Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-11-2011, n. 25449 Personale non docente

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La parte ricorrente chiede l’annullamento della sentenza di appello che ha negato il suo diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR).

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980 e Cass. 14 ottobre 2011, n. 21282, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) nella sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con gli artt. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate. La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr, per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Il caso in esame deve quindi essere deciso in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Ciò comporta che il ricorso deve essere accolto perchè la violazione del complesso normativo, costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 denunziata, deve essere verificata in concreto sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia europea. La decisione impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, la quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà decidere la controversia nel merito, verificando la sussistenza, o meno, di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento e dovrà accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale accertamento. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio. Il collegio ha deliberato che la presente sentenza venisse redatta con motivazione semplificata.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. VI, Sent., 20-12-2011, n. 27823

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Svolgimento del processo

p. 1. Il Tribunale di Avelllino, con sentenza n. 1126 del 14 luglio 2010, ha rigettato l’appello proposto dall’Enel Distribuzione s.p.a. avverso la sentenza del Giudice di Pace di Avellino che aveva accolto la domanda di C.L., intesa ad ottenere il risarcimento del danno derivato dall’avere dovuto sborsare le tasse postali per il pagamento delle bollette di energia elettrica, in conseguenza dell’inadempimento da parte dell’Enel alla Delib. 28 dicembre 1999, n. 200, art. 6, comma 4, con cui l’Autorità per L’Energia Elettrica ed il Gas (A.E.E.G) aveva imposto agli esercenti il servizio di distribuzione e vendita dell’energia elettrica e, quindi, all’Enel, di "offrire al cliente almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta". L’Enel, d’altro canto, non aveva informato l’attore della possibilità di pagare senza oneri aggiuntivi, così violando gli oneri di informazione su di essa incombenti. p. 2. L’appello dell’Enel si era articolato, per quanto interessa riferire ai fini della presente decisione, con l’assunto che nella specie l’art. 6, comma, 4, non aveva avuto efficacia integrativa del contratto ed il Tribunale ha disatteso tale motivo, reputando il contrario e precisamente che tale efficacia si era dispiegata ai sensi dell’art. 1339 c.c.. p. 3. Avverso la decisione del Tribunale ha proposto ricorso per cassazione l’Enel servizio Elettrico s.p.a. (nella duplice qualità, giusta i riferimenti ai relativi atti notarili, di procuratrice speciale dell’Enel Distribuzione s.p.a. e di beneficiaria del ramo di azienda di quest’ultima costituito dal complesso di beni e rapporti, attività e passività relativi all’attività di vendita di energia elettrica a clienti finali).

Al ricorso, che propone sei motivi, l’intimato non ha resistito.

Motivi della decisione

p. 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce "violazione e falsa applicazione della L. 14 novembre 1995, n. 481, art. 2", assumendosi che la Delib. n. 200 del 1999 e particolarmente l’art. 6, comma 4, di essa non aveva avuto l’effetto di integrare il contratto di utenza, perchè la L. n. 481 del 1995 e in specie l’art. 2, comma 12, lett. h) di essa attribuirebbe questo effetto solo alle delibere in tema di produzione ed erogazione di servizi, mentre il citato comma 4 dell’art. 6 avrebbe riguardato materia estranea a tali concetti.

Con il secondo motivo si deduce "difetto di motivazione in ordine ad un fatto decisivo e controverso" e si lamenta un’omessa motivazione del Tribunale su come la previsione del suddetto comma 4 dell’art. 6 potesse essere ricondotta all’ambito del citato art. 2, comma 12, lett. h).

Il terzo motivo lamenta "violazione e falsa applicazione dell’art. 1339 c.c." e "omessa motivazione su punti decisivi della controversia", sotto il profilo che erroneamente il Tribunale avrebbe attribuito comunque efficacia integrativa del contratto all’art. 6, comma 4, citato, invocando l’art. 1339 c.c.: tale norma non poteva, invece, trovare applicazione, perchè rende possibile l’inserzione automatica di clausole del contratto solo in sostituzione di quelle difformi previste e non invece, l’inserimento in assenza di una specifica pattuizione contrattuale. D’altro canto, l’inserimento non era stato possibile anche perchè l’inosservanza della delibera da parte dell’Enel era espressamente sanzionarle dall’Autorità ai sensi della citata L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 20, lett. c).

Il quarto motivo deduce "insufficiente motivazione su fatti decisivi e controversi", rappresentati dall’obbiettiva inidoneità dell’art. 6, comma, 4, a porre un ipotetico precetto integrativo, sotto il profilo che non risultava determinato in che cosa dovesse consistere la modalità gratuita di pagamento, tenuto conto che il pagamento presso gli sportelli siti nei capoluoghi di provincia poteva costringere l’utente a sobbarcarsi spese ben maggiori di quelle del pagamento di un euro tramite il bollettino postale.

Il quinto motivo deduce "Difetto di interesse ad agire. Violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. – art. 1223 c.c. e del principio della causalità adeguata. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.. Abuso del diritto". Il motivo concerne l’aspetto della sussistenza del danno.

