Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-06-2011, n. 14397 ICI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

rigetto.
Svolgimento del processo

Con sentenza n. 104/3/2005 depositata il 24.2.2006 e non notificata, la C.T.R. della Basilicata, decidendo sull’appello proposto da T.L., ha confermato la sentenza della C.T.P. di Matera che aveva rigettato il ricorso del contribuente avverso quattro avvisi di accertamento emessi nei suoi confronti dai Comune di Grottole per ICI relativa agli anni 1997,1998, 1999 e 2000.

A sostegno della decisione il giudice del gravame, premesso che gli atti impositivi riguardavano un ex Convento sottoposto a vincolo con decreto del Ministro dei Beni Culturali, ha dedotto che: 1) il proprietario non aveva presentato denunzia di possesso dell’immobile;

2) questo non risultava accatastato, per cui il Comune, rilevato il volume del fabbricato e individuata la categoria di appartenenza ("B") aveva accertato l’imposta applicando la disciplina relativa ai fabbricati non iscritti in catasto; 3) gli avvisi di accertamento risultavano completi di adeguata motivazione, integrata anche con l’allegazione di "una esposizione della Determinazione della rendita presunta per locali assimilabili nella categoria catastale "B" – ex Convento dei Cappuccini"; 4) la decadenza del Comune era da escludersi applicandosi all’ipotesi di omessa presentazione della denuncia ICI il più lungo termine quinquennale, e non quello triennale invocato dalla ricorrente.

Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso il contribuente articolando quattro motivi, all’accoglimento dei quali si è opposto il Comune con controricorso.

Con successiva nota, debitamente notificata alla controparte, il ricorrente ha depositato copia autentica della sentenza, passata in giudicato, emessa dalla C.T.P. di Matera nei suoi confronti, in senso a lui favorevole, relativamente agli avvisi di accertamento notificati da Comune con riferimento al medesimo immobile, per gli anni 2001, 2002, e 2003.

Con ulteriore memoria difensiva l’intimato ha eccepito l’inammissibilità del controricorso, perchè tardivo.

All’udienza del 26 maggio 2011 la Corte ha deciso come da dispositivo, deliberando la redazione della sentenza con motivazione semplificata.
Motivi della decisione

Preliminarmente rileva la Corte doversi ritenere l’inammissibilità del controricorso perchè tardivo, risultando la procedura notificatola aver avuto inizio soltanto il 28.9.2007, rispetto a ricorso notificato il 16.4.2007.

Deve inoltre ritenersi l’irrilevanza del giudicato invocato con il documento depositato successivamente al ricorso, in quanto fondato sul disposto della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 337 non applicabile al caso di specie perchè successivo agli avvisi di accertamento di cui trattasi.

Analogamente irrilevanti, anche perchè nuove ed irritualmente introdotte nel processo, risultano infine le circostanze di fatto dedotte con la seconda memoria, alla quale peraltro nessuna documentazione risulta allegata.

Ciò premesso il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

1. Con il primo motivo denuncia il ricorrente il vizio di nullità della sentenza ( art. 360 c.p.c., n. 4) per omessa pronuncia in ordine alla domanda di annullamento degli atti impositivi, così come distintamente proposta, sia per carenza del potere impositivo del Comune in assenza della preventiva determinazione della rendita catastale dell’immobile da parte dell’Amministrazione Finanziaria, sia per difetto di motivazione in ordine ai vari parametri utilizzati per il calcolo dei valore del fabbricato (assegnazione della cat. B, ratio del riferimento al volume e ai metri cubi, del riferimento alla rendita presunta, della riduzione applicata per inagibilità dell’immobile, dei calcoli effettuati).

Con il secondo motivo deduce altresì il T., sia pur attraverso un più articolato sommario richiamo anche ai vizi di omessa pronuncia e violazione di legge, il vizio di motivazione della sentenza, con riferimento al mancato esame da parte del giudicante delle doglianze esposte in ricorso in ordine ai criteri di determinazione della rendita applicati dal Comune.

Le censure, ricollegandosi la seconda a quanto in buona sostanza già lamentato nella seconda parte del primo motivo, possono essere opportunamente esaminate congiuntamente e risultano tutte destituite di fondamento.

