Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-10-2011) 25-11-2011, n. 43708 Sicurezza pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 18 settembre 2009 la Corte d’appello di Firenze ha dichiarato inammissibile per aspecificità di motivi l’appello proposto da F.G. avverso la sentenza del Tribunale di Prato in data 21 novembre 2006, di sua condanna alla pena di giorni 20 di arresto per il reato di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 2 (era stato rinvenuto in (OMISSIS), pur raggiunto dal foglio di via obbligatorio emesso dal Questore di Prato, che gli aveva ingiunto di non far ritorno a (OMISSIS) per un periodo di anni tre).

2. Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione F. G. per il tramite del suo difensore, che ha dedotto motivazione erronea, in quanto dal contesto dell’appello da lui proposto, era evidente che egli aveva inteso fare riferimento all’ordinanza emessa nei suoi confronti dal Questore di Prato in data 14 giugno 2005, indicata nel capo d’imputazione, si che il suo atto di appello era da ritenere adeguatamente motivato.

Motivi della decisione

1. In ordine al ricorso, non manifestamente infondato, proposto da F.G. avverso la sentenza emessa nei suoi confronti dalla Corte di Appello di Firenze in data 18 settembre 2009, va rilevato che il reato a lui contestato (L. n. 1423 del 1956, art. 2:

contravvenzione al foglio di via obbligatorio) è di natura contravvenzionale ed è stato accertato in data (OMISSIS), si che, per esso, è ormai trascorso il termine prescrizionale, fissato in anni 3 per i reati per i quali è prevista la pena dell’arresto dall’art. 157, comma 1, nella versione anteriore alla modifica introdotta con L. 5 dicembre 2005, n. 251, applicabile siccome norma più favorevole al ricorrente. Detto termine, ai sensi dell’art. 160 c.p. comma 3, nella versione anteriore alla citata L. n. 251 del 2005, applicabile per lo stesso motivo al ricorrente anzidetto, non può essere prolungato, nel massimo, oltre gli anni 4 e mesi 6, si che, alla data odierna, il reato indicato in rubrica è da ritenere prescritto.

2. Ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. a), è dato pertanto procedere all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, essendo il reato ascritto al ricorrente estinto per intervenuta prescrizione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10-12-2012) 14-02-2013, n. 7389

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza dell’11 settembre 2012 il Tribunale di Milano ha rigettato l’appello proposto ex art. 310 c.p.p. da K.L. avverso l’ordinanza emessa dalla Corte d’appello di Milano in data 17 luglio 2012, con la quale veniva rigettata l’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari.

2. Osservava al riguardo il Tribunale di Milano: a) che K. L. era stato arrestato in flagrante detenzione di gr. 200 di sostanza stupefacente del tipo cocaina il 21 gennaio 2012, in concorso con D.E.; b) che, tratto a giudizio direttissimo, vedeva convalidato l’arresto ed applicata la misura della custodia cautelare in carcere; c) che accedeva, pertanto, al giudizio abbreviato, concluso con sentenza del Tribunale di Milano in data 31 gennaio 2012, la quale ne affermava la penale responsabilità, condannandolo alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro 18.000,00 di multa; d) che con sentenza del 17 luglio 2012 la Corte d’appello di Milano confermava la decisione di primo grado, rigettando l’istanza, presentata nell’udienza di discussione, di modifica della misura in atto con quella degli arresti domiciliari.

3. Avverso la predetta ordinanza del Tribunale di Milano ha proposto ricorso per cassazione il difensore di K.L., deducendo i seguenti motivi di doglianza:

a) mancanza della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), nella parte in cui il Tribunale avrebbe omesso di considerare sia la presenza di elementi concreti circa la persistenza della pericolosità sociale, sia le argomentazioni difensive in ordine allo stato di salute e alle condizioni mediche dell’imputato;

b) contraddittorietà della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), nella parte in cui non ha citato elementi concreti a sostegno della ritenuta pericolosità sociale dell’indagato, ritenendo altresì inadeguata la disponibilità di un’idonea abitazione offerta dalla convivente, nonostante la documentazione al riguardo prodotta;

inoltre, l’impugnata ordinanza non avrebbe preso in considerazione i nuovi elementi posti alla base della richiesta – ossia, il lungo periodo di custodia cautelare presofferto e le gravi esigenze di salute dell’indagato – che dimostrerebbero l’idoneità dell’applicazione della diversa misura degli arresti domiciliari.
Motivi della decisione

4. Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.

5. Il Giudice dell’appello cautelare, avuto riguardo anche all’intervenuta pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello, ha dato conto, in maniera logica ed adeguata, delle ragioni che giustificano l’epilogo del relativo percorso decisorio.

E’ noto che la pronuncia di una sentenza di condanna in grado di appello ad una pena non sospesa o non suscettibile di sospensione costituisce un elemento di valutazione già di per sè idoneo a rafforzare le esigenze cautelari poste alla base del provvedimento applicativo della custodia cautelare in carcere (Sez. 3^, n. 8146 del 25/01/2012, dep. 02/03/2012, Rv. 252754). Entro tale prospettiva, l’impugnata ordinanza ha fatto buon governo del quadro dei principii che regolano la materia, offrendo piena risposta alle obiezioni difensive – peraltro solo genericamente formulate – e ponendo in evidenza, con lineare sviluppo argomentativo, le ragioni del pericolo di reiterazione delle gravi condotte oggetto di addebito cautelare, nel caso di specie desunte non solo dalla particolare gravità del fatto di reato commesso dal ricorrente (traffico di consistente quantitativo di sostanza stupefacente del tipo cocaina, con un buon grado di purezza ed elevato valore commerciale), ma anche dalla presenza di specifici precedenti penali a carico, dal tentativo di fuga all’atto del controllo e dalle condizioni personali di soggetto irregolarmente presente in Italia, aduso a fare ricorso a diverse generalità, privo di lecita occupazione e di uno stabile radicamento territoriale, le cui pregresse esperienze giudiziarie nessuna efficacia dissuasiva risultano avere in concreto determinato.

Parimenti congrua deve altresì ritenersi, nell’iter motivazionale dell’impugnato provvedimento, la giustificazione dal Tribunale offerta riguardo alla esclusione di profili di incompatibilità delle condizioni cliniche del ricorrente con la detenzione di tipo carcerario, in quanto supportata da una compiuta disamina delle risultanze della documentazione sanitaria inviata dall’Istituto penitenziario.

