Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 08-06-2011) 24-06-2011, n. 25321 Esecuzione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Rileva:

1. – Con decreto, deliberato il 27 settembre 2010 e depositato il 29 settembre 2010, la Corte di appello di Messina ha respinto le richieste di revoca della imposizione della cauzione e, gradatamente, di riduzione del relativo importo e di rateizzazione, formulata dai sorvegliati speciali della pubblica sicurezza P.N. e D., motivando: in pendenza dell’appello proposto avverso il decreto che ha disposto la misura di prevenzione, spetta alla Corte territoriale provvedere sulle richiesta di revoca o di riduzione della cauzione; 2^) la istanza ulteriore di rateizzazione è priva di giuridico fondamento; e, peraltro, la rateizzazione comprometterebbe la funzione di garanzia dell’istituto.

2. – Ricorrono per cassazione gli interessati, personalmente, mediante atto recante la data del 4 ottobre 2010, depositato il 5 ottobre 2010, col quale dichiara di denunziare, à sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) violazione della L. 31 maggio 1965, n. 575, artt. 2-ter e 3-bis, e 3-ter, comma 2, deducendo: la applicazione della cauzione non è soggetta alla impugnazione, come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità; lo stesso giudice che ha imposto la cauzione può revocarla o ridurla.

3. – Il procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, con atto del 22 novembre 2010, osserva: il Tribunale ha affermato non che la imposizione della cauzione dovesse essere autonomamente impugnata; ma che, essendo stato proposto appello, competente a revocare o a modificare la cauzione era la Corte territoriale; alla suddetta Corte devono essere trasmessi gli atti.

4. – Il ricorso è inammissibile.

Sebbene il giudice a quo abbia impropriamente adottato la formula del rigetto delle richieste dei sorvegliati speciali della pubblica sicurezza, il provvedimento ha il contenuto sostanziale di una declinatoria della competenza del giudice di primo grado in favore della competenza funzionale del giudice dell’appello delle misure di prevenzione.

Orbene, in virtù del generale principio della inoppugnabilità dei provvedimenti "sulla competenza che possono dare luogo a un conflitto", positivamente stabilito dall’art. 568 c.p.p., comma 2, con espresso riferimento alle sentenze – ed estensibile anche ai provvedimenti decisori che nella materia della prevenzione assumono la forma del decreto motivato – la decisione del Tribunale ordinario di Messina non può formare oggetto di impugnazione: gli interessati devono, invece, adire la Corte territoriale, la quale, a sua volta, se riterrà non la propria competenza, bensì quella del primo giudice che la ha declinata, provvedere a sollevare conflitto negativo davanti a questa Corte regolatrice.

Ricorre, pertanto, l’ipotesi di inammissibilità della impugnazione prevista dall’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. b), trattandosi di ricorso proposto contro provvedimento non impugnabile.

Conseguono la declaratoria della inammissibilità del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè – valutato il contenuto dei motivi e in difetto della ipotesi di esclusione di colpa nella proposizione della impugnazione – di ciascuno dei ricorrenti medesimi al versamento a favore della cassa delle ammende della somma, che la Corte determina, nella misura congrua ed equa, infra indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento della somma di Euro 1.000 (mille) alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 15-07-2011, n. 4344 Ricorso per l’esecuzione del giudicato

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con decreto del 13/10/2008 (n.59132 R.G.) la Corte di Appello di Roma condannava il Ministero della Giustizia al pagamento, in favore di C. C., a titolo di equa riparazione del danno morale, ai sensi della legge n.89/2001, della somma di euro 500,00 (cinquecento) oltre interessi legali nonché alla rifusione delle spese processuali indicate nella misura di euro 350,000.

Tale pronunzia passava in giudicato.

L’interessato, dopo aver notificato ai sensi dell’art.90 del R.D. n.642/1907 atto di diffida e messa in mora, senza che il Ministero provvedesse a corrispondere le somme riconosciute dalla Corte di Appello di Roma con la decisione sopra descritta, ha proposto ricorso per ottemperanza dinanzi a questo Consiglio di Stato, chiedendo che si provveda all’esecuzione, eventualmente anche a mezzo di Commissario ad acta.

Tanto premesso, il ricorso è fondato.

Nel merito della pretesa qui avanzata la Sezione rileva la presenza di tutti i presupposti processuali necessari per l’esercizio dell’azione di ottemperanza e non può non rilevarne la fondatezza, atteso che non risulta in atti alcun elemento che attesti, allo stato, il pagamento effettivo da parte dell’Amministrazione condannata ai sensi e per gli effetti della normativa di cui alla c.d. "legge Pinto", delle somme riconosciute in favore dell’istante.

