Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-04-2011, n. 8216 Compromesso e clausola compromissoria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L’8.03.2000, P.S., P.F. e F. M. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, V.F. chiedendo che fosse dichiarata l’invalidità e/o l’inefficacia del contratto preliminare di cessione di quote di una società, tra le parti stipulato nel luglio del 1995, per scrittura privata, e di conseguenza invalido il lodo per arbitrato irrituale reso il 25.01.2000, ad iniziativa del V., sulla base della convenuta clausola compromissoria; assumevano che la mancata stipula del contratto definitivo entro il pattuito termine del 30.09.1995, aveva fatto venire meno l’intero accordo, come stabilito ai relativi punti 2 e 8 del suddetto preliminare.

Con altro atto di citazione del 25.05.2000 i medesimi P. e la F. proponevano innanzi allo stesso Tribunale, opposizione al decreto ingiuntivo n. 58 del 22.03.2000, con cui, sulla base del menzionato lodo arbitrale, era stato intimato loro di restituire all’ingiungente V.F. la somma di L. 56.244.940, oltre accessori e spese, ricevuta a titolo di caparra in sede di preliminare.

L’adito Tribunale, riunite le due cause, con sentenza n. 38 del 22.03.2004, revocava il decreto ingiuntivo opposto, accertava l’invalidità e l’inefficacia del lodo e respingeva la pretesa creditoria del V..

Con sentenza del 17.11-12.12.2006, la Corte di appello di Trieste in accoglimento dell’appello principale del V., respingeva tutte le domande dei P. e della F., con assorbimento del gravame incidentale dagli stessi proposto e compensava le spese processuali dei due gradi di merito.

La Corte territoriale osservava e riteneva tra l’altro:

che il termine stabilito dalle parti per la stipula del definitivo doveva essere qualificato come termine di adempimento a favore del debitore (art. 1183/1184 c.c.), nella specie di tutte le parti (che erano reciprocamente debitrici), e non di efficacia, ossia implicante alla scadenza l’estinzione dell’intero accordo che sulla qualificazione di tale termine come termine di adempimento non poteva influire l’ulteriore previsione contrattuale secondo cui all’inutile scadenza di esso il vincolo giuridico sarebbe venuto meno, posto che tale pattuizione non riguardava la finalità di detto termine nè ne qualificava la natura ma afferiva all’esigibilità della prestazione, la quale sarebbe venuta meno alla convenuta scadenza che in ogni caso la clausola compromissoria, destinata a risolvere tutte le controversie concernenti l’esecuzione delle obbligazioni nascenti dal contratto, compresa quella restitutoria oggetto della controversia, era rimasta operativa alla scadenza del previsto termine, in quanto dotata di carattere autonomo (nonostante si trattasse di arbitrato irrituale) rispetto al rapporto sostanziale cui ineriva, sicchè i suoi requisiti di validità ed efficacia andavano accertati autonomamente – che anche la clausola finale del contratto, di cui all’art. 8 non smentiva questa conclusione, avendo avuto essa ad oggetto solo le prestazioni suscettibili d’adempimento, alle quali restava all’evidenza estranea la clausola compromissoria, di cui all’art. 7 che, dunque, attesi anche i limiti dell’impugnativa svolta in primo grado dai P. e dalla F., il lodo costituiva valido titolo della pretesa del V..

Avverso questa sentenza i P. e la F. hanno proposto ricorso per cassazione notificato il 28.12.2007, affidato a otto motivi. Il V. ha resistito con controricorso notificato il 6.02.2008 e depositato memoria. All’udienza pubblica dell’11.07.2010 è stato disposto il rinvio d’ufficio all’odierna udienza.

Motivi della decisione

I P. e la F. ricorrenti, premesso anche il richiamo delle vicende accadute nel periodo successivo alla scadenza del convenuto termine del 30.09.1995, ivi compreso il fatto che le quote societarie il 2.10.1995, erano state da loro cedute a V. D., figlio di V.F., a sostegno del ricorso denunziano:

1. "Violazione o falsa applicazione di norme di diritto anche in riferimento agli artt. 1372 e 1321 e segg. c.c.", conclusivamente formulando ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis, il seguente quesito di diritto: "Dica codesta Suprema Corte se – alla luce dell’art. 101 Cost., comma 2 (…) art. 1372 (…) c.c. art. 1321 (…) c.c. il giudice possa dichiarare che un termine, all’inutile spirare del quale le parti hanno concordato la decadenza dell’intero accordo sia, invece, un termine il cui spirare (anzichè implicare la decadenza dell’intero accordo) implichi solo l’esigibilità della prestazione".

