T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 26-05-2011, n. 4773 Ricorso giurisdizionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Considerato che con ricorso n. 714/11 il sig. I.C., in proprio e quale mandatario della costituenda associazione temporanea di imprese con le società A.G.S. s.n.c. di C. I. e C. e I. s.r.l. ha impugnato, tra gli altri la propria esclusione dalla procedura di consultazione, avviata dall’Associazione Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Ragionieri e Periti Commerciali per l’affidamento del servizio di elaborazione buste paghe e accessori;

Considerato che con ordinanza n. 504 del 10 febbraio 2011 è stata respinta la domanda di sospensione cautelare;

Considerato che con nota depositata il 12 maggio 2011 la ricorrente ha dichiarato di rinunciare al ricorso;

Ritenuto che il ricorso vada dichiarato estinto per rinuncia ai sensi dell’art. 84 c.p.a. ma che le spese di giudizio possono essere integralmente compensate fra le parti costituite, come previsto dal comma secondo del cit. art. 84.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dà atto della rinuncia.

Compensa integralmente tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-10-2011, n. 21280 Licenziamento per giustificato motivo

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Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata – in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Cosenza n. 2606/06 del 18 dicembre 2006 – condanna la Emme Motori s.r.l. a riassumere L.F. oppure a corrispondergli a titolo risarcitorio cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con gli accessori di legge.

La Corte d’appello di Catanzaro, per quel che qui interessa, precisa che:

a) la sentenza di primo grado è esauriente e convincente sulla mancata indicazione della ragione del licenziamento, da individuare come giustificato motivo obiettivo;

b) il Tribunale ha dimostrato che dalle risultanze probatorie non è emersa la necessità aziendale di sopprimere il posto del L. e che il datore di lavoro non ha neppure tentato di dimostrare che il dipendente non poteva essere occupato in altro settore aziendale;

c) del resto, la asserita necessità della riduzione del personale è contraddetta dalla avvenuta assunzione di altro personale dopo il recesso, come risulta dai libri matricola e dalle dichiarazioni della società tese a dimostrare che al momento del licenziamento la consistenza numerica del personale era inferiore a quindici unità;

d) la sentenza del Tribunale va, invece, riformata con riferimento alla disciplina sanzionatoria da applicare;

e) il primo Giudice ha disatteso le risultanze dei libri matricola e la deposizione del contabile dell’azienda che ad essi faceva riferimento perchè li ha ritenuti inattendibili, avendo riscontrato che alcune pagine di tali libri erano in bianco ed altre contenevano cancellature non regolamentari;

f) l’esame dei due libri prodotti in giudizio induce a ritenere infondati i sospetti del Tribunale;

g) in particolare, le cancellature non sono irregolari e la presenza di due pagine in bianco alla fine del primo libro è congruamente giustificata dalla società sicchè non vi sono elementi formali che alterino la correttezza delle iscrizioni contenute nei libri medesimi e che possano inficiare l’attendibilità dell’assunto dell’azienda secondo cui dai libri matricola risulta che il numero dei dipendenti era inferiore a quindici;

h) alla suddetta prova documentale il lavoratore non ha opposto dati di fatto certi o indicazioni diverse da mettere a confronto;

i) ne deriva la fondatezza delle dichiarazioni della società – in sede di appello corroborate dall’analitica indicazione dei nominativi dei dipendenti in servizio – in merito alla sussistenza al momento del licenziamento di un numero di dipendenti inferiore a quindici, come sempre stato per le esigenze del normale andamento del ciclo produttivo;

j) pertanto al presente licenziamento, illegittimo perchè privo di giustificato motivo oggetti vo, si deve applicare la tutela obbligatoria e non quella reale.

