Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-06-2011) 19-08-2011, n. 32553 Misure cautelari

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

C.D., indagato in ordine al delitto continuato di concorso in usura ( artt. 81, 110 e 644 c.p.) ricorre avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Firenze in data 3 gennaio 2011 che ha rigettato la richiesta di riesame dell’ordinanza del Gip di Prato del 9 dicembre 2010 che ha imposto la custodia cautelare in carcere.

Il difensore del C., avv. Alessandro Giuliani, deduce violazione dell’art. 309 c.p.p., comma 8, e motivazione carente ed illogica per avere ricevuto avviso della nuova udienza fissata dal tribunale per il giorno 3.1.2011 alla data del 31.12.2010 e quindi, stante le giornate festive del 31.12 2010 e del 1.1.2011 con il mancato rispetto dei tre giorni liberi prescritti dall’art. 309 c.p.p., comma 8. Deduce che il rinvio dell’udienza fu ritenuto necessitato dal tribunale per la mancanza di atti che non consentì la discussione di merito. Con altro motivo deduce gli stessi vizi della decisione con riferimento al disposto di cui all’art. 273 c.p.p., essendo stata l’azione addebitata (ruolo di "legale" dei creditori) posta in essere solo successivamente alla consumazione del delitto di usura già perfezionato con la promessa o il pagamento di interessi usurari, dovendosi ravvisare il delitto di favoreggiamento di cui all’art. 379 c.p.. L’indagato intervenne "con strumenti legali unicamente dopo la consumazione dell’usura nella fase in cui le parti, già decise ad estinguere il debito mediante una cessione immobiliare, si prepararono a recarsi dal notaio per la predisposizione del contratto di compravendita". Insiste nel rilevare che l’avv. C. non ha responsabilità per il tasso usurario e non è stato a conoscenza della genesi dell’obbligazione, come risulta dalle mancate accuse al riguardo rivolte dalle parti lese.

Deduce ancora violazione degli artt. 63 e 191 c.p.p., per essere l’ordinanza custodiate fondata su dichiarazioni dell’indagato rese nel corso di una perquisizione senza le garanzie di legge. Ricorre anche eccependo la violazione degli artt. 274 e 275 c.p.p., non sussistendo esigenze cautelari, comunque raggiungibili con misure meno afflittive.

Il primo motivo di ricorso è infondato in quanto i termini di cui all’art. 309 c.p.p., comma 8, sono previsti e sono stati rispettati per la prima udienza tenuta dal Tribunale del Riesame il 29.12 (avviso ricevuto dal difensore del ricorrente il 23.12), udienza cui lo stesso difensore fu presente ed esercitò le dovute attività difensive. Detti termini di tre giorni non dovevano essere concessi per la successiva udienza di rinvio disposta nel caso concreto solo erroneamente per acquisire atti che invece risultavano già nel fascicolo con diversa numerazione. Il secondo motivo di gravame inerente la responsabilità per la determinazione dei tassi usurari è manifestamente infondato risolvendosi in una discrezionale valutazione di insufficienza indiziaria a fronte di un non illogico giudizio di gravità degli indizi accertasti dal giudice di merito.

Nel giudizio di cassazione deve essere accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito nel rispetto delle norme processuali e sostanziali. Ai sensi del disposto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è manifestamente carente di motivazione o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti operata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass. S.U. 19.6.96, De Francesco). Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv.

207944, Dessimone). conclusione il controllo di legittimità sui punti devoluti rimane circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità; 1) – l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) – l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Cass. 6^ 25.5.95 n. 2146, depositata 16.6.95, rv.

201840). Le doglianze si presentano al riguardo meramente assertive a fronte dell’accertamento del giudice di merito (fondato sulle dichiarazioni delle parti lese e sui documenti sequestrati) in ordine al fatto che l’indagato "gestì personalmente la fase del prestito e la definizione del piano di rientro" essendo quindi "artefice egli stesso del tasso usurario" in pieno concorso con l’attività dei coindagati. E’ parimenti manifestamente infondata l’eccezione di inutilizzabilità di dichiarazioni rese informalmente dall’indagato, dichiarazioni che non sono state poste a fondamento indiziario di responsabilità, responsabilità risultante dalle diverse prove appena indicate.

Deve essere respinto anche il ricorso relativo alle esigenze cautelari. In punto di fatto il giudice della cautela ha accertato che le modalità di attuazione del delitto contestato sono espressione capacità a delinquere dell’indagato sistematicamente reiterata. Tanto è conforme al principio di legittimità che statuisce che ai fini della configurabilità dell’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato previsto dall’art. 274 c.p.p., lett. e), gli elementi di cautela possono essere tratti anche dalle specifiche modalità e circostanze del fatto, considerate nella loro obiettività, in quanto la valutazione negativa della personalità dell’indagato può desumersi tenendo presenti i criteri stabiliti dall’art. 133 c.p.. L’attribuzione alle medesime modalità e circostanze di una duplice valenza sia sotto il profilo della valutazione della gravità del fatto sia sotto quello dell’apprezzamento della capacità a delinquere discende dalla considerazione che la condotta tenuta in occasione del reato (nella specie la capacità delinquenziale reiterata nel tempo) costituisce un elemento specifico significativo per valutare la personalità dell’agente e l’attualità delle esigenze (Cass. 3^ 23.4.04, ud.

18.3.04, rv. 228882; Cass. 6^ 6.6.02 n. 22121, c.c. 20.2.02, rv.

222242).

Anche l’ultimo motivo di gravame deve essere rigettato avendo il tribunale considerato la specifica idoneità della misura imposta ai fini di soddisfare le descritte esigenze di prevenzione, in difetto di condizioni sanitarie evidenzianti una qualche incompatibilità con il regime carcerario..

