T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 07-11-2011, n. 8472 Demolizione di costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Visto l’articolo 60, comma 1, c.p.a., che facoltizza il Tribunale amministrativo regionale a definire il giudizio nel merito, con sentenza in forma semplificata, in sede di decisione della domanda cautelare, una volta verificato che siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso ed accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria;

Rilevato:

che nella specie il presente giudizio può essere definito con decisione in forma semplificata, ai sensi del menzionato art. 60, comma 1, c.p.a., stante la completezza del contraddittorio e della documentazione di causa;

che sono state espletate le formalità dell’art. 60 c.p.a.;

Rilevato:

che con il gravame in esame si impugna l’ordinanza con cui si ingiunge la demolizione, ai sensi dell’art. 16 della legge regionale n. 15/2008, in relazione a due cambi di destinazione d’uso, da cantina ad appartamento, con utilizzo anche dell’intercapedine, per una superficie di 35 mq, e di un lavatoio sempre in residenziale, risultante collegato mediante una scala all’appartamento sottostante, per una superficie di 25 mq;

che il provvedimento censurato reca in modo inequivocabile la richiamata disposizione in concreto applicata, la quale risulta conferente, stante appunto un cambio di destinazione d’uso, la cui sussistenza è incontestata, comportante una maggiore superficie residenziale che va ad incidere sugli standards urbanistici;

Considerato:

che la sanzione ripristinatoria, comminata nei confronti della ricorrente, fosse necessitata, non essendo nella specie ammissibile quella pecuniaria alternativa, come al contrario sostiene invece la stessa;

che infatti detta sanzione alternativa è consentita ex lege solo ove quella demolitoria possa arrecare pregiudizio alla statica della parte conforme, mentre nel caso in esame parte istante l’invoca per la diversa ipotesi, ricorrente in concreto, non contemplata in alcuna disposizione normativa, della validità di contratti di locazione con riguardo alle unità abitative, derivanti dal cambio di destinazione d’uso;

che i rapporti della ricorrente – proprietaria e locatrice – con soggetti terzi – locatari – attengono al differente profilo civilistico, che non può dispiegare effetti sulla scelta della misura sanzionatoria, da parte dell’Amministrazione comunale;

che naturalmente incisi dall’ingiunzione di demolizione risultano inequivocabilmente il cambio di destinazione d’uso e le opere realizzate per conseguirlo e, pertanto, l’intervento richiesto per darvi esecuzione è il ripristino dello status quo ante, vale a dire la demolizione di dette opere e la riconduzione dei locali interessati all’originaria destinazione;

che non risulta alcun contrasto tra il contenuto della comunicazione di avvio del procedimento e quello del provvedimento gravato, tenuto conto che la descrizione contenuta in quest’ultimo è soltanto molto più dettagliata e puntuale, ma non già attinente ad un diverso abuso edilizio;

Ritenuto:

che, come anche sopra rilevato, il Comune resistente dovesse adottare la sanzione demolitoria, essendo la sua irrogazione espressione di attività vincolata, atteso il ricorrere in concreto della fattispecie di cui al menzionato art. 16 della legge regionale n. 15/2008;

che, pertanto, in ragione della rilevata natura vincolata del provvedimento, la sua adozione qualche giorno prima che scadesse il termine offerto alla ricorrente per presentare memorie endoprocedimentali non determini l’annullamento dello stesso, in base a quanto previsto dall’art. 21 octies della legge n. 241/1990 e s.m.i.;

che, quanto all’asserita violazione del diritto di difesa, che deriverebbe dalla circostanza che alla ricorrente è stato concesso il termine di 30 giorni per dare esecuzione all’ordine di demolizione, sia necessario rilevare che tale termine sia invece congruo e conforme alla legge, la quale nulla stabilisce al riguardo (è infatti fissato solo un termine massimo per provvedervi), essendo in ogni caso la demolizione d’ufficio non automatica, allo scadere del suddetto termine, ma disposta solo in un momento successivo, una volta accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione;

che in conclusione il ricorso sia infondato e da rigettare;

che le spese di giudizio, i diritti e gli onorari seguano la soccombenza, ponendosi a carico della ricorrente, e debbano liquidarsi come in dispositivo;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione I Quater – definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso in epigrafe.

Condanna la ricorrente alle spese di giudizio, forfetariamente quantificate in Euro 1.000,00 (mille/00), in favore del Comune resistente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 16-06-2011) 24-10-2011, n. 38294

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione G.R. avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona in data 10 giugno 2010 con la quale è stata confermata quella di primo grado, di condanna per il concorso nel reato di furto pluriaggravato in appartamento, commesso l’8 gennaio 2004 ai danni di M.F.. La affermazione di responsabilità poggiava sul rilievo che la Polizia scientifica aveva evidenziato, sulla porta di ingresso dell’appartamento visitato dai ladri, impronte, una delle quali, palmare, era riferibile alla persona dell’imputato; in secondo luogo la persona offesa aveva dichiarato di avere visto quattro persone sconosciute che scendevano per le scale dello stabile durante le ore in cui fu perpetrato il furto.

Deduce (motivi avv. Matteis):

1) la violazione di legge e vizio di motivazione.