6. A fronte di tale completo apprezzamento delle emergenze processuali, esposto attraverso un insieme di sequenze motivazionali chiare e prive di vizi logici, il ricorrente non ha individuato passaggi o punti della decisione tali da inficiare la complessiva tenuta del discorso argomentativo delineato dai Tribunale, nè ha soddisfatto l’esigenza di una critica puntuale e ragionata che deve informare l’atto di impugnazione, ma ha sostanzialmente contrapposto una lettura alternativa di quelle emergenze, facendo leva sull’apprezzamento di profili di merito già puntualmente vagliati, in sede cautelare ovvero nel giudizio celebrato dinanzi alla Corte d’appello, ed il cui esame, evidentemente, non è sottoponibile al tipo di sindacato che questa Suprema Corte è chiamata ad esercitare.

7. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo quantificare nella misura di Euro mille. La Cancelleria provvedere all’espletamento degli incombenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 02-08-2012, n. 13904

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Svolgimento del processo
Il signor C.C. citò in giudizio, davanti al Tribunale di Pesaro, la signora C.F., e chiese che fosse accertato l’inadempimento della convenuta all’obbligo contrattualmente assunto, e discendente dall’art. 8 dello statuto della Franca finanziaria di C. C.i & C. s.a.s. – del quale le parti detengono l’intero capitale sociale, l’attore quale accomandatario con la quota del sessanta per cento, e la convenuta quale accomandante con la quota del quaranta per cento – di deliberare in qualsiasi momento e a richiesta di qualsiasi socio la trasformazione della s.a.s. in società a responsabilità limitata; e che fosse emessa una sentenza che tenesse luogo della deliberazione non assunta. La convenuta resistette alla domanda. Il tribunale adito qualificò la clausola dello statuto come patto parasociale, respinse la domanda attrice in ragione della natura obbligatoria e non reale di essa, e respinse altresì quella di accertamento dell’inadempimento per difetto d’interesse.
La Corte d’appello di Ancona, con sentenza 20 settembre 2010, ha respinto l’appello dell’attore. La corte ha ritenuto che la clausola dovesse soggiacere alla disciplina propria dei patti parasociali, la cui natura meramente obbligatoria è imposta dall’impedimento che essi comportano per il socio stipulante di determinarsi autonomamente in assemblea, e dallo svilimento dell’organo assembleare che ne consegue. La necessaria pienezza dell’autodeterminazione del socio è salvaguardata dall’efficacia meramente obbligatoria, che confina le conseguenze dell’inadempimento del patto ai rapporti interni tra gli stipulanti, senza coinvolgere la società, con esclusione pertanto della coercibilità in forma specifica e l’ammissibilità della sola sanzione risarcitoria. Questa disciplina, prosegue la sentenza di appello, non discende dalla diversità del piano in cui si pone l’accordo parasociale rispetto a quello sociale, e, comunque si ricostruisca la fattispecie genetica, la preclusione opera sul piano della tutela, essendo l’eventuale resipiscenza del socio riguardo alla convenienza sociale degli impegni assunti incompatibile con il rimedio dell’esecuzione in forma specifica. Quanto poi al terzo motivo di appello, con il quale si censurava l’affermazione dell’inammissibilità della domanda di accertamento dell’inadempimento della convenuta anche in vista dell’interesse dell’appellante all’adempimento, la corte ha osservato che non è configurabile un accertamento incidentale rispetto a una materia che inerisce al fatto costitutivo del diritto dell’attore.
Per la cassazione di questa sentenza non notificata, ricorre il signor C.C. con atto notificato il 10 febbraio 2011, per tre motivi, illustrati anche con memoria.
La signora C.F. ha depositato controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si censura per violazione dell’art. 2932 c.c. e falsa applicazione dell’art. 2341 bis c.c. l’impugnata sentenza, che ha qualificato la clausola contenuta nell’art. 8 dello statuto della s.a.s. come patto parasociale, ha richiamato il disfavore dell’ordinamento per le obbligazioni a tempo indeterminato e la necessità che sia garantita l’autodeterminazione del socio, per concludere che i patti parasociali, anche se contenuti nello statuto sociale, avrebbero efficacia meramente obbligatoria, incompatibile con l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. Si deduce che:
– l’art. 8 dello statuto era stato modificato con atto pubblico intervenuto tra i due soci, che rappresentavano l’intero capitale sociale;
– nelle società di persone non v’è l’interposizione della struttura organizzativa societaria;
– il cosiddetto statuto sociale è qualificabile piuttosto come un patto sociale, che meglio evidenzia nominalmente la diversità tra la struttura corporativa delle società di capitale rispetto a quella contrattuale della società di persone;
– indipendentemente dalle espressioni utilizzate dalle parti nell’art. 8 dei patti sociali, si deve parlare di consenso, e non di voto o di delibera, perchè il metodo collegiale è escluso laddove i partecipanti operano uti singuli e non uti soci, in un rapporto contrattuale del quale essi sono i diretti titolari;
– in tale situazione non sussiste quella terzietà soggettiva che impedirebbe alla sentenza pronunciata ex art. 2932 c.c. di trovare applicazione, tenuto conto della giurisprudenza, che ha ripetutamente affermato l’applicabilità della citata disposizione in tutti i casi di violazione di obblighi a contrarre che trovino fondamento nella legge o in un titolo negoziale anche diverso dal contratto preliminare;
– l’esponente non aveva rivendicato il mero adempimento dell’obbligazione a deliberare, come supposto dalla corte territoriale che aveva pertanto erroneamente assimilato il caso in esame a quello di un sindacato di voto, ma l’emanazione di una sentenza costitutiva che producesse gli stessi effetti del contratto concluso, cioè la trasformazione della società in accomandita semplice in società a responsabilità limitata.
Con il secondo motivo si censura la falsa applicazione dell’art. 2341 bis c.c.. Si sostiene che la natura e il contenuto dell’accordo contenuto nell’atto pubblico di modifica dell’art. 8 dello statuto della Franca finanziaria di C. C.i & C. s.a.s. non erano in alcun modo riconducibili a un sindacato di voto, nè a un patto parasociale, che si porrebbe a latere rispetto alle norme societarie vincolando soltanto i soci sottoscrittori, con efficacia per ciò stesso esclusivamente obbligatoria, ma un patto sociale stipulato dagli unici due soci della società in accomandita semplice, al quale la convenuta si era resa inadempiente.
I due motivi vertono sul punto comune della qualificazione del patto invocato a fondamento della domanda, e della sua efficacia reale.
Essi possono essere esaminati insieme.
Con riferimento alla qualificazione del patto per cui è causa, contenuto nell’art. 8 dello statuto della Franca finanziaria di C. C.i & C. s.a.s., modificato con atto pubblico intervenuto tra i due soci inserito, le censure del ricorrente sono in parte fondate, ancorchè, come meglio si dirà in seguito, ciò non giustifichi la cassazione dell’impugnata sentenza, richiedendo soltanto una correzione della motivazione in punto di diritto, a norma dell’art. 384 c.p.c., u.c..
E’ da premettere che il contratto di società, pur essendo un contratto con comunione di scopo in relazione all’attività da svolgere in comune, è idoneo a far sorgere in capo ai soggetti che vi prendono parte reciproche obbligazioni, il cui inadempimento genera responsabilità. E’ inoltre indubbio che tali clausole obbligatorie possano essere contenute – come nel caso qui esaminato – nello statuto, che è parte integrante del contratto. Si deve poi ricordare che la validità del preliminare de ineunda societate è riconosciuta da una giurisprudenza risalente e consolidata che, con riferimento al caso della costituzione di società di persone, ha avuto altresì occasione di affermare l’ammissibilità dell’esecuzione in forma specifica, se ciò sia possibile e non sia escluso dal titolo (Cass. 3 gennaio 1970 n. 8). La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha riconosciuto la validità del preliminare anche per la costituzione di una società di capitale (Cass. 2 agosto 1950 n. 2310, 5 ottobre 1953 n. 3177, 11 aprile 1975 n. 1365, 30 marzo 1982 n. 1990, 28 gennaio 1986 n. 550, 18 gennaio 1988 n. 321), ma non ha mai avuto occasione di pronunciarsi sulla possibilità di esecuzione del contratto in forma specifica.
