Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-04-2011) 24-06-2011, n. 25463 Reati commessi a mezzo stampa diffamazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza dell’11 marzo 2010, ha confermato la sentenza del Tribunale di Cosenza del 15 gennaio 2008 che aveva condannato C.A. per il delitto di diffamazione a mezzo stampa in danno di M.D., commesso il (OMISSIS) a mezzo della pubblicazione di un articolo sul giornale "(OMISSIS)". 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il C., il quale lamenta, a mezzo del proprio difensore, una erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) nonchè la mancanza o illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) con particolare riferimento alla mancata affermazione dell’esistenza della scriminante del diritto di cronaca, alla insussistenza del reato per la mancata indicazione del nominativo della parte offesa nel corpo dell’articolo giornalistico nonchè, infine, alla ritenuta eccessività della pena inflitta.

3. E’ stata, altresì, depositata memoria nell’interesse della parte civile.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non è da accogliere.

2. Quanto al primo motivo, è nota la giurisprudenza di questa Corte che ha posto in evidenza come il corretto esercizio del diritto di cronaca giornalistica comporti il rispetto di alcuni parametri, ormai solidamente individuati nella verità della notizia, nella rilevanza sociale della stessa e nella continenza espressiva (v. da ultimo, Cass. Sez. 5, 4 novembre 2010 n. 44024).

E ancora, si è rilevato come sia configurabile la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte (v. da ultimo, in tema di cronaca giudiziaria ma con principio valido anche per la cronaca normale, Cass. Sez. 5, 5 marzo 2010 n. 23696 e 9 aprile 2010 n. 27106).

Tutto ciò premesso in diritto si osserva, questa volta in fatto secondo quanto accertato dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi logici, come la notizia, riportata nell’articolo giornalistico in contestazione, circa il rifiuto della maestra di sostegno del ragazzo disabile di consentire la partecipazione dello stesso ad una gita scolastica non fosse vera (v. pagine da 2 a 4 della motivazione).

Dagli atti di causa si evince, altresì, come l’imputato nulla abbia fatto per dimostrare, in ipotesi, l’esistenza della prescritta attività di controllo e di verifica della bontà della notizia onde superare, questa volta in via putativa, la sua non veridicità. 3. Quanto al secondo motivo di ricorso giova premettere, anche questa volta in punto di diritto, come, effettivamente, condizione essenziale per attribuire ad una offesa rilevanza giuridica penale sia la individuazione dell’effettivo destinatario della stessa.

Nel delitto di diffamazione a mezzo stampa, però, l’individuazione del soggetto passivo pur in mancanza di una indicazione specifica, ovvero di riferimenti inequivoci a circostanze e fatti di notoria conoscenza, la cui attribuzione sia rivolta ad un soggetto indubbiamente individuabile, deve dedursi dalla stessa prospettazione dell’offesa.

Trattasi di un criterio obbiettivo, che ben si concilia con la struttura e la ratio della previsione normativa e non può essere sostituito con intuizioni o soggettive congetture che possono essere fatte da chi sia consapevole, a fronte di una generica offesa, di poter essere uno dei destinatari della stessa, se dalla pubblicazione dell’accusa denigratoria non emergono circostanze e fatti di notoria conoscenza, obiettivamente idonei alla sua individuazione e attribuzione soggettiva (v. la pacifica e non minoritaria giurisprudenza di questa stessa Sezione, Cass. Sez. 5, 8 luglio 2008 n. 33442 e 5 dicembre 2008 n. 11747).

Anche questa volta, sulla base delle dianzi evidenziate considerazioni, la Corte territoriale ha logicamente fatto discendere l’individuazione del soggetto leso dall’articolo diffamatorio dalle circostanze che esso fosse l’unico insegnante di sostegno della scuola elementare di (OMISSIS) nonchè l’unico assessore ai servizi sociali del Comune.

4. La dosimetria della pena è anch’essa immune da censure in quanto, da un lato, non sono stati superati i limiti edittali e, d’altra parte, il contenimento della pena nei suoi minimi e con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti alla contestata aggravante rende del tutto pretestuosa la doglianza avanzata sul punto dal ricorrente.