La Corte di appello anzichè fornire un proprio apparato argomentativo a sostegno della condanna, si sarebbe limitata a riportare giurisprudenza e a rendere una affermazione errata quale quella secondo cui uno degli elementi di prova deriverebbe dalla mancata spiegazione, da parte dell’imputato, circa la presenza delle sue impronte sulla porta.

Oltre a tradire le norme sull’onere della prova, incombente sulla accusa, la Corte aveva mancato di chiarire il punto centrale dell’intero ragionamento probatorio: e cioè il motivo per il quale la presenza di impronte dell’imputato sul lato esterno della porta di ingresso dell’appartamento del denunciante potesse costituire prova della sua partecipazione al furto;

2) la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alle aggravanti addebitate.

La circostanza ex art. 625 c.p., n. 2) era del tutto sfornita di giustificazione; quella ex art. 625, n. 5) era basata sulla affermazione – insufficiente – della persona offesa, di avere visto quattro sconosciuti nello stabile; quella ex art. 61 c.p., n. 5) era stata mal applicata in relazione ad un reato contro il patrimonio;

3-4) la omessa considerazione della richiesta di applicazione della attenuante ex art. 62 c.p., n. 4, delle attenuanti generiche e della diminuzione di pena, irrogata nella elevata misura di anni tre di reclusione. motivi avv. Cofanelli:

1) la violazione degli artt. 359 e 360 c.p.p. e il vizio di motivazione.

La affermazione di responsabilità è stata fondata sugli esiti dei rilievi dattiloscopici ma di questi i giudici avevano acquisito soltanto le conclusioni raggiunte dalla Polizia e non anche gli ingrandimenti dei punti relativi, sicchè alla difesa non era stato reso possibile contro-dedurre, ossia ad esercitare un diritto pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza, così come dalla stessa puntualmente denunciato nei motivi di appello;

2) la violazione di legge e il vizio di motivazione sulle ritenute aggravanti e sul diniego della attenuante ex art. 62 c.p., n. 4, esclusa nonostante che la persona offesa avesse addirittura sostenuto di non ricordare la natura dei beni sottrattigli.

Il duplice ricorso proposto nell’interesse del G. è infondato.

In merito alla rilevanza dei risultati dattiloscopici, considerati dai giudici elemento decisivo per giungere alla affermazione di responsabilità del prevenuto, deve osservarsi che il primo rilievo della difesa, ossia quello della mancata acquisizione delle descrizioni e degli ingrandimenti della impronta attribuita al prevenuto, è destituito di ogni fondamento.

Invero la giurisprudenza di questa Corte, che la difesa mostra di ben conoscere, ha posto in evidenza come la comparazione delle impronte digitali prelevate con quelle già in possesso della polizia giudiziaria si risolve in un mero accertamento di dati obiettivi ai sensi dell’art. 354 cod. proc. pen., che non postula il rispetto delle formalità prescritte dall’art. 360 c.p.p. (Rv. 244295).

La conclusione che se ne fa discendere è che la relazione della polizia giudiziaria riguardante la comparazione tra le impronte digitali dell’imputato e quelle rilevate sul luogo del delitto, essendo atto ripetibile, non è di regola acquisibile al fascicolo del dibattimento (Rv. 241547).

Ancora è stato rilevato come qualora colui che abbia svolto attività di comparazione sia sentito in dibattimento e riferisca in ordine alla medesima, il giudice non è tenuto a disporre perizia, potendosi attenere alle emergenze esposte dal dichiarante (Rv.

246872).

Discende da quanto premesso che i motivi di ricorso della difesa sul punto risultano generici in quanto consistono nella mera denuncia della mancata acquisizione della parte descrittiva delle impronte ma non anche nella allegazione che le dichiarazioni del teste della Polizia scientifica, sentito sul punto, siano state seriamente e incisivamente contestate durante l’esame.

Per quanto concerne invece il profilo della relazione, dal punto di vista della motivazione, tra il rinvenimento della impronta palmare del prevenuto sulla porta di ingresso dell’appartamento – lato esterno – e la attribuzione di responsabilità in ordine al furto, la Corte di merito ha fatto applicazione del principio secondo cui il risultato delle indagini dattiloscopiche offre piena garanzia di attendibilità e può costituire fonte di prova senza elementi sussidiari di conferma anche nel caso in cui siano relative all’impronta di un solo dito, purchè evidenzino almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione, in quanto essa fornisce la certezza che la persona con riguardo alla quale detta verifica sia effettuata si sia trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato. Ne consegue che legittimamente, in assenza di giustificazioni su detta presenza, viene utilizzata dal giudice ai fini del giudizio di colpevolezza (Rv. 246901; Massime precedenti Conformi: N. 8175 del 1983 Rv. 160590, N. 10567 del 1985 Rv. 171038, N. 11410 del 1986 Rv. 174046, N. 4254 del 1989 Rv.

180856, N. 24341 del 2005 Rv. 232213, N. 16356 del 2008 Rv. 239781).

E la considerazione della difesa secondo cui la nozione di "luogo in cui è stato commesso il reato" debba intendersi come riferita solo alla esatta scena del crimine (nel caso di furto in appartamento, l’interno dell’appartamento) costituisce null’altro che una considerazione in fatto, non opponibile a quelle che i giudici di merito hanno posto a fondamento del giudizio di responsabilità.

