CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE – SENTENZA 16 dicembre 2009, n.26279 IMPUGNAZIONE, NOTIFICA ED EREDI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

Con il motivo addotto a sostegno del ricorso C.C. deduce che la notificazione del proprio atto di appello avrebbe dovuto essere ritenuta valida, poiché legittimamente, in applicazione dell’art. 300 c.p.c., era stata rivolta ad A.G. presso il procuratore che lo aveva rappresentato nel giudizio di primo grado, non avendo prodotto alcun effetto il suo decesso, avvenuto nel periodo compreso tra la chiusura della discussione davanti al collegio e la pubblicazione della sentenza del Tribunale.

Sul tema delle impugnazioni proposte dopo la morte di una parte sono emersi nella giurisprudenza di legittimità contrasti, divergenze e oscillazioni, che non hanno trovato una stabile e definitiva composizione neppure in seguito ai vari interventi delle sezioni unite, che più volte sono state – e perciò di nuovo vengono ora – chiamate a pronunciarsi sulla questione.

Le prime loro decisioni sono state adottate con le sentenze 21 febbraio 1984, n. 1228, 1229 e 1230, con le quali si è ritenuto che la materia è disciplinata da norme non rispondenti a un criterio unitario e diverse secondo il momento in cui l’evento si verifica. Se questo è precedente alla chiusura della discussione e non è stato dichiarato o notificato, l’altra parte, anche se ne ha avuto altrimenti notizia, può rivolgere l’atto di impugnazione al defunto e notificarlo presso il suo procuratore, poiché la posizione di colui che è venuto a mancare resta stabilizzata come quella di persona ancora vivente per tutto l’ulteriore corso del giudizio anche nei gradi successivi, nei quali il mandato conserva ultrattivamente efficacia, per il disposto dell’art. 300 c.p.c.; lo stesso procuratore è dunque altresì abilitato sia a ricevere la notificazione della sentenza sia a impugnarla, in nome del defunto, se il mandato non era limitato a quel grado. Quando invece la morte è posteriore alla chiusura della discussione, la notificazione della sentenza, a norma dell’art. 286 c.p.c., può essere rivolta indifferentemente alla parte deceduta presso il suo procuratore, oppure agli eredi. Infine, se l’evento si avvera nella pendenza del termine per l’impugnazione, influisce sulla sua decorrenza, secondo le previsioni dell’art. 328 c.p.c.: nel caso in cui la notificazione della sentenza sia già avvenuta, deve essere rinnovata agli eredi e solo da allora prende inizio il termine “breve” stabilito dall’art. 325 c.p.c.; altrimenti, si applica quello “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c., che tuttavia è prorogato di sei mesi, ove la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio sia avvenuta più di sei mesi dopo la pubblicazione della sentenza.

Investite ancora della questione, le sezioni unite l’hanno affrontata con la sentenza 19 dicembre 1996 n. 11394. Con riferimento a una fattispecie di morte successiva alla pubblicazione della sentenza di primo grado, ma in base ad argomenti estensibili anche all’ipotesi di decesso anteriore, si è ritenuto che l’atto di appello, a norma dell’art. 328 c.p.c., deve essere notificato in ogni caso agli eredi, essendo irrilevante l’eventuale ignoranza dell’evento da parte dell’impugnante, il quale neppure può essere ammesso alla rinnovazione della notificazione prevista dall’art. 291 c.p.c., sicché l’unica sanatoria consentita è quella che deriva dalla costituzione in giudizio dei successori del defunto, purché effettuata prima della scadenza del termine di un anno dal deposito della sentenza in cancelleria.

Della problematica di cui si tratta le sezioni unite si sono di nuovo occupate con la sentenza 28 luglio 2005 n. 15783, per dirimere il contrasto di giurisprudenza che si era manifestato a proposito della particolare ipotesi del raggiungimento della maggiore età del soggetto che in precedenza era stato in giudizio rappresentato dagli esercenti la potestà dei genitori.

Allargando lo sguardo alla generale prospettiva dell’incidenza di tutti gli eventi menzionati dall’art. 300 c.p.c., si è deciso che il momento in cui sono sopravvenuti è ininfluente, poiché l’art. 328 c.p.c. impone di notificare comunque l’atto di impugnazione alla parte effettiva del rapporto processuale (nel caso: al maggiorenne), anche se la morte, la perdita della capacità di stare in giudizio o la cessazione della rappresentanza, non dichiarate o notificate dal procuratore, che unicamente è abilitato a farlo, sono avvenute prima della pubblicazione della sentenza, né vi è luogo all’applicazione dell’art. 291 c.p.c. Tuttavia, se l’evento è stato senza colpa ignorato dall’impugnante, la notificazione rivolta al defunto o all’incapace ed effettuata presso il suo procuratore deve essere reputata valida.

Dai principi di volta in volta enunciati con le sentenze citate, peraltro tra sotto vari profili discordanti, si sono poi frequentemente discostate le sezioni semplici, le quali talvolta hanno anche adottato soluzioni intermedie, come quella secondo cui la nullità della notificazione al defunto può essere sanata con effetto retroattivo mediante la sua rinnovazione agli eredi, disposta a norma dell’art. 291 c.p.c. In tal senso si sono orientate anche le sezioni unite, con l’ordinanza 15 luglio 2008 n. 19343, con riguardo al ricorso per cassazione.

Ritiene il collegio che debba essere seguito l’indirizzo segnato dalla sentenza n. 11394/96.

Occorre in primo luogo prendere atto che la disciplina dell’impugnazione della sentenza, nel caso di morte (o di perdita o acquisto della capacità di stare in giudizio) della parte, non è direttamente contenuta in alcuna delle norme nelle quali di volta in volta è stata ravvisata, con i precedenti prima richiamati.