2.- Il ricorso di L.F. domanda la cassazione della sentenza per quattro la Immobiliare Emme Group s.r.l. (già Emme Motori s.r.t.) non svolge attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1 – Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa od insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si rileva che la Corte d’appello, nel l’affrontare la problematica relativa al requisito dimensionale dell’azienda al momento del licenziamento, ha preso in considerazione soltanto la prova documentale, rappresentata dai libri matricola della società, già valutati come inattendibili dal Giudice di primo grado, il quale aveva conseguentemente ritenuto non assolto, da parte della datrice di lavoro, l’onere della prova sul requisito dimensionale ed aveva quindi affermato la sussistenza del diritto alla tutela reale.

In tal modo la Corte d’appello non ha dato valore alle altre prove di segno contrario dotate di ben maggiore rilievo, senza fornire alcuna spiegazione della scelta così operata.

2 – Con il secondo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa od insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si sottolinea che l’esigenza di rigore valutativo connesso alla verifica globale di tutte le emergenze di causa, di cui si è detto nel primo motivo, nella specie, si mostra particolarmente pregnante per il fatto che i libri matricola (cui ha fatto riferimento la Corte d’appello) sono documenti che, date le loro specifiche caratteristiche, possono fare piena prova soltanto contro l’imprenditore, mentre nei confronti del prestatore di lavoro rivestono il solo valore di presunzioni semplici.

Ora, dall’art. 2729 cod. civ. si desume che il giudice può prendere in considerazioni solo presunzioni "gravi, precise e concordanti".

Nella specie tale tipo di presunzioni (rinvenibili dalle modalità di tenuta dei libri matricola e dalle dichiarazioni datoriali contenute negli atti difensivi a proposito delle assunzioni dei lavoratori M. e Li.) erano tutte contrarie al datore di lavoro il quale, pertanto, avrebbe dovuto provare quali erano le dimensioni della impresa al momento del licenziamento.

La società, invece, non solo non ha fornito tale prova ma ha prodotto dei documenti redatti e formati in palese violazione della normativa che li disciplina ( D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 4 e 26).

La Corte territoriale ha dato a tali documenti valenza decisiva senza offrire alcun chiarimento al riguardo.

3- Con il terzo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 4 e 26;

b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa od insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si specifica che la Corte d’appello non si è accorta – e quindi non ne ha dato conto nella motivazione della sentenza – di alcune gravi violazioni commesse nella elaborazione e nella tenuta dei libri matricola in argomento.

In particolare si assume che: 1) non sarebbero state considerate alcune cancellazioni riguardanti le date di assunzione di sette lavoratori effettuate senza lasciare leggibile la parte cancellata (e, quindi, in contrasto con quanto disposto dal D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 26 applicabile ratione temporis); 2) non vi sarebbe alcuna pronuncia sulla mancata iscrizione di A. e di G. M. tra i soci (in contrasto con il D.P.R n. 1124 del 1965, art. 4), rilevante al fine di valutare l’attendibilità della dichiarazione del datore di lavoro sulla compatibilità della qualifica di soci dei due suddetti soggetti con quella di lavoratori subordinati.

4- Con il quarto motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si sostiene che la Corte d’appello, muovendo dall’esatta premessa del mancato verificarsi al momento del licenziamento di alcuna contrazione delle dimensioni occupazionali dell’azienda per una effettiva e/o reale ragione organizzativa, perviene all’illogica conclusione di non ritenere applicabile la tutela reale di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18. Dalla sentenza non emerge quale sia l’effettivo periodo precedente il licenziamento cui la Corte territoriale si è riferita e comunque sia alla data di effettiva cessazione del rapporto di lavoro del L. (14 gennaio 2004), sia allo spirare del termine del preavviso (5 settembre 2003) la consistenza numerica dei dipendenti era superiore a quindici.