Invero, posto che, come contestato, il furto è avvenuto previa effrazione della porta di ingresso, è frutto di ragionamento conforme a logica il rilievo che il rinvenimento della impronta palmare dell’imputato sulla detta porta, anche al lato esterno, fosse da considerare altamente significativa, essendo quella porta il luogo di necessario passaggio dei responsabili per accedere all’appartamento.

L’alta significatività dell’elemento in questione è stata saldata, con processo motivazionale anch’esso del tutto logico, alla circostanza del comportamento processuale dell’imputato che non ha illustrato ai giudici in modo alternativo, la ragione della presenza di quella impronta sulla porta di ingresso dell’appartamento. E, sulla rilevanza processuale del silenzio dell’imputato a determinate condizioni, si è espressa più volte questa Corte enunciando il principio secondo cui al giudice non è precluso valutare la condotta processuale dell’imputato, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del suo libero convincimento, ben può considerare, in concorso di altre circostanze, la portata significativa del silenzio su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo(Rv. 247426; Massime precedenti Conformi: N. 12182 del 2006 Rv. 233903).

La doglianza sulla assenza di giustificazione della aggravante ex art. 625 c.p., n. 2, cui la Corte di appello non avrebbe dato seguito, era stata formulata, già nei motivi di appello, senza il supporto di giustificazioni in fatto e in diritto: e ciò a fronte della motivazione chiarissima della sentenza di premio grado che aveva evidenziato come i ladri fossero entrati nell’appartamento previa evidenti segni di effrazione sulla porta di ingresso.

La Corte di merito non era, in altri termini, tenuta a replicare ad un motivo di appello che già in quella sede si presentava inammissibile.

In ordine alla circostanza aggravante del numero delle persone ( art. 625 c.p., n. 5) il rilievo è ugualmente infondato.

L’elemento probatorio posto a sostegno della configurazione di tale aggravante dai giudici è rappresentato dalla dichiarazione della persona offesa di avere visto quattro persone scendere dalle scale dello stabile, nell’orario di perpetrazione del furto, senza essere inquilini dello stesso.

Si tratta di una circostanza che il giudice del merito, con apprezzamento di fatto dotato di plausibilità, ha valutato e che pertanto non può essere ulteriormente sottoposta al vaglio della Cassazione.

In ordine alla configurazione della aggravante dell’approfittamento di circostanze di luogo tali da ostacolare la privata difesa, v’è da notare che la affermazione del ricorrente, secondo cui si tratterebbe di elemento accessorio dei soli reati contro la persona e non anche dei reati contro il patrimonio, non trova conforto nella copiosa giurisprudenza in senso contrario (vedi tra le molte, Rv. 248883 N. 34354 del 2009 Rv. 244988).

Sull’asserto diniego della attenuante del danno di lieve entità vai la pena evidenziare che si tratta di riproposizione di identico motivo già formulato in appello ma da considerarsi, già in quella sede, inammissibile per genericità. La parte infatti lamenta una mancata quantificazione del danno da parte della persona offesa ma trascura di considerare quanto attestato nella sentenza di primo grado:e cioè che il danno prodotto dal furto non poteva considerarsi di modesta entità avendo avuto, il reato, ad oggetto un anello in oro bianco con pietra, altro anello in oro bianco, collier e orecchini in oro, beni evidentemente di apprezzabile valore.

Infine inammissibile è il motivo con cui si denuncia il diniego delle attenuanti generiche.

La parte lamenta, come dovuto, in linea di principio, la mancata valutazione degli elementi positivi evidenziati al giudice per sostenere la richiesta di riconoscimento delle dette attenuanti e quella di diminuzione di pena. Tuttavia poi omette di formulare sotto lo stesso profilo un motivo di ricorso che non appaia generico ma rispettoso dei criteri posti dall’art. 581 c.p.p. ossia fondato sulla indicazione delle dette ragioni di fatto e di diritto a sostegno del vizio denunciato. La redazione del motivo di gravame in esame risulta cioè inammissibile per genericità poichè si sostanzia nella lamentela di omessa valutazione di elementi favorevoli che non vengono indicati, a fronte peraltro, di quello che appare un giudizio complessivo della gravita del fatto e della personalità del prevenuto, comunque effettuato dalla Corte di merito in ragione dei precedenti specifici.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 18-05-2011) 10-11-2011, n. 40898

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Tribunale di Roma, con sentenza 15/12/2006, dichiarava – tra l’altro – F.F., B.F. e A. C. colpevoli dei reati così come di seguito rispettivamente addebitati e, in concorso delle circostanze attenuanti generiche e previa unificazione degli illeciti a ciascuno ascritti sotto il vincolo della continuazione, li condannava a pena ritenuta di giustizia, parzialmente condonata per i primi due, ai sensi della L. n. 241 del 2006, e con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione per il terzo:

F. e B.;

– capo A: artt. 110 e 317 cod. pen., perchè, in concorso tra loro, abusando della qualità di istruttori della Polizia Municipale di Roma e dei loro poteri, minacciando S.F., titolare di un’officina meccanica, di elevargli contravvenzione per violazione della normativa antinfortunistica, avevano indotto il predetto a corrispondere loro indebitamente la somma di L. 200.000 (in (OMISSIS));