Quanto alla omessa pronuncia sulla questione relativa alla carenza del potere impositivo del Comune, deve infatti rilevarsi che la domanda della contribuente risulta dalla sentenza vagliata dal giudicante e decisa in senso sfavorevole con l’implicito riferimento alla previsione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 4 laddove si afferma che "Allo stato l’immobile non risulta accatastato e tale atto ha indotto il Comune ad accertare l’imposta applicando la disciplina relativa ai fabbricati non iscritti in catasto …" (così come del resto ben compreso dalla stessa ricorrente, come facilmente può evincersi da quanto dedotto in conclusione del terzo motivo di ricorso a proposito della soluzione in diritto adottata dal giudicante).

Per quanto invece relativo alla problematica inerente il preteso difetto di motivazione degli atti impugnati, agevole è replicare che il giudice del gravame ha espressamente escluso il vizio denunciato, facendo richiamo tra l’altro all’esplicazione dei contenuti impositivi degli accertamenti, riportata nei documenti agli stessi allegati, e non essendo esso tenuto ad occuparsi singolarmente ed espressamente di tutti i profili di doglianza esposti dalla parte, ma unicamente a esporre, con congrua motivazione, immune da vizi logici, le ragioni del suo convincimento così come maturato attraverso una valutazione complessiva della fattispecie sottoposta al suo vaglio.

Esigenza questa ampiamente soddisfatta nel caso di specie, posto che, dopo il riferimento al già citato D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5 comma 4 e quindi al criterio della "rendita dei fabbricati similari", del quale più innanzi più ampiamente si dirà, la C.T.R. si è fatto carico di ripercorre il procedimento seguito dal Comune per la liquidazione dell’imposta con il richiamo alla categoria di appartenenza dell’immobile, che non poteva che essere la "B" trattandosi di un convento, e pertanto di immobile a destinazione ordinaria per uso di alloggi collettivi; al volume del fabbricato, e quindi ai metri cubi, essendo questo il parametro di riferimento previsto dalla normativa sul catasto per la determinazione della rendita degli immobili rientranti nella categoria "B"; alla rendita catastale presunta, evidentemente calcolata alla stregua di quella prevista per immobili similari, sulla base di ulteriori criteri, espressamente indicati negli atti impugnati, e o addirittura favorevoli alla contribuente (come nel caso della riduzione prevista per gli immobili inagibili), o solo genericamente contestati (come nel caso del volume complessivo del fabbricato).

2 . Con il terzo motivo denuncia ancora il ricorrente violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5 nonchè del R.D.L. 13 aprile 1939, n. 652, del D.P.R. n. 1142 del 1949, della L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 58 e della L. n. 311 del 2004, art. 1, commi 336 e 337 lamentando il vizio della sentenza conseguente al mancato annullamento degli atti impositivi per carenza di potere del Comune in ordine alla determinazione della categoria e della rendita catastale del fabbricato, siccome attività devolute alla esclusiva competenza dell’Agenzia del Territorio, e necessariamente preliminari alla liquidazione dell’ICI da parte dei Comuni.

Anche questo motivo è palesemente infondato, contrastando con la chiara lettera del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5 comma 4 che, per i fabbricati diversi da quelli indicati nel comma 3 (come incontestabilmente è nel caso di specie) non iscritti in catasto, o per i quali sono intervenute variazioni permanenti tali da influire sulla rendita catastale, espressamente prevede che il valore, ai fini del calcolo della base imponibile per la liquidazione dell’ici, sia determinato con riferimento alla rendita dei fabbricati similari già iscritti.

E che nel caso di specie si tratti di fabbricato non iscritto in catasto, così che ricorrano tutti i presupposti per l’applicazione della citata norma, è questione di fatto risolta positivamente dal giudice di merito in sentenza, con accertamento non censurabile in sede di legittimità, e peraltro addirittura confermato dalla stessa ricorrente nell’atto di appello, secondo quanto risulta dalla trascrizione fattane dalla difesa nel ricorso in esame (v. sub quarto motivo di appello: "… Il Comune riconosce, anzi ne fa elemento fondativo del potere impositivo, che il fabbricato non risulta iscritto in catasto …").