Soltanto nell’ipotesi in cui si facesse riferimento al periodo antecedente l’invio dell’intimazione del licenziamento si potrebbe ipotizzare un mancato raggiungimento del suddetto limite minimo di personale in servizio, ma ciò non soltanto sarebbe in contrasto non soltanto con il dato letterale della sentenza in oggetto (ove si indica come momento di riferimento quello del licenziamento), ma anche con il principio secondo cui, in considerazione dell’efficacia reale del preavviso, la consistenza occupazionale dell’impresa datrice di lavoro va valutata al momento di effettiva cessazione del rapporto (nella specie verificatasi dopo la sospensione del termine del preavviso dipendente dalla sopravvenuta malattia del lavoratore), a meno che si riscontri una non episodica o simulata riduzione di personale per ragioni organizzative, tale da consentire l’anticipazione dell’analisi e del calcolo in argomento al periodo antecedente il recesso.

2- Esame dei primi tre motivi.

5- I primi tre motivi del ricorso – che possono essere esaminati congiuntamente data la loro intima connessione – non sono da accogliere.

Va ricordato, in via preliminare, che in base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, a fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la Corte deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (vedi, per tutte Cass. 30 luglio 2010, n. 17915).

Nella specie, con tutti i suddetti motivi, il ricorrente sostanzialmente lamenta che la Corte d’appello, al fine di stabilire la dimensione dell’impresa datrice di lavoro, abbia privilegiato, tra le varie prove in atti, la prova documentale rappresentata dai libri matricola esibiti dall’azienda e asseritamente contenenti vistose irregolarità formali.

Peraltro, in contrasto con il suddetto principio, nel ricorso non sono formulate indicazioni specifiche che possano consentire al Collegio di procedere all’esame delle censure sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso stesso.

Comunque, va anche ricordato che è sono altrettanto pacifici e condivisi i seguenti principi:

1) con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente;

l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (vedi, da ultimo: Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288);

2) ai fini dell’adeguata motivazione della sentenza, secondo le indicazioni desumibili dal combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., è necessario che il raggiunto convincimento del giudice risulti da un esame logico e coerente di quelle che, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo, mentre non si deve dar conto dell’esito dell’esame di tutte le prove prospettate o comunque acquisite (da ultimo: Cass. 4 marzo 2011, n 5241).

Dai suddetti principi si desume che nella specie la sentenza impugnata, con riguardo alle doglianze in argomento, è esente da qualsiasi censura in quanto dalla stessa risulta che il Giudice d’appello non solo ha correttamente applicato le disposizioni di cui il ricorrente ha denunciato la violazione, ma ha congruamente motivato le valutazioni operate delle risultanze probatorie ed ha chiarito l’iter logico-argomentativo posto alla base della relativa decisione, senza alcun profilo manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

Di ciò si ha conferma, in particolare, nel fatto che la Corte territoriale, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, ha dato conto di aver proceduto ad un attento esame dei due libri matricola prodotti in giudizio dalla datrice di lavoro e di essere pervenuta alla conclusione dell’infondatezza dei "sospetti" del Tribunale sulla duplice constazione della regolarità delle cancellature e della congrua giustificazione offerta dalla società in merito alla presenza di due pagine in bianco alla fine del primo dei suddetti libri.

Per tali ragioni la Corte d’appello ha ritenuto le iscrizioni contenute nei libri medesimi inidonee ad inficiare l’attendibilità dell’assunto dell’azienda secondo cui dai libri matricola risulta che il numero dei dipendenti era inferiore a quindici al momento del licenziamento, così come era sempre stato per le esigenze del normale andamento del ciclo produttivo, dopo aver rilevato che alla suddetta prova documentale il lavoratore non ha opposto dati di fatto certi o indicazioni diverse da mettere a confronto.

A fronte di questa situazione, le censure del ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto, già valutate dal Giudice del merito, in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità. 3 – Esame del quarto motivo.