Al rigetto del ricorso dell’indagato segue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del C. al pagamento delle spese processuali. Inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94, comma 1 bis.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 13-10-2011, n. 802 Ricorso per l’esecuzione del giudicato

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Svolgimento del processo

Con decreto ingiuntivo n. 881/09 il Tribunale di Latina- sez. lavoro ha condannato il Comune di Terracina e la Cooperativa Sociale I. a.r.l., a pagare nei confronti del ricorrente E. 10.309,72, oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalle scadenze del credito al soddisfo.

Il decreto ingiuntivo, emesso il 02.10.2009, è stato notificato il 19.10.2009, non opposto e munito di formula esecutiva il 16.06.2010 è stato rinotificato in forma esecutiva il 13.09.2010.

Ad l’Amministrazione è inadempiente.

Nella udienza camerale odierna la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

Sussistono tutti i presupposti di legge per accogliere il ricorso in ottemperanza e per condannare il Comune di Terracina a dare piena esecuzione al decreto ingiuntivo n. 881/09 del Tribunale di Latina- sez. lavoro, nel termine perentorio di giorni 60 dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza.

Si nomina sin da ora il prefetto di Latina quale commissario ad acta, o un suo delegato, che si insedierà entro cinque giorni dalla scadenza del termine predetto e, verificato l’inadempimento dell’amministrazione, adotterà tutti gli atti necessari per l’ottemperanza entro il termine perentorio di 30 giorni. Il compenso per il commissario ad acta viene liquidato in E. 300.

Ai sensi dell’art. 114 co. 4 lett. e), in caso di ritardo nell’esecuzione del presente giudicato, decorsi 60 giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza senza che l’amministrazione

soccombente abbia adempiuto, è posta a suo carico la ulteriore somma di E. 200, da corrispondersi, a favore della ricorrente.

Le spese della presente controversia si liquidano forfettariamente in Euro 500 – oltre ad E. 300 per il commissario ad acta – e si pongono a carico della parte soccombente.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sezione staccata di Latina (Sezione Prima)

Accoglie il ricorso nei limiti di cui motivazione. Condanna il Comune di Terracina al pagamento delle spese che si liquidano in Euro 300,00 per il Commissario ad acta, Euro. 200,00 a titolo di sanzione ed Euro. 500,00 a titolo di spese, secondo quanto rappresentato in motivazione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 16-06-2011) 06-10-2011, n. 36219 Cognizione del giudice d’appello reformatio in peius

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 18.11.2009 la Corte d’Appello di Roma in riforma della sentenza del GUP di Velletri del 29.6.2006 dichiarava non doversi procedere con riguardo ai reati contestati ai capi m) n) A) C) E) G) I) R) S) U) V) W) X) Y) Z) AA) BB) DD) EE) GG) HH) II) e JJ) perchè estinti per intervenuta prescrizione confermava la sentenza con riguardo ai residui reati di cui ai capi B) D) F) H) J) K) L) M) N) =) P) Q) CC) FF) e KK) (violazione degli artt. 648 bis e 648 c.p.) e T) (violazione dell’art. 495 c.p. così come rispettivamente contestati a SI.Do., SA.Vi., S. B., A.F., S.V., C.A., riducendo le pene loro irrogate.

La Corte territoriale, richiamando la sentenza di primo grado evidenziava che il processo era frutto di una vasta indagine di P.G. sviluppatasi, grazie alle risultanze progressivamente acquisite mediante intercettazioni telefoniche ed ambientali, sequestri e collaterali operazioni di osservazione e controllo, nell’ambito di due distinti filoni investigativi collegati dal coinvolgimento della famiglia S. – C.: l’uno relativo al riciclaggio e commercio di veicoli rubati (capi da A) ad U) dell’imputazione) l’altro alla realizzazione e allo smercio di permessi di soggiorno contraffatti.

Riteneva la Corte distrettuale pienamente utilizzabili le disposte intercettazioni disattendendo le doglianze difensive in ordine alle sollevate carenze motivazionali e pienamente provata la responsabilità dei prevenuti in ordine ai reati di riciclaggio e ricettazione loro contestati. Gli altri reati venivano dichiarati estinti per intervenuta prescrizione.

Sottolineavano i giudici d’appello come l’accertata attività di contraffazione degli estremi identificativi delle vetture di provenienza furtiva (sostituzione delle targhe, alterazione dei numeri di telaio, contraffazione dei documenti di circolazione) concretizzava quell’attività manipolativa delle cose di provenienza delittuosa volta a nasconderne la provenienza che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, è l’essenziale elemento che distingue il riciclaggio dalla ricettazione.

Ricorre per Cassazione personalmente S.B. deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 429, comma 4, come richiamato dall’art. 601 c.p.p., stante l’omessa notificazione al ricorrente del decreto di citazione per il giudizio d’appello e la conseguente nullità della sentenza. Si duole il ricorrente che la notifica non è avvenuta al civico (OMISSIS), domicilio dichiarato, bensì al civico (OMISSIS) per posta per compiuta giacenza.

2. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per motivazione manifestamente illogica in ordine all’assunta compartecipazione del ricorrente agli episodi di riciclaggio di cui ai capi B) D) F) H) K).

Lamenta il ricorrente la ricostruzione operata dai giudici d’appello, sottolineando come le autovetture di cui ai capi B) D) F) e H) furono rinvenute nella disponibilità del solo SA. tra il 20 ed il 24 marzo 2000, cioè in epoca precedente all’attività di osservazione di p.g. intrapresa nei suoi confronti. Analoghe doglianze solleva nei confronti del capo K). Aggiunge che la Corte territoriale ha travisato il contenuto del verbale di sequestro del 17.4.2000 sottolineando come tali documenti nulla hanno a che fare con l’attività di riciclaggio, ma sono attinenti ad altro tipo di contraffazione, quale quella dei permessi di soggiorno.

3. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per manifesta illogicità della motivazione resa in ordine all’assunta compartecipazione del ricorrente ai capi L) N) O) P) nonchè all’episodio di ricettazione enucleato al capo M) e 606 lette) per inosservanza dell’art. 125 c.p.p., comma 3 stante l’assoluta mancanza di motivazione in ordine alla prospettata estraneità del ricorrente ai fatti di cui ai capi di imputazione, essendo in regime detentivo per altra causa dal 19.4.2000 al 5.1.2001. 4. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 125 c.p.p.., comma 3 per mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine ai capi T) e CC) dell’imputazione.

Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per contrasto con l’art. 521 c.p.p. e conseguente nullità parziale della sentenza. Contesta il ricorrente la titolarità della documentazione sequestrata il 17.4.2000 sottolineando che era del figlio che se ne era assunta la responsabilità. 5. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per omessa e manifesta illogicità della motivazione resa a sostegno del diniego al riconoscimento delle attenuanti generiche.

6. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per contrasto con l’art. 125 c.p.p., comma 3 per omessa motivazione in ordine alla scelta di quantificare la pena base per il più grave delitto di riciclaggio in misura superiore al minimo edittale.

7. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine all’applicazione degli aumenti di pena per la continuazione.

8. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 125 c.p.p., comma 3 ed e) per mancanza – manifesta illogicità della motivazione in ordine ai criteri di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione.

Ricorrono per Cassazione personalmente anche S.V. e C.A. deducendo alcuni motivi identici, in particolare, che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per motivazione apparente manifestamente illogica in ordine all’assunta compartecipazione nelle imputazioni loro ascritte (capi B) D) F) H) K) L) M) N) O) P). contestano le ricorrenti la ricostruzione operata dalla corte territoriale sottolineando come i reati che vanno dal capo B) al capo H) risultano commessi prima che fosse stata intrapresa alcuna attività di controllo nei loro confronti.

Contestano la ricostruzione operata dai giudici del merito con riguardo ai rapporti fra la famiglia S. e il SA..

Sostengono che la Corte territoriale ha travisato il contenuto del verbale di sequestro e ha fornito una non corretta interpretazione delle conversazioni intercettate.

2. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per inosservanza dell’art. 597 c.p.p., comma 3 avendo la Corte, in contrasto con il principio del divieto della reformatio in pejus operato l’aumento per la continuazione in misura più severa rispetto al giudice di primo grado e per contrasto con Part. 157 ss. c.p. avendo la Corte omesso di elidere dall’aumento per la continuazione le pene inflitte per i reati dichiarati prescritti.

3. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 125 c.p.p., comma 3 ed e) per mancanza – manifesta illogicità della motivazione in ordine ai criteri di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione.

4. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 125 c.p.p., comma 3 per omessa motivazione in ordine alla scelta operata dalla Corte di quantificare la pena base per il più grave delitto di riciclaggio in misura superiore al minimo edittale La sola C.A. deduce anche l’omessa o manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Ricorre personalmente anche A.F. deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per motivazione manifestamente illogica in ordine all’assunta compartecipazione del ricorrente agli episodi di riciclaggio di cui ai capi B) D) F) H) K) e N). Sottolinea il ricorrente come il rinvenimento delle vetture indicate nei capi di imputazione è venuta in epoca antecedente all’attività di osservazione intrapresa nei suoi confronti.

2. violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) per inosservanza della legge penale e carenza di motivazione in ordine alla qualificazione giuridica attribuita dalla Corte territoriale alle condotte descritte nei capi D) F) N) O) e P). Sostiene il ricorrente che i fatti a lui contestati realizzavano al più i delitti di ricettazione e non quelli di riciclaggio contestati.

3. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per omessa e manifesta illogicità della motivazione posta a fondamento del diniego delle circostanze attenuanti generiche.

4. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 125 c.p.p., comma 3 per omessa motivazione in ordine alla scelta operata dalla Corte di quantificare la pena base per il più grave delitto di riciclaggio in misura superiore al minimo edittale.

5. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 125 c.p.p., comma 3 ed e) per mancanza – manifesta illogicità della motivazione in ordine ai criteri di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione.

Ricorre per Cassazione anche il difensore di SA.Vi. deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) manifesta illogicità della motivazione.

Inesistenza del reato contestato. Assoluzione per non aver commesso il fatto.

Sostiene il ricorrente l’illogicità della sentenza e lamenta la mancata assoluzione per non aver commesso il fatto 2. violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b). Erronea applicazione della legge penale Errata determinazione della pena.

3. Sostiene la prescrizione dei reati.

Ricorre per Cassazione anche il difensore di SI.Do. deducendo che la sentenza impugnata è:

1. nulla per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b). Lamenta il ricorrente la mancata declaratoria di prescrizioni con riguardo ai reati A) C) E) G) ed I).

2. nulla per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c) e per erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b).

Lamenta la mancata declaratoria di prescrizione con riguardo ai reati sub A) C) E) G) ed I) e comunque la minima riduzione della pena.

3. nulla per mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e). Lamenta la mancata rinnovazione del dibattimento al fine di disporre perizia psichiatrica per accertare se al momento dei fatti il SI. versasse in condizioni di infermità tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere. Evidenzia come in fase di indagini era stata accertato uno stato depressivo dell’imputato che aveva determinato l’incompatibilità con il regime carcerario. Sottolinea come la richiesta era finalizzata alla concessione delle circostanze attenuanti generiche.

La posizione di S.B. deve essere stralciata dal presente procedimento essendo necessario acquisire al fine del decidere le dichiarazioni di domicilio effettuate dal ricorrente anche nel corso delle indagini preliminari.