Il contribuente con la doglianza in esame mostra di confondere l’attribuzione, anche provvisoria, di rendita catastale, che esula dai compiti dei Comuni, con il procedimento di determinazione della base imponibile previsto dalla normativa sull’ICI per il caso di fabbricato non iscritto in catasto, e che consente invece ai Comuni di calcolare il valore dell’immobile, e quindi la base imponibile, con riferimento alla rendita catastale di "altri" similari immobili.

Onde la correttezza anche su questo punto dell’impugnata sentenza.

3 . Con il quarto e ultimo motivo denuncia il ricorrente il vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11 con riferimento al capo della sentenza relativo alla eccepita decadenza del Comune.

Anche tale doglianza è infondata dovendosi condividere quanto in proposito dedotto dal giudice di merito, e cioè che, trattandosi nella specie di omessa presentazione della denuncia lei, il termine di decadenza applicabile relativamente al potere di accertamento del Comune è quello quinquennale previsto nell’ultima parte dell’art. 11, comma 2 cit. e non quello triennale invocato dalla parte.

Al riguardo è appena il caso di rilevare che la regolare presentazione da parte del contribuente della denuncia lei relativa al terreno agricolo, non rileva ai fini del procedimento di applicazione dell’imposta sul fabbricato.

4 . La soccombenza impone la condanna del ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, limitatamente alla discussione in udienza del ricorso.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del Comune di Grottole delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 400,00 di cui Euro 100,00 per spese vive, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 27-04-2011, n. 2493 Esami di maturità

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Svolgimento del processo

Il sig. F. riferisce che, fra i mesi di giugno e luglio del 2009, fu ricoverato per un periodo di tredici giorni in seguito a un trauma cranico a seguito del quale gli erano stati somministrati alcuni farmaci idonei ad incidere in modo negativo sulla capacità di concentrazione.

Nel frattempo, l’appellante si era iscritto alla quinta classe del liceo scientifico preso l’Istituto di istruzione superiore "Baroniò di Vicenza.

Riferisce, altresì, che in data 18 aprile 2010 egli si procurò la frattura della mano destra e che, a seguito di ciò, dovette subire un’ingessatura per circa quaranta giorni, in tal modo trovandosi in forte difficoltà per l’attività di scrittura.

Un terzo incidente coinvolse il sig. F. in data 2 maggio 2010: in tale occasione, a seguito di un incidente stradale, l’odierno appellante dovette indossare un collare ortopedico, con ulteriori difficoltà nella libertà di movimento.

Con gli atti impugnati in prime cure, il Consiglio di classe dispose la non ammissione dell’appellante all’esame di Stato, con le motivazioni di seguito trascritte: "(il Consiglio) ha esaminato tutti i documenti relativi alla sua condizione di salute, nonché quelli relativi all’incidente stradale del 2.05.2010 e tutto quanto fornito dalal famiglia per avere una situazione completa dell’alunno. Quindi ha ricordato tutte le opportunità che i docenti hanno offerto al candidato per conseguire una preparazione adeguata a sostenere l’esame. Nonostante questo, l’alunno non ha risposto in maniera positiva in quanto permangono insufficienze diffuse e talvolta gravi".

Il provvedimento in questione veniva impugnato dal sig. F. dinanzi al T.A.R. del Veneto il quale, con la pronuncia oggetto del presente gravame, respingeva il ricorso osservando che "il giudizio di non ammissione è adeguatamente motivato, anche con la valutazione delle condizioni di salute dell’alunno nel corso dell’anno scolastico e tenendo anche conto dell’impossibilità di prescindere da insufficienze riportate in più materie a causa solo di condizioni di salute".

La sentenza in questione veniva gravata in sede di appello dal sig. F., che ne chiedeva l’integrale riforma articolando i seguenti motivi di doglianza: (…)

Si costituiva in giudizio il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca il quale concludeva nel senso della reiezione del gravame.