In questo quadro, l’inserzione – in forza di atto pubblico stipulato tra gli unici due soci – del patto preliminare nello statuto della società da trasformare non giustificherebbe di per sè una soluzione che negasse l’ammissibilità del patto. Si deve anche convenire che nelle società di persona non v’è un organo sociale come l’assemblea, che è governata dal principio della maggioranza, e nella quale possa farsi questione – propriamente – di incoercibile libertà di voto del socio.
Occorre tuttavia, a giustificazione della soluzione alla quale la corte territoriale è pervenuta, considerare due punti decisivi.
Innanzi tutto, la giurisprudenza di questa corte ha costantemente sottolineato che la validità del contratto de ineunda societate è condizionato alla predisposizione, nel preliminare, di tutti gli elementi essenziali del contratto da stipulare, non potendosi supplire alla carenza di tali elementi, riservati all’autonomia negoziale delle parti, con una determinazione giudiziale (per la più recente applicazione del principio, Cass. 18 giugno 2008 n. 16597).
Trattandosi di trasformare la società in accomandita semplice in una società a responsabilità limitata, gli elementi essenziali richiesti dall’art. 2500 c.c., comma 1 sono quelli indicati nell’art. 2462 c.c.. E’ sufficiente, a questo proposito, considerare la necessità di indicare nell’atto costitutivo il capitale della società, da determinare con le modalità indicate nell’art. 2500 ter c.c., per comprendere come la sentenza che prenda luogo del consenso dei soci alla trasformazione della società in accomandita semplice in una società a responsabilità limitata non sia sufficiente ad realizzare direttamente lo scopo dei contraenti.
Ma è poi vero anche che il preliminare di costituzione di una società di capitale pone problemi assai diversi da quanto avviene nel caso della costituzione di società di persone, se solo si abbia riguardo alla verifica dei presupposti di legge per la stipulazione dell’atto e agli adempimenti successivi richiesti per l’attribuzione della personalità giuridica, e che questi problemi – sia pure per ragioni diverse da quelle, valorizzate dal giudice di merito, che sono state esaminate dalla giurisprudenza a proposito dei sindacati di voto – costituiscono delle controindicazioni all’applicabilità dell’art. 2932 c.c.. Se si circoscrive l’esame al caso, oggetto della presente controversia, del patto avente ad oggetto la trasformazione di una società di persone in una società a responsabilità limitata, appare manifesto che l’art. 2500 ter c.c. postula – con una norma del tutto speciale rispetto alla disciplina delle modificazioni dell’atto costitutivo delle società di persone, che esigono l’unanimità – una decisione della maggioranza dei soci, che pur non essendo assunta in un’assemblea propriamente detta, esprime una volontà collegiale alla quale – perchè tale e perchè proveniente dalla maggioranza dei soci – la legge attribuisce eccezionalmente l’effetto di incidere sul diritto degli altri soci all’esecuzione del contratto sociale; sicchè si è fuori del comune schema contrattuale contemplato nell’art. 2932 c.c., comma 1. Il risultato perseguito, della trasformazione della società, non scaturisce dallo scambio dei consensi tra parti diverse di un contratto, ma è l’esito di una manifestazione di volontà collettiva la cui definizione e la cui stessa formazione sono inconcepibili fuori della cornice di un preesistente organismo, che è terzo rispetto ai promittenti;
sicchè, sebbene non possa propriamente parlarsi di maggioranze assembleari, si può dire che il legislatore ha configurato la fase di passaggio da un tipo all’altro anticipando criteri e forme decisionali del tipo societario al quale il procedimento è preordinato, più che a quello di provenienza, per il quale soltanto varrebbero gli argomenti del ricorrente intesi a valorizzare l’aspetto contrattualistico delle società di persone.
In altre parole, il cosiddetto preliminare di trasformazione, stipulato tra i due unici soci della società in accomandita semplice, non prelude ad un contratto definitivo, ma ad un atto unilaterale interno all’organismo societario, sì che il giudice sarebbe chiamato non già a decidere sul contrasto tra la parte che chiede e quella che rifiuta l’adempimento, ma a surrogarsi nella decisione interna della stessa società, di trasformarsi da un tipo all’altro.
Sono queste le ragioni che dissuadono dal seguire l’odierno ricorrente nel tentativo di valorizzare la circostanza di mero fatto che, in questo caso, al preliminare avevano partecipato entrambi i soci i quali, insieme, detenevano l’intero capitale sociale; ciò che dovrebbe consentire di ricostituire la perfetta corrispondenza tra la volontà manifestata dai promittentì e il contenuto della sentenza pronunciata a norma dell’art. 2932 c.c.. Del resto, proprio la specificità del caso in esame contraddice l’assunto: la circostanza che l’altra socia avesse manifestato la volontà di recedere dalla società, e di ottenere la liquidazione della sua quota di minoranza (così esercitando, anche in relazione alla possibile successiva trasformazione, un diritto oggi consacrato dall’art. 2500 ter c.c., comma 1) ripropone, infatti, il tema della sentenza che, lungi dal dare attuazione alla comune volontà contrattuale delle parti, privilegia la volontà del socio che agisce per la trasformazione della società, rispetto a quella di recedere precedentemente manifestata dall’altro socio.
In conclusione, i due motivi di ricorso devono essere respinti in base al principio di diritto, che il contratto preliminare di trasformazione di una società in accomandita semplice in una società a responsabilità limitata, intervenuto tra i soci, è insuscettibile di esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 2932 c.c., non potendo supplire al procedimento previsto dagli artt. 2500 e 2500 ter c.c..
Con il terzo motivo si censura, per insufficienza di motivazione, l’affermazione del giudice d’appello, che non fosse consentito l’accertamento – espressamente richiesto anche in grado d’appello – dell’inadempimento della convenuta alla norma statutaria, risultante da verbale per atto pubblico depositato nel giudizio.
La censura dovrebbe appuntarsi sull’argomento di diritto con il quale la corte ha respinto la tesi dell’appellante richiamando la giurisprudenza di legittimità, che esclude l’accertamento incidentale rispetto ad una materia inerente al fatto costitutivo del diritto dell’attore. Trattandosi di motivazione in diritto, essa doveva essere censurata con il mezzo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestando la validità del principio di diritto enunciato dalla corte d’appello, oppure la sua applicabilità al caso di specie. Rispetto alla motivazione che sorregge la decisione impugnata, come in genere in relazione alle questioni di diritto, la censura di vizio della motivazione è inammissibile.
In conclusione il ricorso deve essere respinto. Le spese del giudizio sono compensate, in ragione della mancanza di puntuali precedenti in termini.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso a Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 9 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 30 ottobre 2009, n.23066 CONTRATTO PER PERSONA DA NOMINARE E PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto. La censura si riferisce al capo della sentenza con il quale è stato rigettato il motivo di gravame relativo alla nullità della sentenza di primo grado perché decisa dal Tribunale in sede collegiale e non dalla sezione stralcio, e quindi dal GOA, come previsto dalla legge n. 276 del 1997. In proposito, la ricorrente rileva che mentre la censura atteneva alla violazione del principio del giudice naturale, la risposta della Corte d’appello non è stata pertinente perché ha fatto applicazione di principi affermati in tema di competenza.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, «poiché la sezione stralcio, istituita presso alcuni tribunali in base alla l. 22 luglio 1997 n. 276, e al d.m. 18 novembre 1997, per la definizione delle cause pendenti al 30 aprile 1995 che non presentino riserva di collegialità, non costituisce, nell’ambito di tali uffici giudiziari, un diverso organo di giustizia, la mancata assegnazione ad essa costituisce irregolare distribuzione degli affari all’interno del medesimo ufficio giudiziario e non dà luogo ad un problema di competenza funzionale» (Cass., n. 12663 del 2004). In motivazione, si è poi chiarito che l’omessa assegnazione alla sezione-stralcio dà luogo ad una nullità relativa sanabile entro i rigorosi limiti dell’articolo 157 cod. proc. civ. e, nella specie, dalla sentenza impugnata non risulta, né viene dedotto dalla ricorrente, che detta nullità venne eccepita nella prima difesa successiva all’assegnazione della causa al collegio.