6. Il quarto motivo non è fondato.

In base ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte per individuare il tipo di tutela da riconoscere al lavoratore licenziato, conseguente ai limiti dimensionali dell’organizzazione facente capo al datore di lavoro, il computo dei dipendenti va effettuato tenendo conto della normale occupazione dell’impresa con riguardo al periodo di tempo antecedente al licenziamento e non anche a quello successivo di preavviso, senza dare rilevanza alle contingenti e occasionali contrazioni o anche espansioni del livello occupazionale aziendale. Tale criterio, inoltre, deve essere riferito ai lavoratori dipendenti e non semplicemente agli addetti o agli occupati, non potendosi considerare dipendenti tutti coloro che prestino la propria attività per l’azienda, ma solo quelli ad essa legati da rapporto di subordinazione (Cass. 10 settembre 2003, n. 13274, Cass 4 settembre 2003, n. 12909; Cass. 10 febbraio 2004, n. 2546).

A tale principio – cui si è uniformata anche Cass. 3 settembre 2008, n. 22164 (richiamata nel presente ricorso), oltre che la giurisprudenza di legittimità successiva (da ultimo: Cass. 14 dicembre 2010, n. 25249) – si collega l’altro secondo cui, ai fini della sussistenza del requisito numerico, rilevante ai sensi degli artt. 18 e 35 St. lav. per l’applicabilità della tutela reale, il giudice deve accertare – con indagine di fatto insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata – la normale produttività dell’impresa (o della singola sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo) facendo riferimento agli elementi significativi al riguardo, quale ad esempio, la consistenza numerica del personale in un periodo di tempo, anteriore al licenziamento, congruo per durata e in relazione alla attività e alla natura dell’impresa; la riduzione del numero dei dipendenti in prossimità del licenziamento vale, peraltro, ad escludere la ricorrenza di quel presupposto, quando essa risulti frutto non di condotte elusive del datore di lavoro ma di oggettive condizioni di mercato o di comprovate esigenze economiche dell’impresa tali da far ragionevolmente ritenere una ormai stabile contrazione dell’attività produttiva e, conseguentemente, una definitiva riduzione della manodopera al di sotto del numero di quindici dipendenti (vedi, per tutte: Cass. 8 maggio 2001, n 6421;

Cass. 29 luglio 1998, n. 7448).

La sentenza attualmente impugnata è conforme ai suddetti principi e alla normativa cui essi si riferiscono.

Da essa risulta, infatti, che la Corte d’appello – dandone conto con motivazione coerente e ineccepibile dal punto di vista logico – giuridico – ha effettuato la valutazione del numero dei dipendenti della società datrice di lavoro applicando il criterio della normale occupazione dell’impresa con riguardo al periodo di tempo antecedente al licenziamento e non anche a quello successivo di preavviso e, come ammette lo stesso ricorrente, nel periodo preso in considerazione dal Giudice di appello, i dipendenti della datrice di lavoro non raggiungevano il numero di quindici, necessario per l’applicazione della tutela reale.

Tanto basta per respingere anche il quarto motivo.

4 – Conclusioni.

7.- In sintesi il ricorso va respinto, nulla si dispone per le spese non avendo la società intimata svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-11-2011, n. 23437 Passaggio ad altra amministrazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. D.C.F. fa parte del personale non docente della scuola, indicato con l’acronimo ATA (amministrativo, tecnico ed ausiliario) già dipendente dagli enti locali, che a decorrere dal 1 gennaio 2000 è stato trasferito nei ruoli del personale dello Stato- Comparto Scuola.

2. La stessa convenne in giudizio il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (d’ora in poi: MIUR), suo nuovo datore di lavoro, chiedendo il riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza. Il Tribunale di Campobasso accolse la domanda.

3. Il Ministero impugnò la sentenza e la Corte d’appello di Campobasso con sentenza 24.08.06 riformò la decisione di primo grado e rigettò la domanda, rilevando che i contrasti giurisprudenziali in materia erano stati superati dalla disposizione di interpretazione autentica contenuta nella L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 218 (legge finanziaria 2006), emanata nel corso del processo.