Alla camera di consiglio del 15 febbraio 2010, il Collegio sentiva le parti presenti in ordine alla possibilità di definire la questione con sentenza in forma semplificate e il ricorso veniva trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto da un allievo della quinta Liceo scientifico presso l’Istituto "Baroniò di Vicenza avverso la sentenza in forma semplificata con cui il T.A.R. del Veneto ha respinto il ricorso avverso il giudizio del Consiglio di classe con il quale, all’esito dello scrutinio, si era deciso di non ammettere l’appellante all’esame di maturità.

2. Con il primo motivo di ricorso, il sig. F. lamenta che i primi Giudici abbiano omesso di considerare che il provvedimento di mancata ammissione all’esame di Stato fosse del tutto privo di motivazione, non essendo sufficiente ai fini motivazionali l’aver fatto generico riferimento al fatto che il consiglio di classe avesse comunque tenuto conto delle patologie da cui era stato affetto l’odierno appellante.

Nella presente sede, inoltre, il sig. F. torna nuovamente ad articolare i seguenti motivi di doglianza già proposti in primo grado:

1) Violazione del d.P.R. 122/09 e falsa applicazione della legge 1/2007 e dell’ Ordinanza ministeriale n. 44/2010 e del d.lgs. 59/2004, nonché mancata pubblicazione dei criteri generali di ammissione agli esami di Stato per eccesso di potere, per sviamento di potere (e/o per manifesta ingiustizia, per contraddittorietà della motivazione, per difetto di istruttoria, per travisamento dei fatti).

Con tale motivo il sig. F. lamenta che la pertinente disciplina di settore non afferma che l’ammissione all’esame di maturità sia assoggettata a criteri – per così dire – "meccanicisticì (ossia, fondati sulla mera media matematica dei voti conseguiti), ma che essa comporti un più generale giudizio in ordine alla specifica situazione di ciascuno studente e in ordine alla combinazione delle valutazioni attribuite per l’area cognitiva e quella comportamentale partecipativa. In definitiva, il giudizio espresso dal Consiglio di classe non rispecchierebbe la piena capacità di discernimento del discente, limitandosi alla mera circostanza delal presenza di alcune insufficienze.

Inoltre, l’intera attività valutativa posta in essere dal collegio dei docenti risulterebbe illegittima per la mancata, previa pubblicazione dei criteri di valutazione (art. 1, d.P.R. 122 del 2009).

2.1. I motivi di appello sono manifestamente infondati, con la conseguenza che il ricorso in questione possa essere definito con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 del c.p.a.

2.2. Giova premettere che è incontestato in atti che l’odierno appellante abbia riportato, in sede di scrutinio prodromico all’ammissione all’esame di Stato, insufficienze piuttosto gravi in un numero rilevante di discipline (latino: 5; matematica: 4; scienze: 4; fisica: 4).

E’ altresì incontestato in atti che, nel passaggio fra il primo e il secondo quadrimestre, il rendimento scolastico del sig. F. non abbia conosciuto significativi miglioramenti, attestandosi comunque su un livello di generale insufficienza (anche se si erano registrati alcuni lievi miglioramenti in talune discipline – es.: matematica, fisica, scienze -).

Ebbene, né in primo grado, né nella presente sede di appello il sig. F. ha addotto elementi i quali possano deporre nel senso della inattendibilità o abnormità in senso assoluto delle valutazioni espresse.

Quindi, deve darsi per acquisito che il profitto complessivo dell’appellante alla vigilia dello scrutinio finale si attestasse su un livello di diffusa insufficienza.

Occorre, a questo punto, domandarsi se i giudizi finali espressi dal consiglio di classe risultino erronei per non essere state adeguatamente valutate le ulteriori circostanze relative alla condizione soggettiva dell’allievo (e, in particolare, le numerose problematiche di salute che lo avevano afflitto nel periodo precedente lo scrutinio).

Ad avviso del Collegio la risposta è negativa.