Il sesto motivo deduce "omessa o insufficiente motivazione su fatti decisivi e controversi" e concerne il riferimento fatto dal Tribunale all’inadempimento del dovere di informazione circa la modalità gratuita di pagamento. p. 2. I primi quattro motivi, afferendo alla questione della idoneità dell’art. 6, comma 4, della nota deliberazione a svolgere efficacia integrativa del contratto, possono essere considerati unitariamente ed appaiono fondati per quanto di ragione al lume del precedente di cui alla decisione di questa Corte resa (a seguito dell’udienza dell’8 giungo 2011) con la sentenza n. 17786 del 2011 su un ricorso dell’Enel propositivo di motivi identici in una controversia di identico tenore, nonchè di numerosissime decisioni rese a seguito della stessa udienza dell’8 giugno 2001 ricorsi proposti da utenti contro decisioni di tribunali che avevano rigettato domande come quella proposta dall’intimato.

Nella suddetta decisione (come nelle altre), alle cui ampie motivazioni il Collegio rinvia, si è anzitutto affermato il seguente principio di diritto: "Il potere normativo secondario (o, secondo una possibile qualificazione alternativa, di emanazione di atti amministrativi precettivi collettivi) dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. h), si può concretare anche nella previsione di prescrizioni che, attraverso l’integrazione del regolamento di servizio, di cui al comma 37 dello stesso art. 2, possono in via riflessa integrare, ai sensi dell’art. 1339 c.c., il contenuto dei rapporti di utenza individuali pendenti anche in senso derogatorio di norme di legge, ma alla duplice condizione che queste ultime siano meramente dispositive e, dunque, derogabili dalle stesse parti, e che la deroga venga comunque fatta dall’Autorità a tutela dell’interesse dell’utente o consumatore, restando, invece, esclusa – salvo che una previsione speciale di legge o di una fonte comunitaria ad efficacia diretta – non la consenta – la deroga a norme di legge di contenuto imperativo e la deroga a norme di legge dispositive a sfavore dell’utente e consumatore".

Dopo di che, sempre con ampia motivazione alla quale nuovamente si rinvia, si è concluso che deve "escludersi che la prescrizione della Delib. A.E.E.G. n. 200 del 1999, art. 6, comma 4, abbia comportato la modifica o integrazione del regolamento di servizio del settore esistente all’epoca della sua adozione e, di riflesso, l’integrazione dei contratti di utenza ai sensi dell’art. 1339 c.c., di modo che l’azione di responsabilità per inadempimento contrattuale esercitata dalla parte attrice risulta priva di fondamento, perchè basata su una clausola contrattuale inesistente, perchè non risultava introdotta nel contratto di utenza.

La stessa decisione (lo si rileva per completezza), avuto riguardo al riferimento della sentenza allora impugnata ad una integrazione per effetto della deliberazione dell’A.E.E.G. anche ai sensi dell’art. 1374 c.c., ha ribadito che al riguardo valgono le stesse considerazioni svolte a proposito della inidoneità a svolgere la funzione di cui all’art. 1339 c.c., soggiungendo, altresì, che "Mette conto di osservare, tuttavia, che la pertinenza nella specie dell’istituto di cui all’art. 1374 c.c., sembrerebbe doversi escludere, poichè la norma postula l’integrazione del contratto con riguardo ad aspetti non regolati dalle parti e, quindi, svolge tradizionalmente una funzione suppletiva e non di imposizione di una disciplina imperativa, come accade per l’istituto di cui all’art. 1339 c.c." e che "Nella logica del sistema di cui alla L. n. 481 del 1995, la previsione del potere di integrazione del contratto di utenza, esercitabile dall’A.E.E.G. nei sensi su indicati, è certamente espressione non di supplenza, ma di imposizione di un regolamento ritenuto autoritativamente dovuto". p. 3. Il ricorso è, dunque, accolto per quanto di ragione sulla base dello scrutinio complessivo ed unitario dei primi quattro motivi e la sentenza è cassata.

Gli altri due motivi, essendo basati sul presupposto che la nota delibera avesse svolto efficacia integrativa, restano assorbiti. p. 4. Il Collegio reputa a questo punto che non vi sia necessità di rinvio, potendo la causa essere decisa nel merito, in quanto non occorrono accertamenti di fatto per ritenere che l’appello dell’Enel debba essere accolto e la domanda proposta dal C., in riforma della sentenza del Giudice di Pace, debba essere rigettata.

Al riguardo, la sua infondatezza emerge, infatti, anche per il profilo subordinato, inerente il preteso inadempimento dell’obbligo di informazione: è evidente che, se la delibera non ha integrato il contratto per la sua indeterminatezza, l’oggetto dell’obbligo de quo non può essere insorto. p. 5. Le spese delle fasi di merito, sulle quali questa Corte deve provvedere, possono essere integralmente compensate, giacchè è notorio che nella giurisprudenza di merito la questione di diritto dell’efficacia della norma della nota deliberazione è stata decisa in modi opposti.

Le spese del giudizio di cassazione seguono invece la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione riguardo ai primi quattro motivi. Dichiara assorbito il quinto ed il sesto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, pronunciando sul merito, accoglie l’appello e rigetta la domanda del C.. Compensa le spese dei gradi di merito. Condanna il C. alla rifusione alla ricorrente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro seicento, di cui Euro duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 19-09-2011, n. 7353 Esclusioni dal concorso

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Sussistono i presupposti di fatto e di diritto per la definizione immediata della causa e di ciò è stato dato avviso alle parti.