Deve quindi escludersi la fondatezza del proposto motivo.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto. Nullità della sentenza per violazione dei principi di integrità del contraddittorio e di estinzione del processo. Omessa pronuncia ovvero motivazione omessa od insufficiente». La ricorrente rileva che mentre l’atto introduttivo era stato proposto da Bovani Luciano in proprio e quale amministratore unico della Il Saio s.r.l., l’atto di riassunzione è stato proposto dalla Curatela nei soli confronti di essa ricorrente e non anche nei confronti di Bovani Luciano in proprio. La mancata notificazione dell’atto di riassunzione al Bovani in proprio avrebbe determinato, ad avviso della ricorrente, un difetto di integrità del contraddittorio, non sanata nel giudizio di primo grado, e la risposta data sul punto dalla Corte d’appello sarebbe meramente apparente, non avendo detto giudice considerato la questione della posizione di Bovani Luciano e le conseguenze derivanti dalla mancata notificazione al medesimo dell’atto di riassunzione.

La censura è infondata.

Dal ricorso, nel quale è testualmente riportato l’atto di citazione introduttivo della presente controversia, emerge che effettivamente il Bovani agì inizialmente in proprio e quale legale rappresentante della società Il Saio s.r.l.; emerge altresì che il Bovani sottoscrisse il preliminare per sé o per persona da nominare; risulta infine che con l’atto introduttivo egli sciolse la riserva relativa alla indicazione del promissario acquirente, nominando quale acquirente la società Il Saio s.r.l. In tale situazione di fatto, risulta applicabile il principio per cui «nel contratto per persona da nominare, la riserva della nomina del terzo determina una parziale indeterminatezza soggettiva del contratto, ovvero una fattispecie di contratto a soggetto alternativo. A seguito dell’esercizio del potere di nomina, il terzo subentra poi nel contratto e, prendendo il posto della parte originaria, acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con l’altro contraente, con effetto retroattivo, con la conseguenza per cui deve essere considerato fin dall’origine unica parte contraente contrapposta al promittente ed a questo legata dal rapporto costituito dallo stipulante» (Cass., n. 8410 del 1998). Invero, «nel contratto per persona da nominare (nella specie, preliminare di vendita di bene immobile) la dichiarazione di nomina e l’accettazione del terzo devono rivestire la stessa forma del contratto, ma ciò non va inteso nel senso che debbano necessariamente essere consacrate in una formale dichiarazione diretta all’altro contraente, essendo sufficiente che a costui pervenga una comunicazione scritta indicante la chiara volontà di designazione del terzo, in capo al quale deve concludersi il contratto, e la sua accettazione; quanto, poi, a quest’ultima dichiarazione, la stessa può risultare anche dall’atto introduttivo del giudizio promosso dal terzo nei confronti dell’altro contraente» (Cass., n. 15164 del 2001).

Non vi era dunque alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti del Bovani in proprio, giacché la indicazione, nell’atto di citazione, dell’acquirente aveva reso quest’ultimo l’unico soggetto legittimato a sostenere in giudizio le domande scaturenti dal preliminare.

