Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-07-2011, n. 16267 contratto a termine

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Svolgimento del processo

La Corte di appello di Perugia, con sentenza in data 14.2/13.4.2007, confermava la decisione di primo grado nella parte in cui dichiarava la nullità del termine apposto al contratto stipulato fra le Poste Italiane e B.C. per il periodo 1.4.1999/31.5.1999, ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994 "per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane".

Osservava in sintesi la corte territoriale che il contratto era stato stipulato in assenza di alcuna valida autorizzazione da parte della contrattazione collettiva, per la scadenza dei limiti temporali di vigenza degli accordi conclusi dalle parti sociali ai sensi della disposizione della L. n. 56 del 1987, art. 23. Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane con cinque motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso l’intimata.
Motivi della decisione

1. Con il primo e secondo motivo la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione ( art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonchè vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, configurava una vera e propria "delega in bianco" in favore delle organizzazioni sindacali, le quali, pertanto, potevano legittimare il ricorso al contratto a termine non solo per causali di carattere oggettivo, ma anche meramente soggettivo, sicchè restava precluso al giudice di individuare limiti ulteriori, anche di ordine temporale, atti a circoscrivere l’ambito di operatività delle ipotesi di contratto a termine individuate in sede collettiva.

Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., prospetta che la corte territoriale aveva esaminato una eccezione, relativa alla risoluzione del contratto per mutuo consenso, in realtà mai proposta dalla società.

Con il quarto motivo la ricorrente deduce che la corte di merito aveva riconosciuto il diritto della lavoratrice alle retribuzioni dalla messa in mora senza fornire, al riguardo, il "benchè minimo elemento probatorio", omettendo, in particolare, di allegare elementi idonei alla esatta individuazione della causa petendi e alla corretta quantificazione del petitum, e, comunque, trascurando di considerare che, sulla base del principio di corrispettività della prestazione, il diritto alle retribuzioni si sarebbe potuto riconoscere solo dalla effettiva ripresa del servizio.

Con il quinto motivo, prospettando ancora vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5), si duole che la corte territoriale avesse omesso di motivare in merito alla richiesta formulata ai fini dell’esibizione di documentazione utile a consentire una corretta determinazione dei corrispettivi percepiti dalla dipendente per attività di lavoro svolta a favore di terzi, e ciò sebbene l’eccezione non potesse che essere genericamente dedotta dal datore di lavoro, incombendo il relativo onere, in realtà, sul lavoratore.

2. Con riferimento al primo e secondo motivo del ricorso, vanno ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

In primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, questa Corte ha più volte affermato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063,v. anche Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatali, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866; v. da ultimo Cass. 18 marzo 2011 n. 6294; Cass. 31 marzo 2011 n. 7502).

In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230" (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608, Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.). Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453). Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero "senza senso" (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866). Infine, corretta è apparsa, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del lavoratore si era già definitivamente perfezionato. Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141). In base agli esposti criteri interpretativi, ormai consolidati, ed al valore dei relativi precedenti, devono, quindi, rigettarsi il primo ed il secondo motivo del ricorso.

3. Nell’accertata illegittimità della clausola di durata resta assorbito l’esame del terzo motivo.

4. Con riguardo al quarto ed al quinto motivo, la difesa della società ricorrente ha prospettato, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

In ordine a tale questione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens, che la nuova disciplina del rapporto controverso sia pertinente alle censure formulate col ricorso, tenuto conto della natura del giudizio di legittimità, il cui perimetro, come noto, è limitato dagli specifici motivi del ricorso (cfr. Cass. n. 10547/2006). In tal contesto, è necessario che il motivo del ricorso, che investa, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia, altresì, ammissibile, secondo la disciplina sua propria.

In particolare, con riferimento alla disciplina invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente presuppone, nel giudizio di cassazione, che i motivi del ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che non siano tardivi, generici, o affetti da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto dell’art. 366 bis c.p.c., ove applicabile ratione temporis.

In caso di assenza o inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche della clausola di durata, illegittimamente apposta, il rigetto per tali cause dei motivi non può, quindi, che determinare la stabilità e irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate.

Premessi tali principi, è da rilevare che, nel caso, la società ricorrente censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte discenderebbe che l’aliunde perceptum non poteva che essere genericamente dedotto dalla società datrice di lavoro la quale, al di là delle istanze istruttorie (ordine di esibizione dei modelli 101 e 740, del libretto di lavoro ecc) ritualmente avanzate non poteva essere in grado di produrre o provare alcunchè in ordine ad eventuali attività lavorative prestate presso terzi datori di lavoro, incombendo il relativo onere, in realtà, sul lavoratore.