Il ricorrente, allievo ufficiale di complemento, in ferma dal 14 dicembre 1995 al 24 dicembre 1996, ha presentato domanda per partecipare al concorso per la nomina a sottotenente di vascello in servizio permanente nei ruoli normali della Marina.

L’intimata amministrazione lo ha escluso dal concorso in quanto "essendo nato il 1 luglio 1971, alla data di scadenza del termine di presentazione delle domande di partecipazione (21 marzo 2011) ha superato il limite massimo di 32 anni prescritto dall’art. 2, c. 1, lett. a) numero 3) del bando di concorso".

L’interessato sostiene di avere diritto alla elevazione del limite di età (40 anni) in quanto ufficiale di complemento; infatti, sia il bando di concorso (art. 2) che l’art. 653 del D.Lvo n. 66/2010 (c.d. codice dell’ordinamento militare) prevedono che al concorso de quo possono partecipare i concorrenti che non hanno superato il 40° anno di età se ufficiali in ferma prefissata dell’esercito, marina o aeronautica militare che hanno completato un anno di servizio o se ufficiali inferiori delle forze di complemento.

Si è costituito il Ministero della Difesa per resistere al gravame.

In data 27 maggio 2011, il difensore del sig. M. ha depositato brevi note a confutazione delle controdeduzioni di parte resistente nonché a sostegno delle proprie ragioni di doglianza.

Il ricorso è infondato.

Il ricorrente sostiene di avere diritto alla elevazione del limite di età (40 anni) in quanto ufficiale di complemento in congedo.

Per meglio inquadrare la vicenda, è utile ripercorrere l’evoluzione normativa che ha caratterizzato il processo di ristrutturazione in atto nelle Forze Armate.

Tale processo, connesso con l’attuazione della legge n. 331 del 14 nov. 2000 relativa all’abolizione della leva e del passaggio graduale al reclutamento volontario, ha introdotto importantissime novità, anche sullo stato ed avanzamento degli Ufficiali.

In particolare, la disponibilità di Ufficiali, su base volontaria e con specifiche attitudini professionali, offre la possibilità di coniugare le potenzialità della società civile con le esigenze militari di completamento.

La legge n.331/2000, "Istituzione del servizio militare volontario professionale" prevede una nuova categoria di Ufficiali, quella degli "Ufficiali Ausiliari".

Essi riguardano ciascuna Forza Armata, l’Arma dei Carabinieri ed il Corpo della Guardia di Finanza e vengono reclutati annualmente, secondo le disponibilità in bilancio ed in funzione delle esigenze operative del momento.

Il decreto legislativo n. 215 dell’8 maggio 2001 "Disposizioni per disciplinare la trasformazione progressiva dello strumento militare in professionale, a norma dell’art.3, comma1 della legge 14 nov.2000, n.331" stabilisce che la categoria degli Ufficiali Ausiliari interessa i cittadini di ambo i sessi e comprende:

– gli Ufficiali di complemento in servizio di prima nomina (in atto con il servizio di leva fino al 2006 per i giovani nati entro il 1985) e in ferma o rafferma biennale, reclutati ai sensi della normativa vigente, o dal congedo;

– gli Ufficiali piloti di complemento reclutati ai sensi dei titoli II e III della legge n.224 del 19 maggio 1986;

– Ufficiali in ferma prefissata o in rafferma;

– Ufficiali delle Forze di Completamento.

Gli Ufficiali delle Forze di Completamento, previsti nel contesto della categoria Ausiliari dal decreto legislativo n.215/01 sono costituiti dal personale in congedo di complemento o in ferma prefissata.

Previo loro consenso, gli Ufficiali possono essere richiamati in servizio per un periodo non superiore ad un anno rinnovabile una sola volta a domanda dell’interessato e quindi collocati in congedo.

Le Forze di Complemento costituiscono, dunque, le nuove riserve delle Forze Armate (appunto, denominate Forze di Completamento) e si basano, in via prioritaria, sul richiamo su base volontaria di personale che abbia (già) espresso, all’atto del congedo o successivamente, la propria disponibilità.

Tale particolare categoria di personale affluirà, successivamente, al reggimento o all’unità presso la quale ha prestato servizio o ad altro ente di sua scelta.

In questo scenario, è entrato in vigore il decreto legislativo n. 66/2010 (Codice dell’Ordinamento Militare).

Recita l’art. 653 del suddetto decreto:

"1. Gli ufficiali in ferma prefissata, che hanno completato un anno di servizio e che sono in possesso di diploma di laurea, e gli ufficiali inferiori delle forze di completamento possono partecipare ai concorsi per il reclutamento degli ufficiali dei ruoli normali di cui all’art. 652, sempre che gli stessi non superino:

a) il 40° anno d’età, se ufficiali dell’Esercito italiano, della Marina militare o dell’Aeronautica militare;

b) il 34° anno di età se ufficiali dell’Arma dei carabinieri.

