T.A.R. Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, Sent., 13-10-2011, n. 435Contratto di appalto

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – La ricorrente T. spa impugna il bando di gara (e atti connessi) per l’affidamento della concessione in gestione di strutture ed impianti destinati al servizio di distribuzione carburanti, nonché di ristoro e attività accessorie delle aree di servizio Fratta Nord – Gonars Sud della tratta Autostradale A4 Venezia Trieste (lotto 7).

Col presente ricorso l’istante contesta due punti della lex specialis: il divieto di aggiudicazione di più di due lotti a ciascun partecipante e l’affidamento congiunto dei servizi oil/non oil.

Questi i motivi di ricorso:

1) carenza di pubblico interesse, falsa applicazione dell’art. 2 del D.Lg. 163/06; violazione di principi di concorrenza, trasparenza, par condicio ed economicità; violazione egli artt. 11 e 83 del D.Lg. 163; illogicità e contraddittorietà;

2) violazione di principi di libera concorrenza, trasparenza e non discriminazione di cui all’art. 2 del D.Lg. 163.

2. – A.V. spa, costituita, puntualmente controdeduce nel merito del ricorso, concludendo per la sua reiezione.

In limine, ne eccepisce l’inammissibilità per carenza di legittimazione, non avendo l’interessata provveduto a presentare domanda di partecipazione alla gara, di cui contesta clausole non preclusive alla partecipazione stessa; nonché per omessa impugnazione dell’ all.G alla Convenzione Unica A. – A. del 2007, che fissava la scadenza di tutte le subconcessioni al 31.12.08.

3. – Anche A. è presente in giudizio, sia pure col solo foglio di costituzione.

4. – Sia T. che A. hanno dimesso ampie memorie di precisazione, con cui ampliano e puntualizzano le già rassegnate conclusioni.

5. – Il ricorso è inammissibile.

La giurisprudenza è fermissima nell’affermare l’inammissibilità – per carenza di legittimazione e/o di interesse – del ricorso volto all’impugnazione degli atti di indizione di una gara da parte di un soggetto che non vi abbia partecipato. Infatti, la domanda giudiziale volta alla caducazione degli atti di una procedura concorsuale di cui si contesti la legittimità presuppone che il ricorrente "qualifichi e differenzi il proprio interesse in termini di attualità e concretezza, rispetto a quello della generalità dei consociati mediante la proposizione di una domanda di partecipazione alla gara o la formulazione della propria offerta; tanto comporta che l’interesse tutelato non può essere quello generico al rifacimento della gara, proprio di tutte le imprese rimaste estranee al procedimento, bensì quello specifico ad una partecipazione finalizzata all’ottenimento dell’aggiudicazione, cui possono aspirare soltanto i partecipanti alla gara medesima, anche attraverso l’eliminazione di clausole eventualmente lesive". Così, puntualmente, C.S. n. 102/09. Si vedano, inoltre, da ultimo: C.S. A.P. 4/11; id., n. 2033/11 e 4481/10; TAR Sicilia – Catania n. 2006/11 e Palermo n. 1003/11; TAR Lazio n. 38955/10).

5.1. – E’ ben vero che la giurisprudenza ha talora ammesso la possibilità di proporre ricorso anche in assenza di domanda di partecipazione; ma nessuna delle situazioni esaminate dal Giudice Amministrativo si attaglia al caso di specie.

Infatti, si è ritenuto ammissibile il ricorso anche in assenza di domanda di partecipazione (al di là del caso della posizione legittimante derivante dall’esistenza di precedenti rapporti con l’Amministrazione, contrastanti con la possibilità stessa di indire la gara, che qui non rileva) nel caso in cui il bando contenga clausole o disposizioni che non consentono la partecipazione alla gara, nel senso che se le imprese suddette avessero partecipato alla gara, sarebbero state sicuramente escluse. Nel caso di specie ciò non è, in quanto le clausole del bando non sono impeditive della partecipazione e le censure si appuntano non su detta impossibilità, ma su altri elementi, in parte inerenti al merito delle scelte compiute dalla stazione appaltante (quale l’opportunità di accorpare in un’unica gara i servizi oil e non oil), in parte concernenti le modalità di svolgimento della gara stessa, in parte riferite alla difficoltà (ma non certo impossibilità) pratica di trovare adeguati partners per costituire un’ATI e presentare offerta.