Sostiene, altresì, che la corte di merito aveva riconosciuto il diritto della lavoratrice alle retribuzioni dalla costituzione in mora senza fornire , al riguardo, il "benchè minimo elemento probatorio", omettendo, in particolare, di allegare elementi idonei alla esatta individuazione della causa petendi e alla corretta quantificazione del petitum, e, comunque, trascurando di considerare che, sulla base del principio di corrispettività della prestazione, il diritto alle retribuzioni si sarebbe potuto riconoscere solo dalla effettiva ripresa del servizio.

Formula, infine, i seguenti quesiti di diritto: "Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto";

"Dica la Suprema Corte se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione del principio generale di effettività e corrispettività delle prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retributivo pur in assenza di attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retributiva o risarcitoria".

I quesiti descritti, nondimeno, risultano non conformi al precetto dell’art. 366 bis c.p.c., per non ricomprendere il complesso delle censure articolate nei motivi e per risolversi, comunque, nella enunciazione astratta delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Il quesito di diritto, che la norma richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve, infatti, essere formulato, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr. ad es. Cass. SU n. 36/2007 e n. 2658/2008), dovendosi ritenere come inesistente un quesito generico, parziale o non pertinente.

In proposito, per come rilevato, a fini esemplificativi, da SU (ord) n. 2658/2008, "potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata", le ragioni della cui erroneità siano adeguatamente illustrate nel motivo medesimo. I quesiti posti dalla società ricorrente non risultano conformi ai canoni interpretativi indicati perchè – va ribadito – inidonei ad esprimere, in termini riassuntivi, ma concretamente pertinenti all’articolazione delle censure in relazione alla fattispecie controversa, il vizio ricostruttivo addebitato alla decisione.

5. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 40,00 per esborsi ed in Euro 2500,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 23 giugno 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 05-04-2011) 11-05-2011, n. 18613

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

-1- R.F. ricorre per cassazione avverso l’ordinanza 20.5/2.7.2010 del tribunale di Reggio Calabria che, in sede di riesame, confermava nei di lui confronti la pregressa ordinanza di custodia cautelare in carcere per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, deducendo, con F unica ragione di doglianza, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), violazione degli artt. 192, 173 e 416 bis c.p..

I giudici del riesame, richiamando la corposa ordinanza cautelare del gip della stessa città datata 12.4.2010, avevano tratteggiato l’organigramma della associazione, indicando l’imputato, quale partecipe in diretto contatto con C.C.B. e I. M., di cui eseguiva le direttive, tanto da mettersi a disposizione del sodalizio per farsi candidare ed eleggere, onde perseguire gli interessi criminali dell’associazione nel campo dei lavori pubblici, al consiglio comunale di Condofuri nelle elezioni amministrative del Giugno 2009, e farsi quindi rilasciare la delega all’assessorato dei lavori pubblici per l’appunto. I gravi indizi di reato i giudici del merito li traevano dalla valutazione di conversazioni ambientali intercettate,da cui si evinceva, già nell’anno 2007, la chiara solidarietà manifestata a I. nell’occasione di un attentato mafioso ai danni di quest’ultimo, la conoscenza, tratta dal colloquio, dei vertici "ndraghetisti" (tale C.) a cui faceva capo lo I., la condivisione della determinazione del R. di "mettere i puntini" in seguito all’attentato subito, la condivisione degli intenti vendicativi dello I. nel senso che "le cose si devono fare pagare a freddo……".

Sempre dalle conversazioni intercettate l’ordinanza impugnata rilevava che l’elezione dell’imputato era stata programmata, preparata e sostenuta da esponenti della ndragheta locale, quali C.C.B., I.M., con la consapevolezza dell’imputato che la sua elezione preludeva ad occupare in seno alla giunta un posto di rilievo a difesa degli interessi dei suoi elettori, in particolare di I. e C.. E sul punto non mancano i giudici del riesame di segnalare le telefonate tra i due, R. ed I., dove il secondo chiede informazioni al primo sull’avvenuto stanziamento di fondi per opere pubbliche nel Comune di Condofuri.