L’art. 300 c.p.c. attribuisce esclusivamente al procuratore della parte stessa la facoltà discrezionale di dichiarare in udienza o di notificare alle altre l’evento, fino alla chiusura della discussione (il nuovo testo dell’art. 275 e l’art. 281 quinquies c.p.c., prevedono la possibilità che essa non abbia luogo, sicché quel limite temporale deve intendersi in tal caso sostituito dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica) e dispone che in mancanza l’evento stesso “non produce effetto”, mentre altrimenti da quel momento “il processo è interrotto”. L’“effetto” che non viene prodotto è dunque quello della interruzione, con la conseguenza che il processo, salva la possibilità di costituzione volontaria di coloro cui spetta proseguirlo o di loro citazione in riassunzione, continua a svolgersi tra le parti originarie, come se fosse ancora in vita il defunto, il quale continua a essere rappresentato in giudizio dal suo procuratore e nei confronti del quale la sentenza viene pronunciata. Ma nessuna previsione della norma consente di estendere la “stabilizzazione” della posizione della parte e la “ultrattività” del mandato oltre il grado di giudizio nel quale l’evento si è verificato, né in particolare di ritenerle operanti in relazione alle impugnazioni, che nel codice di procedura civile hanno la loro regolamentazione in un diverso titolo del libro dedicato al processo di cognizione.

L’art. 286 c.p.c. attiene alla notificazione non dell’atto di impugnazione, ma della sentenza: attività prodromica all’instaurazione dell’ulteriore grado del giudizio, ma ad esso ancora esterna. Per tale notificazione dispone che “si può fare”, se la morte della parte è avvenuta dopo la chiusura della discussione, anche con le modalità stabilite dall’art. 303, ossia collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell’ultimo domicilio del defunto. Peraltro, come possibilità alternativa a quella consentita, deve intendersi la notificazione non già alla parte deceduta, bensì sempre agli eredi, ma singolarmente e personalmente. Dalla norma non si può dunque desumere alcun argomento, a suffragio della tesi di una “ultrattività” del mandato, che abbia efficacia temporale illimitata, anche nei gradi di giudizio successivi.

Riguardano invece le impugnazioni, con riferimento al caso di morte della parte, gli artt. 328 e 330 – 2 comma c.p.c. Il primo detta una particolare regolamentazione dei termini per la proposizione dell’impugnazione, ma nulla dice a proposito di chi debba esserne il destinatario. Il secondo stabilisce che l’atto, se il decesso è posteriore alla notificazione della sentenza, “può” essere notificato collettivamente e impersonalmente agli eredi (anche qui evidentemente ponendo l’alternativa implicita anche nell’art. 286 c.p.c.), nel nuovo domicilio eventualmente eletto, o altrimenti in quello indicato per il giudizio o presso il procuratore costituito, il cui ruolo è dunque limitato a quello eventuale di semplice domiciliatario dei successori del defunto.

Quest’ultima norma non solo non esclude, ma anzi presuppone che l’atto di impugnazione debba essere in ogni caso indirizzato agli eredi e a loro notificato, indipendentemente dal momento nel quale il decesso della parte è avvenuto: non è ravvisabile alcuna plausibile ragione, per la quale la notificazione della sentenza debba segnare un discrimine temporale per l’applicazione di due discipline diverse.

Che l’impugnazione debba essere proposta nei confronti degli eredi, in effetti, discende dal basilare principio già enunciato dall’art. 101 c.p.c. e ora solennemente ribadito dal nuovo testo dell’art. 111 Cost., secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti”: principio la cui essenzialità è stata costantemente affermata dalla Corte costituzionale e da ultimo ribadita con la sentenza 29 ottobre 2009 n. 276. Esso implica e contiene anche quello di “giusta parte”, quale non può evidentemente essere considerata la persona non più in vita, nel cui universum ius sono subentrati i successori. L’eccezionale deroga introdotta dall’art. 300 c.p.c., che consente la prosecuzione del giudizio nei confronti della parte deceduta, se il suo procuratore non dichiara o notifica l’evento, non può quindi essere ritenuta operante indefinitamente, anche nell’eventuale grado successivo del giudizio, in cui si da luogo a un nuovo rapporto processuale ulteriore e distinto, anche se collegato a quello ormai esaurito con la pronuncia della sentenza.

Il difetto assoluto della qualità di “giusta parte” nel defunto comporta altresì che all’invalidità derivante dall’instaurazione nei suoi confronti del giudizio di impugnazione non può essere posto rimedio mediante lo strumento della rinnovazione, apprestato dall’art. 291 c.p.c. Non si verte infatti nell’ipotesi, cui la norma si riferisce, di “un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione”, ma di un errore incidente sulla vocatio in ius, in quanto rivolta verso un soggetto diverso da quello che avrebbe dovuto esserne il destinatario.

A queste stesse conclusioni erano pervenute le citate sentenze n. 11394/96 e 15783/05.

Con la seconda, tuttavia, si è opinato doversi introdurre un’eccezione alla regola della necessità di impugnare la sentenza nei confronti degli eredi del defunto, se il decesso è stato ignorato senza sua colpa dall’altra parte (ipotesi che in quel giudizio si è esclusa, stante la facile conoscibilità, con l’uso dell’ordinaria diligenza, dell’evento – il raggiungimento della maggiore età – di cui allora si trattava). In tal caso una “interpretazione costituzionalmente orientata” imporrebbe di considerare senz’altro valido l’atto introduttivo del nuovo grado di giudizio, anche se indirizzato al defunto e notificato al suo procuratore, poiché altrimenti il diritto di azione dell’impugnante resterebbe ingiustificatamente sacrificato.

La tesi non è condivisibile. Le norme in tema di impugnazione fanno tutte dipendere la validità dei relativi atti da presupposti prettamente oggettivi, sicché non lasciano spazio alcuno per attribuire rilievo a condizioni interne di “buona fede”. Ma va soprattutto osservato che l’interpretazione proposta, per tutelare una delle parti, correlativamente pregiudicherebbe l’altra: a rimanere compromesso sarebbe il diritto di difesa degli eredi, esposti al concreto rischio di dover subire gli effetti di una sentenza pronunciata all’esito di un processo del quale non avevano avuto notizia, perché promosso nei confronti del loro dante causa.

Con la sentenza n. 11394/96 era stata invece esclusa l’idoneità dell’ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, ad evitare l’inammissibilità dell’impugnazione proposta nei confronti del defunto, non sanabile se non in seguito alla spontanea costituzione in giudizio degli eredi anteriormente alla scadenza del termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza. Si era tuttavia ipotizzato che potessero derivarne dubbi di legittimità costituzionale (ritenuti peraltro irrilevanti in quel giudizio, risultando che l’impugnante era a conoscenza del decesso dell’altra parte).