4. D.C. ha proposto ricorso per cassazione, impugnando la sentenza della Corte d’appello per violazione delle norme che regolano la materia e cioè la L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8 e la L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 218, oltre che per vizi di motivazione sul punto, sostenendo, in particolare, che la previsione di quest’ultima legge, applicata dalla Corte, non ha natura retroattiva e quindi non incide sui giudizi in corso al momento della sua emanazione; in ogni caso, qualora la si considerasse dotata di efficacia retroattiva, la legge in questione sarebbe incostituzionale sotto molteplici profili.

5. Il MIUR non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

6. La questione oggetto della controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale ATA trasferito dagli enti locali al MIUR in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8. 7. Tale norma, dopo aver premesso, al comma 1, che il personale ATA degli istituti e scuole statali di ogni ordine e grado passa a carico dello Stato, prevede, nel comma 2, che: "Il personale di ruolo di cui al comma 1, dipendente degli enti locali, in servizio nelle istituzioni scolastiche statali alla data di entrata in vigore della presente legge, è trasferito nei ruoli del personale ATA statale ed è inquadrato nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti per lo svolgimento dei compiti propri dei predetti profili. Relativamente a qualifiche e profili che non trovino corrispondenza nei ruoli del personale ATA statale è consentita l’opzione per l’ente di appartenenza, da esercitare comunque entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. A detto personale vengono riconosciuti ai fini giuridici ed economici l’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza nonchè il mantenimento della sede in fase di prima applicazione in presenza della relativa disponibilità del posto". 8. La disposizione fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che "recepì" l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. 9. Con tale accordo l’ARAN e le associazioni sindacali avevano dato applicazione alla L. n. 124 del 1999, art. 8, stabilendo, quanto al regime contrattuale, che, pur nella prosecuzione ininterrotta del relativo rapporto di lavoro, cessava di applicarsi a decorrere dall’1 gennaio 2000 il c.c.n.l. 1 aprile 1999 del comparto Regioni-Autonomi e locali e dalla stessa data si applicava il c.c.n.l. 26 maggio 1999 del comparto Scuola.

10. L’art. 3 dell’accordo disciplinò l’inquadramento professionale e retributivo, nei seguenti termini: i dipendenti trasferiti "sono inquadrati nella progressione economica per posizioni stipendiali delle corrispondenti qualifiche professionali del comparto scuola, indicate nell’allegata tabella B, con le seguenti modalità. Ai suddetti dipendenti viene attribuita la posizione stipendiale, tra quelle indicate nell’allegata tabella B, d’importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito da stipendio e retribuzione individuale di anzianità ….". "L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, è corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. Al personale destinatario del presente accordo è corrisposta l’indennità integrativa speciale nell’importo in godimento al 31 dicembre 1999, se più elevato di quella della corrispondente qualifica del comparto scuola". 11. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in un decreto ministeriale. La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (vedi: Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; Cass. 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè Cass. 27 settembre 2005, n. 18829).