– 2 – Le censure del ricorrente non coinvolgono affatto, per una esplicita introduttiva premessa delle predette, tutto il discorso giustificativo giudiziale in merito alla esistenza di una associazione "ndranghetista" nelle sue articolazione e nelle sue modalità operative, solo mirano con diffuse argomentazioni a depotenziare del significato indiziante le circostanze evidenziate nel provvedimento impugnato, sottolineando, da un lato, che le intercettazioni delle conversazioni con I. hanno riferimento ad un periodo di due anni anteriore alle elezioni amministrative e dalle stesse si può trarre solo la solidarietà manifestata dall’imputato all’amico per l’attentato subito, dall’altro, che una volta eletto e designato assessore ai lavori pubblici non era possibile registrare alcun suo provvedimento di sua iniziativa di favore per gli interessi della associazione, in specie di I. e di altre persone nominativamente individuate.

– 3 – Il ricorso non può essere accolto perchè i motivi posti a suo sostegno sono chiaramente inammissibili in sede di legittimità. In proposito occorre dire che non possono certo ritenersi irrilevanti e neutri i legami,documentati dalle intercettazioni, dell’imputato con I. e C., una volta che dalle intercettazioni, anche prossime alle elezioni, si traggono elementi deponenti per chiari interessi dell’uno, lo I., per gli appalti pubblici e dell’altro, C., per paralizzare, rallentare o comunque impedire la conclusione di una procedura funzionale all’acquisizione al Comune di beni confiscati ed appartenenti a indiziati di mafia.

Peraltro già il dato sicuro,e non contestato dal ricorrente, che componenti della associazione criminosa si erano da tempo impegnati, previa una scelta ponderata, non solo a fare eleggere l’imputato, ma addirittura a spingere perchè avesse un importate incarico nell’organigramma della giunta comunale, relega le critiche difensive a tentativi inidonei allo scopo perseguito. E da ultimo, a replica delle ragioni sostenute nei motivi di ricorso, può dirsi che se pure è vero che dalla nomina ad assessore non era stata compiuta nessun azione di favore, era stata invece posta in essere una condotta omissiva rilevante per non essere stata dato alcun impulso alla procedura per l’incameramento degli immobili confiscati, ed a cui erano interessati i sodali dell’imputato, al patrimonio del Comune, procedura che subiva all’incontro una accelerazione decisiva solo il sesto giorno dall’emissione della custodia cautelare.

Ora è principio consolidato in giurisprudenza che esula dai poteri della corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186/2000; n. 69/1964) – al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille alla cassa delle ammende. Dispone trasmettersi a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 – ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-09-2011, n. 20086 Sanzioni

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Svolgimento del processo

Con sentenza del 23.3.2005 il giudice di pace di San Giorgio La Molara annullava il verbale di contestazione elevato il 10.11.2004 dalla Polizia municipale del comune di Buonalbergo a carico di G.E., per l’infrazione all’art. 142 C.d.S., comma 8.

Riteneva il giudice di prossimità, accogliendo apposito motivo di opposizione, che l’accertamento fosse illegittimo per violazione dell’art. 345 reg. esec. C.d.S., comma 4, il quale stabilisce che per l’accertamento delle violazioni ai limiti di velocità, le apparecchiature di cui al comma 1 del cit. articolo devono essere gestite direttamente dagli organi di polizia stradale, e devono essere nella disponibilità degli stessi. Rilevava che, nella fattispecie, il servizio di rilevazione, gestione e rendicontazione delle sanzioni amministrative era stato affidato dal comune alla So.E.S. s.r.l., la quale a termini dell’apposita convenzione, gestiva e rendicontava le sanzioni amministrative, metteva a disposizione della Polizia municipale una vettura completamente attrezzata per il rilevamento delle infrazioni e con misuratore di velocità preventivamente installato, verificava ad ogni servizio la funzionalità dell’apparecchio rilevatore che metteva a disposizione del vigile urbano, accendeva e spegneva l’apparecchio stesso su ordine del pubblico ufficiale, istruendo quest’ultimo sull’impostazione dei limiti di rilevamento della velocità, con l’obbligo di spegnere immediatamente l’apparecchiatura nel caso in cui il pubblico ufficiale si allontanasse per qualsiasi motivo.