I restanti ricorsi denunciano, sotto diversi profili, vizi di motivazione.

In proposito vanno richiamati i principi, ripetutamente affermati da questa Corte, che regolano il sindacato del giudice di legittimità.

La mancanza di motivazione consiste nell’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa sottoposto al giudice di merito, non già nell’insufficienza di essa o nella mancata confutazione di un argomento specifico relativo ad un punto della decisione che è stato trattato dal giudice del provvedimento impugnato, con implicito rigetto della diversa valutazione operata da quella della parte.

Così come il controllo di legittimità non si estende alle incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate o con altri passaggi argomentativi utilizzati dai giudici e tali, perciò, da costituire fratture logiche, all’interno del discorso giustificativo, tra premesse e conclusioni. La verifica che la Corte di Cassazione, in forza dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è abilitata a compiere sulla correttezza e completezza della motivazione riguarda la congruità logica e l’interna coerenza dell’apparato argomentativo posto a base della decisione impugnata e non va confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. La Corte Suprema non è quindi legittimata a controllare la rispondenza alle risultanze processuali e l’adeguatezza in concreto delle scelte operate, nell’ambito delle sue esclusive attribuzioni, dal giudice di merito in ordine alla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, ma soltanto a riscontrare l’esistenza di una reale e non apparente struttura motivazionale, completa e logicamente coerente con il materiale probatorio valutato.

Esclusa pertanto una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, non può integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (cfr. Cass., Sez. Un., 29.1.1996, Clarke; 23.2.1996, P.G., Fachini e altri; 22.10.1996, Di Francesco; 2.7.1997, Dessimone e altri).

La previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto. In questa prospettiva il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli "atti del processo" rappresenta solo il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", in virtù del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato preso in esame, senza travisamenti, all’interno della decisione.

In altri termini si può parlare di travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. Non spetta invece alla Corte di cassazione "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacchè attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi.

Ciò detto le censure sollevate dalla difesa S.V. e C.A. con il 1 motivo di ricorso si palesano manifestamente infondate perchè versate in fatto e comunque generiche.

La difesa delle imputate ha mosso generiche censure alle argomentazioni fattuali e logico-giuridiche sviluppate nella sentenza d’appello, e non ha nemmeno sostenuto il proprio assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare.

In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della cd.

"autosufficienza" del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (cfr.

Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06; Cass. n. 47499/07; Cass. n. 16706/08) Nel caso in esame il ricorrente non ha messo a disposizione di questa Corte di legittimità gli elementi obiettivi necessari per apprezzare, sulla base di atti specificatamente trascritti o allegati, la sussistenza o l’insussistenza di un fumus delle doglianze e quindi l’utilità o la superfluità di un esame diretto dei relativi atti. In applicazione a tali principi il Collegio ritiene che le risultanze processuali inadeguatamente esposte e le argomentazioni esposte nei motivi in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza impugnata che non presenta nella motivazione alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva sia con riguardo alla partecipazione all’associazione rispetto alla quale vi è stata una pronuncia di prescrizione, sia con riguardo al concorso nei reati di riciclaggio sistematicamente realizzati, rispetto ai quali è stato sottolineato come gli atti di indagine, realizzati in un ristretto arco temporale, portavano ad escludere che i veicoli trovati nella disponibilità del SA. potessero essere stati da lui "movimentati" per canali diversi da quelli che lo vedevano inconfutabilmente legato al clan SECHI che operava in tale settore.

Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

Sul punto deve osservarsi che la Corte Territoriale in riforma della sentenza del giudice di primo grado dichiarava, d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., la prescrizione dei reati diversi dal riciclaggio e dalla ricettazione, sul presupposto che le risultanze processuali, illustrate nel corpo della motivazione, tenuto conto delle argomentazioni difensive volte a dedurre l’insussistenza della responsabilità in capo alle appellanti, impedivano una pronuncia di innocenza delle imputate. I giudici d’appello sottolineavano come dagli atti di indagine risultava il fattivo e sistematico coinvolgimento operativo nell’attività di contraffazione di targhe e documenti dell’intero nucleo famigliare del S., al quale le due donne appartenevano, e che quindi non poteva trovare accoglimento l’impugnazione proposta finalizzata ad una pronuncia di assoluzione.

Nel giudizio di impugnazione l’applicabilità ex officio dell’art. 129 c.p.p. conferisce al giudice un vero e proprio potere ultra petita che realizza una deroga all’effetto devolutivo che caratterizza il giudizio di appello così come indicato dall’art. 597 c.p.p., comma 1.

La riforma della sentenza nel caso di specie è stata determinata non dall’accoglimento dell’appello presentato dalle ricorrenti, bensì dall’esercizio del potere conferito alla Corte dall’art. 129 c.p.p. che ha portato il giudice d’appello a dichiarare l’estinzione di alcuni reati concorrenti per intervenuta prescrizione.

Il mancato accoglimento dell’appello impedisce l’applicazione dell’art. 597 c.p.p., comma 4 che stabilisce che "in ogni caso se è accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita".

La giurisprudenza di questa Corte ha affermato alcuni punti fermi circa i rapporti tra le disposizioni del terzo e quelle dell’art. 597 c.p.p., comma 4. In particolare è stato detto (cfr. SU. 12.5.1995) che il divieto della reformatio in peius previsto dall’art. 597 c.p.p., comma 3 per l’ipotesi di impugnazione del solo imputato ha una portata generale e pone un limite ai poteri del giudice che non può applicare una pena più grave di quella inflitta dal primo giudice. A tale limite, nei casi previsti dall’art. 597 c.p.p., comma 4, si aggiunge il dovere di diminuire "la pena complessiva irrogata" in misura corrispondente all’accoglimento dell’impugnazione.