– capo B: art. 81 cpv., art. 110, art. 317 cod. pen., perchè, in concorso tra loro, ponendo in essere, in più occasioni, la stessa condotta di cui al capo che precede in danno di E.A. M., che gestiva due esercizi commerciali (un bar e una pizzeria), avevano costretto costui, con la minaccia di elevare contravvenzioni per asserite violazioni della normativa igienico- sanitaria, a corrispondere loro settimanalmente – dapprima – la somma di lire 300.000 e – poi – quella di L. 500.000, per un ammontare complessivo di circa L. 18.700.000, nonchè a consegnare loro gratuitamente generi alimentari (in Roma fino al gennaio 2001);

B.;

– capo N: art. 319 cod. pen., perchè, nella qualità precisata, per non dare seguito ad un verbale di accertamento relativo all’installazione non autorizzata di un video poker all’interno dell’esercizio pubblico di L.O., aveva ricevuto da F.G. la somma contante di L. 500.000 (in Roma il 29/11/1999);

– capo O. art. 61, n. 2 e 9, art. 490 in rel. all’art. 476 cod. pen., perchè, al fine di commettere il reato di cui al capo che precede, aveva annullato o comunque soppresso il verbale di accertamento della violazione amministrativa commessa dalla L. (in (OMISSIS));

C.;

– capo F: artt. 110, 81 cpv., 61 n. 2 e 9, 490 (in rel. art. 476) e art. 479 cod. pen., perchè, nella qualità di comandante del 2^ Gruppo della Polizia Municipale di Roma, in concorso con altri, aveva distrutto o comunque soppresso la denunzia 9/1/2001 sporta da E. A. per gli episodi di concussione di cui era rimasto vittima, sostituendola con altra compilata successivamente (11/1/2001), che ridimensionava i fatti già esposti in precedenza e che veniva fatta falsamente apparire come presentata in data 9/1/2001 (in Roma l’11/1/2001);

– capo G: art. 61, n. 9 e 10, art. 611 cod. pen., perchè, nella qualità precisata, aveva minacciato l’istruttore direttivo P.S. di revocargli l’incarico di responsabile dell’area della Polizia stradale, per costringerlo a commettere il reato di cui al capo che precede (in (OMISSIS)).

2. A seguito di gravame proposto dagli imputati, la Corte d’Appello di Roma, con sentenza 20/10/2008, riformando in parte la decisione di primo grado, che confermava nel resto, dichiarava non doversi procedere nei confronti del B., in relazione ai reati di cui ai capi sub N e O, perchè estinti per prescrizione ed eliminava la pena ad essi riferibile (mesi sei di reclusione); dichiarava non doversi procedere anche nei confronti del C., in relazione ai reati come innanzi addebitatigli, perchè estinti per prescrizione.

Il Giudice distrettuale sottolineava, con riferimento ai reati dichiarati estinti per prescrizione, che non ricorrevano i presupposti di operatività della disposizione di cui al capoverso dell’art. 129 cod. proc. pen., per una pronuncia assolutoria di merito degli imputati.

La prova della responsabilità del B. in ordine ai reati di corruzione e di falso per soppressione di cui ai capi N e O era integrata, infatti, dalle attendibili dichiarazioni, anche autoaccusatorie, del corruttore F.G., riscontrate dalle testimonianze della L., del m.llo G. e del vigile R..

I reati di falso per soppressione, falso ideologico e minaccia per costringere a commettere un reato di cui ai capi F e G ascritti al C. erano provati dai convergenti contributi dichiarativi del P., della L., della C. e del B., nonchè dalla documentazione acquisita. Detti illeciti, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, erano stati ispirati dall’esigenza di mascherare il notevole ritardo col quale erano stati segnalati all’Autorità Giudiziaria gli episodi di concussione, già noti da tempo, posti in essere dai vigili F. e B. e di allontanare quindi il sospetto, a tutela del buon nome del Gruppo di Polizia Municipale diretto dall’imputato, di avere voluto offrire una qualche "copertura" ai concussori.

Quanto ai reati di concussione di cui ai capi A e B addebitati congiuntamente al F. e al B., la Corte territoriale riteneva che la prova della colpevolezza degli imputati era offerta dalle attendibili, precise e coerenti testimonianze dirette del S., di E.A.M. e dei dipendenti di quest’ultimo, nonchè dalle dichiarazioni de relato dei vigili B. e L., ai quali E.A. aveva manifestato tutta la sua disperazione per i taglieggiamenti subiti, e dal dato oggettivo che i due imputati, per loro stessa ammissione, si erano effettivamente recati, l’11/3/1999, presso l’officina del S. ed avevano effettuato controlli ripetuti, ravvicinati (a distanza di 10-15 giorni l’uno dall’altro) e non oggettivamente giustificati presso gli esercizi commerciali gestiti da E. A.. Sottolineava la Corte di merito che la condotta degli imputati, in quanto concretizzatasi in una forte pressione, dal significato inequivoco, sulle vittime, sì da determinarne lo stato di "resa" di fronte all’Autorità, integrava la contesta concussione e non, come sollecitato dalla difesa, il meno grave reato di corruzione, che presuppone un rapporto sinallagmatico e paritario tra le parti coinvolte. Riteneva, infine, che la misura della pena inflitta era proporzionata alla gravità dei fatti e alla reiterazione degli stessi nel tempo.

3. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati: il F. e il B. tramite i rispettivi difensori; il C. con atto sottoscritto personalmente.

I primi due imputati, ribadendo quanto già dedotto in sede di appello, censurano la sentenza di merito per erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti contestati, che dovevano essere inquadrati nel paradigma dell’art. 319 cod. pen., considerato che non avevano posto in essere alcun abuso della qualità o dei poteri per indurre o costringere i soggetti privati alle indebite dazioni, ma era intervenuto tra le parti, all’esito di una libera contrattazione, un accordo dal quale avevano tratto vantaggio gli stessi privati per la disponibilità dei pubblici ufficiali a porre in essere atti contrari a propri doveri d’ufficio (omessa contestazione di contravvenzioni legittime).

Il F. deduce, altresì, la mancanza di motivazione su un punto decisivo, idoneo a dimostrare l’insussistenza dei fatti di cui al capo B per l’assoluta inattendibilità delle dichiarazioni rese al riguardo da E.A.: costui, nel periodo compreso tra il (OMISSIS), aveva regolarmente pagato numerosissime contravvenzioni contestategli per importi rilevanti, circostanza questa che si poneva in aperta contraddizione con la prospettata ipotesi accusatoria della concussione, finalizzata proprio ad evitare il pagamento di tali contravvenzioni.

Il C. lamenta la violazione dell’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, e il vizio di motivazione, per non essere stato assolto con formula ampia di merito, difettando in atti la prova della sua colpevolezza.

4.1 ricorsi, al limite dell3ammissibilità, sono infondati e devono essere rigettati. Seguendo un ordine di priorità logica nell’analisi e nella valutazione dei motivi articolati, devesi riassuntivamente osservare quanto segue.

4.1. Non ha pregio la doglianza con la quale il F. denuncia il vizio di motivazione del formulato giudizio di responsabilità in ordine alla concussione in danno di E.A. (capo B), la cui testimonianza, quale fonte principale di prova, sarebbe inattendibile, perchè contraddetta dal dato oggettivo del pagamento da parte del predetto di numerose violazioni amministrative, regolarmente contestategli dai vigili F. e B..

Sul punto, la sentenza in verifica, non ignorando tale circostanza oggettiva, evidenzia, con valutazione in fatto immune da vizi logici e, quindi, non censurabile sotto il profilo della legittimità, che la frequente cadenza dei controlli presso gli esercizi commerciali di E.A.M. era funzionale a determinare in costui, per la forte pressione psicologica su di lui esercitata, uno stato di soggezione e di notevole disagio, sì da indurlo, per arginare le conseguenze dannose prospettategli con impressionante sistematicità, alle indebite dazioni;

4.2. Privo di fondamento è anche il motivo, comune al F. e al B., col quale si deduce l’erronea qualificazione giuridica dei fatti di cui ai capi sub A e B. La sentenza impugnata correttamente inquadra tali fatti, per così come li ricostruisce, nel paradigma della concussione e non in quello meno grave della corruzione, considerato che la dinamica della condotta posta in essere dagli imputati si era concretizzata in un evidente squilibrio nei rapporti di forza tra le parti, determinato dagli atteggiamenti rivelatori della volontà prevaricatrice e aggressiva dei pubblici ufficiali in danno delle vittime designate, indotte a cedere alle pretese indebite dei primi, che avevano, nel perseguimento del loro obiettivo illecito, strumentalizzato i loro poteri.

Quanto all’episodio S., i profili di abuso dei pubblici ufficiali quale causa efficiente della condizione di assoggettamento psicologico del privato emergono chiaramente dalle seguenti circostanze di fatto: a) prospettazione quasi estemporanea da parte del B. al meccanico S. di violazioni alla normativa antinfortunistica e in materia di igiene, per le quali era prevista una sanzione pecuniaria a partire da L. 5.000.000 ("pè comincia sò cinque milioni"); b) atteggiamento d’intesa del B. con il collega F., al quale aveva ripetutamente chiesto: "che dobbiamo fare con il S.?"; c) il B., senza procedere alla redazione di alcun verbale, aveva reiteratamente rivolto al meccanico la domanda: "che vogliamo fare?";

d) il S., intuito il senso della situazione venutasi a determinare, da lui avvertita come ingiusta e gravemente pregiudizievole, aveva consegnato la somma di L. 200.000 nelle mani del B., dopo di che i due vigili si erano allontanati, senza contestare alcuna contravvenzione.

Analoghe connotazioni abusive sono ravvisabili nella condotta tenuta dai due pubblici ufficiali nei confronti di E.A.M., indotto anche costui alla "resa", dopo essere stato letteralmente vessato con una serie impressionante di controlli ravvicinati nel tempo, nel corso dei quali gli erano state contestate numerosissime contravvenzioni, che aveva provveduto a pagare; sintomaticamente dal momento in cui E.A., intuita la finalità del particolare rigore a lui riservato dai due vigili, si era determinato a corrispondere settimanalmente a costoro, non certo all’esito di una contrattazione paritaria, indebite somme di denaro erano cessati i controlli presso i suoi esercizi commerciali e la contestazione di contravvenzioni per lo più pretestuose; il peso delle pretese economiche, sempre più esose, dei due pubblici ufficiali aveva determinato nel soggetto privato, tenuto continuamente sotto scacco anche con la minaccia di un provvedimento di chiusura del locale, uno stato di profondo condizionamento psicologico.