Occorre premettere che nell’impugnata sentenza la conclusione secondo cui l’operatività della clausola per arbitrato irrituale permaneva anche dopo la scadenza del termine del 30.09.1995, convenuto per la stipula del definitivo, è stata fondata su due distinte ed autonome ragioni, l’una inerente alla funzione dalle parti assegnata al citato termine e l’altra, aggiuntiva ed alternativa, costituita dalla ritenuta autonomia della suddetta clausola.

Il motivo in esame riguarda la prima delle esposte due rationes decidendi e non ha pregio, sicchè per tale profilo la decisione si rivela incensurabile e conseguentemente anche superfluo ed assorbito l’esame delle doglianze inerenti alla seconda rado, dedotte nel mot. n. 5 del ricorso.

La circostanza che, in un contratto preliminare, il termine per la stipulazione del contratto definitivo individui il periodo di efficacia del vincolo obbligatorio o, in altri termini, l’arco di tempo nel quale i promittenti sono obbligati a tenersi disponibili per la promessa stipulazione, non ne esclude la funzione di termine di adempimento, che deve ritenersi termine (finale) essenziale solo se le parti lo abbiano espressamente considerato tale, anche senza l’uso di formule solenni, o se questo sua natura risulti, comunque, dal contratto (cfr cass. 199109619; 199801045).

Inoltre, il fatto che il termine per la conclusione del contratto definitivo, fissato nel contratto preliminare, costituisca un ordinario termine (dilatorio) di adempimento di obbligazioni negoziali, implica che ove, in applicazione dei principi generali in tema di rapporti sinallagmatici, se ne debba escludere la essenzialità, la relativa scadenza non determina di per sè la risoluzione di diritto del preliminare e l’automatica caducazione del relativo vincolo, essendo a ciò necessaria l’iniziativa della parte interessata, con l’intimazione della diffida di cui all’art. 1454 cod. civ., ovvero con la proposizione della domanda di risoluzione, la quale segna il momento in cui resta preclusa all’inadempiente la possibilità di adempiere tardivamente (cfr cass 198000652;

198103305; 198104637).

L’identificazione da parte del giudice di merito del carattere essenziale o meno del termine fissato dai contraenti costituisce frutto dell’interpretazione della volontà delle parti (cfr. cass. 197301622) e nella specie, all’esito di tale indagine interpretativa, i giudici d’appello hanno argomentatamente escluso che all’inutile decorso del termine pattuito conseguissero effetti estintivi del rapporto obbligatorio, nonostante l’espressione "decadenza" utilizzata dai contraenti, così sostanzialmente negando l’essenzialità del termine in questione e la ricorrenza dei presupposti per la risoluzione di diritto dell’accordo e, dunque, negando anche l’intervenuta automatica caducazione pure della clausola arbitrale.

Alla luce degli esposti rilievi il quesito che i ricorrenti pongono appare inadeguato e non pertinente, risolvendosi anche in interrogativo pure formalmente non aderente al decisum oltre che muto in ordine ad eventuali incongruenze dell’iter argomentativo espresso dalla Corte distrettuale ed ai canoni ermeneutici eventualmente violati.

2. "Violazione o falsa applicazione di norme di diritto – inesistenza ab origine di qualsiasi vincolo contrattuale (comb. disp. artt. 1185 e 1355 c.c.; comb. disp. artt. 1321 e 1372 c.c.; comb. disp. artt. artt. 1351 – 2932 c.c., comma 2)", conclusivamente formulando il seguente quesito di diritto "Dica codesta Suprema Corte se la scrittura private con cui le parti promettono di compravendere un bene entro un certo termine, trascorso inutilmente il quale decade la stessa promessa, sia o meno un contratto (preliminare) produttivo di obblighi giuridici".