La questione è stata già sottoposta alla Corte costituzionale, che con l’ordinanza 4 febbraio 2000 n. 27 l’ha dichiarata manifestamente inammissibile, osservando che “appare evidente come non sia possibile nella specie operare la reductio ad legitimitatem delle norme impugnate in termini univoci e costituzionalmente obbligati, essendo astrattamente configurabili più itinera – la cui scelta spetta al legislatore -, tutti ugualmente idonei a porre rimedio alla dedotta incostituzionalità”; ha inoltre rilevato che “è compito precipuo del giudice rimettente adottare un’interpretazione della norma che sia conforme a Costituzione” e che nella giurisprudenza “si rinvengono numerosi precedenti nei quali si è ritenuta pienamente valida l’impugnazione proposta nei confronti della parte non più esistente, allorché la controparte abbia senza colpa ignorato l’evento, ovvero nei quali si è fatto ricorso all’art. 291 cod. proc. civ.”.

La praticabilità di queste due strade va però esclusa, come prima si è rilevato.

Ma comunque, con riguardo all’ipotesi del decesso della parte, la questione appare manifestamente infondata. La morte è evento ineluttabile, sicché l’eventualità che si verifichi, nel corso del processo (senza essere dichiarato o notificato dal procuratore) o dopo la pubblicazione della sentenza, non è affatto remota. E per queste ipotesi l’art. 328 c.p.c. contiene regole che danno luogo a un’adeguata tutela del diritto di impugnazione della parte non colpita dall’evento:

– a norma del 1° comma, la notificazione della sentenza, effettuata dalla parte vittoriosa quando era ancora in vita, diviene inefficace, se la morte sopravviene durante la pendenza del termine “breve” di impugnazione, il quale non inizia a decorrere di nuovo se non da quando il soccombente ha avuto notizia del decesso dell’altra parte mediante la prescritta rinnovazione della notificazione della sentenza ad opera degli eredi, ai quali poi l’atto di impugnazione può essere notificato collettivamente e impersonalmente, per il disposto dell’art. 330 c.p.c.;

– a norma del 3° comma, se la notificazione della sentenza o la sua rinnovazione non sono avvenute, il termine “lungo” è prorogato di sei mesi, se la morte si è verificata dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.

Il soccombente, al quale il decesso non è stato comunicato mediante la notificazione della sentenza e lo ignora senza colpa, dispone dunque di almeno un anno, per poter verificare se eventualmente la parte vittoriosa non sia più in vita: accertamento agevolmente effettuabile mediante la consultazione dei registri di stato civile, dato che la morte di ognuno viene annotata a margine del suo atto di nascita, come dispone l’art. 81 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. L’ampiezza del suddetto lasso di tempo è tale, da non rendere eccessivamente difficoltoso – tanto da menomare sensibilmente il diritto di azione dell’impugnante – l’adempimento del compito che il principio del contraddittorio gli impone, secondo l’insegnamento, già richiamato nelle sentenze n. 11394/96 e 15783/05, di uno dei fondatori della modera scienza italiana del diritto processuale civile: le parti, quando è definito un grado e deve aprirsene un altro, “tornano nella situazione in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, cioè di dover conoscere la condizione di colui col quale intende contrarre il rapporto processuale”.

Il giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata con il ricorso in esame è iniziato il 1° dicembre 1987. Non possono quindi venire in considerazione né il nuovo testo dell’art. 164 c.p.c., come modificato dall’art. 9 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (che consente di sanare con effetto retroattivo le nullità della citazione, mediante la sua rinnovazione), né il 2 comma dell’art. 153 c.p.c., inserito dall’art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (che ammette la rimessione in termini della parte incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile). Esula dai limiti di questo giudizio verificare se le due norme, come per la prima è stato ipotizzato con le sentenze n. 113 94/96 e 15783/05, si attaglino, nei processi in cui sono applicabili, al caso di impugnazione proposta nei confronti di una parte defunta.

Il principio da enunciare è dunque: “L’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia dalla eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente; ove l’impugnazione sia proposta invece nei confronti del defunto, non vi è luogo all’applicazione dell’art. 291 c.p.c.”.