Diversamente dal divieto della reformatio in peius, che sorge "quando appellante è il solo imputato" (art. 597 c.p.p., comma 3), il dovere di diminuire la pena, di cui all’art. 597 c.p.p., comma 4, esiste "in ogni caso", cioè anche quando, oltre all’imputato, è appellante anche il pubblico ministero, la cui impugnazione non può impedire le diminuzioni corrispondenti all’accoglimento dei motivi dell’imputato relativi a reati concorrenti o a circostanze.

Il divieto della reformatio in peius fissato dal primo comma dell’art. 597 c.p.p., comma 3 non può però condizionare i poteri di cognizione e di decisione del Giudice del gravame che, infatti, è legittimato a dare al reato una definizione giuridica diversa e anche più grave di quella attribuitagli dal Giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata con l’unico limite, fissato dalla stessa norma, di non irrogare una pena di maggiore entità o gravità rispetto a quella già inflitta.

Il divieto suddetto concerne, infatti, la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla motivazione della stessa, nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti a seguito del dedotto gravame. Non è infatti precluso al giudice d’appello esprimersi con una motivazione meno favorevole per l’imputato, posto che il divieto in parola copre il solo dispositivo della sentenza e non il suo apparato logico-argomentativo C 2 3.3.1997, Gallo, CED 208375; C 1 10.7.1995, Cavalieri, CED 202423; C 6 16.11.1994, Bagno, CED 201042; C SU 19.1.1994, Celerini, CP 1994, 2027.

La limitazione dei poteri fissati dal comma in questione non è infatti diretta a garantire all’imputato un trattamento sotto ogni aspetto migliore di quello usatogli nel precedente grado, ma solo ad impedirgli un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello inflitto dal primo giudice.

Nel caso in esame la Corte Territoriale non ha accolto l’appello delle imputate ma ha dichiarato d’ufficio l’estinzione dei reati, diversi dal riciclaggio e dalla ricettazione, per intervenuta prescrizione ed ha proceduto per l’effetto ad una riduzione della pena fissando l’aumento per la continuazione in modo diverso e meno favorevole per le imputate, rispetto ai calcoli effettuati dal giudice di primo grado. Tale modo di procedere non ha dato luogo ad alcuna violazione del principio di cui si discute in quanto nel caso in esame il divieto concerne la parte dispositiva della sentenza e non si estende alla motivazione nella cui formulazione il giudice non può subire condizionamenti. La Corte territoriale ha infatti determinato per S.V. la pena in anni 2 mesi 10 di recl. ed Euro 5000,00 di multa, a fronte di una precedente condanna ad anni 3 di recl. ed Euro 6000,00 di multa e per C.A. in anni 4 mesi 4 di recl. ed Euro 7000,00 di multa, a fronte di una precedente condanna ad anni 5 di recl. ed Euro 10000,00 di multa, riducendo sensibilmente la pena base che è stata fissata in misura prossima ai minimi edittali previsti per il reato di riciclaggio e procedendo ad un unico aumento per i restanti reati di riciclaggio e ricettazione in misura più congrua rispetto a quella fissata, sempre in maniera unitaria, dal giudice di primo grado considerato il numero di reati posti in continuazione. La decisione non contrasta con il principi fissato nella sentenza delle SU. del 2005 (Cass SU 27.9.2005 n. 40910) che ha affermato che il divieto di "reformatio in peius" nel caso di accoglimento dell’appello in ordine alle circostanze o al concorso di reati, anche se unificati per la continuazione, come espressamente previsto dall’art. 597 c.p.p., comma 4, investe anche i singoli elementi che compongono la pena complessiva e riguarda non solo il risultato finale di essa, ma tutti gli elementi del calcolo relativo e che la disposizione contenuta nell’art. 597 c.p.p., comma 4 individua, come elementi autonomi, pur nell’ambito della pena complessiva. Le Sezioni Unite di questa Corte Suprema nella sentenza richiamata hanno infatti sottolineato che l’art. 597 c.p.p. introduce, al comma 4, una disposizione innovativa in base alla quale "in ogni caso, se è accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita". Previsione che secondo le Sezioni Unite assume un significato particolarmente pregnante se letta alla luce della Relazione preliminare al codice del 1988, dove è scritto che, con l’introduzione di tale comma, il legislatore ha inteso "rafforzare il divieto della reformatio in peius" che, con il codice abrogato, veniva sostanzialmente eluso dalla giurisprudenza allorchè lo considerava riferibile solo alla pena complessivamente inflitta, consentendo di lasciare privo di conseguenze il riconoscimento di attenuanti, l’esclusione di aggravanti o il proscioglimento da alcune delle imputazioni contestate come concorrenti. Proprio a seguito dell’introduzione di una previsione innovativa, come quella contenuta nell’art. 597 c.p.p., comma 4 hanno ritenuto superato l’orientamento giurisprudenziale, formatosi soprattutto sotto il vigore dell’art. 515 c.p.p. 1930, comma 3, in base al quale il divieto della "reformatio in peius " andava riferito alla pena in definitiva irrogata e non ai singoli elementi che la compongono ed ai calcoli effettuati per giungere alla determinazione complessiva di essa. Nel caso di specie, come già indicato, non si verte infatti in ipotesi di accoglimento dell’appello proposto dall’imputato e non può trovare applicazione l’art. 597 c.p.p., comma 4 così come interpretato dalla sentenza richiamata. Manifestamente infondati sono anche le doglianze indicate ai punti 3) e 4) relative alla "dosimetria" della pena.