In definitiva, l’impugnazione del bando indipendentemente dalla domanda di partecipazione (o, come nel presente caso, di presentazione dell’offerta) è consentita, "ricollegandosi l’onere di impugnazione ad una lesione immediata, diretta ed attuale e non solo potenziale dell’atto, solo allorquando il bando contenga clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione", ovvero "qualora la lex specialis contenga clausole discriminatorie e, comunque, ostative alla partecipazione alla selezione, tali che la presentazione della relativa domanda si risolverebbe in un adempimento formale, inevitabilmente seguito da un atto di esclusione" (TAR Lazio n. 3723/11; si vedano, ancora, sul principio, TAR Veneto n. 691/11 e TAR Lombardia – Milano n. 993/11).

Allo stesso modo la giurisprudenza ammette la possibilità di impugnazione del bando a prescindere dalla domanda di partecipazione allorquando lo stesso presenti "oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara", che comportino comunque l’impossibilità, per l’interessato, di accedere alla procedura (C.S. A.P. n. 1/03)

E’ stato ancora precisato (TAR Campania – Napoli n. 1669/11) che "anche ai fini dell’interesse strumentale alla riedizione di una rinnovata procedura di gara, che è quello che (come nel presente caso) sembra muovere l’odierna ricorrente, l’onere di previa presentazione della domanda di partecipazione è da ritenere comunque sussistente, per la funzione "qualificante" che tale domanda svolge nei confronti della società interessata, facendole dismettere i panni del quisque de populo per acquisire quelli di soggetto concretamente inciso dalle prescrizioni del bando". La pronuncia da ultimo citata precisa, condivisibilmente, che l’onere di presentazione della domanda "è determinato dall’esigenza che l’interesse del soggetto ricorrente risulti munito dei necessari requisiti di differenziazione, concretezza e personalità, mediante l’individuazione, nell’ambito indistinto dei soggetti potenzialmente interessati a concorrere all’aggiudicazione di un appalto pubblico (ambito astrattamente coincidente con tutte le imprese operanti nel settore cui quest’ultimo, in relazione al suo oggetto specifico, si riferisce), di quelle posizioni di interesse correlate alla procedura di aggiudicazione da un nesso tangibile e concreto, nesso che la presentazione dell’istanza di partecipazione è appunto destinata a fare emergere, mediante il conferimento in capo al soggetto offerente dello status di partecipante alla gara".

5.2. – Né può rilevare (come ritiene la ricorrente) la circostanza che il termine per la presentazione delle offerte è ancora in corso, essendo stato prorogato al 31.12.11. Infatti, l’interesse all’impugnazione deve bensì sussistere al momento della domanda, ma anche perdurare sino a quello della decisione. Se la ricorrente ha scelto di spedire a sentenza il ricorso prima di presentare la propria offerta, pur essendo ancora in termini, ne sopporterà le inevitabili conseguenze.

Poiché, quindi, la ricorrente non ha presentato alcuna offerta e le clausole del bando non sono escludenti, né discriminatorie, né impongono requisiti impossibili da adempiere, il ricorso va dichiarato inammissibile per carenza di legittimazione e di un interesse giuridicamente apprezzabile.

6. – Sussistono peraltro le ragioni di legge per disporre la totale compensazione, tra le parti, delle spese e competenze di causa.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli – Venezia Giulia, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo dichiara inammissibile, nei termini di cui in motivazione.

Compensa le spese e competenze del giudizio tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 22-06-2011) 06-10-2011, n. 36333 Interesse ad impugnare

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza in data 3 gennaio 2011 il Tribunale del riesame di Bologna ha rigettato l’appello proposto da L.G.C. avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini, reiettiva della sua istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con altra meno afflittiva.

Il L., indagato per il delitto di associazione per delinquere finalizzata a procurare l’immigrazione clandestina, aveva motivato la propria istanza in base al presofferto cautelare, all’assenza di precedenti penali e al ridimensionamento del suo ruolo nel contesto associativo. Il Tribunale ha motivato il rigetto richiamandosi alla presunzione di idoneità della sola misura carceraria, di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3.

Ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, per il tramite del difensore, affidandolo a un solo motivo. Con esso rileva che la contestazione del reato si arresta cronologicamente al marzo 2009, dunque in data anteriore alla modifica legislativa che ha introdotto la presunzione applicata dal Tribunale: la quale, sostiene, non è suscettibile di applicazione retroattiva.

All’odierna udienza il difensore del ricorrente, in esecuzione della delega contestualmente prodotta, ha manifestato la volontà del L. di rinunciare al ricorso, avendo frattanto ottenuto la scarcerazione.