Riteneva, quindi, che il ruolo del verbalizzante fosse ridotto ad una mera presenza, tra l’altro non qualificata, restando la gestione dell’apparecchiatura completamente affidata, per le poche operazioni non automatiche, al soggetto privato. Osservava, quindi, che in materia la prova regina era costituita dalla perfetta funzionalità del mezzo di rilevazione, che nello specifico era utilizzato dalla società So.E.S. anche in altri comuni, per cui il computer elaborava anche i diversi dati che gli erano immessi di volta in volta. Per contro, riteneva il giudice di primo grado, spettava al pubblico ufficiale, una volta raggiunto il luogo del rilevamento, verificare che l’apparecchio effettuasse misurazioni esatte attraverso un concreto esperimento, non bastando la semplice attestazione del funzionamento, del quale dovevano essere descritte e attestate le caratteristiche essenziali, affinchè in qualunque momento sia i cittadini, sia il magistrato adito potessero effettuarne il controllo. Nello specifico, nel verbale della Polizia municipale non v’era traccia di tale verifica, non essendo sufficiente l’attestazione circa funzionalità e omologazione dell’apparecchiatura, in quanto quest’ultima non era custodita dagli agenti di polizia, ma da una società privata mirante ad ottimizzare il rendimento della strumentazione impiegata, la quale, essendo installata su veicoli spostati continuamente da comune a comune, sopportava tutte le sollecitazione, gli scuotimenti e i contraccolpi cui erano esposti i veicoli ospitanti. Osservava, infine, che anche lo sviluppo e la stampa delle foto era rimessa alla società concessionaria, che essendo tenuta a trasmettere solo i rilievi fotografici validi per provare la sanzione, esercitava ampia discrezionalità nella scelta dei fotogrammi da inviare al comune, con grave compromissione della certezza e dell’imparzialità dell’intero procedimento.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre il comune di Buonalbergo, formulando tre mezzi d’annullamento.

Resiste con controricorso la parte intimata.
Motivi della decisione

1. – Il primo motivo denuncia la violazione dei limiti interni della giurisdizione, nonchè la violazione o falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, artt. 4 e 5, all. E, della L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23, art. 142 C.d.S. e art. 345 reg. C.d.S., la falsa applicazione del principio di imparzialità, la violazione dell’art. 2700 c.c., nonchè l’omessa o insufficiente motivazione e l’omesso esame di un documento decisivo.

Dalla motivazione della sentenza, sostiene parte ricorrente, si comprende che il G.d.P. non ha esaminato la legittimità del verbale di contravvenzione opposto, nè si è occupato della sussistenza della violazione, ma ha arbitrariamente spostato la propria indagine sul contenuto della convenzione tra il comune e la società privata incaricata di organizzare le attività materiali propedeutiche allo svolgimento del servizio.

Nello svolgimento di tali attività il privato non si sostituisce alla Polizia municipale, ma opera in funzione di supporto, senza interferire nell’accertamento, rimesso ai pubblici ufficiali, laddove il soggetto privato si limita a fornire ausilio tecnico per il corretto funzionamento dell’apparecchio rilevatore e a svolgere prestazioni materiali per la stampa delle fotografie, senza che l’interesse economico sotteso alla convezione possa costituire motivo di dubbio sulla correttezza dell’operato del soggetto privato o produrre situazioni d’incompatibilità.

Inoltre, il G.d.P. non ha esaminato il contenuto della convenzione, da cui risulta che sviluppo e stampa dei fotogrammi scattati doveva avvenire in un laboratorio in possesso di regolare licenza comunale e con la possibilità che fosse presente anche personale della Polizia municipale.

Il giudice di pace, inoltre, non poteva ravvisare alcuna violazione dell’art. 345 reg. C.d.S., non essendo stata proposta querela di falso avverso il verbale di infrazione.

2. – Con il secondo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e della L. n. 689 del 1981, artt. 22 e 23, artt. 45 e 142 C.d.S., art. 345 reg. C.d.S., D.L. n. 121 del 2002, art. 4, convertito in L. n. 168 del 2002, nonchè il vizio di motivazione e l’omesso esame di un documento decisivo.

L’art. 345 reg. C.d.S., comma 4, ove interpretato nel senso della necessità di una presenza continuativa degli agenti di polizia deve ritenersi inapplicabile in caso di contravvenzioni elevate, come nella specie, su di un tratto di strada ove le violazioni possono essere accertate in modo automatico, anche senza il diretto intervento degli agenti preposti, e senza obbligo di contestazione immediata. Il G.d.P., invece, ha ritenuto che le nuove disposizioni siano applicabili solo in caso di apparecchiature fisse che eseguono misurazioni in modo completamente automatico, in tal modo ponendo a base della decisione una ragione non dedotta dal ricorrente.