Questa Corte ha più volte affermato che se la determinazione della pena non sì discosta di molto dai minimi edittali, il giudice ottempera all’obbligo motivazionale di cui all’ari 125 c.p.p., comma 3, adoperando espressioni come "pena congrua", "pena equa", "congruo aumento", "ritiene equo", mentre, allorquando ritenga di determinare l’entità della pena in misura non prossima ai minimi edittali, egli deve evidenziare concretamente le ragioni per cui ha così quantificato la pena, facendo ricorso a tutti o ad alcuni dei parametri di cui all’art. 133 c.p., non potendo la motivazione esaurirsi nel ricorso a delle mere clausole di stile (Cass. N. 16691/2009 Rv 243168, N. 2925 del 2000 Rv. 217333, N. 35346 del 2008 Rv. 241189, N 39306 del 2008 Rv. 241145).

Nel caso in esame, come già indicato, la pena base è stata fissata in maniera prossima ai minimi edittali e l’aumento per la continuazione, considerato il rilevante numero dei reati, è stato fissato nei minimi di legge.

Manifestamente infondata è anche la doglianza sollevata dalla sola C. con riguardo all’omessa o manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. La Corte ha infatti dato conto con motivazione coerente e priva di vizi logici delle ragioni che militavano per la non concessione individuate "nella gravità dei fatti, la serrata molteplicità delle varie condotte criminose valutate unitariamente".

Anche i motivi dedotti da A.F. sono manifestamente infondati.

Con riguardo alle doglianze di cui ai punti 3) 4) e 5) relativi alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena non possono che richiamarsi le motivazione espresse con riguardo al ricorso C. – S. considerato l’identità delle censure.

Il primo motivo è inammissibile perchè generico e versato in fatto.

La difesa ha mosso generiche censure alle argomentazioni fattuali e logico-giuridiche sviluppate nella sentenza d’appello senza mettere a disposizione di questa Corte di legittimità gli elementi obiettivi necessari per apprezzare, sulla base di atti specificatamente trascritti o allegati, la sussistenza o l’insussistenza di un fumus delle doglianze e quindi l’utilità o la superfluità di un esame diretto dei relativi atti. Le doglianze si risolvono pertanto in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza impugnata che non presenta nella motivazione alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva sia con riguardo alla partecipazione all’associazione rispetto alla quale vi è stata una pronuncia di prescrizione, sia con riguardo al concorso nei reati di riciclaggio sistematicamente realizzati, rispetto ai quali è stato sottolineato come gli atti di indagine, realizzati in un ristretto arco temporale, portavano ad escludere che i veicoli trovati nella disponibilità del SA. potessero essere stati da lui "movimentati" per canali diversi da quelli che lo vedevano inconfutabilmente legato al clan SECHI che operava in tale settore e del quale l’ A. era indicato come partecipe alla luce di specifiche risultanze processuali.

Inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso perchè è la mera ripetizione di doglianze già esposte con i motivi d’appello e debitamente disattese dalla Corte di merito, pertanto deve essere considerato generico. E’ giurisprudenza pacifica di questa Corte che se i motivi del ricorso per Cassazione riproducono integralmente ed esattamente i motivi d’appello senza alcun riferimento alla motivazione della sentenza di secondo grado, le relative deduzioni non rispondono al concetto stesso di "motivo", perchè non si raccordano a un determinato punto della sentenza impugnata ed appaiono, quindi, come prive del requisito della specificità richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 581 c.p.p., lett. c). E’ evidente infatti che, a fronte di una sentenza di appello, come quella in esame, che ha fornito una risposta ai motivi di gravame la pedissequa ripresentazione degli stessi come motivi di ricorso in Cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’Appello.

Deve aggiungersi che le argomentazioni esposte nel motivo in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza, come quella impugnata che appare congruamente e coerentemente motivata proprio in punto di responsabilità del ricorrente a titolo di concorso nei reati di riciclaggio contestati.

I motivi riproducono pedissequamente i motivi d’appello E’ giurisprudenza pacifica di questa Corte che se i motivi del ricorso per Cassazione riproducono integralmente ed esattamente i motivi d’appello senza alcun riferimento alla motivazione della sentenza di secondo grado, le relative deduzioni non rispondono al concetto stesso di "motivo", perchè non si raccordano a un determinato punto della sentenza impugnata ed appaiono, quindi, come prive del requisito della specificità richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 581 c.p.p., lett. c). E’ evidente infatti che, a fronte di una sentenza di appello, come quella in esame, che ha fornito una risposta ai motivi di gravame la pedissequa ripresentazione degli stessi come motivi di ricorso in Cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’Appello.

Deve aggiungersi che le argomentazioni esposte nel motivo in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una ordinanza, come quella impugnata che appare congruamente e coerentemente motivata proprio in punto di responsabilità del ricorrente a titolo di concorso.

Il primo motivo di ricorso di SA.Vi. è inammissibile perchè ripropone le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi lo stesso per di più essere considerato non specifico. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità, conducente a mente dell’art. 591 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), all’inammissibilità. Il ricorrente deve quindi prospettare una specifica doglianza in ordine alle argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata e non limitarsi a dedurne genericamente l’infondatezza.

E’ quindi inammissibile il ricorso per cassazione quando, come nel caso in esame, gli argomenti esposti siano assolutamente generici, non individuando le ragioni in fatto o in diritto per cui la sentenza impugnata sarebbe censurabile e, pertanto, impedendo l’esercizio del controllo di legittimità sulla stessa.

Manifestamente infondati è anche il secondo motivo di ricorso considerato che, come già indicato, allorchè si è trattato le posizioni C. e S., nella determinazione della pena la Corte territoriale non è incorsa in alcuna violazione di legge. A seguito della declaratoria di prescrizione in ordine ad alcuni reati la Corte d’Appello ha ridotto la pena di anni 6 di recl. ed Euro 8000,00 di multa, inflitta al SA. dal primo giudice, ad anni 5 mesi 1 di recl. ed Euro 7.100,00 di multa. L’inammissibilità del ricorso preclude l’accesso al rapporto di impugnazione ed impedisce la declaratoria di prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata (Sez. un., 27 giugno 2001, Cavalera, Cass. Sez. un. 23428/05 Bracale).