5. Il ricorso va, in conclusione, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè ala rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 1.250 per onorari, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Toscana Firenze Sez. III, Sent., 15-07-2011, n. 1214 Demolizione di costruzioni abusive

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Svolgimento del processo

La ricorrente, nel marzo 2002, ha presentato domanda di concessione edilizia in sanatoria avente ad oggetto varie opere abusive (ampliamento e modifica di ovile assentito con concessione edilizia dell’8/7/1992 e con autorizzazione della Comunità Montana del 10/1/1991; ampliamento e modifica di box legittimato da concessione edilizia del 10/7/1978; costruzione di ricovero per bestiame, in legno e lamiera; costruzione di tettoia in legno per ricovero di attrezzi agricoli).

In data 17/3/2003 l’istante, su richiesta del Comune, ha presentato il programma di miglioramento agricolo ambientale, sul quale hanno espresso parere favorevole con prescrizioni la Provincia di Grosseto (20/10/2003) e la Comunità Montana (11/5/2005).

Tuttavia il Comune di Massa Marittima non ha concluso il procedimento, ma in data 26/11/2009 ha adottato l’ingiunzione a demolire alcuni fabbricati abusivi, tra i quali i manufatti oggetto della domanda di sanatoria edilizia.

Avverso tale provvedimento la ricorrente è insorta deducendo:

1) eccesso di potere per contraddittorietà, disparità di trattamento, ingiustizia manifesta; violazione dell’art. 36, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001;

2) violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 in relazione all’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001;

3) violazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990; difetto di motivazione circa le ragioni di interesse pubblico a sostegno della misura repressiva adottata.

Si è costituito in giudizio il Comune di Massa Marittima.

Con ordinanza n. 154 del 26/2/2010 è stata respinta l’istanza cautelare.

Tale pronuncia è stata riformata dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 3127 del 7/7/2010.

All’udienza del 26 maggio 2011 la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la deducente lamenta la contraddittorietà dell’azione amministrativa del Comune, il quale ha ordinato la demolizione senza prima concludere il procedimento di sanatoria edilizia; aggiunge che ai sensi dell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 la determinazione sulla richiesta di sanatoria deve essere supportata da idonea motivazione.

La censura non può essere accolta.

Occorre innanzitutto considerare che solo una parte delle opere per le quali è stata presentata istanza di attestazione di conformità rientra tra quelle oggetto della contestata sanzione demolitoria.

Come evidenziato nella attestazione del responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Massa Marittima (documento n. 2 depositato in giudizio il 24/2/2010), la prima opera oggetto dell’istanza (ampliamento e modifica di ovile -foglio 205, mappale 50) è descritta nell’atto impugnato con dimensioni maggiori (lettera J della nota della Polizia municipale datata 25/2/2009 -documento n. 3 depositato in giudizio il 24/2/2010; penultimo manufatto elencato nella premessa della gravata ordinanza); il secondo abuso elencato nella richiesta di sanatoria (ampliamento e modifica del box in metallo di cui alla concessione edilizia n. 128 del 10/7/1978) risulta avere, secondo l’atto impugnato (primi due manufatti ivi elencati; lettere A e B della citata nota della Polizia municipale del 25/2/2009), destinazione abitativa (mentre invece la pratica di sanatoria edilizia lo descriveva come "destinato a magazzino, officina, ripostiglio e rifugio per gli addetti all’azienda agraria con servizio igienico"); il terzo abuso per il quale è stata presentata domanda di sanatoria (ricovero per bestiame, costruito in legno e lamiera) non è indicato nell’impugnata misura repressiva (la citata attestazione comunale -documento n. 2- puntualizza che tale manufatto è stato demolito, secondo quanto risulta nella determina della Comunità Montana n. 463 dell’11/5/2010); il quarto abuso edilizio per il quale è stata presentata l’istanza (tettoia in legno per ricovero di attrezzi) è indicato alla lettera E della menzionata nota della Polizia municipale e rientra nella descrizione del quarto abuso edilizio elencato nell’impugnata ingiunzione.

Ciò premesso, in punto di diritto si osserva quanto segue.

L’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 prevede che, decorsi 60 giorni dalla richiesta di permesso di costruire in sanatoria, la stessa si intende rifiutata. Pertanto, trascorso il suddetto termine, si forma un tacito provvedimento di diniego (TAR Toscana, III, 2/3/2011, n. 418).