Inoltre, il D.L. n. 121 del 2002, art. 4, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2002, e ulteriormente modificato dal D.L. n. 151 del 2003, art. 7, si limita a disporre che i dispositivi che consentono di accertare in modo automatico la violazione, se utilizzati senza la presenza o il diretto intervento degli agenti preposti, devono essere approvati o omologati ai sensi del D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 45, comma 6, per cui il nuovo decreto non ha introdotto una diversa modalità di omologazione, ma fa riferimento alla medesima omologazione di cui all’art. 45 C.d.S., comma 6, nella specie debitamente attestata nel verbale di accertamento, con indicazione del relativo decreto.

Infine, il G.d.P. ha affermato che l’apparecchio rilevatore possiede determinate caratteristiche, senza esaminarne il libretto tecnico, e pur affermando che una volta impostato il relativo funzionamento è del tutto automatico, ha poi escluso l’applicabilità della nuova normativa, affermando che detta tipologia di apparecchio non rileva le contravvenzioni in modo automatico.

3. – Con il terzo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 142 C.d.S., degli artt. 2697 e 2700 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., nonchè l’omesso esame di un documento su di un punto decisivo.

L’art. 142 C.d.S., comma 6, si limita a prevedere l’omologazione dell’apparecchio, e non la preventiva verifica del suo funzionamento volta per volta. Ed infatti, la giurisprudenza della S.C. ha ripetutamente affermato che le rilevazioni mediante strumenti elettronici posso essere disattese solo se se ne dimostrano guasti o difetti costruttivi, in difetto di che la loro efficacia probatoria permane inalterata, fino a querela di falso.

4. – Il ricorso è fondato.

Con sentenza n. 22816/08 questa Corte ha avuto modo di esaminare analoga impugnazione del comune di Buonalbergo in una fattispecie del tutto sovrapponibile, riguardante una sentenza del medesimo giudice di pace di San Giorgio La Molara. Identica l’infrazione amministrativa, le rationes decidendi a base del provvedimento impugnato e i motivi di ricorso per cassazione, conviene riportare la parti salienti della motivazione del citato precedente:

"…l’assistenza tecnica del privato operatore, limitata all’installazione ed all’impostazione dell’apparecchiatura secondo le indicazioni del pubblico ufficiale, non interferisce sull’attività d’accertamento poi direttamente svolta da quest’ultimo ed, anzi, offre agli utenti della strada nei confronti dei quali è effettuato il controllo una più sicura garanzia di precisione nel funzionamento degli strumenti di rilevazione ove tenuti sotto sorveglianza da parte di personale tecnico specializzato; ond’è che la decisione in esame, con la quale si è ritenuto invalido l’accertamento in quanto, nella specie, attuato alla presenza dell’operatore privato ma in funzione d’assistenza tecnica nei limiti indicati, opera un’interpretazione restrittiva dell’art. 345 reg. esec. C.d.S., comma 4, nonchè del combinato disposto degli artt. 11 e 12 C.d.S., che riserva ai pubblici ufficiali i servizi di polizia stradale, non consentiti nè dal tenore letterale nè dalla rado delle citate disposizioni. In secondo luogo – premesso che la deduzione con la quale si contesti al giudice del merito non di non aver correttamente individuato la norma regolatrice della questione controversa o di averla applicata in difformità dal suo contenuto precettivo, bensì di avere o non avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, non comporta un giudizio di diritto, bensì un giudizio di fatto (e pluribus Cass. 22 febbraio 2007 n. 4178; 5 maggio 2006 n. 10313; S.V., 30 marzo 2005 n. 6654) – va, altresì, rilevato il denunziato vizio di motivazione, attesa la palese illogicità della stessa, dacchè, nell’operato sillogismo, l’illazione non risulta consequenziale al confronto tra premessa maggiore e premessa minore. Se, infatti, l’art. 345 reg. esec. att. C.d.S., comma 4, prevede che le apparecchiature d’accertamento delle infrazioni "devono essere gestite direttamente dagli organi di polizia stradale – e devono essere nella disponibilità degli stessi", non si vede come tali condizioni di legittima operatività dell’apparecchiatura, normativamente prescritte, possono essere escluse nel caso in esame, laddove, per espressa previsione contrattuale, tutte le attività d’installazione ed utilizzazione dell’apparecchiatura stessa si svolgono alla presenza del pubblico ufficiale preposto al servizio – ed, anzi, con la diretta utilizzazione da parte del medesimo, ad essa "istruito" dal tecnico di supporto – al quale soltanto è demandato disporre la messa in funzione ed al cui allontanamento, anche occasionale, ne è connessa l’immediata disattivazione (…). Come già evidenziato da questa Corte (e pluribus, Cass. 18 aprile 2007 n. 9308; 1 febbraio 2007 n. 2206; 15 novembre 2006 n. 24355; 4 maggio 2005 n. 9222; 8 agosto 2003 n. 11971), in sede d’opposizione L. n. 689 del 1981, ex art. 22 o art. 204 bis C.d.S., non può annullarsi il provvedimento sanzionatorio in base ad un’illegittimità desunta non dall’atto ma dalle modalità, esterne ad esso, con le quali era stato organizzato il servizio di rilevazione ed accertamento delle violazioni, mediante un sindacato sulle scelte tecniche ed organizzative del servizio, trattandosi di valutazione che, se effettuata, configura un’inammissibile ingerenza nel modus operandi della pubblica amministrazione, in linea di principio non sindacabile dal giudice ordinario (…). E’ del tutto evidente come, nel caso in esame, il giudice a quo abbia esorbitato dai propri poteri, in violazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. E, non solo omettendo d’identificare e valutare incidentalmente l’atto presupposto, ma, ove ciò avesse fatto per implicito, invadendo la sfera delle attribuzioni riservate all’amministrazione, nella formazione dell’atto stesso convergendo, all’evidenza, una pluralità di valutazioni, da parte dei competenti uffici ed organi comunali, di natura non solo strettamente tecnica, ma anche ampiamente discrezionale, in quanto da formularsi sulla base d’apprezzamenti ponderati sia delle situazioni di fatto, sia delle molteplici esigenze, relative alle risorse umane ed economiche a disposizione dell’ente, da prendersi in considerazione al fine di regolare il traffico nell’ambito della gestione complessiva della circolazione stradale sul territorio (…). Nello stesso errore il giudice a quo è incorso laddove ha ritenuto di poter disquisire dell’idoneità o meno, in astratto, dell’apparecchiatura utilizzata per il rilevamento, valutazione rimessa, per contro, all’amministrazione in sede d’omologazione (Cass. 2 agosto 205 n. 16143); così come erroneamente ha ritenuto che il verbale dovesse contenere l’attestazione della sperimentata funzionalità dell’apparecchiatura e che tale funzionalità dovesse essere dimostrata in giudizio dall’amministrazione, mentre, viceversa, l’efficacia probatoria di qualsiasi strumento di rilevazione elettronica della velocità dei veicoli perdura sino a quando non risultino accertati, nel caso concreto, sulla base di circostanze allegate dall’opponente e dallo stesso debitamente provate, il difetto di costruzione, installazione o funzionalità dello strumento o situazioni comunque ostative al suo regolare funzionamento, senza che possa farsi leva, in senso contrario, su considerazioni di tipo meramente congetturale, connesse alla sufficienza dell’intervento progresso tecnologico rispetto al modello considerato, od alla mancanza di revisione o manutenzione periodica di esso, a pregiudicarne l’efficacia ex art. 142 C.d.S. (Cass. 26 aprile 2007 n. 9950; 5 luglio 2006 n. 15324; 16 maggio 2005 n. 10212; 20 aprile 2006 n. 8233; 10 gennaio 2005 n. 287; 24 marzo 2004 n. 5873; 22 giugno 2001 n. 8515; 5 giugno 1999 n. 5542) (…).

Le rationes decidendi da ultimo esaminate sono, inoltre e comunque, da considerare illegittime anche in quanto, come giustamente evidenziato dal ricorrente Comune, hanno ad oggetto questioni relative a (pretesi) vizi del provvedimento impugnato non dedotti dall’opponente ma rilevati d’ufficio dal giudice in violazione dei limiti della propria patestas iudicandi (…). Quanto alla seconda delle principali considerazioni svolte dal giudice a quo sui motivi d’impugnazione effettivamente prospettati dall’opponente, è anch’essa errata. Al riguardo, questa Corte ha ripetutamente evidenziato come, nel caso di violazione delle norme sui limiti di velocità nella circolazione stradale accertata a mezzo di strumento omologato, il momento essenziale dell’accertamento stesso sia quello del rilevamento fotografico, cui deve necessariamente presiedere uno dei soggetti ai quali, come già visto in precedenza, l’art. 12 C.d.S., demanda l’espletamento dei servizi di polizia stradale, e che non può essere effettuato in via esclusiva da soggetti privati;