Inammissibile è anche il ricorso presentato nell’interesse di SI.Do..

Manifestamente infondate sono le censure di cui ai punti 1) e 2).

Deve infatti evidenziarsi che al di là di una non felice espressione usata dal giudice d’appello che, ad una lettura superficiale del dispositivo, può indurre in errore, la declaratoria di prescrizione ha riguardato i reati di cui ai capi A) C) E) G) I) R) S) U) V) W) X) Y) Z) AA) BB) DD) EE) GG) HH) II) JJ), così come rispettivamente ascritti agli imputati, ivi compreso il SI. cui erano contestati i capi A) C) E) G) ed I), oltre i capi m) ed n) contestati al solo SI.. A seguito di tale declaratoria la Corte d’Appello ha ridotto la pena di anni 6 di recl. ed Euro 8000,00 di multa, inflitta dal primo giudice, ad anni 5 mesi 4 di recl. ed Euro 7.000,00 di multa. Nella determinazione della pena la Corte territoriale, come già indicato, non è incorsa in alcuna violazione di legge fissando l’aumento per la continuazione, considerato il rilevantissimo numero dei reati, nei minimi di legge.

Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 1, il giudice di appello, quando una parte la richiede, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. Poichè la norma fa riferimento generico alla istruzione dibattimentale, senza alcuna distinzione all’interno di questa nozione, si deve ritenere che essa riguardi tutta la istruzione dibattimentale che può essere assunta in primo grado, secondo la disciplina dettata dal capo 3^ del libro 7^ del cod. proc. pen..

Se ne deve concludere che l’eccezionalità della rinnovazione dell’istruttoria in appello prevista dall’art. 603 c.p.p., comma 1, riguarda anche le prove volte ad accertare la capacità di intendere e di volere dell’imputato o altre condizioni di imputabilità: prove che pertanto il giudice di appello deve ammettere solo quando non si ritiene in grado di decidere allo stato degli atti.

Nella fattispecie di causa, la corte territoriale ha motivato sul punto in modo congruo e logico – come tale incensurabile in sede di legittimità – osservando che la richiesta era sfornita di qualsiasi appiglio concreto nelle risultanze processuali, facendo la difesa leva esclusivamente a sopravvenute problematiche avute dal SI. in riferimento al suo stato detentivo.

Tutti i ricorsi devono pertanto essere dichiarati inammissibili.

L’inammissibilità dei ricorso preclude l’accesso al rapporto di impugnazione ed impedisce, come già indicato, la declaratoria di prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata (Sez. un., 27 giugno 2001, Cavalera, Cass. Sez. un. 23428/05 Bracale).

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, le parti private che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

SI.Do. deve essere condannato anche alla rifusione in favore della parte civile ALLIANZ SpA (già Lloyd Adriatico SpA) delle spese del grado liquidate in Euro 2000,00 oltre spese generali IVA e CPA come per legge.

P.Q.M.

Dispone lo stralcio della posizione relativa al ricorrente S. B. rinviando per l’ulteriore corso nei suoi confronti all’udienza del 13 ottobre 2011 h. 10,00 ss. e disponendo che a cura della Cancelleria si provveda all’acquisizione delle dichiarazioni di domicilio effettuate dal suddetto ricorrente anche nel corso delle indagini preliminari.

Dichiara inammissibili i ricorsi degli altri imputati che condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

Condanna altresì SI.Do. alla rifusione in favore della parte civile ALLIANZ SpA (già Lloyd Adriatico SpA) delle spese del grado liquidate in Euro 2000,00 oltre spese generali IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-04-2012, n. 5811 Ordinanza ingiunzione di pagamento: opposizione Sanzione amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – C.F.N. ha proposto opposizione avverso l’ordinanza in data 13 luglio 2005 con cui l’Ispettorato centrale repressione frodi del Ministero delle politiche agricole gli aveva ingiunto il pagamento della somma complessiva di Euro 515.234 quale sanzione per la violazione della L. 23 dicembre 1986, n. 898, art. 2 sul presupposto di avere concorso, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 5 quale dirigente dell’Assessorato regionale all’agricoltura di Catanzaro, alla indebita riscossione, da parte di Ca.Ma., della somma di Euro 815.752,45, a titolo di aiuto comunitario per la realizzazione di opere nell’ambito di misure forestali.

Si è costituito il Ministero delle politiche agricole, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.

Il Tribunale di Catanzaro ha annullato l’ordinanza-ingiunzione con sentenza n. 1543 del 2007. 2. – La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria l’11 luglio 2009, ha accolto il gravame del Ministero e, in riforma dell’impugnata sentenza, ha rigettato l’opposizione del C., condannandolo al rimborso, in favore dell’Amministrazione, delle spese di entrambi i gradi.

2.1. – La Corte territoriale:

– ha puntualizzato che – contrariamente a quanto sostenuto dal C. con il primo motivo di opposizione, "pur se la questione non è stata espressamente affrontata dal primo giudice e pur se in proposito non è stato formulato specifico rilievo da parte del predetto appellato" – nell’ordinanza-ingiunzione deve ritenersi rispettato l’obbligo di motivazione di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 18;

– ha precisato che la sanzione amministrativa riguarda (diversamente dall’assunto del primo giudice) non la domanda di aiuto n. (OMISSIS), bensì la domanda di aiuto n. (OMISSIS);

– ha rilevato che al C. è stato contestato di avere trasmesso all’AGEA l’elenco di liquidazione n. (OMISSIS) senza i previi accertamenti previsti dal D.M. 18 dicembre 1998, n. 494, art. 5 consistenti nelle verifiche sullo stato di avanzamento delle opere ammesse al contributo comunitario;

– ha sottolineato che l’elemento soggettivo ai fini della configurazione della responsabilità emerge dalla stessa violazione contestata, giacchè la trasmissione dell’elenco contenente anche il nominativo della Ca. ai fini della liquidazione parziale del contributo, senza il previo accertamento degli organi competenti, comprende in sè la consapevolezza di consentire il pagamento della relativa somma senza che la beneficiaria sia sottoposta ai necessari controlli.