Si ritiene centrale, al riguardo, la previsione di cui al comma 3 dell’articolo 1 del d.P.R. 22 giugno 2009, n. 122, a tenore del quale "la valutazione ha per oggetto il processo di apprendimento, il comportamento e il rendimento scolastico complessivo degli alunni. La valutazione concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascun alunno, ai processi di autovalutazione degli alunni medesimi, al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo, anche in coerenza con l’obiettivo dell’apprendimento permanente di cui alla "Strategia di Lisbona nel settore dell’istruzione e della formazione", adottata dal Consiglio europeo con raccomandazione del 23 e 24 marzo 2000".

La disposizione in questione (certamente applicabile anche in relazione allo scrutinio di ammissione all’esame di maturità) pur non essendo volta all’espressione di una valutazione – per così dire – di stampo meccanicistico ed incentrato alla mera media dei voti riportati dall’allievo, non consente tuttavia di tenere oltre misura in considerazione le difficoltà individuali di contesto che possono aver caratterizzato il percorso scolastico di ciascun allievo.

In definitiva, il complessivo giudizio finale di non idoneità, non rappresentando una misura di carattere parasanzionatorio (bensì il precipitato valutativo delle complessive attitudini e potenzialità in concreto di maturate nel corso dell’anno dall’allievo) non si presta a una valutazione di carattere lato sensu "scriminante’. Ed infatti, il giudizio finale non costituisce una sanzione in senso proprio, bensì la conseguenza in senso valutativo della concreta attività formativa posta in essere dallo studente, con la conseguenza che spetti solo al consiglio di classe (nell’esercizio della lata discrezionalità che ne caratterizza l’attività) valutare l’incidenza complessiva che le forzose assenze subite dall’allievo e, in particolare, se esse abbiano compromesso in modo incolmabile (seppur incolpevole) il grado di preparazione che sarebbe stato necessario per essere ammesso all’esame di Stato.

Impostati in tal modo i termini della questione emerge che il giudizio negativo espresso dal consiglio di classe risulti esente dai vizi rubricati in quanto dà atto (in modo sintetico, ma esauriente al fine di comprendere l’iter logico seguito e di apprezzarne la complessiva attendibilità) delle circostanze (fra cui i problemi di salute, pur benignamente valutati) che avevano reso impossibile per l’allievo il conseguimento di un livello complessivo di maturità e preparazione tale da essere ammesso a sostenere l’esame di Stato.

3. Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in questione deve essere respinto.

Il Collegio ritiene che sussistano giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-01-2011) 11-05-2011, n. 18546

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Svolgimento del processo

Con sentenza in data 29 settembre 2009 il Tribunale di Perugia in composizione monocratica, in ciò confermando quale giudice di appello la decisione assunta dal locale giudice di pace, ha riconosciuto C.G. responsabile, in concorso con altri, del delitto di lesione personale volontaria in danno di Co.Jo.; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile. Con la stessa sentenza ha confermato l’assoluzione del Co. dall’imputazione di lesione volontaria in danno del C., eliminando la sua condanna in via solidale al pagamento delle spese processuali.

Secondo la ricostruzione dei fatti recepita dal giudice di merito il C., agendo quale addetto alla sicurezza del locale di Perugia denominato "Zoologico", a seguito dell’errata individuazione del Co. quale soggetto autore di molestie in danno di clienti dell’esercizio, lo aveva trascinato con la forza fuori dal locale; in una fase successiva svoltasi all’esterno lo stesso C., a seguito di uno scambio di battute col Co., aveva aggredito costui, colpendolo con calci e pugni unitamente ad altri addetti alla sicurezza.

Ha proposto ricorso per cassazione il C., nella duplice sua qualità di imputato e di parte civile, deducendo quattro motivi.

Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge in relazione alla ritenuta insussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 52 c.p.. Richiamandosi alle deposizioni dei testi B.A. e Ca.Ma., riprodotte nel loro tenore testuale, sostiene di essersi limitato a reagire all’aggressione portatagli dal Co..

Col secondo motivo, ancora richiamandosi alla deposizione del teste B., lamenta il negato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 2.

Col terzo motivo il C. rimprovera al Tribunale di avergli negato l’applicazione delle attenuanti generiche.