Poiché la sentenza impugnata è coerente con questo principio, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti per giusti motivi, ravvisabili in quello che efficacemente è stato definito, nella sentenza n. 15783/05, il “pendolarismo” che ha caratterizzato la giurisprudenza sulla questione di cui si tratta, con “una sterminata produzione di pronunce orientate per l’una o per l’altra soluzione”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione, sez. III, 20 giugno 2011, n. 13486 Gli automobilisti vanno risarciti se l’aumento dei premi è conseguenza del cartello tra assicurazioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo
1. La X spa (già X spa) propone ricorso per cassazione, fondato su quattro motivi, avverso la sentenza n. 918/08 della Corte di Appello di Salerno, pubbl. il 20.10.08, che la ha condannata al pagamento, in favore dell’assicurato G.P., della somma di Euro 103,07 (oltre rivalutazione ed interessi), a titolo di risarcimento del danno, in misura percentuale all’ammontare dei premi RcA corrisposti, causato dalla partecipazione dell’assicuratrice ad intesa anticoncorrenziale sanzionata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Non deposita controricorso l’assicurato, mentre la ricorrente illustra le sue ragioni, confutando anche le recenti Cass. 14 marzo 2011, n. 5941 e 5942, con memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
2. La ricorrente impugna la gravata sentenza:
2.1. con un primo motivo, di nullità del procedimento per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, concluso con due quesiti di diritto: con il quale essa lamenta non avere i giudici tenuto in alcun conto le sue difese ed i relativi mezzi di prova, intesi a dimostrare che l’aumento dei premi nel settore RcA non era dovuto all’intesa anticoncorrenziale sanzionata dall’Autorità Garante;
2.2. con un secondo motivo, avanzato in subordine per il caso di ritenuto implicito rigetto, riferito ad un vizio di motivazione della sentenza sulle medesime circostanze e richieste;
2.3. con un terzo motivo,. di violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e dei principi generali in materia di presunzioni semplici, concluso con due quesiti di diritto ed articolato sulla doglianza di inammissibilità di una presunzione di secondo grado, quale sarebbe stata applicata dai giudici di merito nella fattispecie in relazione alla deduzione del danno in capo al singolo assicurato dalla esistenza del danno in capo a tutti gli assicurati;
2.4. con un quarto motivo, di vizio di motivazione della sentenza per omessa valutazione delle prove contrarie alla mera prova presuntiva utilizzate dai giudici di merito per affermare l’esistenza di un danno in capo all’assicurato come derivante dall’intesa.
3. I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, perché tutti relativi alla questione dell’accertamento del nesso causale fra il livello del premio e la partecipazione della compagnia assicuratrice all’intesa sanzionata dall’Autorità Garante (o AGCM), non sono fondati.
4. In primo luogo:
4.1. i fatti accertati e le prove acquisite nel corso del procedimento concluso con il provvedimento dell’Autorità Garante, cui abbia preso parte l’odierna ricorrente, non sono né più revocabili in dubbio, né utilizzabili a fini e con senso diverso da quello attribuito nel provvedimento stesso; benché l’accertamento stesso abbia avuto luogo in un procedimento svoltosi tra le imprese e l’Autorità Garante, deve ritenersi che la circostanza che il singolo utente o consumatore sia beneficiario della normativa in tema di concorrenza (per tutte, Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475) comporta pure, al fine di attribuire effettività alla tutela dei primi ed un senso alla stessa istituzione dell’Autorità Garante, la piena utilizzabilità da parte loro, una volta accertate condotte di violazione della normativa di settore posta anche a loro tutela, degli accertamenti conseguiti nel procedimento di cui pure non sono stati formalmente parte;
4.2. il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico condotto dalla stessa Autorità Garante e poi in sede di giustizia amministrativa (tra le altre, in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso, v. Cass., ord. 22 febbraio 2010, n. 4261), pur non precludendo la facoltà, per la assicuratrice, di fornire la prova contraria (per tutte, v. Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305), impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, se non altro in base allo stesso materiale probatorio od alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede (sulla fruibilità diretta, da parte dei singoli utenti o consumatori, delle relative decisioni, v., sia pure per profili anche in parte diversi, Cass. 5941/11 e 5942/11);
4.3. in applicazione di tale principio al caso di specie, si osserva che i fatti e le prove che la ricorrente lamenta essere stati illegittimamente pretermessi dalla Corte territoriale sono invece stati già adeguatamente valutati dall’AGCM e dai giudici amministrativi investiti dell’impugnativa del suo provvedimento; sicché quest’ultimo fornisce idonee basi presuntive per la ricostruzione sia della condotta dannosa che del danno e la danneggiante non fornisce prove o fatti nuovi, in quanto diversi da quelli già considerati appunto dall’AGCM, specificamente idonei ad escludere il nesso causale tra condotta illecita e danno;
4.4. quanto alla presunzione, va ribadito (come già si è espressa la richiamata Cass. n. 2305 del 2007) che l’assicurato che agisca in risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 33 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 ha il diritto di avvalersi della presunzione che il premio sia stato indebitamente aumentato per effetto del comportamento collusivo e che la misura dell’aumento (e quindi l’entità del danno da lui subito) non sia inferiore al livello medio del 20%: sia per effetto degli accertamenti compiuti dall’Autorità garante; sia in virtù del principio per cui, quando il fatto dannoso sia imputabile a più soggetti e non si possa ricostruire la misura in cui ognuno di essi abbia concorso a cagionare il danno, le colpe – quindi l’apporto causale di ognuno – si presumono uguali; e tanto argomentandosi dall’art. 2055, ultimo comma, cod. civ., norma da ritenersi applicabile al caso in esame, in quanto 1’illecito concorrenziale che si traduca in situazioni di svantaggio per i clienti nelle condizioni della contrattazione, può agevolmente qualificarsi come una fattispecie di responsabilità precontrattuale che – la si voglia assimilare alla responsabilità da illecito civile da contratto – è comunque soggetta al principio di cui alla citata norma.
5. Orbene, come questa stessa Corte si è espressa in un recentissimo precedente specifico (Cass. 10 maggio 2011, n. 10212):
5.1. nell’analisi della situazione di mercato l’AGCM ha accertato che, in conseguenza di tali comportamenti fra il 1994 ed il 2000 i premi sono aumentati del 96,55% (p. 70 provv. 8546/2000) e del 63% rispetto alla media Europea; e che, se nel medesimo periodo i premi italiani per le polizze RcA avessero seguito incrementi analoghi a quelli della media degli altri Paesi Europei, i consumatori avrebbero risparmiato settemila miliardi di lire, nel solo 1999 (p. 76);
5.2. l’AGCM pertanto – pur avendo emesso condanna solo per la violazione dell’art. 2, 2 comma, della legge n. 287/90 – ha altresì accertato chiaramente che l’illecita intesa si è tradotta in un danno economico di rilevante importo per la massa generalizzata degli utenti dei servizi assicurativi RcA, ed il suddetto accertamento ha costituito parte integrante della valutazione di illegittimità dello scambio di informazioni tra le imprese, che avrebbe potuto altrimenti essere ritenuto legittimo, in considerazione delle esigenze di reciproca informazione al fine della valutazione dei rischi;
5.3. il provvedimento sanzionatorio non ha accertato, cioè solo, il carattere potenzialmente lesivo dei benefici della concorrenza e degli interessi economici dei consumatori – come prospettato dalla ricorrente – ma anche il fatto che tale comportamento ha prodotto un’ingente e ingiustificata lievitazione dei premi, sul mercato italiano delle polizze RcA;