Con il terzo motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., «violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, omesso esame dell’eccezione di inammissibilità del sequestro e nullità della sentenza di convalida. Omessa ed insufficiente motivazione». La ricorrente ricorda di aver sostenuto la nullità della sentenza non definitiva, nella parte in cui aveva convalidato il sequestro, perché non era contenuto in essa alcun riferimento ai tre sequestri eseguiti dalla controparte e contestati quanto alla tempestività e alla esuberanza, sicché la convalida sarebbe stata nulla per indeterminatezza dell’oggetto nonché per omessa pronuncia sugli aspetti esecutivi da essa ricorrente prospettati. Inoltre, la convalida era stata pronunciata prima che venisse ad esistenza il diritto a cautela del quale era stato disposto il sequestro, in un momento in cui era ancora possibile l’esecuzione in forma specifica dato che il Tribunale, proprio con la sentenza di convalida, aveva fissato il termine per la liberazione dell’immobile dalle ipoteche e dagli altri vincoli. In relazione a tali questioni, ad avviso della ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe del tutto carente.

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha correttamente ritenuto che il sequestro suscettibile di convalida fosse esattamente individuato nella sentenza non definitiva con riferimento al provvedimento del Presidente del Tribunale di Lanciano del 18 novembre 1992, il che consentiva di determinarne, sia pure per relationem, l’oggetto. Per altro verso, deve rilevarsi che le questioni agitate con riferimento alle modalità esecutive e all’ampiezza del sequestro, attenevano alla fase esecutiva del disposto sequestro conservativo e non anche alla sussistenza dei requisiti del medesimo.

Sotto altro profilo, la Corte d’appello ha rigettato il gravame proposto avverso la sentenza non definitiva, che aveva ritenuto che il sequestro fosse convalidabile in ragione dell’accertato inadempimento della ricorrente – la quale aveva garantito l’immobile oggetto di compromesso libero da pesi e vincoli, risultati invece esistenti – e della conseguente sussistenza del diritto azionato, pur se al momento della pronuncia e proprio in considerazione del contenuto della stessa, che assegnava alla ricorrente un termine per la liberazione dei beni oggetto di compromesso dai vincoli su di essi gravanti, vi era ancora l’alternativa tra una pronuncia di esecuzione in forma specifica o di risoluzione per inadempimento. In ogni caso, ha osservato la Corte, il Tribunale aveva ritenuto «che parte attrice avesse diritto all’una o all’altra delle pronunce, e tale diritto giustificando appieno l’autorizzato, e, perciò, convalidato, sequestro».

Risulta quindi chiaro che la Corte d’appello ha rigettato il gravame, e ha ritenuto legittima la convalida del sequestro disposta dal Tribunale, sul rilievo, non erroneo, della sussistenza di un diritto da cautelare, scaturente dalla domanda introduttiva del giudizio. Del resto, la necessità della fissazione di un termine per la liberazione dei beni oggetto del preliminare da parte della ricorrente era stata determinata dall’inadempimento della stessa che aveva garantito detti beni liberi da iscrizioni e trascrizioni, laddove invece dette trascrizioni erano risultate esistenti. In questa prospettiva, la soluzione adottata dal Tribunale, lungi dall’apparire lesiva di posizioni soggettive della ricorrente, consentiva invece alla stessa di poter sanare il proprio inadempimento e dare quindi esecuzione al preliminare, garantendo ad un tempo le ragioni creditorie del Fallimento, per l’eventualità – poi verificatasi – che la ricorrente non fosse riuscita, nel termine stabilito, a liberare i beni dalle iscrizioni pregiudizievoli.

La sentenza impugnata si sottrae dunque alle proposte censure.

Con il quarto motivo, Cantagalli Anna Dorina deduce, ai sensi dell’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., «violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Omessa pronuncia. Omessa ed insufficiente motivazione». Pur se la censura proposta in grado di appello era del tutto esplicita, la Corte d’appello ha ritenuto che la stessa fosse non comprensibile e ha quindi omesso di pronunciarsi sul merito della stessa. Con il quarto motivo di appello, infatti, si era eccepita la nullità del giudizio cautelare e di quello di primo grado nei quali avevano agito due soggetti, il Bovani in proprio e Il Saio s.r.l., i quali si erano dichiarati entrambi legittimati senza peraltro specificare nelle conclusioni in favore di quale dei due si sarebbe dovuto verificare l’effetto delle domande proposte, se non per il trasferimento coattivo, richiesto a favore della società. Siffatta incertezza, ad avviso della ricorrente, avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello alla dichiarazione del difetto di legittimazione di entrambi gli attori. Peraltro, si sarebbe dovuto anche escludere il trasferimento coattivo in favore della società, traendo esso origine dalla nomina da parte del contraente, censurata da essa ricorrente perché irrituale e tardiva, posto che il Bovani si era riservato di nominare altra persona e non una società, entro il termine previsto per la stipula del contratto definitivo e cioè, al più tardi entro il gennaio 1992. Da ultimo, il Fallimento della società non aveva comunque mai dichiarato, ai sensi dell’art. 72, secondo comma, legge fall., di voler subentrare nel contratto preliminare, sicché il contratto, rimasto sospeso, non poteva essere eseguito e neanche risolto.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

La ricorrente si duole infatti della incertezza in ordine al soggetto legittimato ad agire nei suoi confronti. La medesima ricorrente, peraltro, non deduce di aver mai sollevato in precedenza la relativa questione, se non per rilevare la non integrità del contraddittorio nel giudizio proseguito a seguito di riassunzione proposta dalla sola Curatela fallimentare con atto non notificato al Bovani. La relativa questione, peraltro, è già stata esaminata in sede di valutazione del secondo motivo di ricorso ed è stata ritenuta inammissibile.

Per altro verso, si deve rilevare la carenza di interesse della ricorrente a dolersi della incertezza soggettiva conseguente alla originaria proposizione della domanda da parte del Bovani in proprio e quale amministratore della società Il Saio s.r.l. Invero, posto che il Tribunale, nella sentenza definitiva, ha condannato la ricorrente alla restituzione del prezzo già pagato e al pagamento di quanto ritenuto dovuto a titolo di migliorie in favore della curatela del fallimento, che aveva riassunto il giudizio, risulta evidente la carenza di interesse della ricorrente ad eccepire la incertezza dal punto di vista soggettivo, avendo il Tribunale, prima, e la Corte d’appello, poi, ritenuto che destinatario del pagamento ad essa imposto fosse la curatela e non anche il Bovani in proprio.