2. Il servizio prestato in qualità di ufficiale in ferma prefissata costituisce titolo ai fini della formazione delle graduatorie di merito.

3. Al termine dei prescritti corsi formativi, gli ufficiali provenienti dalle forze di completamento sono iscritti in ruolo, con il grado rivestito, dopo l’ultimo dei parigrado in ruolo".

Statuisce il successivo art. 987:

"1. In relazione alla necessità di disporre di adeguate forze di completamento, con specifico riferimento alle esigenze correlate con le missioni all’estero ovvero con le attività addestrative, operative e logistiche sia sul territorio nazionale sia all’estero, gli ufficiali di complemento o in ferma prefissata, su proposta dei rispettivi Stati maggiori o Comandi generali e previo consenso degli interessati, possono essere richiamati in servizio con il grado e l’anzianità posseduta e ammessi a una ferma non superiore a un anno, rinnovabile a domanda dell’interessato per non più di una volta, al termine della quale sono collocati in congedo.

2. Con decreto del Ministro della difesa sono definite in relazione alle specifiche esigenze di ciascuna Forza armata:

a) le modalità per l’individuazione delle ferme e della loro eventuale estensione nell’ambito del limite massimo di cui al comma 1;

b) i requisiti fisici e attitudinali richiesti ai fini dell’esercizio delle mansioni previste per gli ufficiali chiamati o richiamati in servizio. Gli ordinamenti di ciascuna Forza armata individuano gli eventuali specifici requisiti richiesti, anche relativamente alle rispettive articolazioni interne".

La lex specialis di concorso ha recepito il contenuto dispositivo delle norme primarie.

Come si evince de plano dalla combinata lettura delle disposizioni normative e di bando, il beneficio della elevazione del limite di età non è generalizzato in favore di tutti gli ufficiali di complemento, bensì, opera esclusivamente in favore di quegli ufficiali che appartengono alle c.d. "Forze di complemento".

Del tutto evidente, sempre alla stregua del quadro normativo e storico come sopra ricostruito, la non identità funzionale ed ontologica tra lo status di ufficiale di complemento (posseduto dal ricorrente) e la categoria delle "Forze di Complemento" nella quale confluisce il personale che all’atto del congedo abbia espresso la propria disponibilità ad essere richiamato in servizio e che sia stato successivamente utilizzato secondo le prescrizioni e le modalità di cui all’art. 987 del D.Lvo n. 66/2010.

Lo status di ufficiale di complemento è presupposto necessario ma non unico per l’inquadramento nelle "Forze di Complemento".

Ed invero, l’appartenenza alla categoria delle "Forze di complemento" implica che il personale in congedo sia stato richiamato in servizio, su proposta dei rispettivi Stati maggiori o Comandi generali, con il grado e l’anzianità posseduta, previo consenso dello stesso interessato, per sopperire alle necessità di disporre di adeguate Forze (appunto, di Complemento), con specifico riferimento alle esigenze correlate alle missioni all’estero ovvero con le attività addestrative, operative e logistiche sia sul territorio nazionale che all’estero.

Il ricorrente, come da lui stesso ammesso, ha prestato servizio, nel 1995/1996, in qualità di ufficiale di complemento della marina militare, così assolvendo (semplicemente) al servizio di leva.

Non ha, di converso, comprovato l’appartenenza alla categoria delle Forze di Complemento.

Evidente, dunque, come la sua pretesa (aumento del limite di età a 40 anni) risulti infondata ovvero basata su un presupposto erroneo.

Deve concludersi, pertanto, nel senso che correttamente l’amministrazione ha applicato nei confronti del ricorrente il limite ordinario di 32 anni di età, fissato per la partecipazione al concorso de quo

In conclusione, il ricorso va respinto mentre le spese di giudizio, considerata la particolarità della fattispecie e la novità della questione, possono trovare integrale compensazione.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-02-2012, n. 1475 Previdenza integrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata del 23 settembre 2009, la Corte d’appello di Torino confermava la statuizione di primo grado con cui il Fondo Pensioni per il Personale della Cassa di Risparmio di Torino era stato condannato ad erogare a B.G.L., M. O. e A.G. cessati dal servizio rispettivamente il 31 ottobre 1994, il 31 marzo 1994 e il 31 agosto 1994, la differenza della pensione integrativa tra quanto erogato e la maggior somma spettante con l’inclusione della indennità di vacanza contrattuale. La Corte adita osservava che il CCNL del 19.12.94 prevedeva la indennità di vacanza contrattuale anche per il personale cessato dal servizio nel 1993, ma ne escludeva il computo ai fini del trattamento di previdenza e quiescenza, salvo diversa previsione dello Statuto: che lo Statuto del Fondo, approvato con D.P.R. n. 469 del 1973, aveva incluso nella retribuzione pensionabile "gli importi dovuti per contratti o accordi aventi effetto retroattivo (art. 31, n. 12) e "qualunque altra indennità corrisposta con carattere continuativo (art. 31, n. 11); che era controversa tra le parti proprio l’applicazione del predetto Statuto, poichè il Fondo sosteneva che era invece applicabile quello successivo, approvato il 26 maggio 1994, sottoposto a referendum tra gli iscritti e decorrente dal primo gennaio 1993, il quale non riproduceva le previsioni di cui ai citati nn. 11 e 12 dell’art. 31, per cui nella pensione integrativa non doveva essere computata l’indennità di vacanza contrattuale.