5.4. ciò che è rimasto incerto ed a cui la giurisprudenza di questa Corte ha fatto riferimento, menzionando il carattere solo potenzialmente lesivo dell’illecito concorrenziale, è la concreta e specifica misura in cui ognuna delle singole imprese sanzionate ha finito con il contribuire, con il suo comportamento e nei rapporti con i suoi assicurati, all’indebita lievitazione dei premi, poiché l’accertamento dell’AGCM ha fatto riferimento ai livelli soltanto medi dei premi Europei ed al livello – del pari – medio degli aumenti in Italia, ma poco o nulla specifica circa la misura in cui ogni singola impresa abbia effettivamente tradotto le informazioni acquisite tramite il comportamento collusivo nell’incremento dei premi praticati alla propria clientela.
6. In tale contesto (in questi termini v. sempre la citata Cass. n. 10212 del 2011):
6.1. la già riconosciuta facoltà della compagnia assicuratrice convenuta in risarcimento del danno, di fornire la prova contraria alla suddetta presunzione di responsabilità in ordine alla sussistenza del nesso causale fra l’illecito concorrenziale e il danno ed all’entità del danno medesimo, non può avere ad oggetto circostanze attinenti alla situazione generale del mercato assicurativo – quanto ai costi gravanti su tutte le imprese a causa delle truffe, degli adeguamenti imposti dalle Direttive comunitarie, ecc. – ed in particolare le medesime circostanze e prove (o elementi di prova) che l’AGCM ha già tenuto presenti nel formulare il suo giudizio e che ha ritenuto irrilevanti al fine di escludere il collegamento fra i comportamenti collusivi e la lievitazione dei premi;
6.2. la stessa AGCM ha infatti tenuto conto dei dati di costo e di settore esposti dalle imprese e riassunti nei pareri ISVAP o nelle altre difese analoghe, ma ha comunque rilevato che il comportamento collusivo ha impedito che le imprese stesse fossero motivate ad operare in modo da ridurre i loro costi per potere ridurre i prezzi (ciò che rientra tra i benefici effetti di un libero mercato concorrenziale: cfr. pp. 77, 78, 240, 259 ss., 263 del provvedimento dell’AGCM, sul punto – e per quel che qui rileva – confermato dal Consiglio di Stato), mentre bene è stato osservato che neppure la necessità di recuperare il passivo accumulato nel precedente periodo di tariffe amministrate o comunque la circostanza dell’operatività in perdita del settore giustificano comportamenti collusivi, poiché questi trasferiscono sui consumatori, in misura maggiore rispetto a quella che il corretto comportamento commerciale consentirebbe, perdite che il settore imprenditoriale bene o male recupera, o che ritiene comunque vantaggioso affrontare;
6.3. in particolare, i dati contenuti nel parere dell’ISVAP sono stati già sottoposti all’esame dell’AGCM, che li ha ritenuti inidonei ad escludere sia il comportamento collusivo, sia gli effetti dannosi che ne sono derivati in termini di incremento dei prezzi per i consumatori (cfr. pp. 192 ss.); con l’ulteriore specificazione che le perdite denunciate dalle compagnie assicuratrici sono anche effetto di inefficienze produttive e del mancato controllo dei costi, conseguente alla violazione delle regole della concorrenza (p. 255 ult. cpv. e p. 263);
6.4. proprio sulla base degli elementi prodotti dalla ricorrente può concludersi (ancora una volta, v. Cass. 10212 del 2011) per l’abnormità dell’incremento dei premi assicurativi in Italia dopo il 1994 e per l’anomalia del mercato italiano nel contesto dei Paesi UE, sebbene in questi Paesi sia in vigore la medesima normativa comunitaria, siano presenti le stesse problematiche tipiche dell’industria RcA (lotta alle frodi, criteri di risarcimento del danno biologico, costo dei ricambi e delle riparazioni) e l’imposizione fiscale in Italia non sia eccessiva rispetto a quella rilevata altrove (cfr. per esempio pp. 6, 6.2, 7.2): e può ascriversi "l’anomalia italiana" al mancato funzionamento del sistema concorrenziale, per cui gli aumenti dei costi vengono trasferiti integralmente sui premi, senza che vi sia alcuna pressione per il contenimento dei costi medesimi e per la razionalizzazione dell’attività (quali ad esempio i fattori di costo inerenti al sistema di distribuzione tramite agenti monomandatari, che sono frutto di scelte delle stesse imprese).
7. Di conseguenza, correttamente la documentazione prodotta dalla ricorrente al fine di contestare la sussistenza del nesso causale è stata ritenuta irrilevante dalla sentenza in questa sede impugnata e (come si esprime la già citata Cass. n. 10212 del 2011):
7.1. la Corte di appello, con sintetica motivazione, ha respinto le argomentazioni e le prove dedotte dalla ricorrente, ritenendole inidonee a dimostrare che l’entità del premio, nel caso concreto, non fosse nemmeno in minima parte ascrivibile causalmente all’accertata intesa anticoncorrenziale, puntualizzando che 1’istanza di consulenza tecnica avrebbe richiesto la specifica indicazione di quali momenti o fasi del complesso meccanismo di determinazione del premio finale andassero verificati;
7.2. in tal modo, applicando adeguatamente i principi generali desumibili dall’art. 2055 cod. civ. in ordine all’irrilevanza – nei confronti del danneggiato – della concreta misura dell’apporto causale del singolo danneggiante, la Corte salernitana si è correttamente uniformata al principio per cui la prova dell’insussistenza del nesso causale non può essere tratta da considerazioni di carattere generale attinenti ai dati che influiscono sulla formazione dei premi nel mercato generale delle polizze assicurative, ma deve riguardare situazioni e comportamenti che siano specifici dell’impresa interessata;
7.3. per vincere la presunzione fondata idoneamente sul richiamato provvedimento dell’AGCM e sugli accertamenti e le valutazioni dei medesimi fatti già svolti ed espletate in quella sede (idonei a dimostrare che il premio applicato in polizza all’assicurato, nel periodo in cui la compagnia è stata ritenuta partecipe del comportamento collusivo, è ingiustificatamente elevato, nella misura indicata), era cioè indispensabile fornire dati relativi alla singola impresa assicuratrice convenuta, al singolo assicurato od alla singola polizza;
7.4. occorreva, in particolare, che tali dati fossero tali da dimostrare che – nel caso oggetto di esame – il livello del premio non era stato determinato dalla partecipazione all’intesa illecita, ma da altri fattori: perché, in ipotesi, la compagnia ebbe a discostarsi dal trend degli aumenti accertato in misura media dall’AGCM (circostanza da dimostrare tramite la documentazione relativa ai criteri da essa seguiti per la determinazione dei premi, ai dati di costo su di essa specificamente gravanti, ecc, nel periodo dell’illecito, rispetto a quello precedente o successivo); o perché la compagnia versava in peculiari difficoltà economiche (desumibili però dalla comparazione dei propri stessi bilanci – in tal senso già Cass. 5941 e 5942 del 2011 – nella loro evoluzione diacronica), che hanno imposto determinate scelte di prezzo; o perché il contratto copriva particolari rischi, normalmente non inclusi nella polizza, o si riferiva ad assicurati il cui comportamento era caratterizzato da abnorme sinistrosità; e così via;
7.5. pertanto, in difetto di idonei elementi di confutazione delle conclusioni cui legittimamente poteva pervenirsi in base alla normativa sulle presunzioni, correttamente questa è stata applicata al fine di ritenere fondata la prova dei fatti costitutivi addotti dal danneggiato a sostegno della sua domanda di risarcimento del danno.
8. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; ma non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, non avendo l’intimato svolto in questa sede alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-02-2011, n. 3383 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 4 ottobre 2006 e notificata il 10 novembre successivo, la Corte d’appello di Torino ha confermato la decisione di primo grado che aveva respinto le domande svolte da A.N. nei confronti di Unicalcestruzzi s.p.a., di pagamento della somma di L. 410.641.286 per retribuzioni non corrisposte dal 1982 al 13 novembre 2001 e di annullamento di un preteso licenziamento intervenuto in quest’ultima data e aveva accolto la domanda proposta in via riconvenzionale dalla società, di condanna al pagamento dei canoni dal 13 novembre 2001 e al rilascio dell’alloggio fin da tale data goduto illecitamente dalla A..

