorso per genericità e tale atto aveva perfettamente raggiunto lo scopo processuale a cui era preordinato, tanto è vero che lo stesso giudice aveva potuto agevolmente giudicare la causa anche nel merito. Inoltre con la costituzione del Comune la domanda si era ridotta all’applicazione dell’art. 24, comma 2, del c.c.n.L, al risarcimento del danno per l’usura psico-fisica e al pagamento degli accessori sugli emolumenti pagati in ritardo. Inoltre era stata chiesta una sentenza dichiarativa del diritto e quindi non era necessaria l’ulteriore precisazione sulle modalità di corresponsione della retribuzione e sulla coincidenza temporale o meno delle festività con la domenica.

Deve al riguardo rilevarsi che in effetti la sentenza impugnata non ha dato rilievo decisivo alla nullità del ricorso, avendo osservato che tale nullità poteva ritenersi sanata e che comunque – se la stessa fosse effettivamente risultata non sanata e decisiva – avrebbe dovuto disporsi la rinnovazione dell’atto.

L’elemento a cui la sentenza ha attribuito valore decisivo è invece la mancanza, non sanabile, di adeguate richieste probatorie.

Di conseguenza il motivo in esame risulta inammissibile.

Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine all’interpretazione e applicazione degli artt. 22 e 24 del c.c.n.l., con particolare riferimento alla questione della compatibilita tra il trattamento accordato dall’art. 22 e quello previsto dall’art. 24, comma 2.

Anche questo motivo è qualificabile come inammissibile.

Tenuta presente la data della sentenza impugnata, non è applicabile il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 3 sulla diretta interpretazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro da parte della Corte di cassazione. Del resto il motivo di ricorso è formulato con riferimento all’art. 360, n. 5. Deve allora rilevarsi che il motivo, che è incentrato su considerazioni interpretative riguardo alle richiamate disposizioni contrattuali, ha omesso di fornire una adeguata, puntuale ed esauriente indicazione circa il contenuto delle disposizioni stesse e neanche ha fornito indicazioni circa la produzione del contratto collettivo in questione. Non sono quindi rispettate le disposizioni e i principi circa la necessaria specificità dei motivi di ricorso per cassazione ( art. 366 c.p.c.;

principi giurisprudenziali sulla cd. autosufficienza del ricorso per cassazione) e sulla produzione dei documenti sui cui il ricorso si fonda ( art. 369 c.p.c.).

Il terzo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine alla spettanza di interessi legali e rivalutazione monetaria.

Il quarto motivo denuncia vizi di motivazione in ordine al risarcimento del danno da usura psico-fisica.

I precedenti due motivi non meritano accoglimento in quanto la sentenza impugnata, come si è già rilevato, ha pronunciato sul merito, rigettando le domande, per difetto di prova connesso alla stessa inidonea e non esauriente allegazione dei fatti costitutivi delle domande. Tale decisiva ratio decidendi, adeguatamente motivata, che non è stata puntualmente e idoneamente censurata, comporta l’assorbimento di ogni ulteriore questione, tra cui quelle riproposte con il terzo e quarto motivo.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio sono regolate in base al criterio legale della soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla controparte le spese del giudizio in Euro 36,00 oltre Euro duemila per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA secondo legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.