12. Intervenne il legislatore, dettando una disposizione, la L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 218 (finanziaria 2006) sopra citata, che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del decreto ministeriale, stabilendo che la L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2, "si interpreta nel senso che" il personale ATA degli enti locali trasferito nei ruoli dello Stato "è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento, con l’attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonchè da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto degli enti locali, vigenti alla data dell’inquadramento. L’eventuale differenza tra l’importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. E’ fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge". 13. Come è evidente, il comma 218 dell’art. 1 della suindicata legge finanziaria ha riprodotto, quanto all’inquadramento ed al relativo trattamento retributivo, le clausole dell’accordo sindacale del luglio 2000 già riprese dal decreto ministeriale dell’aprile 2001. 14. La tesi, riproposta dal ricorrente, che nega l’efficacia retroattiva della disposizione introdotta dalla legge finanziaria 2006 e sostiene, quindi, la sua inapplicabilità ai processi già in corso, non è fondata. Il legislatore, come si è visto, usa l’espressione "la L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2, si interpreta nel senso che". Espressione che indica la volontà di far retroagire la norma dettata dal comma 218. Corte di Cassazione e Corte costituzionale si sono espresse in modo concorde sul punto. Da ultimo, le Sezioni unite, hanno qualificato la disposizione tra le "norme di sanatoria con efficacia retroattiva" perchè il legislatore, emanandola, ha elevato a dato normativo primario il contenuto di un atto regolamentare o amministrativo a carattere generale (il decreto ministeriale che aveva a sua volta recepito l’accordo collettivo ARAN-Sindacati del 2000) giudicato dalla giurisprudenza inidoneo a derogare una norma di legge. Elevato il livello del contenuto normativo del decreto ministeriale trascrivendolo in una norma di rango primario, è venuto meno con efficacia retroattiva il vizio dell’atto. "Si è trattato – precisano le Sezioni unite – di una sanatoria ex lege del contenuto precettivo del D.M. 5 aprile 2001, ciò che in linea di principio era consentito fare al legislatore avendo la giurisprudenza costituzionale da tempo ammesso le leggi di sanatoria pur assoggettandone la sostanziale retroattività a scrutinio di legittimità sulla base del parametro della ragionevolezza" (Così: Cass. S.U. 8 agosto 2011, n. 17076, richiamando Corte cost. n. 234 del 2007).

15. Quanto al motivo di ricorso riguardante la legittimità costituzionale, esso ripropone alcune delle molteplici eccezioni sollevate da vari giudici, compresa questa Corte di Cassazione, che, con ordinanza n. 22260 del 2008, ritenne non manifestamente infondata la questione del contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6 CEDU con riferimento al problema dell’ingerenza legislativa in controversie giudiziarie in corso. Le eccezioni di legittimità costituzionale sono state tutte respinte dalla Corte costituzionale con una pluralità di pronunzie: la sentenza n. 234 del 2007, le ordinanze n. 400 del 2007 e n. 212 del 2008, nonchè la sentenza n. 311 del 2009. 16. Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato sono stati respinti da questa Corte (vedi, per tutte:

Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

17. Tuttavia, l’ampio spettro della impugnazione che, più a monte, pone un generale problema di violazione della disciplina dettata dalla L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2 e dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, impone di tener conto dei successivi sviluppi della vicenda sul piano della giurisprudenza europea.

18. Sono, infatti, intervenute sul tema, tanto la Corte europea dei diritti dell’uomo, che la Corte di giustizia dell’Unione europea.

19. La Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa con una decisione (sentenza 7 giugno 2011, Agrati ed altri c. Italia) non ancora definitiva, perchè è oggetto di richiesta di rinvio della causa alla Grande Camera, presentata dallo Stato italiano, ai sensi dell’art. 43 della CEDU. 20. La Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione) si è espressa con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C-108/10), sulla domanda di pronuncia pregiudiziale – proposta ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal Tribunale di Venezia, nella controversia instaurata nei confronti del Ministero dalla signora S. I. – in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti.

21. Il Tribunale di Venezia aveva sottoposto alla Corte quattro questioni pregiudiziali.

22. La prima questione consisteva, in sintesi, nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8, possa costituire un "trasferimento d’impresa" ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori.

23. La soluzione della Corte UE è affermativa, nei seguenti termini:

"La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro" (vedi punto 1 del dispositivo e punto 66 della motivazione).

24. Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: a) se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1, della direttiva 77/1987 (trasfusa, unitamente alla direttiva 98/50, nella direttiva 2001/23) deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione); b) se il suddetto art. 3 della menzionata direttiva debba essere interpretato nel senso che tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione).