In proposito, i giudici di merito hanno anzitutto escluso qualsivoglia rapporto tra le parti fino al decesso nell’aprile del 1996 del coniuge della A. sig. P. – autista dipendente della società che godeva altresì di un alloggio sopra gli uffici dell’impianto di betonaggio di questa in (OMISSIS), in cambio dell’apertura la mattina e chiusura la sera del cancello dell’impianto medesimo e la pulizia dei piccoli uffici della società -, la quale era poi subentrata al marito, deceduto nell’aprile 1996, nel godimento del suddetto alloggio, senza pagare le relative utenze, in cambio delle prestazioni di pulizia e di apertura e chiusura dei cancelli.

Con riguardo a tale ultimo periodo, la Corte territoriale ha ritenuto prevalente la finzione locatizia del rapporto, in cui pertanto la prestazione lavorativa di pulizia e di apertura e chiusura dei cancelli rappresentava la controprestazione rispetto al godimento dell’alloggio.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione A.N., affidandolo a quattro motivi.

Resiste alle domande la società con controricorso, col quale denuncia la tardività della notifica del ricorso che sarebbe avvenuta solo in data 18 gennaio 2007 (68 giorno dalla notifica della sentenza), dopo un tentativo operato con consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il precedente 8 gennaio 2007, da ritenere peraltro inesistente, in quanto nella richiesta all’ufficiale giudiziario non sarebbe stata indicata la città del destinatario e pertanto la notifica non aveva potuto avere luogo in tale occasione.

Nel merito, la società sostiene l’infondatezza manifesta del ricorso.

La ricorrente ha infine depositato una memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1 – Col primo motivo di ricorso la difesa della A. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. in quanto la Corte territoriale, nel qualificare il rapporto di collaborazione tra le parti, non avrebbe tenuto conto dell’inserimento organico nella struttura aziendale della lavoratrice, priva di una qualsivoglia capacità e struttura imprenditoriale, dando viceversa rilevo a fatti che sarebbero del tutto irrilevanti ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo, quali la modestia quantitativa delle prestazioni, la mancata richiesta di una retribuzione nei venti anni di durata del rapporto e la possibilità di farsi sostituire nell’espletamento della prestazione lavorativa.

2 – Col secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1362 c.c. e segg. nella interpretazione dell’art. 6 del C.C.N.L. dell’industria edile, il quale prevede, come lavoratore subordinato la figura del custode con alloggio nello stabilimento, perfettamente aderente alla posizione della A. in azienda.

3 – Col terzo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 1322 e 2094 c.c. e del CCNL industria edile, in quanto la Corte territoriale avrebbe dato per scontato che il rapporto fosse atipico, contrassegnato dalla prevalenza della componente locatizia su quella lavorativa, senza considerare come ogni lavoro subordinato è oneroso e va pertanto retribuito, mentre l’uso gratuito dell’alloggio si pone in alcune ipotesi, considerate anche dalla contrattazione collettiva di settore, quale mezzo necessario per rendere possibile la prestazione lavorativa subordinata, che nel caso di specie sarebbe riconoscibile alla luce dei consueti indici elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte.

4 – Con l’ultimo motivo, la difesa della ricorrente denuncia il vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella valutazione delle prove, che condurrebbero chiaramente alla qualificazione del rapporto come subordinato.

Va preliminarmente respinta l’eccezione di tardività del ricorso per cassazione, formulata dalla difesa della società sul presupposto che il primo tentativo di notifica dello stesso dovrebbe qualificarsi come inesistente, in ragione del fatto che sarebbe mancata nella consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario l’indicazione della città del destinatario, per cui tale notifica non avrebbe potuto essere portata a compimento e il successivo tentativo (riuscito) sarebbe avvenuto oltre il termine di legge.

In proposito – e a parte il fatto che la predisposizione della relazione di notifica in cui nel caso in esame non è indicata la città costituisce compito precipuo dell’ufficiale giudiziario (cfr. art. 149 c.p.c., comma 2) -, va rilevato dagli atti che l’errore che non ha consentito all’atto di raggiungere tempestivamente il destinatario è stato un altro.

Dal ricorso è infatti agevolmente rilevabile la città in cui l’atto andava notificato (Torino), chiaramente indicata nella prima pagina del ricorso, tanto è vero che nella busta contenente l’atto, infine restituita al mittente, è chiaramente indicata la destinazione in tale città.

L’errore commesso riguarda viceversa il soggetto destinatario del plico, indicato nella busta nella persona dell’avv. L.F., codifensore della società, mentre dall’atto risultava chiaramente che il domiciliatario era l’altro difensore, avv. Casamassima Gianna, con studio nel luogo in cui è stata operata la prima tentata notifica.

In ogni caso, anche questo errore non è imputabile alla parte ricorrente, dato che anche l’apposizione sulla busta della indicazione del nome del destinatario costituisce compito dell’ufficiale giudiziario, a norma della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 3.

In proposito, va qui ribadito che ove la notifica dell’atto di impugnazione tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario non si perfezioni per cause non imputabili al notificante, questi non incorre in alcuna decadenza se provveda con sollecitudine a rinnovare o a riattivare la notificazione (cfr. da ultimo Cass. S.U. 24 luglio 2009 n. 17352, cui si è adeguata la giurisprudenza successiva di questa Corte: ades. Cass. nn. 6846/10 e 9046/10).

Alla luce di tale principio, nel caso in esame la notifica del ricorso per cassazione deve ritenersi tempestiva, in quanto l’atto è stato consegnato l’8 gennaio 2007 (59 giorno successivo alla notifica della sentenza) dal notificante all’ufficiale giudiziario, il quale l’ha spedito a mezzo servizio postale al giusto indirizzo, ma ad un destinatario diverso dal soggetto indicato nell’atto come domiciliatario, che pertanto non l’ha ricevuto e, alla conoscenza di tale situazione, è tempestivamente seguita, su impulso della ricorrente, una nuova notifica il 18 gennaio successivo.