Il quesito e, dunque, il motivo cui accede sono inammissibili, in quanto ineriscono all’esistenza o meno del contratto preliminare, questione non più ridiscutibile in questa sede, per essere stata definitivamente e positivamente risolta in primo grado, con accertamento non impugnato in appello, e che, quindi, è ormai coperto dal giudicato.

3. " Contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (comb. disp. artt. 1185 e 1355 c.c.; comb. disp. artt. 1321 e 1372 c.c.; comb. disp. artt. 1351-2932 c.c., comma 2)", conclusivamente formulando, a conferma della tesi svolta nel precedente motivo, il seguente quesito di diritto "Dica codesta Suprema Corte – oltre a quanto richiesto con il quesito di cui al punto precedente – se gli artt. 1183 e segg. c.c., prevedano termini che impediscono di chiedere l’adempimento sia prima che dopo il loro spirare o se, comunque, tale tipo di termine sia previsto da altre norme del nostro ordinamento".

Il motivo è inammissibile sia per genericità del formulato quesito di diritto (cfr, tra le altre, cass. 200904044) e sia, con riguardo ai denunciati vizi motivazionali, per mancanza di un successivo momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) dei rilievi, che ne circoscriva puntualmente i limiti (cfr Cass. SS.UU. 200720603;

200811652;200816528).

4. "Omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio".

Censura per vizi motivazionali e segnatamente per difetto di logicità la conclusione della validità ed efficacia della clausola arbitrale posta all’interno di un contratto scaduto, a fronte della premessa circa l’inesigibilità delle prestazioni. La censura non ha pregio, in quanto mancante di sintesi dei rilievi, peraltro integranti mere critiche generiche.

5. "Violazione o falsa applicazione di norme di diritto, anche in riferimento agli artt. 806 e 808 c.p.c.", conclusivamente formulando il seguente quesito di diritto: "Dica Codesta Corte se il principio dell’autonomia della clausola arbitrale possa essere invocato in relazione all’arbitrato irrituale".

Il motivo è assorbito per quanto detto sub 1. 6. "Omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio". 11 motivo è inammissibile per mancanza di un successivo momento di sintesi dei rilievi, che ne circoscriva puntualmente i limiti.

7. "Omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto anche in riferimento agli artt. 1321 e 1372 c.c. e segg.", conclusivamente formulando il seguente quesito di diritto "Dica codesta Suprema Corte se la richiesta di restituzione della caparra sul presupposto che la stessa sia stata data senza titolo possa essere azionata tramite la procedura arbitrale prevista da quello stesso titolo".

Relativamente alla denunciata violazione o falsa applicazione di norme, il motivo è inammissibile per inadeguatezza e non pertinenza del quesito di diritto rispetto al decisum, secondo il quale la riconduzione della pretesa restitutoria de) V. all’ambito devoluto al giudizio arbitrale derivava dall’essere essa effetto legale dell’inesigibilità delle prestazioni contrattuali e, dunque, si fondava non sulla mancanza di titolo originario della dazione ma sulla sopravvenuta cessazione della funzione di garanzia dell’adempimento convenzionalmente assegnata alla caparra Relativamente, invece, ai denunciati vizi motivazionali il motivo è inammissibile per mancanza di un successivo momento di sintesi dei rilievi, che ne circoscriva puntualmente i limiti.

8. "Omessa pronuncia su un punto – nullità della sentenza e/o del procedimento ( art. 360 c.p.c., n. 4)".

Il motivo è inammissibile per mancata formulazione del quesito di diritto. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con condanna in solido dei ricorrenti soccombenti, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al V. le spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 16-05-2012, n. 7716 Diritti politici e civili

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Svolgimento del processo

Le ricorrenti indicate in rubrica ricorrono per cassazione, sulla base di due motivi, nei confronti del Ministero della Giustizia avverso il decreto in data 8 novembre 2006, con il quale la Corte di appello di Torino – pronunciando in sede di giudizio di rinvio in seguito all’annullamento da parte della Corte di cassazione, con sentenza n. 15488 del 22 luglio 2005, di precedente decreto in data 13 giugno 2002 della medesima Corte di merito – ha condannato detto Ministero al pagamento in loro favore, nella loro qualità di eredi di Z.P., della somma di Euro 5.000,00 per violazione del termine ragionevole di durata di un giudizio civile promosso dal loro dante causa davanti al Tribunale di Genova con citazione del 31 dicembre 1992- 2 gennaio 1993 e non ancora definito alla data del 29 aprile 2000.