Osserva la Corte che l’intervenuta cessazione della misura cautelare a suo tempo disposta nei confronti del L. ha dato evidentemente luogo a una perdita d’interesse dell’indagato verso la cassazione del provvedimento impugnato: donde la rinuncia al gravame, ritualmente formulata dal difensore nei modi dianzi descritti.

Nella situazione così creatasi, l’inammissibilità del ricorso – di cui s’impone la declaratoria ex art. 591 c.p.p. – non può comportare condanna al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria di cui all’art. 616 c.p.p.; sarebbe infatti irragionevole ed iniquo far gravare sul ricorrente le conseguenze di una circostanza sopravvenuta, cui egli non ha dato causa (v. per tutte Cass. 17 maggio 2006 n. 30669).

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza d’interesse.

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-04-2012, n. 5711 Sospensione del rapporto di lavoro

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Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Napoli B.N. allegava di prestare la propria attività lavorativa come lettrice madrelingua presso l’Università di Napoli e di essere stata assunta D.P.R. n. 382 del 1980, ex art. 28, con contratto a tempo determinato per diversi anni; che con accertamento giudiziale i termini annuali erano stati ritenuti illegittimi ed era stata accertata la sussistenza fra l’Università e la ricorrente di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla stipula del primo contratto; che l’Università aveva sospeso il rapporto dal 16.7.1999 al 31.1.2000 ritenendo che il rapporto fosse da considerarsi a tempo indeterminato ma con un part-time verticale, sospensione che era stata impugnata con ricorso dalla B. nel quale si chiedeva la corresponsione delle retribuzioni, ricorso rigettato in primo grado, ma accolto con sentenza della Corte di appello di Napoli del 18 febbraio 2002, che l’Università aveva per le medesime ragioni sospeso il rapporto di lavoro anche per gli anni 2000 e 2001, sospensione da giudicarsi analogamente illegittima. Pertanto chiedeva il pagamento delle retribuzioni non corrisposte per questi ultimi due anni.

L’Università si costituiva contestando la fondatezza della domanda;

il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda concernente la dichiarazione di illegittimità delle disposte sospensioni del rapporto, ma rigettava quella relativa alla condanna alle retribuzioni. Nelle more del giudizio la Corte di Cassazione respingeva il ricorso proposto dall’Università avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli e concernente la prima sospensione del rapporto. Sull’appello della B. la Corte di appello di Napoli con sentenza del 29.9.2009, in parziale riforma della impugnata sentenza, condannava l’Università al pagamento delle retribuzioni cosi come quantificate in sentenza. La Corte territoriale rilevava che alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione il rapporto doveva considerarsi a tempo indeterminato sin dal primo contratto e che la stessa Corte di cassazione aveva ritenuto insussistente la dedotta clausola di lavoro part-time verticale. Non appariva rilevante l’assenza di una messa in mora da parte della lavatrice in quanto con la sospensione unilaterale del rapporto fuori dai casi di legge il datore di lavoro aveva rifiutato le prestazioni e quindi si era assunto il rischio delle conseguenze del mancato svolgimento dell’attività lavorativa.

Per la cassazione di detta sentenza propone ricorso l’Università degli studi di Napoli con un motivo; resiste parte intimata con controricorso che ha depositato anche memoria difensiva.

Motivi della decisione

Con il motivo proposto si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 2094 e 2909 c.c.; nonchè l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. La ricorrente aveva rifiutato di stipulare un nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato dopo la prima sentenza del Tribunale di Napoli. La sospensione era stata determinata in base alla legittima convinzione che il rapporto fosse di part-time verticale; l’accertamento di un rapporto di lavoro a tempo pieno era avvenuto solo nel 2003, dopo i provvedimenti di sospensione impugnati. Anche ammettendo l’illegittimità delle dette sospensioni queste erano state disposte alla luce degli accordi contrattuali all’epoca vigenti per cui le prestazioni si dovevano svolgere solo in una parte dell’anno. Inoltre secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione in caso di conversione di plurimi contratti a termine in un unico rapporto a tempo indeterminato non sussiste il diritto del lavoratore alla retribuzione per gli intervalli non lavorati, essendo mancata la prestazione. Non era stata offerta la prestazione con messa in mora dell’Università.