Osserva la Corte che il criterio distintivo tra la corruzione e la concussione deve essere individuato nel diverso atteggiamento della volontà del privato che si rapporta al pubblico ufficiale: nella corruzione i concorrenti necessari (pubblico ufficiale e privato) trattano su livelli paritari e si accordano nel pactum sceleris, con convergenti manifestazioni di volontà; nella concussione non sussiste la par condicio contrattualis, perchè il dominus della situazione che si determina è il pubblico ufficiale, con la sua autorità e i suoi poteri, dei quali abusa, costringendo o inducendo il soggetto passivo a sottostare alla ingiusta richiesta, perchè necessitato da una condizione di soggezione che non offre alternativa diversa dalla resa. La struttura della concussione evoca una sorta di aggressione del pubblico ufficiale contro il privato; nella corruzione invece si versa in una situazione di accordo sinallagmatico tra le parti e si è al di fuori dello stato di soggezione del privato rispetto alla forza prevaricatrice del pubblico funzionario.

E’ il caso di precisare che integra l’abuso di potere anche la minaccia da parte del pubblico ufficiale dell’esercizio di un potere legittimo, ma al fine di conseguire un fine illecito, quale certamente è l’ottenimento dell’indebito: la deviazione dell’esercizio del potere dalla sua causa tipica verso un obiettivo diverso ed estraneo agli interessi della Pubblica Amministrazione concreta l’abuso.

L’abuso di potere da parte del pubblico ufficiale determina nel soggetto passivo, come conseguenza, uno stato d’animo tale da porlo in posizione di soggezione rispetto al primo, condizione questa che costituisce la premessa dell’atto dispositivo indotto e costituito dalla dazione del concusso.

Nella condotta addebitata agli imputati, per così come ricostruita in sede di merito sulla base delle emergenze processuali, sono riscontrabili gli elementi strutturali della concussione a cui innanzi si è fatto cenno.

4.3. Infondata è la doglianza dedotta dal ricorrente C., considerato che la sentenza di merito, nel dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione, da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni per le quali non può trovare operatività, nel caso in esame, la disposizione di cui al capoverso dell’art. 129 cod. proc. pen.. D’altra parte, lo stesso ricorrente, nel contestare l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dal P., alle quali la Corte di merito attribuisce decisiva valenza, lamenta l’omessa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale finalizzata ad approfondire questo specifico aspetto, il che, di per sè, si pone in contrasto con l’obbligo del giudice, di fronte all’intervenuta causa estintiva del reato, di dichiararla immediatamente senza dare corso ad ulteriori accertamenti.

5. Al rigetto dei ricorsi, consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, Sent., 04-01-2012, n. 62 Spettacoli e trattenimenti pubblici

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Attraverso l’atto introduttivo del presente giudizio, notificato in data 20 luglio 2011 e depositato il successivo 5 agosto 2011, il ricorrente impugna il provvedimento con il quale, in data 23 maggio 2011, il Questore di Roma gli ha vietato "di accedere all’interno degli stadi e di tutti gli impianti sportivi del territorio nazionale ove si disputano incontri di calcio a qualsiasi livello agonistico, amichevoli e per finalità benefiche, calendarizzati e pubblicizzati" per anni cinque, estendendo il suddetto divieto, da due ore prima a due ore dopo l’espletamento delle manifestazioni sportive, "agli spazi antistanti e comunque limitrofi agli stadi, stazioni ferroviarie, caselli autostradali, scali aerei e marittimi, autogrill e a tutti quei luoghi interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle medesime competizioni per lo stesso arco temporale", a causa dell’attribuzione al medesimo di un evento lesivo – in particolare, lesioni personali a danno di due austriaci – verificatosi nei minuti iniziali dell’incontro Roma – Chievo Verona disputatosi presso lo stadio Olimpico di Roma in data 23 aprile 2011.

Ai fini dell’annullamento, il ricorrente deduce i seguenti motivi di diritto:

INSUSSISTENZA DEI PRESUPPOSTI DI FATTO E DI DIRITTO PER L’IRROGAZIONE DELLA MISURA INTERDITTIVA, atteso che è sì intervenuta denuncia alla autorità giudiziaria per i fatti accaduti, ma il ricorrente risulta ora indagato per il reato di lesioni personali solo a causa dell’individuazione fotografica di un terzo soggetto, il fratello delle persone offese, predisposta dalla P.G. "fuori dal contraddittorio" tra le parti e "dalle garanzie che ne derivano". Posto che un’individuazione di tal genere "è in sostanza un mero atto di indagine finalizzato ad orientare l’investigazione, ma non ad ottenere la prova" e, dunque, ha un valore "assolutamente minimo", la stessa non può giustificare l’adozione del provvedimento previsto dall’art. 6 della L. n. 401 del 1989. Ne consegue che il provvedimento impugnato è illegittimo, anche perché non può trovare autonomo sostegno nella circostanza che il ricorrente sia stato in passato già oggetto di autonoma misura ed annoveri pregiudizi di polizia per violazioni di legge "e che faccia parte del tifo organizzato romanista".