Non depone in senso contrario l’art. 140 della L.R. n. 1/2005, il quale da un lato non qualifica espressamente il silenzio mantenuto dal Comune sulla richiesta di attestazione di conformità, dall’altro prevede, richiamando l’art. 83, una procedura sostitutiva connotata dall’intervento della Regione. Invero la predetta norma regionale va interpretata in modo costituzionalmente orientato, nel senso della sua neutralità circa la qualificazione del silenzio sulla domanda di sanatoria edilizia, dovendosi tenere conto che la qualificazione, da parte del legislatore nazionale, del silenzio come atto tacito di diniego esprime un principio fondamentale della materia urbanistica, come tale non derogabile dal legislatore regionale (TAR Campania, Napoli, III, 17/9/2010, n. 17440). Alla stessa interpretazione si presta l’analogo, previgente art. 37 della L.R. n. 52/1999.

Occorre infatti considerare che la statuizione di cui all’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 (che ripete quanto già sancito dall’art. 13, comma 2, della legge n. 47/1985) da un lato risponde allo scopo di evitare il protrarsi di situazioni di incertezza suscettibili di incentivare l’abusivismo, dall’altro lato pone una presunzione relativa di difformità urbanisticoedilizia dei lavori realizzati senza titolo, accollando ragionevolmente al soggetto che ha violato la legge e versa in una condizione illecita l’onere di attivarsi prontamente, anche nelle sedi giudiziarie, affinchè sia dimostrata la natura solo formale e non sostanziale dell’illecito (TAR Campania, Napoli, III, 17/9/2010, n. 17440; idem, VI, 15/12/2010, n. 27356; Cons. Stato, IV, 7/7/2008, n. 3373).

Orbene, nel caso di specie la contestata ordinanza è sopraggiunta allorquando erano ampiamente decorsi oltre 60 giorni non solo dalla presentazione dell’istanza, ma anche dall’acquisizione dei pareri della provincia di Grosseto e della Comunità Montana, e quindi assume a presupposto il diniego di sanatoria edilizia formatosi per effetto dell’infruttuoso decorso del tempo.

Né può sostenersi che il provvedimento formatosi secondo il meccanismo del silenzio rigetto è illegittimo per difetto di motivazione, in quanto non ha senso prospettare l’obbligo di motivazione per un diniego tacito (Cons. Stato, IV, 3/3/2006, n. 1037; idem, 13/1/2010, n. 100): configurare la motivazione del provvedimento tacito significherebbe infatti incorrere in una contraddizione in termini.

E’ vero che il citato art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce che il Comune "si pronunci con adeguata motivazione", ma siffatta statuizione si riferisce alla pronuncia espressa, la quale deve essere motivata anche in caso di accoglimento dell’istanza, così da dimostrare, anche nell’interesse della collettività e degli eventuali proprietari confinanti (interessati al regolare assetto del territorio), la correttezza del provvedimento adottato.

Al contrario, il difetto di motivazione non inficia la validità della implicita, negativa determinazione dell’Ente, a fronte della quale è invece necessario che l’interessato operi una puntuale confutazione, tesa a dimostrare la compatibilità edilizia e urbanistica del manufatto abusivo, in sede di impugnazione del silenzio significativo entro il termine di decadenza, termine che peraltro nel caso di specie è ampiamente scaduto (TAR Piemonte, I, 27/11/2007, n. 3508; TAR Campania, Napoli, VI, 19/6/2007, n. 6206; Cons. Stato, V, 11/2/2003, n. 706).

In definitiva è il privato interessato, il quale ha costruito in assenza di previo titolo, che, in sede di impugnazione del silenziorigetto, deve dimostrare la conformità edilizia allegando le disposizioni che consentono la intervenuta realizzazione, con indicazione della zona in cui urbanisticamente l’intervento ricade e l’assenza di vincoli ostativi (TAR Campania, Napoli, VI, 19/6/2007, n. 6206).

La seconda doglianza è incentrata sull’omessa comunicazione di avvio del procedimento.

Il rilievo è infondato.