Il ricorso è infondato.

I quattro motivi vanno trattati congiuntamente in quanto investono in realtà la motivazione della sentenza impugnata, anche quanto alla valutazione delle prove mentre i principi di diritto evocati non appaiono pertinenti rispetto al contenuto della sentenza, presupponendo un accertamento di fatto diverso da quello operato dai giudici.

Con tale sentenza la Corte territoriale da per scontato che, dato il tipo di compiti affidati alla ricorrente, la subordinazione va misurata sulla base di parametri attenuati (cfr., da ultimo, Cass. 19 aprile 2010 n. 9251), ma sostanzialmente rileva che, proprio sulla base di tali indicatori, nel rapporto dedotto appare prevalente l’aspetto relativo al godimento del locale utilizzato come abitazione dalla A. di cui l’attività lavorativa di quest’ultima costituiva mero corrispettivo (cfr., per la distinzione dal lavoro subordinato compensato anche con il godimento di un alloggio Cass. 29 dicembre 1998 n. 12871).

La Corte esclude infatti che i compiti della A. attenessero alla custodia dell’impianto, avendo accertato, con valutazione di fatto delle risultanze istruttorie di sua esclusiva competenza – e che il ricorso tenta di contrastare attraverso una inammissibile rivisitazione dell’intero materiale istruttorio, per proporne in questa sede di legittimità una rivalutazione nell’ambito di un giudizio di merito -, che l’unico incarico riguardava la pulizia dei piccoli uffici situati presso l’impianto e l’apertura la mattina e la chiusura la sera (alle 19 e occasionalmente più tardi) dei cancelli dell’impianto. Per cui le considerazioni in diritto che la difesa della ricorrente ritiene di trarre dall’affidamento a questa di compiti di custodia appaiono non pertinenti rispetto alla realtà accertata in giudizio.

Ma anche per ciò che riguarda il preteso inserimento dell’opera della A. nella organizzazione aziendale (inserimento che, per essere significativo sul piano considerato, deve comunque avvenire mediante subordinazione), la descrizione dei modesti compiti una volta per tutte ad essa affidati (e con ampia libertà di orario quanto a quelli di pulizia) finisce per rendere evanescente nella motivazione della sentenza la stessa percepibilità di siffatto elemento, come di ogni altro riferibile al tipo di rapporto rivendicato.

Nè d’altronde emergono dal ricorso indicazioni di fatti significativi trascurati o male interpretati dalla Corte territoriale e in grado di rimettere in discussione la decisione.

In conclusione appare quindi non censurabile la qualificazione operata dalla Corte territoriale di un rapporto in cui la prestazione lavorativa autonoma rappresenta il mero corrispettivo del godimento di un immobile, in corrispondenza della funzione propria assegnata dalle parti al rapporto medesimo.

Il ricorso va pertanto respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, operato in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla società le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 29,00 per esborsi ed Euro 3.000,00, oltre accessori di legge, per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 02-02-2011, n. 744 Silenzio della Pubblica Amministrazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il sig. B.F., proprietario di un terreno, sito in Comune di Battipaglia, confinante al lato nord con il condominio P. inoltrava al suindicato Comune atto di diffida volto a far annullare, in sede di autotutela, i titoli edilizi rilasciati alla Società B.C., dante causa del condominio, costituiti dalla concessione n.6597/89, dalla concessione in sanatoria n.5085/92 e da quella in variante n.11064/92, con la consequenziale adozione dei provvedimenti sanzionatoriripristinatori e tanto in ragione della dedotta illegittimità di tale atti autorizzativi rilasciati, sempre secondo quanto dedotto dal ricorrente, in violazione della normativa sulle distanze.

Il predetto, decorso inutilmente il termine per provvedere da parte del Comune, ha proposto innanzi al TAR per la Campania -Sezione di Salerno, ricorso ex art.21 bis della legge n.1034 per far dichiarare, previa declaratoria della illegittimità del silenzio serbato sulla sua istanza l’obbligo del Comune a concludere il procedimento attivato, con la richiesta di nomina di Commissario ad acta in ipotesi di perdurante inerzia dell’Amministrazione.

L’adito TAR, con sentenza n.1584 del 4 marzo 2010 ha dichiarato inammissibile il ricorso, non sussistendo ad avviso di detto giudice i presupposti per la necessaria configurabilità in capo all’Amministrazione comunale di un obbligo di provvedere in ordine alla predetta istanza -diffida.

L’interessato ha impugnato tale sentenza, ritenendola errata ed ingiusta nelle sue osservazioni e prese conclusioni.

A sostegno del proposto gravame, l’appellante con tre mezzi d’impugnazione ha dedotto la sussistenza, in capo all’Amministrazione comunale intimata, dell’obbligo di provvedere sull’istanzadiffida volta ad ottenere l’adozione di provvedimenti di autotutela in ordine ai titoli edificatori rilasciati in precedenza dal Comune e tanto in ragione di argomentazioni che possono così riassumersi:

a) il silenzioinadempimento si è nella specie perfezionato, in ragione anche della disciplina dettata in tema di annullamento di concessioni edilizie contenuta nel regolamento comunale per il procedimento amministrativo;

b) l’illegittimità delle concessioni edilizie per violazione della normativa sulle distanze è stata accertata con sentenza della Corte d’Appello di Salerno n.694/2006 e tale circostanza impone all’Amministrazione di adeguarsi alle statuizioni rese in detta sentenza e ciò tutelare pienamente le posizioni dell’appellante confinante;

c) l’omissione dell’Autorità comunale di non conformarsi alle statuizioni dell’autorità giurisdizionale costituisce una ingerenza sul diritto di proprietà e comunque una violazione di un diritto individuale della persona, in contrasto con la normativa di cui all’art.1 del Protocollo aggiunto alla CEDU.

Si è costituito in giudizio il Condominio P. che ha, in via preliminare, eccepito la sua estraneità al giudizio de quo in quanto i nuovi proprietari sono soggetti terzi acquirenti in buona fede ed ha contestato la fondatezza in sé della pretesa fatta valere dal B., atteso che il medesimo, in relazione al contenuto della sua richiesta e al tipo di giudizio instaurato, non vanta una posizione di interesse protetto dall’ordinamento tale da far insorgere in capo al Comune di Battipaglia un obbligo a provvedere

All’udienza dell11 gennaio2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

Tanto premesso, l’appello si appalesa fondato nei sensi che di seguito si va ad illustrare.