Col quarto motivo, ancora basandosi sulla riproduzione delle deposizioni dei testi B. e Ca., impugna l’assoluzione del Co. e ripropone le istanze risarcitorie nei di lui confronti.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito esposte.

Per la parte in cui il C. si grava nella veste di parte civile, censurando l’assoluzione del Co. e il conseguente rigetto della domanda risarcitoria contro di lui proposta dal deducente, l’inammissibilità del ricorso discende dall’essere stato lo stesso proposto dalla parte personalmente, anzichè da un difensore iscritto nell’apposito albo e munito di procura speciale.

Costituisce, infatti, ius receptum – alla stregua di ripetute e- nunciazioni giurisprudenziali, anche da parte delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema – il principio secondo cui la deroga contenuta nell’art. 613 c.p.p., ed espressa con le parole "salvo che la parte non vi provveda personalmente", alla regola generale della necessaria sottoscrizione di un difensore iscritto nell’albo speciale è applicabile esclusivamente nei confronti dell’imputato, non potendo le altre parti private stare in giudizio, ai sensi dell’art. 100 c.p.p., comma 1, se non "col ministero di un difensore munito di procura speciale" (Cass. Sez. Un. 16 dicembre 1998 n. 24/99; Cass. Sez. 5^ 6 gennaio 1999 n. 1541; Cass. Sez. Un. 21 giugno 2000 n. 19;

Cass. Sez. 3^ 7 febbraio 2003 n. 14337).

Nelle parti restanti, volte ad impugnare la condanna del C. per il delitto di lesione personale in danno del Co., il ricorso è inammissibile in quanto la richiesta di applicazione della scriminante della legittima difesa, o in subordine delle attenuanti di cui all’art. 62 c.p., n. 2 e art. 62 bis c.p., ambisce a fondarsi su una ricostruzione del fatto incompatibile con quella accertata dal Tribunale in esito alla valutazione del materiale probatorio: il che si traduce nella sollecitazione di un riesame del merito – non consentito in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti.

Al riguardo non sarà inutile ricordare che, per consolidata giurisprudenza, pur dopo la modifica legislativa dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass. 15 marzo 2006 n. 10951); e il riferimento ivi contenuto anche agli "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame" non vale a mutare la natura del giudizio di legittimità come dianzi delimitato, rimanendovi comunque estraneo il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass. 22 marzo 2006 n. 12634).

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso conseguono le statuizioni di cui all’art. 616 c.p.p..

Spetta alla parte civile Co.Jo. la rifusione delle spese di difesa sostenute nel presente giudizio di legittimità; la relativa liquidazione è effettuata in complessivi Euro 1.300,00, da maggiorarsi in ragione degli accessori di legge.
P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese di parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.300,00 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-09-2011, n. 20113 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 251/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Cremona, in accoglimento della domanda proposta da D.P. K. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 22-11-2002 al 31-12-2002, con conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e condannava la società al ripristino del rapporto e al pagamento delle retribuzioni dalla data di offerta delle prestazioni.

La società proponeva appello avverso tale sentenza chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte.

La D.P. resisteva e proponeva appello incidentale lamentando la mancata applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e la omessa motivazione della compensazione delle spese.

La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza depositata il 22-9-2006, rigettava entrambi gli appelli.

Per la cassazione della detta sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

La D.P. è rimasta intimata.
Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunciando vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata contraddittoriamente ha "dapprima affermato che la pacifica sussistenza di un piano di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale di lungo periodo (inevitabilmente riferita a tutto i contesto nazionale e non ad un gruppo di uffici) costituisce una legittima causale per la stipulazione di contratti a termine, stante la delega in bianco conferita dal legislatore alle parti collettive" e poi, nel contempo, "ha affermato che tale previsione sarebbe invalida qualora non imponesse che ogni assunzione a termine fosse giustificata dalla situazione particolare del singolo ufficio di assegnazione".

Secondo la ricorrente inoltre evidente sarebbe "l’error in procedendo sul punto".