DIFETTO DI MOTIVAZIONE IN RELAZIONE AL PRINCIPIO DI GRADUALITA’ DELLA SANZIONE E PER DIFETTO DI DETERMINATEZZA DELLE PRESCRIZIONI, per la genericità che caratterizza la durata e l’estensione del divieto.

Con atto depositato in data 23 agosto 2011 si è costituita l’Amministrazione intimata, la quale – nel prosieguo e precisamente in data 17 settembre 2011 – ha prodotto documenti, tra cui una nota in data 18 agosto 2011, in cui è rappresentato – in sintesi – quanto segue: – nel corso della partita Roma-Chievo Verona, disputatasi in data 23 aprile 2011, due fratelli austriaci venivano malmenati da tifosi giallorossi, riportando rispettivamente una prognosi di 20 gg. e 7 gg.; – in medesima data, i due ragazzi sporgevano denuncia; – escusso il successivo 4 maggio 2011 un terzo fratello, in qualità di persona informata sui fatti, lo stesso riconosceva il ricorrente – già conosciuto agli atti della Digos sin dal 2003 – come uno dei soggetti che avevano posto in essere gli atti di violenza; – sulla base di tali presupposti, veniva emesso il provvedimento impugnato, nel pieno rispetto dell’art. 6 della L. n. 401 del 1989.

Con ordinanza n. 3168 del 2 settembre 2011 il Tribunale ha accolto la domanda incidentale di sospensione.

All’udienza pubblica del 24 novembre 2011 il ricorso è stato introitato per la decisione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto nei termini e nei limiti di seguito indicati.

2. Come esposto nella narrativa che precede, il ricorrente impugna il provvedimento con il quale il Questore di Roma gli ha vietato, per anni cinque, l’accesso all’interno degli stadi e di tutti gli impianti sportivi del territorio nazionale ove si disputano incontri di calcio a qualsiasi livello agonistico, amichevoli e per finalità benefiche, calendarizzati e pubblicizzati, estendendo lo stesso divieto agli spazi antistanti e comunque limitrofi agli stadi, stazioni ferroviarie, caselli autostradali, scali aerei e marittimi, autogrill e a tutti quei luoghi interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle medesime competizioni.

Ai fini dell’annullamento il ricorrente lamenta – in primis – l’"insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per l’irrogazione della misura interdittiva", insistendo sullo scarso valore dell’individuazione fotografica compiuta dal fratello degli austriaci vittime degli atti di violenza.

Tale censura è infondata.

2.1. Al riguardo, appare opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, della L. 13 dicembre 1989, n. 401, "nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all’art. 4, primo e secondo comma, della L. 18 aprile 1975, n. 110, all’articolo 5 della L. 22 maggio 1975 , n. 152, all’articolo 2, comma 2, del D.L. 16 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, all’art. 6 bis, commi 1 e 2, e all’articolo 6 ter della presente legge, ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, il questore può disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni sportive….".

Come ripetutamente affermato in giurisprudenza, si tratta di un’ipotesi restrittiva della libertà personale che necessariamente presuppone una relazione con eventi sportivi, in quanto diretta ad eliminare non una generica pericolosità sociale del soggetto ma quella specifica che deriva dal verificarsi di determinate condotte in un ambito specifico, ed esse sole è destinata a contrastare (cfr., tra le altre, TAR Campania, Sez. V, 13 settembre 2010, n. 17403).

In altri termini, il divieto di cui sopra presenta natura interdittiva atipica, nel senso che deve fondarsi su una situazione di pericolosità sociale specifica, ossia sulla pericolosità che deriva dal verificarsi di ben individuate condotte in occasione di manifestazioni sportive, generatrici di tumulto, allarme e/o di pericolo, in carenza delle quali il divieto non può essere disposto (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. VI, 3 dicembre 2009, n. 7552; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 11 marzo 2010, n. 567; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 2 dicembre 2009, n. 8303).

E’, dunque, evidente che l’adozione di provvedimenti di tal genere, riconducibili al genus delle misure di prevenzione o di polizia e, quindi, comminabili "ante delictum", deve risultare motivata con riferimento a comportamenti del destinatario connotati da una certa attualità e concretezza, ossia da comportamenti che – anche se non ancora oggetto di accertamento in sede penale – si profilano idonei a rivelare talune delle ipotesi previste dalla legge come indice di pericolosità per la sicurezza e la moralità pubblica (cfr., tra le altre, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I. 4 marzo 2011, n. 301).

2.2. Orbene, nel caso in esame i presupposti di fatto sopra rappresentati sono ravvisabili.

Soprassedendo sulla formulazione letterale del provvedimento impugnato laddove afferma che il ricorrente "si rendeva responsabile del reato di lesioni personali in concorso" – la quale può rivelarsi non pienamente corretta, non essendo ancora intervenuta una sentenza penale di condanna (peraltro, non richiesta dalla legge) – appare, infatti, incontestabile che:

– al ricorrente risulta attribuita la commissione di atti di violenza "in occasione di un incontro di calcio". In particolare, al predetto risulta attribuita l’aggressione di "due giovani fratelli, di cui uno minore, senza un chiaro motivo procurando loro contusioni varie";

– tale attribuzione trova origine in dichiarazioni rese alla DIGOS da una persona che era presente ai fatti;

– ricevono, altresì, evidenza ulteriori condotte del ricorrente, atte a rafforzare la pericolosità sociale di quest’ultimo, per nulla contestate dal ricorrente.