Il Ministero intimato ha resistito con controricorso.

Nell’odierna camera di consiglio il collegio ha deliberato che la motivazione della sentenza sia redatta in forma semplificata.

Motivi della decisione

Le ricorrenti censurano il decreto impugnato, proponendo due motivi di ricorso, con i quali lamentano:

– il calcolo dell’equo indennizzo solo con riferimento al periodo eccedente la ragionevole durata della causa e non all’intera durata del giudizio (primo motivo);

– l’entità dell’indennizzo, quantificato dalla Corte di merito nella misura di Euro 1.250,00 per ogni anno di ritardo, notevolmente e irragionevolmente inferiore ai parametri stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (secondo motivo).

2. Il primo motivo è infondato, in quanto è vincolante per il giudice nazionale, il disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di durata del processo (Cass. 2005/21597; 2008/14). E’ inoltre manifestamente infondata la questione di costituzionalità della citata disposizione, non essendo ravvisabile alcuna violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in riferimento alla compatibilità con gli impegni internazionali assunti dall’Italia mediante la ratifica della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Infatti, qualora sia sostanzialmente osservato il parametro fissato dalla Corte EDU ai fini della liquidazione dell’indennizzo, la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale non incide sulla complessiva attitudine della legislazione interna ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto in argomento, non comportando una riduzione dell’indennizzo in misura superiore a quella ritenuta ammissibile dal giudice europeo; diversamente opinando, poichè le norme CEDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale, dovrebbe valutarsi la conformità del criterio di computo desunto dalle norme convenzionali, che attribuisce rilievo all’intera durata del processo, rispetto al novellato art. 111 Cost., comma 2, in base al quale il processo ha un tempo di svolgimento o di durata ragionevole, potendo profilarsi, quindi, un contrasto dell’interpretazione delle norme CEDU con altri diritti costituzionalmente tutelati. Nè a conclusioni diverse perviene la stessa giurisprudenza della predetta Corte internazionale che – nei precedenti Martinetti e Cavazzuti c. Italia del 20 aprile 2010, Delle Cave e Corrado c. Italia del 5 giugno 2007 e Simaldone c. Italia del 31 marzo 2009 – ha osservato che il solo indennizzo, come previsto dalla Legge Italiana n. 89 del 2001, del pregiudizio connesso alla durata eccedente il ritardo non ragionevole, si correla ad un margine di apprezzamento di cui dispone ciascuno Stato aderente alla CEDU, che può istituire una tutela per via giudiziaria coerente con il proprio ordinamento giuridico e le sue tradizioni, in conformità al livello di vita del Paese, conseguendone che il citato metodo di calcolo previsto dalla legge italiana, pur non corrispondendo in modo esatto ai parametri enunciati dalla Corte EDU, non è in sè decisivo, purchè i giudici italiani concedano un indennizzo per somme che non siano irragionevoli rispetto a quelle disposte dalla CEDU per casi simili (Cass. 2009/10415; 2011/478).

Il secondo motivo è patimenti infondato, in quanto l’indennizzo liquidato dalla Corte di merito in ragione di Euro 1.250,00 per ciascun anno di ritardo è superiore quello calcolato in base ai parametri stabiliti dalla CEDU, come interpretati e recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte. Infatti, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli.

Peraltro, ove non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta che la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1000,00 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente tale periodo da ultimo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (Cass. 2010/17922).

Nel caso di specie le ricorrenti si sono limitate ad affermare genericamente che la liquidazione del danno compiuta dalla Corte di appello configura "una notevole ed irragionevole discrasia rispetto ai principi elaborati alla giurisprudenza di Strasburgo, che imporrebbero un indennizzo … pari a Euro 2.000,00 per ogni anno di durata del procedimento", ma non hanno fornito specifici elementi concreti di valutandone in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza nella fattispecie in esame del danno non patrimoniale.