Con il secondo motivo la società, denunciando violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in sostanza deduce che la "sentenza impugnata – richiedendo la prova della ristrutturazione del singolo ufficio di assegnazione in cui ha operato la lavoratrice – ha integrato la fattispecie pattizia con un elemento aggiuntivo, non concordato dalle parti sociali, negando la libertà di determinazione delle ipotesi che, invece, è stata riconosciuta dalla L. n. 56 del 1987, art. 23".

Peraltro, secondo la ricorrente "alla medesima conclusione si giungerebbe anche nel caso di denegata applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001", in quanto il citato nesso eziologico tra le esigenze generali indicate nella causale e a specifica assunzione della lavoratrice con riguardo all’ufficio di adibizione non è un requisito richiesto" dal detto D.Lgs..

La società al riguardo formula quindi il seguente quesito di diritto:

"Se, ai fini della legittimità delle assunzioni a termine effettuate ai sensi dell’art. 25 del CCNL 11 gennaio 2001 e del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 è sufficiente la prova – da parte della società – della sussistenza delle esigenze di carattere generale dedotte nella causale dei contratti individuali, senza che sia necessario fornire la dimostrazione del nesso causale tra dette esigenze generali ed ogni singola assunzione".

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e degli artt. 1418, 1419 e 1457 c.c., in sostanza censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la sanzione della nullità del termine non si estende all’intero contratto, ma rimane circoscritta alla clausola di apposizione del termine, in quanto, nel silenzio della norma di L. del 2001 (a differenza della precedente norma di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 1), dovrebbe essere applicato il principio generale della nullità del contratto contrario a norma imperativa.

La ricorrente formula quindi il seguente quesito di diritto:

"Se, nel silenzio del D.Lgs. n. 368 del 2001 che non prevede espressamente le conseguenze della nullità della clausola appositiva del termine, detta nullità si estende ex art. 1419 c.c. all’intero contratto a tempo determinato, allorchè risulti che le parti non lo avrebbero concluso se avessero conosciuto la nullità della clausola relativa a termine".

Osserva il Collegio che i detti motivi risultano inammissibili per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella fattispecie ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso sentenza pubblicata successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 (v. Cass. 24-3-2010 n. 7119, Cass. 16- 12-2009 n. 26364).

Tale norma infatti, "nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 ovvero del motivo previsto dal n. 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a "dieta" giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo "iter" argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione" (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

In particolare il quesito di diritto "deve comprendere l’indicazione sia della "regola iuris" adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile" (v. Cass. 30-9-2008 n. 24339). Peraltro "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Pertanto è inammissibile non solo il motivo nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente in relazione alla illustrazione del motivo stesso, o rispetto al decisum (v. Cass. S.U. 21-6-2007 n. 14385, Cass. S.U. 29- 10-2007 n. 22640), "ovvero sia formulato in modo implicito, si da dovere essere ricavato per via di interpretazione da giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto generico (v. Cass. S.U. 28-9-2007 n. 20360 cfr. Cass. S.U. 5-2-2008 n. 2658).

Nell’ipotesi, poi, prevista dall’art. 360 c.p.c., n. 5, "l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione" e "la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo al quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità" (v. Cass. S.U. 1- 10-2007 n. 20603, Cass. 20-2-2008 4309). Tale sintesi deve essere "evidente ed autonoma" – v. Cass. 30-12-2009 n. 27680, Cass. 7-4-2008 n. 8897, Cass. S.U. 1-10-2007 n. 20603, Cass. 18-7-2007 n. 16002 – e non può essere ricavata implicitamente dall’esposizione complessiva del motivo stesso.

Orbene nella fattispecie occorre innanzitutto evidenziare il decisum della Corte di merito, prima di esaminare la osservanza in concreto del dettato di cui all’art. 366 bis c.p.c..