come, pertanto, la fonte principale di prova delle risultanze dello strumento elettronico essendo costituita dal negativo della fotografia, quale documento che individua il veicolo e ne consente la rapportabilità alle circostanze di fatto, di tempo e di luogo rappresentativi, la successiva fase dello sviluppo e della stampa del negativo rappresenti il semplice espletamento d’una attività meramente materiale, cui non deve necessariamente attendere, nè presenziare, il pubblico ufficiale rilevatore dell’infrazione od altro dei soggetti indicati nel citato art. 12".

A tale persuasivo orientamento – confermato da Cass. n. 1955/10 (che nel richiamarsi ad esso ha coerentemente ritenuto illegittimo l’accertamento delegato per intero a soggetti privati, che vi provvedevano curando non solo l’installazione dell’apparecchiatura elettronica di rilevazione della velocità, ma anche la lettura dei risultati, la verbalizzazione e la notifica del verbale al soggetto interessato), e che si colloca, altresì, in linea con altri e costanti precedenti in tema di efficacia probatoria dello strumento rilevatore automatico della velocità (v. Cass. nn. 287/05, 6507/04 e 9441/01, nonchè Cass. nn. 7667/97, 9076/97, 6242/99, 1380/00, 16697/03, 12689/99, sulla necessità che l’opponente fornisca prova del difetto di funzionamento di tali dispositivi, da fornirsi in base a concrete circostanze di fatto, e Cass. nn. 22880, 17361/08, 9950/07, 15324/06 e 20886/05 sulla sufficienza dell’omologazione del modello di misurazione automatica utilizzato, non soggetta a scadenza) – ritiene la Corte di dover dare continuità, tenuto conto che le argomentazioni difensive svolte dalla parte controricorrente, nel ripercorrere e partecipare all’intera impostazione della sentenza impugnata, ne condivide tutti gli errori, incluso quello, basilare, di fornire un’interpretazione ingiustificatamente restrittiva e sostanzialmente abrogante dell’art. 345 reg. C.d.S., comma 4, che ove accolta renderebbe illegittimo l’impiego di qualsivoglia supporto tecnico non personalmente azionato, manovrato e utilizzato dagli organi di polizia stradale, lì dove, invece, i concetti di gestione e di disponibilità espressi dalla norma rimandano ad un potere di controllo iniziale e finale della polizia stradale perfettamente compatibile con quello ricostruito in punto di fatto dallo stesso giudice di merito.

5. – Per quanto sopra considerato, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice di pace di Benevento, che nel decidere la controversia si atterrà ai principi di diritto sopra espressi, e che provvedere, altresì, in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio al giudice di pace di Benevento, che provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 01-03-2011) 09-06-2011, n. 23252

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Nei confronti di F.E. venivano emessi decreti di sequestro probatorio in data 6.10.2010, aventi a oggetto carte di credito, documenti di imbarco, agende, materiale informatico vario e altra documentazione, in relazione alle ipotesi criminose ex artt. 453, 458 e 648 c.p..

Il primo provvedimento era stato eseguito di iniziativa della pg (e poi convalidato dal PM) presso l’aeroporto di (OMISSIS), il secondo era stato eseguito, all’esito di perquisizione disposta dal PM, presso la abitazione del F..

Avverso detti decreti proponeva richiesta di riesame l’interessato e il TdR, rilevato che il termine entro il quale la decisione avrebbe dovuto essere assunta era invano spirato, dichiarava la inefficacia dei predetti provvedimenti.

Il materiale in questione veniva quindi restituito al difensore del F., ma, immediatamente dopo, veniva risequestrato in esecuzione di nuovo provvedimento del PM. Avverso tale nuovo provvedimento ablativo veniva proposta nuova istanza di riesame e il TdR di Varese, con il provvedimento di cui in epigrafe confermava il disposto sequestro.