Le considerazioni che precedono conducono al rigetto del ricorso e le spese del giudizio di cassazione, da liquidarsi come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido le ricorrenti al pagamento in favore del Ministero della Giustizia delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 900,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 12-10-2011) 25-11-2011, n. 43681 Sequestro preventivo

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza 7.02.201 il Tribunale di Padova rigettava la richiesta di revoca del sequestro preventivo emesso, ai sensi dell’art. 322 bis c.p.p., dal GIP su beni di proprietà di Z.W. indagato dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali (omessa presentazione delle dichiarazioni IVA, dei redditi, IRES, occultamento delle scritture obbligatorie); di omissione del versamento dei contributi previdenziali relativi alle ritenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti; truffa aggravata ai danni dello Stato; falso.

Rilevava il Tribunale che non era conferente il richiamo difensivo al nesso pertinenziale di cui all’art. 321 c.p.p.; che, per i reati fiscali commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge finanziaria 2008 non era possibile riferire al profitto degli stessi la confisca per equivalente; che tra la truffa aggravata ai danni dello Stato e i reati fiscali non vi è rapporto di specialità, nè la prima è assorbita nei secondi; che il reato di cui all’art. 640 bis era stato posto a fondamento del vincolo reale; che il profitto derivante dalla truffa aggravata ai danni dello Stato era stato indicato nel capo d’imputazione corrispondendo all’omessa acquisizione delle somme dovute ai fini previdenziali e fiscali; che il profitto derivante dalla truffa aggravata ai danni dello Stato era stato indicato nel capo d’imputazione corrispondendo all’omessa acquisizione delle somme dovute ai fini previdenziali e fiscali da parte degli enti previdenziali e dell’Erario.

Proponeva ricorso per cassazione l’indagato denunciando violazione degli artt. 321 e 322 ter c.p.p. e vìzio di motivazione.

Puntualizzato che il tribunale aveva dato atto che il riferimento al nesso di pertinenzialità tra res e reato non riguarda il sequestro ex art. 322 ter c.p.p., osservava che per i reati fiscali commessi prima dell’entrata in vigore della legge finanziaria 2008 non era possibile imporre il sequestro per equivalente; che per i reati di omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, IVA, IRES commessi in (OMISSIS) in astratto il sequestro era ammissibile, ma l’indeterminatezza dell’imposta evasa rendeva generica la contestazione; che la confisca per equivalente può essere disposta quando i beni sequestrati costituiscono non già il profitto dei reati ma quando detti beni ne costituiscano il prezzo;

che sussiste rapporto di specialità tra la truffa aggravata e i reati finanziari; che nella specie la truffa non era aggravata mancando la finalità d’evasione, sicchè non era consentita la confisca.

Chiedeva l’annullamento dell’ordinanza.

E’ fondato il motivo (in cui gli altri sono assorbiti) relativo alla sussistenza di un rapporto di specialità tra il reato di truffa ex art. 640 bis c.p. e i reati di frode fiscale.

Premesso che nel caso in esame non è stata specificamente contestata la sussistenza del fumus dei reati ipotizzati, va osservato che l’art. 322 ter c.p., introdotto dalla L. n. 300 del 2000, dispone, con riferimento ai reati previsti dagli artt. da 314 a 320 c.p., che, se non risulti possibile la confisca delle cose che costituiscono il profitto o il prezzo di detti reati, deve essere ordinata la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale prezzo e inoltre, al comma 2, Che "nel caso di condanni o, di applicazione della pena, a norma dell’art. 444 c.p.p., per il delitto previsto dall’art. 321, anche se, commesso ai sensi dell’art. 322 bis, comma 2, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto salvo che appartengono a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca dei beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e. comunque, non inferiore a quello del denaro o delle utilità date o promesse al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio o. agli altri soggetti indicati nell’art. 322 bis, comma 2".

Come puntualizzato da questa Corte, nella pronuncia n. 39172/2008, la confisca per equivalente assolve una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza.