Occorre pertanto ordinare all’Amministrazione di dare puntuale esecuzione al giudicato, con il pagamento delle somme dovute entro il termine di giorni novanta dalla comunicazione o notific, se anteriore, della presente controversia, con nomina di un Commissario ad acta, in caso di persistente inerzia.

Le spese del presente giudizio seguono la regola della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), accoglie il ricorso come in epigrafe proposto e, per l’effetto, dispone che il Ministero della Giustizia dia esecuzione al giudicato formatosi sul decreto della Corte d’Appello di Roma n.59132 R.G. del 13/10/2008 nei sensi di cui in motivazione, adottando gli atti necessari nel termine di 90 (novanta) giorni dalla comunicazione in via amministrativa e/o dalla notificazione della presente sentenza.

Dispone che, in caso di ulteriore inadempimento, a tale operazione provveda nell’ulteriore termine di 90 giorni, quale commissario ad acta, il Ragioniere Generale dello Stato o un dirigente dal medesimo delegato.

Condanna il Ministero della Giustizia alla rifusione, in favore della parte ricorrente delle spese e competenze del presente giudizio, che si liquidano complessivamente in euro 500,00 (cinquecento/00) oltre IVA e CPA.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. III, Sent., 04-08-2011, n. 4691 Contratti

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

l’odierna appellante, in origine aggiudicataria dell’appalto per la fornitura di carburante per autotrazione in favore della società mista L. S.p.A., è stata destinataria di un’informativa antimafia ai sensi dell’art. 10 del d.p.r. 252/1998, in forza della quale la stazione appaltante ha disposto la risoluzione del contratto a norma dell’art. 11 comma 3 del citato d.p.r.;

che, già pendente il giudizio in primo grado, avendo il Consiglio di Stato accolto l’appello cautelare con ordinanza n. 543/2010, la Prefettura ha adottato una seconda informativa interdittiva, sostitutiva della prima, da cui è derivata sempre la risoluzione del medesimo contratto, e che entrambi tali atti sono stati impugnati con un nuovo e distinto ricorso;

2. che, all’esito del giudizio in primo grado, riunendo entrambi i gravami, il Tar ha con sentenza n. 211/2011 dichiarato improcedibile il primo, per sopravvenuta carenza di interesse, ed ha respinto il secondo, sul fondamentale rilievo che i plurimi rapporti parentali del socio G. F., con soggetti notoriamente inseriti in ambienti criminali, fossero tali da giustificare l’informativa prefettizia e, quindi, la sussistenza del tentativo di infiltrazioni mafiose nella società ricorrente;

3. che con il presente appello è censurata tanto la pronuncia di improcedibilità quanto quella di reiezione;

3.1. che, quanto alla prima, si afferma residuare l’interesse alla decisione sull’originario ricorso quanto meno sotto il profilo del danno risarcibile, sul presupposto dell’illegittimità della prima informativa;

3.2. che, quanto alla seconda pronuncia, avente ad oggetto la nuova informativa adottata a seguito dell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, si osserva come il nuovo atto interdittivo non sia fondato su elementi realmente sopravvenuti, come sostenuto dall’Amministrazione, ma, piuttosto, sempre e solamente sul profilo dei rapporti parentali del sig. G. F.;

3.3. che, infine, si censura la sentenza anche nella parte in cui non ha annullato gli atti di risoluzione, che sarebbero illegittimi non solo in via derivata ma anche in via autonoma, per difetto di motivazione;

3.4. che si è costituita solo formalmente l’Amministrazione, attraverso la difesa erariale;

4. considerato che la controversia in esame pone nuovamente all’attenzione del Collegio il tema delle informative prefettizie, e della possibilità di rinvenirne un fondamento sufficiente nella sola presenza di rapporti parentali tra singoli componenti di una determinata impresa, che contratta con la Pubblica Amministrazione, e soggetti a vario titolo inseriti in contesti mafiosi;

4.1. che su tale questione si è già pronunciata questa Sezione, decidendo il ricorso n. 6306/2010 chiamato all’udienza pubblica del 25.3.2011;

che la Sezione, muovendo dalla nota premessa per cui le informative prefettizie cc.dd. atipiche sono atti non vincolanti, che lasciano spazio ad una discrezionale valutazione dell’amministrazione aggiudicatrice, che, per "ragione di pubblico interesse", può agire con un atto di "autotutela" (v. già Consiglio di Stato, sez. IV, 01 marzo 2001, n. 1148), ha sottolineato come ciò implichi la necessità di una motivazione, che dovrà essere particolarmente ampia nel caso in cui si decida di instaurare o proseguire il rapporto con l’impresa pur a seguito dell’informativa, ma che non può comunque mancare anche nel caso opposto (ricorrente appunto nel caso all’esame), in cui l’Amministrazione decida di non instaurare o non proseguire il rapporto (cfr. in materia, fra le altre, Cons. St., sez. VI, 3 maggio 2007, n. 1948);