La Corte territoriale, premesso che la D.P. "ha sottoscritto due contratti di lavoro a tempo determinato, per i periodi dal 22-11- 2002 al 31-12-2002 e dal 2-5-2003 al 30-6-2003" (il primo per "sostenere il livello del servizio di recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità, tuttora in fase di completamento, di cui agli Accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002" e il secondo per "ragioni di carattere sostitutivo di personale con diritto alla conservazione del posto ex D.Lgs. n. 368 del 2001"), ha affermato che "le normative di riferimento ai fini della valutazione della validità della clausola di apposizione del termine sono dunque diverse per i due contratti e il primo dei due, quello in data 21-11-2002, richiamando solo gli accordi collettivi, deve essere valutato esclusivamente in forza delle previsioni contenute in questi ultimi". Ciò in forza dell’art. 11 del citato D.Lgs. che ha previsto la conservazione della efficacia degli accordi collettivi stipulati L. n. 56 del 1987, ex art. 23 fino alla scadenza".

Sulla base di tale premessa la Corte ha rilevato che la società non aveva provato (e neppure aveva allegato) "che presso l’ufficio postale di (OMISSIS) esistevano quelle situazioni che legittimavano l’apposizione del termine".

A fronte di tale chiara decisione (che non risulta in alcun modo contraddetta dalla affermazione ad abundantiam, pure contenuta nella stessa sentenza, secondo cui "argomenti diversi non possono essere tratti dalla disciplina di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001") in sostanza la società ricorrente, innanzitutto, non censura in alcun modo l’inquadramento del contratto in esame (il primo) operato dalla Corte di merito, secondo il regime di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23 nel quadro generale della disciplina di cui alla L. n. 230 del 1962, in quanto prorogato D.Lgs. n. 368 del 2001, ex art. 11.

Ciò posto, il Collegio osserva in particolare che il primo motivo è privo del necessario "evidente ed autonomo" momento di sintesi, come sopra richiesto. Peraltro la censura risulta anche generica e poco chiara (si parla nel contempo di contraddittorietà della motivazione e di error in procedendo e ci si riferisce alla ipotesi collettiva di cui all’art. 25 del ccnl 2001, senza considerare affatto la specifica causale del contratto de quo con gli accordi richiamati).

In relazione al secondo motivo, va, poi, osservato che il quesito risulta contraddittorio ed inconcludente, nonchè in parte non attinente al decisum.

Si invocano, infatti contemporaneamente l’art. 25 del ccnl del 2001 in virtù della L. n. 56 del 1987, art. 23 e il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 fra di loro incompatibili, in quanto, come è stato chiarito da questa Corte (v. Cass. 4-8-2008 n. 21092), la applicazione della normativa transitoria (che prevede la conservazione "salvo diverse intese", "fino alla data di scadenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro" della piena efficacia delle clausole "vigenti alla data di entrata in vigore del decreto") esclude chiaramente la applicabilità concorrente della nuova disciplina dettata dall’art. 1 del citato D.Lgs. Il quesito, poi, parla genericamente di "esigenze di carattere generale dedotte", richiamando il citato art. 25 del ccnl del 2001, ignorando, però, del tutto la particolare causale de contratto de quo e gli accordi ivi richiamati (in base ai quali "esclusivamente" la sentenza impugnata ha affermato che doveva essere valutato il contratto stesso).

Del resto, in mancanza di qualsiasi censura avverso l’inquadramento del contratto in esame operato dalla Corte di merito in base al vecchio regime, in virtù della norma transitoria del D.Lgs. n. 368 del 2001, neppure può risultare in qualche modo conferente con il decisum il richiamo all’art. 1 dello stesso D.Lgs. Parimente infine, del tutto inconferente rispetto al decisum risulta il quesito relativo al terzo motivo, riguardante la nullità parziale del contratto.

Considerato, infatti, che la sentenza impugnata ha inquadrato il contratto de quo nel vecchio regime applicando la normativa di cui alle L. n. 56 del 1987 e L. n. 230 del 1962 e preso atto che tale inquadramento non è stato in alcun modo contestato dalla ricorrente, appare evidente la estraneità del detto quesito (incentrato tutto sul "silenzio" al riguardo da parte del D.Lgs. n. 368 del 2001) rispetto a quanto deciso nell’impugnata sentenza.

Infine, non essendo stata avanzata alcuna altra censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, osserva il Collegio che neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto.

Sulle spese non si provvede non avendo la intimata svolto alcuna attività difensiva.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.

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