Ciò detto, appare evidente che l’Amministrazione ha proceduto sulla base di circostanze concrete, atte a giustificare l’adozione del provvedimento impugnato.

Stanti i rilievi formulati, appare comunque opportuno aggiungere che l’adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 6 in argomento soggiace a regole ben diverse da quelle che regolamentano il giudizio penale e, dunque, l’emissione di sentenze penali di condanna.

Si intende così evidenziare – proprio in ragione di quanto già esposto ed, in particolare, della riconducibilità di detti provvedimenti nell’ambito del genus delle misure di prevenzione – che, ai fini della presa in considerazione e, quindi, valutazione di determinati fatti da parte dell’Amministrazione, rilevanza alcuna può assumere il rigoroso rispetto o meno delle previsioni codicistiche che regolamentano l’assunzione delle prove – sostanzialmente invocate dal ricorrente – bensì è sufficiente anche la semplice conoscenza di elementi concreti, di per sé idonei a dare conto della "pericolosità" di un soggetto.

Ciò detto, la disquisizione del ricorrente sul valore "assolutamente minimo" che andrebbe riconosciuto all’"individuazione" fotografica compiuta dal terzo fratello non è meritevole di condivisione.

3. Il ricorrente denuncia, ancora, il difetto di motivazione in relazione al principio di gradualità della sanzione.

Anche tale censura è infondata.

Pur condividendo l’orientamento secondo il quale l’Amministrazione deve dare conto delle valutazioni effettuate in ordine alla congruità della durata della misura applicata, il Collegio ritiene, infatti, che tale esigenza svilisca o, comunque, perda consistenza in tutti i casi in cui la congruità della durata trovi chiaro ed inequivoco supporto nella gravità dei fatti contestati.

In altri termini, si intende affermare – in linea, del resto, con l’orientamento assunto anche in altri settori ed, in particolare, in quello della sanzioni disciplinari – che l’obbligo di motivazione va commisurato alla gravità dei fatti contestati, con la conseguenza che detto obbligo è da ritenersi comunque adempiuto in tutti i casi in cui la gravità dei fatti già di per sé concretizza una valida ragione giustificatrice della misura adottata.

Nel caso in esame, i fatti ascritti al ricorrente – per come descritti nel provvedimento – si rivelano gravi e, dunque, ben valgono a supportare la durata di cinque anni del divieto impartito.

4. In ultimo, il ricorrente denuncia il difetto di "determinatezza delle prescrizioni" relative all’estensione del divieto.

Al riguardo, va evidenziato che l’Amministrazione ha provveduto a specificare – seppure in "nota" – gli incontri di calcio e le zone limitrofe dello stadio Olimpico e dello stadio Flaminio interessati dal divieto.

Ciò detto, la censura de qua è da ritenere fondata limitatamente ai luoghi interessati dall’estensione del divieto, con eccezione di quelli antistanti o comunque limitrofi ai predetti stadi.

Al riguardo, è opportuno ricordare che, ai sensi del citato art. 6, comma 1, della L. n. 401 del 1989, il divieto disposto dal questore deve riguardare luoghi "interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano alle manifestazioni medesime" "specificamente indicati".

Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, la necessità di indicare specificamente i luoghi ai quali si estende il divieto (diversi dagli impianti sportivi e coincidenti con quelli interessati alla sosta, al transito ed al trasporto di persone che partecipano od assistono alle competizioni) risponde, dunque, ad un ben preciso obbligo di legge, la cui imposizione è ispirata da esigenze di conciliazione con la libertà di circolazione, costituzionalmente riconosciuta (art. 16), ma anche di garanzia della stessa esigibilità del comando (cfr., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 13 settembre 2010, n. 17403; TAR Toscana, Firenze, Sez. II, 19 maggio 2010, n. 1527; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 16 giugno 2009, n. 4022).

Nel caso di specie, tale obbligo risulta violato, tenuto conto della genericità che caratterizza – nonostante le specifiche riportate in "nota" – l’individuazione dei luoghi interessati dall’estensione divieto, la quale – con l’unica eccezione dei riferimenti allo stadio Olimpico ed allo stadio Flaminio – è palesemente inidonea a delimitare in modo adeguatamente preciso i limiti spaziali del divieto stesso, con conseguente illegittimità della relativa prescrizione provvedimentale.

5. Per le ragioni illustrate, il ricorso va accolto nei limiti e nei termini sopra indicati.

Tenuto conto delle peculiarità della vicenda e dello sforzo che l’Amministrazione dimostra – comunque – di aver compiuto al fine di limitare la genericità del divieto, si ravvisano giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso n. 7077/2011, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei termini e nei limiti indicati in motivazione e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato nella parte in cui – fatta eccezione per gli stadi Olimpico e Flaminio di Roma – estende il divieto agli spazi antistanti e comunque limitrofi nonché "alle stazioni ferroviarie, caselli autostradali, scali aerei e marittimi, autogrill e a tutti quei luoghi interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipino o assistono alle medesime competizioni".

Compensa le spese di giudizio tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 novembre 2011 con l’intervento dei Magistrati:

Linda Sandulli, Presidente

Pietro Morabito, Consigliere

Antonella Mangia, Consigliere, Estensore

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