L’ordine di demolizione non presuppone necessariamente la comunicazione di avvio del procedimento, stante il suo carattere di atto dovuto e vincolato, basato su meri accertamenti tecnici e privo di apprezzamenti discrezionali. Invero la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente precisato che gli atti repressivi di abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata, con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario e quindi non devono necessariamente essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento (ex multis: Cons.Stato, VI, 24/9/2010, n. 7129; TAR Puglia, Lecce, III, 9/2/2011, n. 240; TAR Campania, Napoli, IV, 13/1/2011, n. 84).

Con la terza censura la ricorrente deduce che il Comune era a conoscenza degli abusi edilizi in questione almeno dal marzo 2002 (allorquando è stata presentata istanza di sanatoria edilizia), con la conseguenza che, stante il lungo tempo trascorso, l’impugnata ingiunzione avrebbe dovuto essere motivata in ordine all’interesse pubblico a ripristinare l’originario stato dei luoghi.

L’assunto non ha alcun pregio.

Da un lato occorre considerare che non vi è coincidenza piena tra opere oggetto dell’istanza di sanatoria e opere oggetto della contestata ingiunzione, la quale riguarda manufatti in gran parte diversi dalle prime o risultanti da trasformazione delle stesse, dall’altro lato non può annettersi alcun legittimo affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può di per sé legittimare (Cons.Stato, V, 11/1/2011, n.79; TAR Puglia, Lecce, III, 9/2/2011, n. 240).

Sotto altro profilo, in alcuni casi la giurisprudenza ha ritenuto sussistente l’obbligo di esternare ragioni di pubblico interesse concreto e attuale a sostegno dell’ordine di demolizione, ma solo a fronte di opere realizzate da lunghissimo tempo, come ad esempio 30 anni (TAR Abruzzo, L’Aquila, 17/9/2003, n.799) o 40 anni (TAR Lazio, Roma, II, 4/12/2009, n.12554), mentre va escluso che 7 anni intercorsi fra la conoscenza, da parte del Comune, degli abusi edilizi e la data di adozione della misura repressiva possano di per sé integrare un enorme lasso di tempo, tale da rendere necessaria una specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico giustificante l’ordine di demolire.

Alla stregua del predetto orientamento giurisprudenziale, nemmeno prendendo in considerazione il periodo di realizzazione degli abusi edilizi (risalenti all’arco temporale tra il 1993 e il 2000, come risulta dalla comunicazione ex art. 4 della legge n. 47/1985 della Polizia municipale datata 25/2/2009, costituente il documento n. 3 depositato in giudizio dal Comune) risultano sussistere le condizioni che rendono necessaria la motivazione dell’interesse pubblico alla rimessa in pristino dello stato dei luoghi.

In conclusione, il ricorso va respinto.

Le spese di giudizio, inclusi gli onorari difensivi, sono determinate in euro 3.500 (tremilacinquecento) oltre IVA e CPA, che la ricorrente dovrà corrispondere al Comune di Massa Marittima. Nulla per le spese nei confronti della Provincia di Grosseto, non essendosi la stessa costituita in giudizio.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Condanna la ricorrente a corrispondere al Comune di Massa Marittima la somma di euro 3.500 (tremilacinquecento) più IVA e CPA, a titolo di spese di giudizio comprendenti gli onorari difensivi.

Nulla per le spese nei confronti della Provincia di Grosseto.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 04-08-2011, n. 6959 Ricorso giurisdizionale

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso indicato in epigrafe, la Società ricorrente impugna, chiedendone l’annullamento, la il provvedimento del Direttore Generale per lo spettacolo dal vivo – Servizio II attività teatrali del 5.3.2010, con cui è stata rigettata l’istanza di contributo per le spese di vigilanza e sicurezza in occasione di pubblici spettacoli presentata, in qualità di gestore, per l’anno 2007 in quanto ritenuta priva della documentazione attestante l’avvenuto pagamento degli oneri predetti; chiede altresì il risarcimento del danno subito per effetto dell’illegittimo operato della PA.

Si è costituito in giudizio, per resistere il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con memoria formale.

Con ordinanza collegiale n. 3290 del 15.4.2011 sono stati disposti incombenti istruttori.