La ricorrente, ulteriormente, si duole della mancata decisione, da parte della Corte d’appello, in ordine al corrispondente motivo di gravame. In realtà, la Corte d’appello ha statuito sul quarto motivo di gravame, ritenendo le censure proposte non comprensibili. A fronte di tale affermazione contenuta nella sentenza impugnata, era onere della ricorrente riprodurre il testo del motivo di gravame, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione. Trova infatti applicazione il principio secondo cui «perché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività e, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 cod. proc. civ., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca ma solo ad una verifica degli stessi» (Cass., n. 6361 del 2007). Nel caso di specie, invero, la ricorrente, nel formulare il quarto motivo di ricorso, ha fornito la propria interpretazione del motivo di gravame, ma non ha provveduto a riprodurlo nella sua testualità.

Con riferimento, poi, alla asserita carenza di legittimazione della società – e per essa, della curatela fallimentare – a chiedere il trasferimento coattivo, si deve rilevare che erroneamente la ricorrente ritiene che la riserva, contenuta nel preliminare, di nominare un altro contraente, non potesse operare a favore di una società perché era stata formulata in favore di altra persona. Il riferimento ad altra persona, invero, non può escludere che detta persona sia una persona giuridica, nulla lasciando ipotizzare la volontà delle parti di limitare la possibilità del trasferimento dei beni oggetto di compromesso anche ad una società munita di personalità giuridica. La relativa censura è quindi infondata, così come è infondata quella concernente la mancata dichiarazione, da parte del curatore, della volontà di subentrare nel contratto preliminare, dal momento che il fallimento è intervenuto nel corso del giudizio che è stato, anzi, riassunto ad istanza della curatela del fallimento, la quale ha quindi svolto un’attività finalizzata all’accoglimento delle originarie conclusioni, tra le quali quella di risoluzione contrattuale per l’ipotesi della mancata liberazione dei beni dalle iscrizioni.

Quanto, infine, al rilievo secondo cui la indicazione del contraente sarebbe avvenuta una volta che il termine per la stipulazione del contratto definitivo era già scaduto, la censura risulta inammissibile, dal momento che trattasi di questione che postula accertamenti di fatto circa la essenzialità del termine nell’economia del contratto preliminare, il cui apprezzamento è precluso in sede di legittimità. Né può ritenersi che la Corte d’appello non si sia pronunciata sul punto, giacché di tale aspetto si è occupata, come si vedrà, in sede di esame del sesto motivo di gravame.

Con il sesto motivo, l’esame del quale precede per ragioni di ordine logico quello degli altri motivi, Cantagalli Anna Dorina deduce, ai sensi dell’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., «violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Omessa pronuncia. Omessa ed insufficiente motivazione». La Corte territoriale avrebbe ritenuto che il termine per la liberazione delle ipoteche, peraltro incongruo, potesse decorrere pur non essendo la sentenza passata in giudicato, ma senza rispondere al rilievo secondo cui in tal modo si sarebbe attribuita efficacia definitiva ad un provvedimento non stabile. Inoltre, avrebbe omesso di esaminare l’eccezione di inefficacia della fissazione del termine per difetto di notifica del relativo provvedimento alla parte onerata degli adempimenti.

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello ha ritenuto che il corrispondente motivo di gravame dovesse essere rigettato perché né l’art. 1482 cod. civ., né alcuna altra norma impongono che il termine accordato debba decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza che detto termine fissa.

Trattasi di affermazione immune dai denunciati vizi ed errori, e del resto la ricorrente non specifica in base a quale disposizione il suddetto termine dovrebbe decorrere solo dal momento del passaggio in giudicato della pronuncia giurisdizionale che lo fissa. Quanto, poi, alla denunciata incongruità del termine, si deve rilevare che la Corte d’appello, con accertamento di fatto, insindacabile in questa sede, ne ha apprezzato la idoneità allo scopo, che era quello di procedere alla liberazione dei beni dalle iscrizioni pregiudizievoli.

Quanto, infine, all’assunto secondo cui la Corte d’appello non avrebbe pronunciato sulla specifica censura concernente la mancata comunicazione della sentenza alla parte personalmente, lo stesso è infondato, potendosi ritenere che lo specifico profilo di censura sia stato implicitamente respinto dalla Corte territoriale e dovendosi comunque rilevare che la stessa ricorrente non ha neanche dedotto che la comunicazione della sentenza non è avvenuta nelle forme prescritte, e cioè presso il procuratore costituito, né ha sostenuto la insufficienza del lasso di tempo intercorso tra la comunicazione della sentenza e il termine fissato nella stessa.

Con il quinto motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., «violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Omessa pronuncia. Omessa ed insufficiente motivazione». La censura si riferisce all’eccepito contrasto tra la sentenza non definitiva e quella definitiva, nonché alla omessa pronuncia in ordine alla risoluzione del preliminare per mancata stipula del definitivo nel termine essenziale pattuito o per fatti concludenti. In proposito, nell’atto di appello si era specificato che la scoperta della iscrizione ipotecaria, addotta dal Tribunale a giustificazione del decorso del termine per la stipula, si era verificata dopo detto termine e non poteva quindi essere assunta a giustificazione di un fatto verificatosi prima. Lamenta altresì omessa pronuncia in ordine alle domande di restituzione dell’immobile e di pagamento della indennità per l’occupazione dello stesso. Quanto all’eccepito contrasto – consistente in ciò che la sentenza non definitiva aveva ritenuto che l’effettuazione delle opere di ristrutturazione non giustificava la risoluzione contrattuale ma solo la ritenzione di dette opere a titolo gratuito da parte della venditrice, mentre la sentenza definitiva la aveva condannata al rimborso proprio delle spese di ristrutturazione -, la risposta della Corte d’appello sarebbe stata del tutto inappagante, giacché dovevano ritenersi insussistenti i presupposti per l’applicazione del patto di ritenzione gratuita sulla base di argomentazioni contrastanti con i principi di autonomia contrattuale e con le regole di ermeneutica contrattuale. Quanto alle denunciate omesse pronunce, la Corte ha ricondotto le stesse ad una censura di difetto di motivazione e ha ritenuto che tale vizio non sussistesse, ma senza spiegare il perché.