3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello il C. ha proposto ricorso, con atto notificato il 9 ottobre 2010, sulla base di undici motivi, illustrati con memoria.

L’intimato Ministero ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Preliminare in ordine logico è l’esame del secondo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2909 cod. civ. in relazione al giudicato esterno formatosi a seguito della sentenza n. 643 del 2009 del Tribunale di Catanzaro e della sentenza n. 827 del 2008 del Tribunale di Catanzaro. Con la prima pronuncia, in accoglimento del ricorso del C., è stata definitivamente annullata, per difetto di prova dell’elemento soggettivo dell’illecito, la diversa ordinanza-ingiunzione (n. 244/2006) con cui era stato contestato, in concorso con altro beneficiario ( A. P.), l’identico comportamento, vale a dire la trasmissione all’AGEA dell’elenco n. (OMISSIS), contenente le richieste di liquidazione dei vari soggetti interessati, in assenza dei controlli di cui al D.M. n. 494 del 1998, art. 5. Con l’altra sentenza, in accoglimento del ricorso di Ca.Ma., è stata definitivamente annullata, essendo stata riconosciuta la legittimità dell’intero contributo comunitario percepito, l’ordinanza-ingiunzione (n. 230/2005) emessa per la presunta indebita percezione degli indebiti comunitari richiesti con le domande n. (OMISSIS) (ivi compreso, quindi, il contributo oggetto della domanda n. (OMISSIS), in ordine al quale al C. è stato contestato il concorso).

2. – Il motivo è fondato, nei termini di seguito precisati.

L’illecito amministrativo previsto dalla L. 23 dicembre 1986, n. 898, art. 2 e art. 3, comma 1, ha ad oggetto l’indebita percezione di aiuti comunitari nel settore agricolo.

Anche in relazione a questo illecito è configurabile (come questa Corte ha già riconosciuto: Sez. 1^, 13 luglio 2006, n. 15929) il concorso di persone nella violazione, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 5; ed il contributo concorsuale assume rilevanza sia quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione indefettibile della violazione, sia quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando l’illecito, senza la condotta di agevolazione, sarebbe egualmente commesso, ma con maggiore incertezze di riuscita o difficoltà.

Nella specie, con l’ordinanza-ingiunzione oggetto della presente controversia (la n. 232 del 2005), al C. è stato addebitato di avere consentito alla Ca. di ottenere un aiuto comunitario che non le spettava (secondo quanto a lei contestato con il verbale del 2 luglio 2002, poi sfociato nell’ordinanza-ingiunzione n. 230 del 2005), avendo trasmesso all’AGEA, in qualità di dirigente dell’Assessorato regionale all’agricoltura di Catanzaro, l’elenco di liquidazione senza effettuare i controlli e le verifiche prescritti dal D.M. 13 dicembre 1998, n. 494, art. 5 (Regolamento recante norme di attuazione del regolamento CEE n. 2080/92 in materia di gestione, pagamenti, controlli e decadenze dell’erogazione di contributi per l’esecuzione di rimboschimenti o miglioramenti boschivi).

Dalla documentazione prodotta dal ricorrente per cassazione risulta che, in epoca successiva al deposito della sentenza impugnata, è passata in cosa giudicata la sentenza in data 11 giugno 2008, con cui il Tribunale di Catanzaro ha annullato, su ricorso della Ca., l’ordinanza-ingiunzione n. 230 del 2005, per non avere "l’Amministrazione opposta, a fronte delle puntuali contestazioni dell’opponente circa i fatti e le deduzioni poste a sostegno della sanzione, non provato, nè … chiesto di provare le circostanze utili a suffragare la responsabilità dell’opponente".

Ora, ai fini della configurabilità della responsabilità del concorrente nella violazione di indebita percezione , da parte di altri, di aiuti comunitari nel settore agricolo, di cui alla L. n. 898 del 1986, art. 2 e art. 3, comma 1, è indispensabile, accanto al contributo causale o agevolatore, che l’indebita percezione dell’autore principale sussista: ne consegue che ove, proposta opposizione alla (separata) ordinanza-ingiunzione da parte del percettore dell’aiuto, questa sia stata accolta e sia stato escluso il carattere indebito della percezione del contributo e, con ciò, la stessa oggettiva sussistenza dell’illecito, quella sentenza, una volta non più soggetta ad impugnazione, contenendo un’affermazione obiettiva di verità che non ammette la possibilità di un diverso accertamento, spiega un’efficacia riflessa nel giudizio, ancora pendente, in cui si controverte della legittimità dell’ordinanza- ingiunzione emessa a carico dell’extraneus, ed impedisce di configurare la responsabilità di costui a titolo di concorso nella violazione del percettore.

3. – L’accoglimento del secondo mezzo determina l’assorbimento degli altri motivi di censura.

4. – La sentenza impugnata è cassata.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con l’accoglimento dell’opposizione e l’annullamento dell’ordinanza-ingiunzione.

La novità della questione esaminata in questa sede, la sopravvenienza del passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione dell’intraneus e la complessità delle valutazioni compiute nei gradi di merito (che ha condotto a pronunce di segno diverso del Tribunale e della Corte d’appello) giustificano l’integrale compensazione tra le parti delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri;

cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, annulla l’ordinanza-ingiunzione opposta. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.