Questa Corte ha pure affermato che:

– la confisca ex art. 322 ter c.p. esime dallo stabilire il rapporto di pertinenzialità tra reato e provvedimento ablatorio dei proventi illeciti, che caratterizza invece la misura ex art. 240 c.p. fermo restando, cioè, il presupposto della consumazione di un reato. Non è più richiesto alcun rapporto tra il reato e i beni da confiscare, potendo essere detti beni diversi dal "provento (profitto o prezzo)" del reato stesso (Cass. 19.01.2005, PM in proc. Nocco; 27.01.2005, Baldas);

– per la confisca occorre, oltre alla ravvisabilità di uno dei reati per i quali è consentita e alla non appartenenza dei beni a un terzo estraneo, che nella sfera giuridico/patrimoniale del responsabile non sia stato rinvenuto, per una qualsivoglia ragione, il prezzo o profitto (di cui sia però certa l’esistenza) del reato (Cassazione Sezione 5, 16.01.2004 n. 15445, Napoletano, RV 228750; 03.07.2002, PM in proc. Silletti).

Per il caso in esame va osservato che le disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p. sono state estese, nella loro interezza, ai reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, (confisca cd. per equivalente in caso di reati tributari), entrato in vigore in data 1.01.2008 (legge finanziaria 2008).

Va pure rilevato che l’effetto estensivo è riferito all’istituto della confisca, così come disciplinato dalla citata disposizione del codice penale, che trova, pertanto, la sua giustificazione e ratio nella stessa funzione sanzionatoria originariamente prevista dalla norma.

Detta funzione risalta per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, assolvendo la confisca per equivalente direttamente e in modo evidente la funzione di ripristino dell’ordine finanziario dello Stato leso dall’illecito tributario.

Tali considerazioni, unitamente al dato testuale, non consentono di restringere l’applicazione della norma ai reati di frode fiscale solo con riferimento all’art. 322 ter c.p., comma 1.

Deve, pertanto, ritenersi che la confisca per equivalente prevista dell’art. 322 ter c.p., comma 2, debba trovare applicazione con riferimento al reato tributario ipotizzato, perchè, non essendo possibile la confisca delle cose che ne costituiscono il profitto, deve essere ordinata la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al profitto.

Tanto premesso va rilevato che il Tribunale di Padova ha confermato il sequestro sull’assunto che fosse finalizzato alla confisca per equivalente, prevista per il delitto di truffa aggravata che ha ritenuto concorra con quello di frode fiscale.

Tale asserzione non è corretta alla luce della recente pronuncia delle SU di questa Corte (n. 1235/2010 RV. 248865 alla cui motivazione si rimanda) secondo cui "è configurabile un rapporto dispecialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale ( D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2 e 8) e il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato ( art. 640 c.p., comma 2, n. 1). in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitta ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni.

Pertanto, una volta ritenuto l’assorbimento del delitto di truffa aggravata in quello di frode fiscale non è possibile, con riferimento a primo reato, imporre il sequestro preventivo, sicchè l’ordinanza impugnata deve essere annullata per nuovo esame sulla sussistenza del fumus dei reati di frode fiscale (per quello relativo agli anni 2007/2008 non vi è adeguata motivazione) e, in caso positiva verifica, per accertare se dalla condotta truffaldina derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale.

P.Q.M.

La Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Padova per nuovo esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-01-2013) 25-01-2013, n. 4034 Scarcerazione per decorrenza termini

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Svolgimento del processo

1.1 – Il GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 28.12.2011 rigettava la richiesta di declaratoria di perdita di efficacia della custodia cautelare in carcere per decorrenza del termine di fase relativamente alla posizione di:

B.C.C..

– l’istanza di scarcerazione veniva proposta ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3 atteso che il termine della carcerazione avrebbe dovuto essere retrodatato, con inizio a partire dal 10.5.2011, data della prima ordinanza cautelare emessa a carico dello stesso indagato nell’ambito del processo cd. (OMISSIS) per l’imputazione di associazione per delinquere ex art. 416 bis c.p.;

– il ricorrente sottolineava che i reati di cui alla prima ordinanza erano collegati ex art. 81 c.p., dal vincolo della continuazione con i fatti oggetto della seconda ordinanza custodiale emessa per l’ipotesi delittuosa L. n. 356 del 1992, ex art. 12 quinquies aggravata L. 203 del 1991, ex art. 7;