La Corte territoriale rilevava che il fondo esonerativo dell’AGO, cui erano stati iscritti i difendenti degli istituti di credito, aveva mutato la sua natura giuridica ad opera del D.Lgs. n. 357 del 1990, il quale aveva disposto la iscrizione dei medesimi dipendenti all’AGO, presso una gestione speciale dell’Inps, e la soppressione e la contestuale trasformazione del fondo esonerativo in fondo integrativo, prescrivendo altresì che le modificazioni statutarie del nuovo fondo integrativo dovessero essere sottoposte all’approvazione del Ministero del Lavoro ( D.Lgs. n. 357 del 1990, art. 5, comma 5). Osservava la Corte adita che il nuovo Statuto del Fondo del 1994 non era mai stato approvato dal Ministero del lavoro ed escludeva poi che detta approvazione fosse stata abolita dalla legislazione successiva in materia di previdenza complementare. Era vero infatti che anche per i fondi integrativi ex esonerativi, come quello in causa, era stata prevista l’inclusione nell’albo delle forme di previdenza complementare già esistenti, ai sensi del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 18, successivamente modificato dalla L. n. 335 del 1995, art. 14, ed era vero altresì che, ancora successivamente, la L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 40 (con l’aggiunta del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 18, comma 6 bis) aveva eliminato la necessità di qualunque previa autorizzazione alle modifiche statutarie dei fondi di previdenza complementare, ma detta disposizione – affermava la Corte – riguardava solo i fondi di previdenza complementare già esistenti alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993, non già quelli in esame, i quali erano passati da esonerativi ad integrativi. La prova che il fondo di cui è causa era diverso da quelli effettivamente complementari era anche dimostrato dal fatto che un vero fondo di previdenza complementare era stato poi istituito con l’accordo tra la Banca e le OO.SS. del 24 novembre 1993. In ogni caso, soggiungevano i Giudici d’appello, anche a ritenere che l’abolizione di ogni approvazione delle modifiche statutarie di cui alla citata L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 40, riguardasse anche i fondi ex esonerativi, detta abolizione non poteva che operare a partire dall’entrata in vigore della legge di abolizione, ossia dal primo gennaio 1998 e quindi non poteva incidere sulla posizione del pensionato attore in giudizio, che era cessato dal servizio in epoca ben precedente. Da ciò discendeva l’operatività delle previsioni statutarie del 1973 e quindi il diritto alla inclusione, nella pensione integrativa, della indennità di vacanza contrattuale.

Nessuna incidenza aveva poi l’accordo sindacale del 24 novembre 1993.

Questo, infatti, era intervenuto per mantenere ferme le disposizioni statutarie del 1973 in relazione al ragguaglio della pensione integrativa alla retribuzione dell’ultimo anno, in deroga al peggioramento disposto dal D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 9 (retribuzione media degli ultimi cinque anni), senza toccare però la retribuzione pensionabile, perchè le parti avevano convenuto a tal fine di pervenire ad una concorde ristesura dello Statuto del fondo, ponendo come principio solo l’inclusione dell’indennità di rischio e delle indennità ad personam.

Avverso detta sentenza il Fondo soccombente ricorre con sette motivi.

Resiste il pensionato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Vanno preliminarmente rigettate le eccezioni sollevate dalla parte contro ricorrente sulla inidoneità dei quesiti di diritto, perchè l’art. 366 bis cod. civ.. inserito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, che ne prevedeva la necessità, è stato abrogato ad opera della L. n. 69 del 2009, art. 47, comma 1, lett. d), per l’impugnazione delle sentenze pubblicate dopo il 4 luglio 2009, com’è nella specie.

Infondate sono anche le eccezioni concernenti la inammissibilità del ricorso per la mancata indicazione dei documenti su cui il ricorso si fonda ex art. 366, comma 1, n. 6, e la sua improcedibilità ex art. 369, comma 4, n. 4 del vitato codice per avere depositato solo stralci del CCNL. Il ricorso infatti non si fonda su detti documenti, perchè sulla interpretazione della contrattazione collettiva le parti sono concordi e quindi non vi è necessità di procedere al relativo esame.

1. Con il primo mezzo, si denunzia violazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, artt. 1, 16, 17 e 18 e della L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 40, in relazione anche all’art. 12 preleggi, per avere escluso la efficacia dello Statuto del 1994, ritenendo necessaria l’approvazione ministeriale. Erroneamente la sentenza impugnata avrebbe negato che esso Fondo ricorrente, essendo ex esonerativo, rientrasse tra le forme di previdenza complementare già esistenti, contemplate dal D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 18. Dovendo invece essere incluso nel predetto art. 18, era quindi applicabile la disposizione che aveva eliminato la necessità dell’approvazione ministeriale.