4.2. che in tale circostanza si è accertato:

per un verso, come già la totale assenza di motivazione del provvedimento di revoca dell’aggiudicazione (nel quale non una parola era stata spesa riguardo alle valutazioni effettuate in ordine agli interessi pubblici e privati coinvolti e riguardo alle circostanze caratterizzanti la vicenda stessa), ne comportasse sicuramente l’illegittimità, attesa la mancanza di un qualsiasi apparato motivazionale a corredo di un atto che si limiti a richiamare semplicemente l’intervenuta "acquisizione di informazioni ai sensi del D.L. 629/82", senz’alcuna esternazione né degli elementi così acquisiti, né degli interessi, in funzione dei quali viene adottata la decisione di révoca del provvedimento di aggiudicazione;

– per altro verso, come la stessa iniziativa prefettizia, posta a presupposto dell’atto di revoca, peccasse di eccessiva genericità poiché gli elementi informativi erano riferiti ad una mera relazione di parentela con personaggi appartenenti alla mafia, senza alcun ulteriore elemento dal quale si potesse desumere una qualsiasi frequentazione con i mafiosi, una relazione fattuale idonea a fondare la presunzione di una effettiva ingerenza mafiosa nell’attività di impresa";

5. ritenuto che, proprio al lume delle considerazioni appena svolte, l’appello in oggetto meriti accoglimento;

5.1. che, infatti, nella fattispecie qui in esame, risulta evidente come la risoluzione del contratto sia stata disposta facendo esclusivo riferimento, sul piano della motivazione, alla sola informativa prefettizia, senza alcuna autonoma valutazione comparativa da parte della stazione appaltante;

5.2. che, inoltre, quale dato di per sé dirimente, la stessa informativa prefettizia non è immune dalle censure dedotte dall’appellante, quanto alla genericità dei riscontrati tentativi di infiltrazione mafiosa, poiché giustificati esclusivamente in ragione dei rapporti parentali che legano il socio G. F. a soggetti partecipi di organizzazioni criminali, in particolare il padre Giovanni Fontana ed uno zio, tal Francesco Condello, denunciato in passato per favoreggiamento ed associazione mafiosa;

5.2.1. che, come questa Sezione ha osservato nel precedente già richiamato, "la fase istruttoria del procedimento finalizzato a comunicare la presenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di un’impresa, si concreta essenzialmente nell’acquisizione di tutte le informazioni di cui le autorità di pubblica sicurezza sono in possesso al fine di effettuare, sulla base di tali risultanze, una obiettiva valutazione sulla possibilità di un eventuale utilizzo distorto dei finanziamenti pubblici destinati ad iniziative private o delle risorse pubbliche devolute al settore degli appalti pubblici (utilizzo, che la normativa di settore mira appunto ad evitare) e che a tal fine, se non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, non possono tuttavia ritenersi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, essendo pur sempre richiesta l’indicazione di circostanze obiettivamente sintomatiche di connessioni o collegamenti con le predette associazioni (Consiglio Stato, sez. VI, 17 luglio 2006, n. 4574) e di indizi ottenuti con l’ausilio di particolari indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo (Cons. St., VI, 31 dicembre 2007, n. 6902)";

5.2.2. che nel caso di specie, in particolare, l’informativa non fornisce alcun elemento concreto sulla base del quale inferire che il padre Giovanni Fontana sia in grado di influire, favorendo l’infiltrazione di gruppi criminali organizzati, nella conduzione dell’impresa di cui il figlio G. è socio, nella quale è incontestato che il primo non rivesta alcun ruolo formale;

5.2.3. che l’affermazione racchiusa nella nota prefettizia del 15.7.2010 secondo cui padre e figlio avrebbero lo stesso luogo di residenza, da cui discenderebbe la prova della loro contiguità di vita e comunanza di interessi, è persuasivamente e documentalmente contestata dall’appellante;