Il ricorso è infondato. Nel presente giudizio non può più discutersi del carattere a tempo indeterminato del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, ma si controverte solo della legittimità delle sospensioni dello stesso dal 16 luglio del 2000 al 31 luglio del 2001 e dal 16 luglio del 2001 al 31 gennaio del 2002, sulla base della dedotta convinzione, da parte dell’Università, che si trattasse di un part-time verticale. Il comportamento dell’Università e la stessa prospettazione della sua difesa parte in realtà dal presupposto per cui il rapporto, come da accertamento passato in cosa giudicata, debba essere considerato come a tempo indeterminato. L’Università deduce che si erano deliberate le sospensioni in relazione al legittimo convincimento che si trattasse di un rapporto a tempo indeterminato, ma con clausola di part-time verticale, tesi tuttavia esclusa con sentenza passata in cosa giudicata in relazione alla sospensione dal 16 luglio 1999 al 31 gennaio 2000, come da sentenza di questa Corte n. 5588/2004. Non può quindi dubitarsi che la convinzione allegata dalla parte ricorrente fosse del tutto infondata e che, quindi, la sospensione del rapporto fosse illegittima e fondata su erronee convinzioni. Nè appare in alcun modo pertinente il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte in materia di intervalli non lavorati tra plurimi contratti a termine poi dichiarati nulli e convertiti in un unico rapporto a tempo indeterminato ed in ordine alla necessità di una messa in mora del lavoratore (cfr. Cass. n. 7524/2009) perchè nella presente controversia non si discute degli effetti sul piano risarcitorio e retributivo di un provvedimento giudiziale di conversione, ma sulla legittimità del comportamento datoriale che, pur assumendo l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato (che si ripete è il presupposto dei contestati provvedimenti di sospensione dal 1999 al 2002), sospenda il rapporto per un certo periodo allegando un’inesistente clausola di part-time verticale, mai sottoscritta dalle parti nè desumibile dal concreto atteggiarsi del rapporto come stabilito già da questa Corte per il primo periodo di sospensione (Cass. n. 5588/2004). La situazione del presente giudizio è assolutamente diversa (sul punto cfr. Cass. ordinanza n. 21371/2010 in una fattispecie simile) e, trattandosi di un rapporto pacificamente a tempo indeterminato, una sospensione di questo con conseguente cessazione temporanea dell’obbligo contributivo, poteva avvenire solo nei casi consentiti dalla legge e certamente non sulla base di convinzioni del datore di lavoro già escluse da accertamenti passati in cosa giudicata. Per le medesime ragioni non occorreva alcun atto di messa in mora del lavoratore perchè il rapporto in atto era a tempo indeterminato a tempo pieno e quindi certamente non poteva essere unilateralmente sospeso dal datore di lavoro, come correttamente deciso dalla Corte di appello che ha parlato di "situazione di permanenza giuridica del rapporto di lavoro, privo tuttavia di funzionalità di fatto per iniziativa del datore di lavoro".

Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che si liquidano in Euro 50,00, per esborsi, nonchè in Euro 3.000,00 per onorari di avvocato da distrarsi in favore dell’avv.to Gaetano Lepore, antistatario.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 16-05-2012, n. 7669

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 67/9/10, depositata il 12.4.2010 la Commissione Tributaria Regionale della Puglia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso del contribuente contro il diniego del rimborso Iva di Euro 4.921,83, relativo all’anno di imposta 2001.

Rilevava al riguardo la Commissione Tributaria Regionale, confermando quanto affermato già nella sentenza di primo grado, che l’omessa compilazione e allegazione del modello VR nell’apposita dichiarazione non era condizione indispensabile per attestare la volontà di richiedere il rimborso l’eccedenza Iva, ma costituiva una mera irregolarità, essendo l’Amministrazione finanziaria a conoscenza della richiesta in quanto manifestata nel quadro R) della dichiarazione presentata, ritenendo domanda nuova, perchè formulata per la prima volta in appello l’eccezione dell’ufficio in ordine all’avvenuta decadenza dal diritto al rimborso per tardività nella proposizione della relativa istanza.

L’Agenzia delle Entrate impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:

a) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, art. 2696 c.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere erroneamente la commissione regionale dichiarato inammissibile l’eccezione di decadenza del contribuente dal diritto rimborso, trattandosi di questione rilevabile anche d’ufficio;

b) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 30 e 38 bis in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dovendo utilizzare il contribuente, ai fini della richiesta di rimborso, l’apposita dichiarazione redatta su modello approvato con decreto dirigenziale contenente dati che hanno determinato l’eccedenza di credito (modello VR).