2. Con il secondo motivo, denunziando violazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 18, comma 6 bis, dell’art. 1362 cod. civ. e dell’accordo sindacale del 24 novembre 1993, nonchè dello Statuto del 1994, il Fondo si duole ancora che i Giudici d’appello abbiano negato la sua inclusione nelle forme di previdenza complementare, sul rilievo che solo con l’accordo sindacale indicato era stata introdotta la previdenza complementare. Ribatte il ricorrente che detto accordo sindacale riguardava la previdenza complementare dei dipendenti assunti successivamente al primo gennaio 1991, il che quindi non smentiva la natura di fondo complementare o integrativo di esso ricorrente, che era riservato a diversa categoria di personale, ossia a coloro che erano già in servizio alla data del 31 dicembre 1990, allorchè vi era stata appunto la trasformazione da esonerativo a integrativo ad opera del D.Lgs. n. 357 del 1990, art. 2. 3. Con il terzo mezzo, denunziando difetto di motivazione, si reiterano le argomentazioni già svolte, e cioè che non sarebbe corretto dedurre, dalla programmata istituzione di una forma di previdenza complementare (quella riservata agli assunti dopo il primo gennaio 1991), l’inesistenza di una forma complementare precedente (quella appunto riguardante il personale in servizio alla data del 31 dicembre 1990).

4. Con il quarto mezzo, denunziando violazione delle medesime disposizioni, si critica la sentenza per avere affermato che la abolizione della approvazione ministeriale dello Statuto del 1994, ad opera della L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 40, era ininfluente nei confronti dell’attuale contro ricorrente perchè non potrebbe che decorrere dal primo gennaio 1998, mentre il lavoratore era cessato dal servizio in epoca ben anteriore. Sostiene di contro il ricorrente che l’approvazione ministeriale costituirebbe solo una condizione di operatività dell’atto e non già un requisito di validità, per cui opera retroattivamente, a decorrere dalla sua conclusione. La sopravvenuta impossibilità della approvazione, ad opera della citata disposizione del 1997, determinerebbe la piena applicazione e l’efficacia temporale dello Statuto del 1994, essendo ormai di per sè completo.

5. Con il quinto mezzo si lamenta violazione del D.Lgs. n. 503 del 1992, artt. 2, 3, 6, 7, e 9 e dell’art. 1362 cod. civ., perchè, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, l’accordo del 24 novembre 1993 non avrebbe immediatamente ripristinato il sistema più favorevole di liquidazione della pensione sulla base dell’ultimo mese di servizio, in deroga alla norma peggiorativa di cui all’art. 9 del D.Lgs., che commisurava la pensione alla retribuzione degli ultimi cinque anni, ma con l’accordo medesimo le parti avrebbero solo pattuito di introdurre la regola più favorevole nel nuovo Statuto.

6. Con il sesto motivo si denunzia ancora violazione delle medesime disposizioni, per avere affermato che raccordo aziendale del 24 novembre 1993 aveva ripristinato il sistema di calcolo di cui al precedente Statuto del 1973, senza però considerare che l’art. 4 decimo capoverso dell’accordo medesimo, aveva escluso il computo, nella pensione integrativa, della richiesta indennità di vacanza contrattuale.

7. Con il settimo ed ultimo motivo, denunziando la contraddittorietà della sentenza, si reiterano nella sostanza le censure di cui al motivo precedente: sarebbe contraddittorio affermare il carattere vincolante dell’accordo del 24 novembre 1993 nella parte in cui ripristina il regime più favorevole di commisurazione della pensione integrativa alla retribuzione dell’ultimo anno (invece che alla media del quinquennio precedente) ed il carattere non vincolante delle restati clausole sulla determinazione della retribuzione pensionabile, escludente la indennità di vacanza contrattuale.

I primi quattro motivi di ricorso mentano accoglimento e determinano l’assorbimento degli altri.

7. La causa verte sulla seguente questione: se la pensione integrativa, erogata dal Fondo attuale ricorrente, a un dipendente cessato dal servizio il 31 ottobre 1994, il 31 marzo 1994 e il 31 agosto 1994, debba o no essere comprensiva dell’indennità di vacanza contrattuale. Questa era stata introdotta dal CCNL del 19.12.94, il quale ne disponeva la esclusione dal calcolo della pensione integrativa, ma, faceva però salva una diversa disposizione dello Statuto del Fondo, e la riserva era ovvia, giacchè il sistema di calcolo di dette pensioni non poteva che essere dettato dallo Statuto, che ne è la normativa regolatrice esclusiva.

8. Da ciò l’ulteriore questione, centrale nel giudizio, di quale fosse lo Statuto da applicare, essendovi sul punto contrasto tra le parti: per il Fondo ricorrente, in caso di cessazione al 31 dicembre 1993, doveva applicarsi lo Statuto del 26 maggio 1994, le cui disposizioni decorrevano dal primo gennaio 1993. Poichè detto Statuto pacificamente escludeva dal computo della pensione integrativa la indennità di vacanza contrattuale (così infatti ha ritenuto la sentenza impugnata, e sul punto non ci sono censure), l’attuale ricorrente insisteva per la infondatezza della pretesa.