Con il settimo e ultimo motivo, la ricorrente denuncia ancora una volta, ai sensi dell’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., «violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Omessa pronuncia. Omessa ed insufficiente motivazione». La Corte, in violazione dei principi di ermeneutica contrattuale non avrebbe, innanzitutto, motivato sufficientemente in ordine agli effetti risolutivi propri della scadenza del termine essenziale previsto per la stipula del definitivo nell’assoluta inerzia del compratore che non chiese la stipula né rilevò l’iscrizione ipotecaria prima della scadenza del termine, cosa che invece fece successivamente quando il contratto doveva intendersi già risolto. La Corte d’appello, come prima il Tribunale, avrebbero poi male interpretato la chiara dizione della clausola n. 5, la quale, con formulazione letteralmente chiara, insuscettibile in quanto tale di diverse interpretazioni, vietava al Bovani, costituito custode dell’immobile dalla firma del preliminare, di compiere su di esso alcuna opera che non potesse essere tolta senza pregiudizio dell’immobile stesso, stabilendo che comunque, in caso di restituzione alla Cantagalli del bene promesso in vendita per qualsiasi causa, questa avrebbe avuto «facoltà di ritenere a titolo gratuito ogni opera eventualmente eseguita sull’immobile ovvero di pretendere dal Bovani la rimessione in pristino stato o di provvedervi a spese dello stesso anche mediante compensazione con quanto fosse eventualmente obbligata a restituirgli in dipendenza del presente contratto». Orbene, tale clausola, avrebbe giustificato la risoluzione per inadempimento da parte del Bovani, che aveva eseguito opere, anche abusive, sull’immobile oggetto del preliminare in violazione del divieto stabilito nel preliminare stesso e comunque non avrebbe in alcun modo consentito che potesse essere posto a carico della venditrice l’indennità per le migliorie apportate dal Bovani, essendo espressamente stabilito il diritto di ritenzione gratuita in caso di restituzione del bene per qualsiasi ragione, e quindi anche per inadempimento della venditrice. In sostanza, all’accertamento della risoluzione del preliminare avrebbe dovuto fare seguito la condanna dell’attore alla restituzione del bene, mentre, essendo stabilita la facoltà di scelta della promittente venditrice tra la ritenzione delle opere o la richiesta di rimessione in pristino, la condanna alla restituzione del prezzo a carico della venditrice avrebbe dovuto essere subordinata a detta scelta, dovendo le spese necessarie per la restituzione in pristino essere poste a carico del promissario acquirente.

Costituirebbe effetto di una forzatura interpretativa la decisione della Corte territoriale, la quale ha ritenuto che il diritto di ritenzione della promittente venditrice potesse operare solo in caso di restituzione dell’immobile per fatto imputabile al promissario acquirente, trovando invece giustificazione la detta clausola quanto meno a titolo di sanzione per la violazione del divieto posto a carico dell’acquirente, di effettuare lavori sull’immobile.

La condanna alle spese per miglioramenti, inoltre, sarebbe del tutto carente di prova nel quantum. La sentenza impugnata non ha infatti esplicitato quali fossero le risultanze istruttorie in base alle quali il Tribunale era pervenuto alla determinazione di quella somma, limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado, del tutto arbitraria, non essendo in alcun modo desumibile dalle deposizioni testimoniali che la stessa ammontasse a lire 54.000.000.

Ed ancora, la sentenza impugnata, come già prima quella del Tribunale, avrebbe omesso di statuire in ordine alla richiesta di pagamento delle somme dovute dal Bovani per l’occupazione del bene, iniziata l’11 luglio 1991 e alla data del ricorso ancora in atto.

La Corte avrebbe poi omesso di motivare compiutamente circa la dedotta inconsapevolezza dell’esistenza di un’iscrizione ipotecaria; l’art. 1482 cod. civ., del resto, postula la consapevole e taciuta esistenza delle garanzie da parte del venditore e, ad un tempo, la ignoranza delle stesse da parte del compratore, il quale quindi avrebbe dovuto provare la ricorrenza dell’uno o dell’altro degli stati soggettivi. In ogni caso, la Corte avrebbe dovuto escludere la colpa di essa ricorrente, in quanto la buona fede si presume, la sentenza penale di condanna non era divenuta irrevocabile e le dichiarazioni rese da essa ricorrente in sede di interrogatorio avrebbero dovuto essere apprezzate nella loro interezza, ed ella aveva sì ammesso di avere assicurato l’acquirente che l’immobile era libero da ipoteche, ma aveva anche affermato di non sapere alcunché della iscrizione.

Il settimo motivo, il quale censura la sentenza impugnata per l’interpretazione da essa data al contratto preliminare intercorso tra la ricorrente e il Bovani, e in particolare per l’interpretazione della clausola n. 5, assume carattere logicamente preliminare rispetto all’esame delle ulteriori questioni dedotte dalla medesima ricorrente con il quinto motivo.

Il motivo è fondato nei termini di seguito indicati.

Con la indicata clausola, invero, il Bovani venne costituito custode dell’immobile sin dalla data di sottoscrizione del contratto, con il divieto di compiere sull’immobile opere che non potessero essere rimosse senza pregiudizio, prevedendosi, comunque, che, «in caso di restituzione alla Cantagalli del bene promesso in vendita per qualsiasi causa, questa avrà facoltà di ritenere a titolo gratuito ogni opera eventualmente eseguita sull’immobile ovvero di pretendere dal Bovani la rimessione in pristino stato o di provvedervi a spese dello stesso anche mediante compensazione con quanto fosse eventualmente obbligata a restituirgli in dipendenza del presente contratto».

La ricorrente si duole, con il motivo in esame, sia del fatto che la Corte d’appello, e prima il Tribunale, non abbiano valutato la portata della richiamata clausola ai fini della possibile valutazione dell’inadempimento del Bovani al divieto su di lui gravante di eseguire opere che non potessero essere rimosse senza arrecare danni all’immobile, sia del fatto che, comunque, la Corte d’appello, e prima il Tribunale, abbiano errato nel ritenere che l’attribuzione ad essa ricorrente, quale promittente venditrice, della facoltà di ritenere a titolo gratuito ogni opera eventualmente eseguita sull’immobile ovvero di pretendere dal Bovani la rimessione in pristino stato o di provvedervi a sue spese, potesse operare solo nel caso in cui il contratto definitivo non fosse stato stipulato per fatto imputabile al promissario acquirente.