25. Con riferimento a tali due questioni il dispositivo della decisione è il seguente: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo". 26. Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un "peggioramento retributivo sostanziale". 27. In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame, v., supra, accordo del 20 luglio 2000). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo "scopo della direttiva", consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

28. Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice nazionale (nella attuale controversia: il giudice del rinvio) deve osservare i seguenti criteri: 1) Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75. e al 77 si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2) Quanto alle modalità, si deve trattare di "peggioramento retributivo sostanziale" (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere "globale" (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto, ma considerando anche eventuali trattamenti più favorevoli su altri profili, nonchè eventuali effetti negativi sul trattamento di fine rapporto e sulla posizione previdenziale. 3) Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto "all’atto del trasferimento" (n. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

29. La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente del comma 218 dell’art. 1 della legge finanziaria 2006, all’art. 6, n. 2, TUE, in combinato disposto con l’art. 6 CEDU e artt. 46, 47 e 52, n. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della sentenza emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che: "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate (vedi: punti 27 e 84 della sentenza).

30. La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere- dovere di dare immediata applicazione alle norme della UE provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (vedi, per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito deio procedura di infrazione) ove riguardino norme UE direttamente applicabili (vedi: Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè sull’onere di interpretazione conforme al diritto UE, tra le tante: Corte cost. sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

31. Il caso in esame deve quindi essere deciso, in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Ciò comporta che il ricorso deve essere accolto perchè la violazione del complesso normativo costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, denunziata dal ricorrente, deve essere verificata sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia europea.

32. La decisione impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio ad altro Giudice, che, applicando i su indicati criteri di comparazione, dovrà decidere la controversia nel merito, verificando la sussistenza, o meno, di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento. Il Giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Campobasso in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-04-2011) 12-07-2011, n. 27234 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione D.A. avverso l’ordinanza in data 16 dicembre 2010 con la quale il tribunale del riesame di Lecce ha confermato l’ordinanza del locale gip, applicativa della misura della custodia cautelare in carcere in relazione ad una serie di ipotesi di reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, contestate come commesse tra giugno e settembre 2009.

Indagini avviate in merito ad un episodio di estorsione ai danni di F.D. avevano fatto emergere fitti contatti telefonici tra la stessa e fornitori di sostanze stupefacenti.

In particolare gravi indizi erano stati acquisiti riguardo alla posizione, quale fornitore di cocaina sul territorio, di D. A..

Il tribunale evidenziava una certa ripetitività nei contatti accertati, tutti posti in essere con clichè predeterminati costituiti da laconiche conversazioni con i cessionari, luoghi di incontro più o meno ricorrenti, ricorso a meri squilli telefonici come segnali dell’arrivo sul luogo dell’appuntamento fissato per lo scambio, utilizzo di linguaggio criptico.

Passava poi all’esame del materiale indiziario concernente i singoli capi d’imputazione e ravvisava esigenze cautelari fronteggiabili con la sola misura inframuraria.

Deduce:

1) la inosservanza dell’art. 73 legge stupefacenti e il vizio di motivazione. Il materiale indiziario sarebbe costituito da elementi generici, oggetto di una errata interpretazione da parte dei giudici.

Si tratta di conversazioni telefoniche nelle quali non è presente alcun cenno esplicito a sostanze stupefacenti ma le conversazioni, che apoditticamente il tribunale definisce "criptiche" attengono a normali argomenti quali il vino, gli aperitivi, i viaggi.

La difesa sottolinea che la gravità indiziaria in ordine alle contestazioni sub C) è solo assertivamente affermata.

Osserva poi che gli elementi indicati dal tribunale a sostegno della ipotesi sub D) sarebbero stati oggetto di una interpretazione forzata posto che non vi è in atti prova di un contatto finalizzato alla cessione di droga, tra il ricorrente e C. il quale oltretutto, sebbene trovato dalla polizia giudiziaria in possesso di due dosi di droga, ha negato di conoscere il D..