Diversa era la tesi del pensionato, il quale, eccependo l’inefficacia dello Statuto del 191 perchè non aveva ricevuto la prescritta approvazione ministeriale, sosteneva doversi applicare il precedente Statuto del 1973, il quale comprendeva invece nella pensione integrativa gli importi dovuti per contratti o accordi aventi effetto retroattivo (art. 31, n. 12) e qualunque altra indennità corrisposta con carattere continuativo (art. 31, n. 11), con conseguente suo diritto alla inclusione, nella pensione integrativa, della indennità di vacanza contrattuale.

9. Occorre quindi decidere se lo Statuto del 1994, invocato dal Fondo regoli o no la pensione integrativa dell’attuale controricorrente, avendo riguardo alla complessa normativa che sul punto si è succeduta.

10. Com’è noto, con la L. 30 luglio 1990, n. 218 e con il D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 357, è stato profondamente modificato il sistema assicurativo dei dipendenti bancari: il fondo "esonerativo" dell’AGO cui costoro erano iscritti, si è trasformato in fondo "integrativo", ossia anche questo personale è stato iscritto all’AGO, mantenendo però la tutela del vecchio fondo, il quale "integra" la pensione erogata dall’AGO, per garantire un migliore trattamento complessivo.

A detto fondo integrativo sono stati iscritti i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1990 e non coloro che sarebbero stati assunti da data successiva, lo prevede espressamente l’art. 2 del citato D.Lgs. n. 357 del 1990, si trattava quindi di un fondo ad esaurimento.

10.1. Il medesimo D.Lgs. n. 357 del 1990, art. 5, comma 5, prescriveva che le modifiche dello Statuto fossero assoggettate all’approvazione del Ministero del Lavoro, ed è pacifico che lo Statuto del 1994, non abbia mai ricevuto detta approvazione (pur ritenuta necessaria dalla giurisprudenza di questa Corte, cfr. Cass. 8687/99). Occorre però verificare se, a seguito delle modifiche legislative, detta disposizione sia stata abrogata e quindi se sia stata abolita l’approvazione ministeriale, nonchè gli effetti che ne derivano.

10.2. Vi è da rilevare che alla data di approvazione del nuovo Statuto, 26 maggio 1994, incerto se le modifiche statutarie dei fondi ex esonerativi dovessero ancora essere assoggettate all’approvazione del Ministero del Lavoro, come prescritto dal D.Lgs. n. 357 del 1990, art. 5, comma 5, oppure il regime delle approvazioni fosse stato modificato perchè detti fondi dovevano rientrare nell’alveo della previdenza complementare, introdotta nell’ordinamento dal D.Lgs. n. 124 del 1993, e precisamente nelle forme pensionistiche istituite prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, perchè, in caso positivo, il regime delle approvazioni sarebbe stato diverso, giacchè la vigilanza e quindi l’approvazione degli Statuti è rimessa ad una Commissione (peraltro istituita presso lo stesso Ministero del Lavoro), ai sensi citato D.Lgs. n. 124 del 1993, artt. 16 e 17. L’esistenza di questa incertezza è testimoniata dal parere richiesto al Consiglio di Stato dell’11 gennaio 1995 (cui si fa riferimento sia in ricorso, sia in controricorso), il quale prospettò l’esigenza di un intervento legislativo ad hoc per chiarire quale fosse il regime applicabile ai fondi ex esonerativi.

10.3. L’auspicato intervento legislativo seguì ad opera della L. n. 335 del 1995, che, all’art. 14 (nel sostituire il testo del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 17) ha espressamente contemplato "i fondi di cui al D.Lgs. n. 357 del 1990, art. 2", per cui si deve sicuramente concludere che la normativa in tema di previdenza complementare, ivi compresa quella concernente la vigilanza e l’approvazione degli statuti, si applica anche ai fondi "ex esonerativi" dei dipendenti bancari, qual e quello di cui è causa, in tal senso si è anche pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 393 del 2000. 10.4. E’ poi errato quanto si rileva nella sentenza impugnata, per cui l’attuale ricorrente poteva avere natura di fondo di previdenza complementare, rientrante nell’ambito del D.Lgs. n. 124 del 1993, perchè un vero fondo di previdenza complementare era stato istituito solo dall’accordo tra la Banca e le OO.SS. del 24 novembre 1993.

L’argomentazione è errata perchè l’accordo sindacale richiamato in sentenza riguardava la previdenza complementare dei dipendenti assunti successivamente al primo gennaio 1991, mentre si tratta in causa del fondo integrativo di cui al D.Lgs. n. 357 del 1990, art. 2, che era riservato a coloro che erano già in servizio alla data del 31 dicembre 1990. conseguente alla trasformazione dal fondo medesimo da esonerativo a integrativo.

10.5. Ne discende che, rientrando il Fondo ricorrente nell’ambito della previdenza complementare, a partire dalla entrata in vigore della L. n. 335 del 1995, l’approvazione dello Statuto non competeva più al Ministero del Lavoro, ma alla Commissione di cui il D.Lgs. n. 124 del 1993, artt. 17 e 18, come modificati dalla L. n. 335 del 1995, art. 14. Ha quindi errato la sentenza impugnata nell’affermare la perdurante necessità dell’approvazione dello Statuto del 1994 ad opera del Ministero del Lavoro e quindi, in mancanza, la sua inefficacia a regolare la pensione della parte controricorrente.