Il giudice di primo grado ha ritenuto non ammissibile il rimedio giurisdizionale di cui all’art.21 bis della legge n.1034/971 esperito dall’attuale appellante sul rilievo che la sua richiesta di attivazione da parte del Comune di Battipaglia del potere di autotutela in ordine ai titoli edificatori sopra indicati costituisce unicamente una istanza sollecitatoria, come tale inidonea a far sorgere un obbligo dell’Amministrazione ad esercitare una potestà, quella dell’autotutela, dal tipico contenuto discrezionale.

Ad avviso del Collegio un tale assunto interpretativo, in relazione agli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la vicenda, non appare giuridicamente fondato.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale l’istanza dell’interessato mirante ad ottenere il riesame da parte della P:A. di un atto autoritativo non impugnato tempestivamente non comporta la configurazione di un obbligo di riesame in quanto tale obbligo inficerebbe le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale dell’agire amministrativo (sfr Cons Stato Sez.VI 7/8/2002 n.4135; idem n. 3485 del 9/3/2004; Sez. V 20/1/2004).

E’ stato altresì però acquisito in giurisprudenza, con riferimento alla materia oggetto della presente controversia, che il proprietario di un’area o di un fabbricato nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’Organo preposto è titolare di un interesse legittimo all’esercizio di detti poteri e può pretendere se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi le ragioni, con la conseguenza che il silenzio serbato sulla istanza -diffida integra gli estremi del silenzio -rifiuto sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere espressamente (cfr Cons Stato Sez. V n.7132 del 7/11/2003 Sez.IV 4/6/2004 già citata; idem 31/5/2007 n.2857; 7/7/2008 n.3384.

Ora, nella fattispecie all’esame il principio testè illustrato appare pienamente applicabile se è vero che, in relazione alla vicenda per cui è causa (la circostanza risulta pacificamente ammessa in giudizio) è intervenuta la sentenza della Corte d’Appello di Salerno n. 694 del 27/6/2006, passata in giudicato, che ha accertato a carico della Società B.C. di cui sono aventi causa i titolari dei diritti reali costituenti il condominio Palazzo P., l’avvenuta violazione delle norme sulle distanze legali.

Invero, un tale evento è condizione sufficiente a conferire al confinante che ha subito la lesione dei propri diritti una posizione qualificata e protetta, tale da legittimarlo a chiedere all’Amministrazione di riesaminare la situazione relativa alla conformità o meno delle opere edilizie realizzate, ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti ripristinatori nonchè alla verifica preventiva dei titoli edilizi in questione e, in particolare, ad ottenere una pronuncia espressa sulla richiesta formulata.

In altri termini, qui non si tratta di una richiesta di tipo sollecitatoria e nemmeno si verte nell’ipotesi di un soggetto interessato che a suo tempo ha omesso di insorgere avverso gli atti autorizzativi rilasciati ai controinteressati e che adesso vuole, con l’escamotage della richiesta di esercizio dell’autotutela, rimettersi in gioco.

Nel caso di specie, invero, gli elementi di fatto e di diritto intervenuti e fatti valere dall’interessato da un lato fanno insorgere in capo all’Amministrazione comunale, ai sensi e per gli effetti della norma prescrittiva di cui all’art.2 della legge n.241/90, l’obbligo a pronunciarsi sulla istanza de qua e quindi a concludere il procedimento e dall’altro lato, correlativamente conferiscono all’istante la legittimazione a far accertare l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Battipaglia sull’istanza stessa.

D’altra parte che quello del sig. B. non sia un interesse semplice, ma assume le connotazioni e la consistenza di un interesse qualificato ad ottenere una pronuncia espressa, lo si può agevolmente dedurre dal fatto che l’appellante ben potrebbe peraltro agire a tutela delle sue posizioni con lo strumento processuale alternativo dell’esecuzione del giudicato, attesa la non oppugnabilità della sentenza della Corte d’Appello n.694/2006.

A tale proposito non può valere ad inficiare la validità dell’azione giurisdizionale all’esame l’obiezione sollevata dalla difesa del condominio Palazzo P. secondo cui in realtà il B. mirerebbe attraverso l’impugnativa del silenzio ad ottenere l’esecuzione della sentenza del giudice ordinario che ha definito un giudizio civile cui gli attuali proprietari dell’immobile de quo sono estranei: invero, a parte la considerazione che nella specie si tratta non di terzi estranei ma piuttosto di successori a titolo particolare, ai quali si estende l’effetto del giudicato inter partes intervenuto, il rimedio di cui all’art.21 bis della legge n.1034 è uno strumento processuale tipizzato e, in particolare, esclusivamente, finalizzato al circoscritto ambito di far accertare l’illegittimità del silenzioinadempimento dell’Amministrazione, con il conseguente obbligo ad assumere una determinazione, il che è cosa ben diversa dagli effetti sostanziali connessi all’ottemperanza del decisum suindicato.

Sulla scorta delle suesposte considerazioni le censure d’appello qui dedotte e riconducibili alla intervenuta violazione dell’art.2 della legge n.241/90, si rivelano fondate e perciò stesso, in accoglimento del proposto gravame, va dichiarata l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Battipaglia sulla diffida a provvedere con l’obbligo dell’Amministrazione ad assumere un pronuncia espressa nel termine di 30 (trenta) giorni dalla notificazione e/o comunicazione in via amministrativa.

Le spese c competenze del presente grado del giudizio seguono la regola della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo Accoglie e per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, accoglie il ricorso di primo grado e così dispone:

dichiara la illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Battipaglia sulla diffida notificata in data 13/14 agosto 2009;

dichiara altresì l’obbligo dell’anzidetto Comune di concludere, con una espressa determinazione, da adottarsi nel termine di cui in motivazione, il procedimento azionato dall’appellante con l’istanza prot. n.49839 del 15 luglio 2009.

Condanna il Comune di Battipaglia e il Condominio P. al pagamento delle spese e competenze del presente grado del giudizio che si liquidano in complessivi euro 3.000,00 (nella misura di 1.500,000 euro a testa) oltre IVA e CPA.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.