Sotto entrambi i profili le censure meritano accoglimento. Non vi è infatti nella sentenza impugnata alcuna valutazione della condotta del Bovani, immesso immediatamente nel possesso, con riferimento alla clausola che stabiliva nei suoi confronti il divieto di eseguire opere non rimuovibili senza danno dall’immobile oggetto del preliminare, né quindi della possibile configurazione di detta condotta come inadempimento, da valutare comparativamente all’inadempimento addebitato dal promissario acquirente alla venditrice.

Né la motivazione della sentenza in ordine alla individuazione della portata della clausola relativa al diritto di ritenzione appare idonea a giustificare l’interpretazione adottata dalla Corte d’appello.

Secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice del merito ed è censurabile in questa sede per vizi di motivazione o per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (Cass., n. 24866 del 2008; Cass., n. 7500 del 2007; Cass., n. 27168 del 2006; Cass., n. 8296 del 2005), vizi correttamente fatti valere dalla ricorrente, laddove, nel denunciare il vizio di violazione di legge, ha chiaramente dedotto la violazione del criterio letterale, di cui all’art. 1362 cod. civ.

La Corte d’appello ha invero ritenuto che l’espressione “per qualsiasi causa”, contenuta nella clausola n. 5 del contratto preliminare, riferita alla ipotesi di restituzione alla promittente venditrice del bene promesso in vendita, con attribuzione alla stessa della facoltà di ritenere a titolo gratuito le opere eseguite dal promissario acquirente, immesso nel possesso dell’immobile contestualmente alla sottoscrizione del preliminare, dovesse essere interpretata come idonea a fondare la facoltà della promittente venditrice di ritenere le opere solo nel caso in cui l’acquirente fosse stato tenuto a restituire il bene per fatto a sé imputabile; ipotesi, questa, che nella specie doveva escludersi. La Corte territoriale ha inoltre aggiunto che una simile interpretazione della clausola non era preclusa dalla formula letterale usata dalle parti «che pare attribuire tale facoltà “in caso di restituzione … per qualsiasi causa”, perché, certamente, questa non poté essere la concorde volontà delle parti, posto che, riguardata dal punto di vista del Bovani, sarebbe fuor di logica, e, dal punto di vista della Cantagalli, priva di qualsivoglia giustificazione».

Tale essendo la motivazione che ha indotto la Corte d’appello a dare della riportata clausola una interpretazione contraria al suo tenore letterale, sulla base di una ricostruzione parziale del complessivo assetto di rapporti convenuto tra le parti – si è già visto che per il promissario acquirente era stabilito il divieto di realizzare opere non rimuovibili senza danni dall’immobile -, appare evidente la violazione del canone letterale di interpretazione del contratto, puntualmente denunciata dalla ricorrente.

Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono elencate negli artt. 1362 – 1371 cod. civ., secondo un ordine gerarchico, con la conseguenza che le norme degli artt. 1362 – 1365 cod. civ., precedono quelle integrative recate dagli artt. 1366 – 1371 cod. civ., escludendone l’applicabilità quando le prime rendano palese la comune volontà dei contraenti. Pertanto, qualora il senso letterale delle espressioni impiegate riveli con chiarezza e univocità la volontà comune e non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo avuto di mira, il giudice del merito deve arrestarsi al significato letterale delle parole e non può fare ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici, se non (fuori dell’ipotesi dell’ambiguità della clausola) previa rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale (Cass., n. 24866 del 2008; Cass., n. 415 del 2006; Cass., n. 19475 del 2005; Cass., n. 20791 del 204).

La individuazione di una comune intenzione delle parti, in contrasto con la chiara lettera della clausola, comporta la denunciata violazione, dovendosi altresì rilevare la insufficienza della motivazione quanto alla ritenuta insussistenza di una “qualsivoglia giustificazione” a sostegno della letteralità della clausola. La Corte d’appello, infatti, ha omesso di considerare il divieto posto a carico dell’acquirente di eseguire opere non agevolmente rimuovibili e quindi di verificare se la clausola che prevedeva il diritto di ritenzione gratuita fosse da porre in relazione con la imposizione di un simile divieto.

Per questi aspetti è dunque necessario che la Corte d’appello proceda a nuovo esame del complessivo assetto negoziale convenuto tra le parti.

Il settimo motivo va dunque accolto, con conseguente assorbimento delle ulteriori censure svolte nel medesimo motivo, sia quelle concernenti la determinazione del valore delle migliorie, essendo evidente che la questione dovrà essere nuovamente esaminata dal giudice del rinvio all’esito del rinnovato esame delle clausole contrattuali, sia quelle concernenti la denunciata omessa pronuncia sulla domanda di restituzione dell’immobile e di pagamento di una indennità per l’occupazione dell’immobile stesso (domande che, deve qui evidenziarsi, non sono nuove, come eccepito dalla resistente curatela nel controricorso, risultando proposte sin dalla comparsa di costituzione e risposta e nuovamente nell’atto di appello).

Sono invece inammissibili le censure relative alla omessa valutazione della essenzialità del termine previsto nel preliminare per la stipula del definitivo, per le medesime ragioni esposte in precedenza, con riferimento al quarto motivo di ricorso, mentre è infondata l’ulteriore doglianza della ricorrente circa la mancata valutazione, da parte della Corte d’appello, della imputabilità dell’inadempimento a sé, sotto il profilo della mancanza di prova della conoscenza, da parte sua, della esistenza della iscrizione ipotecaria al momento della conclusione del preliminare. La questione è infatti stata affrontata dalla Corte d’appello in sede di esame del sesto motivo di gravame, laddove ha affermato che «l’appellante si era impegnata a cedere all’acquirente gli immobili liberi da trascrizioni pregiudizievoli, che queste trascrizioni pregiudizievoli, invece, ci erano e che furono esse, e l’inadempimento, perciò, proprio di essa Cantagalli, ad impedire la stipula del definitivo nei termini cui si era essa obbligata». Si deve solo aggiungere che, per il resto, il motivo si risolve nella richiesta di nuovo apprezzamento delle circostanze di fatto e delle prove, orali e documentali, al fine di ottenere una decisione diversa sul punto, il che è precluso in sede di legittimità.

Risultano altresì assorbite le censure svolte nel quinto motivo, con il quale viene posta una questione di rapporto tra sentenza non definitiva e sentenza definitiva, la cui soluzione dipende dalla interpretazione delle clausole contrattuali alla quale perverrà, all’esito del rinnovato esame il giudice di rinvio.

Al giudice del rinvio, che si designa nella Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, è altresì demandata la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie nei sensi di cui in motivazione il settimo motivo di ricorso, assorbito il quinto e rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.