10.6. Va però ulteriormente considerato che neppure la Commissione sembra avere mai provveduto all’approvazione dello Statuto del 1994.

Il Fondo ricorrente invoca però una successiva disposizione che, secondo la sua tesi, avrebbe eliminato la necessità della approvazione, e da ciò conseguirebbe la piena efficacia dello Statuto indicato.

Si tratta della L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59, comma 40, con cui si inserisce, al D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 18, il comma 6 bis, il quale, dopo avere disposto che le forme di previdenza complementare preesistenti devono essere iscritte in una sezione speciale dell’albo, tenuto dalla Commissione, e dopo avere disposto che l’attività di vigilanza sarebbe stata espletata da parte della Commissione secondo "piani di attività differenziati temporalmente…" prevede, nell’ultima parte "Alle modifiche statutarie relative alle forme pensionistiche di cui al comma 1…..deliberate prima della iscrizione nella sezione speciale dell’albo dei fondi pensione disposta dalla Commissione, non si applicano l’art. 17, comma 2, lett. b), o comunque altre procedure di autorizzazione".

Pertanto le modificazione degli statuti, se deliberate prima della iscrizione nell’albo, non sono soggette nè alla approvazione della Commissione, come pur prevedeva il D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 17, comma 2, lett. b), nè ad alcun altra autorizzazione.

10.7. La ratio della disposizione appare chiara: si tratta di una norma transitoria finalizzata a conferire finalmente efficacia alle modifiche statutarie che i fondi di previdenza complementare avevano deliberato, anche in tempi remoti, e che erano rimaste prive del provvedimento di approvazione, e quindi inefficaci, a causa delle vicissitudini normative conseguenti alla introduzione della previdenza complementare, che aveva modificato il regime delle approvazioni (donde la situazione di incertezza che aveva indotto a chiedere il parere de Consiglio di Stato), trasferendole dal Ministero del Lavoro alla Commissione di nuova istituzione, la quale, peraltro non avrebbe potuto provvedere tempestivamente, essendo appunto previsti, per l’attività di vigilanza sui fondi già iscritti, "piani di attività differenziati temporalmente…". 10.8. Quanto alla efficacia nel tempo della abolizione di detta autorizzazione, questione trattata con il quarto motivo, ha errato la Corte territoriale nell’affermare che detta abolizione operava solo dalla data di entrata in vigore della L. n. 449 del 1997 e quindi dal primo gennaio 1998, di talchè non poteva valere nei confronti della parte contro ricorrente, cessata dal servizio in epoca ben precedente.

In primo luogo va considerato che l’esistenza giuridica dello statuto coincide con l’emanazione di esso, giacche il visto o l’approvazione dell’autorità tutoria non attiene alla sua formazione, ma è un requisito di esecutorietà che opera ex tunc, rendendo cioè l’atto produttivo di effetti sin dalla data della sua emanazione (cfr. tra le tante Cass. 4490/99).

Va considerato altresì che, nè nel D.Lgs. n. 357 del 1990, nè nella normativa sulla previdenza complementare è reperibile alcuna disposizione prescrittiva del termine entro il quale lo statuto doveva e deve essere approvato dall’autorità tutoria.

Se dunque l’approvazione dello Statuto costituiva una condizione a cui era subordinata l’efficacia dell’atto, per cui – una volta data l’approvazione – gli effetti sicuramente retroagivano all’epoca della sua emanazione, lo stesso esito non può non verificarsi nel caso di eliminazione dell’ approvazione: una volta eliminato l’elemento che ne condizionava l’efficacia, non vi è più nulla che impedisca il pieno dispiegamento di tutti i suoi effetti, ivi compresa la data di decorrenza ivi indicata, e che quindi o statuto del 1994 debba regolare, come da sua espressa previsione, contribuzioni e pensioni a partire dal primo gennaio 1993, incidendo così sulla posizione dell’attuale parte controcorrente.

Peraltro non è possibile ritenere che la abolizione dell’approvazione operi ex nunc, come ritiene la sentenza impugnata, e quindi si riferisca solo alle modifiche statutarie intervenute dopo l’entrata in vigore della legge, se si considera che, secondo il tenore letterale della norma, detta abolizione opera esclusivamente per le modifiche statutarie intervenute "prima" dell’iscrizione all’albo e sicuramente prima dell’entrata in vigore della legge, ossia in data anteriore al primo gennaio 1998.

La eliminazione della approvazione, peraltro attraverso l’uso di una formula perentoria, "comunque altre procedure ai autorizzazione…", fa sì che nulla più impedisce l’efficacia delle modificazioni, per come tali erano state deliberate, ossia con la originaria decorrenza del primo gennaio 1993. 11. L’accoglimento dei primi quattro motivi determina la cassazione della sentenza impugnata, senza necessità di esaminare gli altri tre, che vertono sull’interpretazione dell’accordo del 24 novembre 1993, essendo ormai accertata la efficacia dello Statuto del 1994 e quindi la esclusione della indennità di vacanza contrattuale dalla pensione integrativa.

Non essendovi necessità di ulteriori accertamenti all’esito dei principi affermati, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda di cui al ricorso introduttivo.

La novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di cui al ricorso introduttivo.

Compensa le spese dell’intero processo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.