1.2 – Il Tribunale per il riesame di Reggio Calabria, con ordinanza del 0.05.2012, respingeva l’appello osservando che la contestazione di partecipazione all’associazione per delinquere di cui alla prima ordinanza non consentiva di ritenere provata l’esistenza del vincolo della continuazione con il reato-fine di intestazione fittizia di beni di cui alla seconda ordinanza cautelare e che dall’imputazione provvisoria non emergevano elementi per ritenere che l’imputato avesse deliberato sin dall’origine di compiere anche i singoli reati per i quali si sarebbe espletato il programma associativo;

1.3 – Avverso tale decisione, ricorre per cassazione il difensore dell’indagato, deducendo:

MOTIVI ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

2.1 – manifesta illogicità della motivazione e lamenta che il Tribunale non avrebbe considerato che la prova del vincolo della continuazione emergeva dalla circostanza che entrambe le condotte: – di adesione al sodalizio mafioso e – di commissione della condotta di intestazione fittizia, erano state commesse nello stesso arco temporale;

ne derivava a parere del ricorrente l’evidenza del nesso soggettivo idoneo a dimostrare l’identità del disegno criminoso;

2.2 – manifesta illogicità della motivazione per avere trascurato che anche per il secondo procedimento era stata prevista l’imputazione di associazione per delinquere, sostanzialmente identica alla prima;

2.3 – manifesta illogicità della motivazione per non avere approfondito l’elemento soggettivo della continuazione tra il reato associativo e quello dell’intestazione fittizia;

CHIEDE pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Motivi della decisione

3.1 – I motivi di ricorso sono totalmente infondati.

3.2 – Il Tribunale del riesame ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni, fattuali e giuridiche, che sostengono il provvedimento restrittivo impugnato.

3.3 – In maniera del tutto esaustiva l’ordinanza impugnata sottolinea che dall’imputazione provvisoria non emergono elementi per ritenere che, già al momento dell’adesione al sodalizio criminoso, di cui alla prima ordinanza cautelare, l’indagato avesse previsto e progettato di compiere anche il reato-fine di intestazione fittizia, di cui alla seconda ordinanza, sicchè non vi sarebbe la possibilità di ritenere, allo stato, il vincolo dell’unicità del disegno criminoso e della continuazione tra i due reati.

3.4 – La motivazione è congrua perchè aderente alle emergenze processuali e conforme al principio per il quale non sussiste il vincolo di connessione qualificata, e cioè quello di continuazione o di connessione teleologica, per l’applicazione della regola di retrodatazione dei termini di custodia cautelare, in caso di ordinanza emessa per l’addebito di partecipazione ad associazione di tipo mafiosa e di altra ordinanza emessa per gli addebiti di reati- fine, (nel caso di specie reato di intestazione fittizia), non potendo ritenersi che i reati fine rientrino nel generico programma associativo, nè che i medesimi siano consumati per "eseguire" il reato associativo. (Cassazione penale, sez. 1, 11/02/2011, n. 18340).

3.5 – I motivi di ricorso si limitano a proporre deduzioni di carattere generico, come: la sostanziale coincidenza temporale tra i fatti di cui alle due imputazioni ed il mancato approfondimento dell’elemento soggettivo, circostanze non idonee a dimostrare l’assunto difensivo e, soprattutto, non sufficienti a dimostrare che il B. sin dal momento dell’adesione al sodalizio criminoso avesse già deciso di compiere anche il reato di cui alla seconda ordinanza, così che i motivi proposti non risultano idonei a contrastare efficacemente la motivazione impugnata, per altro conforme alla eccitante giurisprudenza di legittimità costante nell’affermare che tra il reato associativo ed i reati-fine non è ravvisabile un vincolo rilevante ai fini della continuazione o della connessione teleologica, poichè, di regola, al momento della costituzione dell’associazione, i reati-fine sono previsti solo in via generica e programmatica. Il vincolo suddetto potrà piuttosto configurarsi solo quando, nel momento anzidetto, i reati fine siano stati concepiti in maniera chiara e definita. (Cassazione penale, sez. 5, 10/07/2009, n. 40093).

3.6) – Consegue il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento;

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2013

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