Ricorre per cassazione il F. e deduce:

1) violazione dell’art. 103 c.p.p., in quanto il sequestro è stato eseguito nei confronti del difensore. Nessun rilievo può avere il fatto che il provvedimento ablativo sia stato eseguito negli uffici della GdF e non nello studio dell’avvocato, in quanto ciò che rileva non è il dato spaziale, ma la disponibilità della res da parte del difensore dell’imputato/indagato. Nè può ragionevolmente negarsi che il predetto materiale sia funzionale all’esercizio del diritto di difesa.

2) violazione degli artt. 121 e 125 c.p.p., art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) per mancata specificazione materiale degli elementi di indagine. Sul punto la motivazione è meramente apparente. Nessuna allegazione degli elementi minimi è stata effettuata e il provvedimento sembra obbedire a mere finalità esplorative. I reati addebitati al F. sono solo enunziati con l’indicazione dell’articolo del codice. Le fattispecie evocate postulano un atto di falsificazione che non viene indicato. La ricettazione postula un delitto pregresso, del quale manca la specificazione;

3) omessa e carente motivazione in ordine alla pertinenzialità e la finalità probatoria dei beni sequestrati, nonchè violazione dell’art. 253 c.p.p..

Non è dato comprendere quale rapporto avrebbero con i reati ipotizzati le cose sequestrate (es. dati informatici fissati su CD), nè la mera indicazione degli stessi come "corpo del reato", dopo i noti arresti giurisprudenziali delle SS.UU., può valere come motivazione implicita in ordine alla loro pertinenzialità. Il TdR, per altro, afferma anche che il sequestro è funzionale all’impedimento di condotte illecite, dimenticando che trattasi di sequestro probatorio e non preventivo.

4) omessa motivazione in ordine alla dedotta esuberanza del sequestro, atteso che, con il ricorso, si era eccepito che l’atto ablativo aveva avuto un’estensione del tutto sproporzionata con riferimento alle dichiarate finalità probatorie. Sul punto il TdR non ha fornito risposta.
Motivi della decisione

La prima censura è manifestamente infondata.

Come lo stesso ricorrente, ricorda il divieto di sequestro presso il difensore soffre la limitazione relativa al sequestro del corpo di reato.

Ebbene "corpo di reato" sono qualificate le cose prima sequestrate, poi dissequestrate e restituite al difensore -che ovviamente non le riceveva per sè, ma per il suo assistito- quindi nuovamente sequestrate (è ovvio che la restituzione avvenne solo formalmente).

Se dunque il "materiale" sequestrato è da qualificarsi, secondo l’ipotesi di accusa, "corpo di reato", del provvedimento ablativo non può dolersi nè il difensore, nè chiunque altro, trattandosi di cose sottoposte (in ipotesi) a confisca obbligatoria ex art. 240 c.p., comma 2, n. 2.

Il fatto è, tuttavia, che la qualificazione delle res in sequestro come corpo di reato è (o almeno appare) puramente assertiva.

Invero, se non viene chiarito, con un ragionevole livello di specificazione, in cosa sia consistita la condotta addebitata all’indagato, risulta impossibile comprendere per qual motivo determinati oggetti o documenti dovrebbero essere considerati, appunto, corpo di reato.

E’ noto, per altro, che le SS.UU. di questa Corte, come ricordato dal ricorrente, hanno affermato (sent. n. 5876 del 2004, rie. PC Ferrazzi in proc. Bevilacqua, RV 226711) che, anche per le cose che costituiscono corpo di reato, il decreto di sequestro – a fini di prova – deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti (per altro, con pronunzie successive, le Sezioni "semplici" sembrano voler ridimensionare la portata di tale enunciato, cfr. ASN 201008662-RV 246850), ma, nel caso in esame, dovrebbe essere quantomeno chiarito: 1) quali sono i documenti che si ritengono falsificati e quali sono gli elementi che orientano in tal senso, 2) quale sia il contenuto dei supporti informatici dei quali il F. fu trovato in possesso e quale attinenza con i fatti per i quali si procede detto contenuto, eventualmente, abbia, 3) quale sia il delitto presupposto della contestata ipotesi ex art. 648 c.p., fornendosi, per il delitto presupposto, utili (se pur minime e anche generiche) indicazioni spaziali, temporali e circostanziali, che valgano a metterlo in relazione col contestato delitto di ricettazione. Per le ragioni sopra specificate, le censure sub 2) e 3) devono ritenersi fondate (quella sub 4 resta assorbita) e, conseguentemente, il provvedimento impugnato va annullato con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Varese.
P.Q.M.

Annulla la ordinanza impugnata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Varese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.