In prossimità dell’udienza per la discussione nel merito del ricorso la società ricorrente ha presentato formale atto di rinuncia, notificato alla resistente, che ha aderito anche relativamente alla richiesta di compensazione delle spese di giudizio.

Al Collegio non resta che dichiarare estinto il giudizio per rinuncia, disponendo, come da richiesta congiunta delle parti, l’integrale compensazione delle spese di giudizio, ivi compresi diritti ed onorari.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara estinto.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 14-06-2011) 19-08-2011, n. 32566 Misure cautelari

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

F.G., indagato ex art. 416 bis c.p., per avere partecipato in qualità di capo ed organizzatore del "locale" di (OMISSIS), all’associazione di stampo ‘ndranghetistico attiva nella regione Lombardia con stretti legami con la ‘ndrangheta calabrese e finalizzata alla commissione di una serie di delitti contro l’incolumità personale, delitti concernenti armi, traffico di stupefacenti, estorsione, usura, riciclaggio ed altro, nonchè del reato di cui al capo 49 (L. n. 49 del 1974, artt. 10, 12 e 14, – detenzione e porto di pistola) ricorre avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Milano in data 12 agosto 2010 con la quale è stato confermata l’ordinanza del Gip di Milano in data 5 luglio 2010 che ha imposto la custodia cautelare in carcere.

Deduce violazione di legge e carenza della motivazione in ordine alla ritenuta gravità indiziaria della partecipazione all’associazione mafiosa rilevando che l’adesione al clan non ha "in alcun modo conferito un qualsivoglia apporto causale alla struttura associativa", non essendo state individuate "specifiche condotte finalizzate ad agevolare il sodalizio". Ciò in quanto non è stato presente "in loco", essendo stata la sua adesione meramente formale senza avere parte attiva alle attività del sodalizio. Contesta gli accertamenti indiziar provenienti da voci di altri adepti che si lamentano della posizione assunta dall’indagato all’interno dell’associazione.

Deduce gli stessi vizi di legge con riferimento al delitto di detenzione e porto di armi che non può essere desunto da conversazioni di terze persone non ancorate a dati obiettivi.

I motivi di gravame sono manifestamente infondati risolvendosi in una assertiva e negativa valutazione di insufficienza indiziaria a fronte di un non illogico giudizio di gravità degli indizi accertasti dal giudice di merito. Nel giudizio di cassazione deve essere accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito nel rispetto delle norme processuali e sostanziali. Ai sensi del disposto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è manifestamente carente di motivazione o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti operata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass. SU. 19.6.96, De Francesco). Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv.

207944, Dessimone). Va poi ribadito che l’interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni telefoniche costituisce una questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se tale valutazione è motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza (Cass. 5^ 3.12.97 n. 5487, ud. 28.1.98, rv. 209566; Cass. 6^ 12.12.95 n. 5301, ud. 4.6.96, rv. 205651). In conclusione il controllo di legittimità sui punti devoluti rimane circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: 1) – l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;

2) – l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Cass. 6^ 25.5.95 n. 2146, depositata 16.6.95, rv. 201840).

Nel caso concreto il tribunale ha accertato sussistere gravi indizi di responsabilità a carico dell’indagato, il cui ruolo all’interno della struttura criminosa è emerso dal grado assunto dall’indagato all’interno della associazione (ha la dote di crociata); dai rapporti concreti con Novella (capo per la Lombardia fino al suo omicidio), con L. (mastro generale per la (OMISSIS)), con P. (capo in (OMISSIS)), con M. (capo di (OMISSIS) che lo indica specificatamente fare parte della famiglia), con Ma. (capo del locale di (OMISSIS)), con S.G. (uomo di fiducia di B.C. capo del locale di (OMISSIS)); dalla frequentazione dei vari summit elencati nell’ordinanza impugnata. Sono elementi fattuali che lungi dal delineare una mera adesione senza apporti causali, dimostrano l’adesione al progetto criminale e l’effettiva partecipazione alle finalità criminali del clan. Anche il secondo motivo di ricorso si sostanzia in assertive censure di fatto dal momento che il giudice di merito ha accertato 70 episodi intimidatori con armi posti in essere da adepti della struttura criminale.

L’impugnazione è pertanto inammissibile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000.

Inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94, comma 1 bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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