5.3. che, residuando quindi il solo rapporto parentale, deve richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui "è illegittima l’informativa prefettizia negativa fondata sul mero rapporto di parentela o affinità, di amministratori o soci di un’impresa con elementi malavitosi, essendo necessari anche altri elementi, sia pure indiziari, tali, nel loro complesso, da fornire obiettivo fondamento al giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata" (Consiglio di Stato, sez. VI, 02 maggio 2007, n. 1916, nel cui iter motivazionale si è richiamato l’insegnamento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza 31 marzo 1994, n. 108, resa in una vicenda in cui si discuteva del possesso delle "qualità morali e di condotta" per l’ammissione ai concorsi in magistratura, nella quale la Corte sottolineava come è certamente arbitrario presumere che valutazioni e comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza od a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo);

5.4. che le stesse conclusioni si impongono anche al cospetto di una pluralità di rapporti parentali, ove non emergano elementi aggiuntivi;

6. ritenuto che, sulla scorta di tali precedenti giurisprudenziali, dai quali il Collegio non vede ragione per discostarsi, l’informativa prefettizia debba essere annullata, non ravvisandosi sufficienti elementi indiziari a suo fondamento, pur nella accertata esistenza di elementi deduttivi di sospetto che potranno costituire, comunque, una base di partenza per ulteriori indagini ed approfondimenti istruttori;

che ciò comporta la riforma della sentenza impugnata e, in particolare:

quanto al ricorso proposto dinanzi al Tar avverso la prima informativa del 2.10.2009, in seguito sostituita da quella emessa il 15.7.2010, non essendo più utile l’annullamento del primo atto e residuando l’interesse alla decisione ai soli fini di un’ipotetica domanda risarcitoria, il suo accoglimento si traduce nell’accertamento dell’illegittimità di tale atto ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a;

quanto al secondo ricorso, l’annullamento dell’informativa del 15.7.2010 e del successivo atto di risoluzione adottato dalla stazione appaltante;

7. che le spese del presente giudizio possono essere compensate, ravvisandosi giustificati motivi nel peculiare caso di specie.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie entrambi i ricorsi proposti in primo grado, nei termini e con gli effetti di cui in motivazione.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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Cass. civ. Sez. II, Sent., 29-12-2011, n. 29815 Ordinanza ingiunzione di pagamento: opposizione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Che il Tribunale di Firenze, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 marzo 2005, ha annullato, accogliendo l’opposizione di B.A., l’ordinanza-ingiunzione con cui la Provincia di Firenze gli aveva intimato il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria per avere effettuato più di tre uscite settimanali di caccia e non aver annotato una giornata di caccia sul tesserino venatorio, in violazione della L.R. Toscana 12 gennaio 1994, n. 3 (Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 – Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio);

che il Tribunale ha rilevato che nella specie l’ordinanza-ingiunzione è illegittima, perchè "non reca i motivi che fondano il provvedimento e non indica i fatti e le ragioni in base ai quali l’accertamento è risultato fondato";

che per la cassazione della sentenza del Tribunale la Provincia di Firenze ha proposto ricorso, con atto notificato il 31 marzo 2006, sulla base di un motivo, illustrato con memoria;

che l’intimato non ha resistito con controricorso.

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata;

che con l’unico motivo, la Provincia ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, lamentando che il Tribunale non abbia riconosciuto nella specie la sussistenza della motivazione;

che il motivo è fondato;

che l’obbligo di motivare l’atto applicativo della sanzione amministrativa deve considerarsi soddisfatto quando dall’ingiunzione risulti la violazione addebitata, in modo che l’ingiunto possa far valere le sue ragioni e il giudice esercitare il controllo giurisdizionale;

che ha errato il giudice a quo a considerare l’ordinanza-ingiunzione priva di motivazione, quando invece questa non solo richiama il processo verbale con il quale è stata contestata la violazione della L.R. Toscana 12 gennaio 1994, n. 3, art. 30, comma 2, e art. 58, lett. g), facendo ad esso rinvio, ma anche menziona il parere dell’Avvocatura provinciale in ordine tanto alla regola dei tre giorni come aspetto caratterizzante ed immodificabile della disciplina venatoria, quanto alla possibilità dell’interessato di annullare la scheda dr uscita scrivendo al rientro i motivi del mancato esercizio venatorio;

che inoltre i vizi di motivazione in ordine alle difese presentate dall’interessato in sede amministrativa non comportano la nullità del provvedimento, e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa, in quanto il giudizio di opposizione non ha ad oggetto l’atto, ma il rapporto, con conseguente cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), in quanto riproposte nei motivi di opposizione, decidendo su di esse con pienezza di poteri, sia che le stesse investano questioni di diritto che di fatto (Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2010, n. 1786);

che pertanto il ricorso deve essere accolte – che cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere rinviata al Tribunale di Firenze, in persona di diverso magistrato, per l’esame degli altri motivi di opposizione;

che il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Firenze, in persona di diverso magistrato.

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