La società intimata non si è costituita nel giudizio di legittimità.

Il ricorso è stato discusso alle pubblica udienza del 21 marzo 2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

Ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, comma 1, all’epoca vigente il contribuente, in alternativa al riporto nell’anno successivo, può chiedere in tutto o in parte il rimborso dell’eccedenza detraibile, se di importo superiore a lire cinque milioni, all’atto della presentazione della dichiarazione: il penultimo comma del citato art. 30 prevede che "con decreto del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale saranno stabiliti gli elementi, da indicare nella dichiarazione o in apposito allegato, che, in relazione all’attività esercitata, hanno determinato il verificarsi dell’eccedenza di cui si chiede il rimborso". e La indicazione della somma richiesta a rimborso nel quadro r) della dichiarazione dei redditi costituisce tuttavia soltanto il presupposto dell’istanza di rimborso, la quale invero è disciplinata unitariamente dal cit. D.P.R., art. 30, comma 5, a mezzo del rinvio agli elementi da indicare in dichiarazione e in apposito allegato. In conformità allo disposizioni integrative di cui alla richiamata decretazione ministeriale (nella specie, il D.M. 30 dicembre 1999, art. 1, all. 4, in vigore dall’8 gennaio 2000, il cui testo, peraltro, risulta esattamente riprodotto anche per gli anni successivi); gli elementi che in relazione all’attività esercitata hanno determinato il verificarsi dell’eccedenza di cui si richiede il rimborso.

Questa Corte ha già affermato che "in materia di Iva, e in relazione alla fattispecie di rimborso derivante da cessazione di attività, soltanto una domanda di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile sostanzialmente conforme al modello legale – contenente, cioè, gli elementi necessari, stabiliti dalla legge e/o indicati nel "modello ministeriale", per la decisione su di essa – rientra nello schema tipico di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 18920 del 16/09/2011).

Deve, al riguardo, ritenersi che soltanto una domanda di rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile sostanzialmente conforme al modello legale contenente, cioè, gli elementi necessari, stabiliti dalla legge e/o indicati nel "modello ministeriale", per la decisione su di essa – rientra nello schema tipico di cui al ridetto art. 30, sì da poter essere considerata – come in generale affermato da Cass. n. 9794/2010 – "regolata" dall’art. 30 medesimo.

L’utilizzazione del citato modello risponde alla ratio di rendere più tempestive e meno onerose le successive verifiche dell’amministrazione finanziaria in ordine agli elementi che hanno determinato l’eccedenza.

Invece la presentazione di una domanda di rimborso sostanzialmente difforme dal modello stesso, non integrando la predetta idoneità, comporta la incompletezza della domanda, intesa come mancata conformità al modello legale quale prefigurato dalla citata fonte legislativa e da quella secondaria (ratione temporis, il D.M. 30 dicembre 1999).

Tale adempimento costituisce un vero e proprio onere a carico del soggetto Iva, con la conseguenza che una domanda di rimborso formulata in modo sostanzialmente difforme dal predetto modello legale, e cioè carente degli elementi che – alla stregua delle suddette fonti normative – debbono costituirne il contenuto necessario, non è idonea – quale che sia la condizione legittimante l’istanza- a integrare un valido atto di esercizio del corrispondente diritto, così esulando dall’ambito di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30.

La sentenza impugnata ha invece basato la propria ratio decidendi sulla surrogabilità della succitata procedura formale con la richiesta di rimborso contenuta nel quadro r) della dichiarazione presentata, essendo, invece necessaria, come già evidenziato, una seconda manifestazione di volontà attraverso la presentazione del modello VR, la cui mancanza comporta l’impossibilità di qualificare la pretesa del contribuente quale richiesta di rimborso, non rientrante tra quelle direttamente disciplinate dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30.

Le ulteriori questioni rimangono assorbite.

Va, quindi cassata la sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere da questa Corte decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto dell’originario ricorso proposto dalla Delter.

La particolarità della questione, oggetto in precedenza di contrastanti orientamenti giurisprudenzaili, costituisce giusto motivo per la compensazione delle spese dei gradi di giudizio di merito, condannando la resistente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa senza rinvio l’impugnata sentenza e rigetta il ricorso originario ex art. 384 c.p.c., comma 2.

Compensa le spese dei gradi di giudizio di merito e condanna la società intimata al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.100,00 per onorari, oltre alle spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.