Quanto al capo E bis), la ricorrente difesa critica la lettura, effettuata dal tribunale, dei labili indizi evidenziati nel provvedimento impugnato, proponendone una opposta interpretazione.

Ricorda, al riguardo, che D. ha non solo negato ogni addebito ma ha spiegato che i contatti avuti con F.D. riguardavano la vendita alla stessa di olio d’oliva e di altri prodotti della terra.

In ordine al capo F) la difesa sottolinea che sono state valorizzate intercettazioni il cui contenuto non ha nulla a che fare con il commercio della droga e ricorda che il presunto cessionario, V., ha solo ammesso di essersi recato dal ricorrente per consegnargli del denaro in relazione ad un acquisto di olio da parte della F..

Identiche considerazioni vengono formulate in relazione al capo Q).

Il capo I) (cessione di sostanza stupefacente a G.) è stato ritenuto integrato sulla base di una conversazione telefonica di cui lo stesso D. aveva dato una diversa spiegazione.

Il capo L) (cessione, ancora, al G.) sarebbe stato ritenuto dal tribunale sulla base di una erronea trascrizione della telefonata di riferimento. Il capo H) (cessione, per la terza volta, a G.) è stato ritenuto convalidato sulla base di eventi (rinvenimento di tracce di droga nell’auto del presunto destinatario finale della sostanza, tal B.) assolutamente non inizianti.

Infine, il capo M) (cessione di sostanza stupefacente a T. G.) sarebbe stato ritenuto oggetto di indizi in realtà inesistenti. Infatti il portatore di denaro per la transazione oggetto della telefonata non è il T. ma il ricorrente come si desume dal testo della intercettazione riportata nel ricorso.

Telefonata nella quale si parla dell’acquisto di pane duro che proprio il residuo della lavorazione del T., gestore di un forno.

2) L’inosservanza degli artt. 274 e 275 c.p.p. in tema di esigenze cautelari. Ad avviso della difesa era venuta meno la motivazione sull’attualità delle esigenze cautelari in relazione a condotte risalenti al 2009. Inoltre era mancata la disamina della adeguatezza della misura ed in particolare di quella meno gravosa degli arresti domiciliari alla luce del fatto che l’imputato aveva svolto onesta attività lavorativa.

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Il primo motivo è articolato in termini prossimi alla inammissibilità consistendo nella prospettazione di una interpretazione alternativa delle emergenze di causa.

E’ noto che il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità è nel senso della impossibilità, per la cassazione, di sostituirsi al giudice del merito nella "lettura" del tenore delle intercettazioni telefoniche.

Il tribunale, sul punto, ha prospettato una disamina del tutto plausibile completa in quanto tale sottratta all’ulteriore vaglio del giudice della legittimità.

In particolare i giudici hanno dato conto di come il tenore delle conversazioni fosse da collegare all’illecito traffico di sostanze stupefacenti sia in quanto l’apparente oggetto delle conversazioni è risultato del tutto "decontestualizzato" e cioè privo del senso apparente, sia in quanto le conversazioni, così come intese dagli inquirenti, hanno trovato conforto in più di un esito positivo dei controlli effettuati su uno dei colloquianti, con conseguente sequestro della sostanza stupefacente.

La ricerca puntigliosa, da parte della difesa, di interpretazioni alternative dei medesimi colloqui si è basata, peraltro, sulla estrapolazione delle frasi dal contesto e dagli sviluppi investigativi e si è tradotta, pertanto, come già detto, in una lettura alternativa del risultato indiziario, non consentita nella presente sede.

Parimenti fondato il rilievo sulle esigenze cautelari e sulla individuazione della misura più adeguata, rinvenendosi nella ordinanza impugnata, una puntuale disamina sia della irrilevanza del tempo trascorso che della attività lavorativa svolta dal ricorrente contemporaneamente al perseguimento dei fini illeciti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Manda la cancelleria per le comunicazioni ex art. 94 disp. att. c.p.p..
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.