Cass. pen., sez. I 27-11-2008 (18-11-2008), n. 44363 Conflitto negativo – Deroghe alla disciplina in tema di competenza per territorio introdotte dalla legislazione emergenziale in materia di rifiuti nella Regione Campania

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
Con provvedimento in data 11/7/2008 il GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, investito dal P.M. in sede della richiesta di sequestro preventivo di un motocarro carico di materiale ferroso, di proprietà di I.L., indagato del reato di cui agli artt. 212 e 256 Codice Ambientale, dichiarava la propria incompetenza e disponeva la restituzione degli atti al P.M. ritenendo la competenza del Tribunale di Napoli in composizione collegiale a norma del D.L. n. 90 del 2008, art. 3, trattandosi di reato previsto dal codice ambientale. Il Tribunale collegiale di Napoli, costituito ai sensi del D.L. n. 90 del 2008, art. 3, comma 2, ha, a sua volta, con provvedimento in data 7/8/2008, declinato la propria competenza, rilevando che la interpretazione sistematica del decreto legge, soprattutto nel testo che aveva assunto in sede di conversione, rendeva evidente che voleva riferirsi ai reati connessi alla gestione dei rifiuti e non a quelli, pur se di natura ambientale, rispetto ai quali risultava del tutto inconferente la cd. emergenza rifiuti. Ha quindi rimesso gli atti a questa Corte per la risoluzione del conflitto negativo di competenza a norma dell’art. 28 c.p.p. e segg..
Si verte sicuramente in una ipotesi di conflitto negativo di competenza a norma dell’art. 28 c.p.p. poichè due organi giurisdizionali hanno rifiutato di prendere in esame la richiesta di sequestro preventivo, con stasi insuperabile del procedimento cautelare reale.
Occorre rilevare che le ordinanze di incompetenza sono intervenute, la prima, nel vigore del D.L. 23 maggio 2008, n. 90, e la seconda dopo l’entrata in vigore della Legge Conversione 14 luglio 2008, n. 123, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 165 del 16 luglio 2008, entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione (e cioè il 17 luglio 2008) che ha apportato delle modifiche specificamente al D.L. art. 3 riguardante la "Competenza della autorità giudiziaria nei procedimenti penali relativi alla gestione dei rifiuti nella Regione Campania", come recita il titolo dell’art. 3.
Le modifiche alla specifica disposizione relativa alla competenza sono state apportate dal legislatore, in sede di conversione, al fine di superare alcune perplessità che erano state evidenziate subito dopo la entrata in vigore del decreto legge che aveva testualmente attribuito le funzioni di Pubblico Ministero al Procuratore della Repubblica di Napoli e quelle di GIP e di GUP a magistrati del Tribunale di Napoli "nei procedimenti relativi ai reati riferiti alla gestione dei rifiuti ed ai reati in materia ambientale nella regione Campania, connessi a norma dell’art. 12 c.p.p.".
Come si è già rilevato, il GIP di Santa Maria Capua Vetere, ha ritenuto che, anche quello in questione, fosse un reato ambientale di competenza del GIP regionale, mentre invece il GIP regionale, ha ritenuto che rientrassero nella sua competenza soltanto "gli illeciti intrinsecamente idonei ad assumere rilievo ai fini degli interventi e delle iniziative considerate necessarie per affrontare l’emergenza dei rifiuti in Campania per essere riferiti… alla tutela penale degli interessi pubblici direttamente ed immediatamente connessi ai rischi ambientali individuati dalla vigente disciplina penale in materia di rifiuti, nonchè i reati connessi ex art. 12…" Si tratta ora di verificare quale sia la portata delle modifiche introdotte in sede di conversione in legge del decreto e comunque quale sia la interpretazione da attribuire alla legge ora vigente poichè, dovendosi decidere attualmente sulla competenza, si deve tenere conto della legge attuale in quanto le nuove disposizioni sulla competenza si applicano anche ai procedimenti in corso per i quali non è stata esercitata la azione penale ed in particolare alle misure cautelari che, se già disposte prima, devono essere convalidate dal giudice competente in base alla nuova disposizione (art. 3, commi 5 e 6). In particolare si tratta di verificare se, laddove il legislatore in sede di conversione, ha introdotto la limitazione, con riguardo ai reati ambientali, a "quelli attinenti alle attribuzioni del Sottosegretario di Stato, di cui all’art. 2 del presente decreto" (e cioè quelle di soluzione dell’emergenza rifiuti della Regione Campania mediante la attivazione di siti da destinare a discarica, di misure di recupero e di qualificazione ambientale e più in generale tutte le iniziative occorrenti per fronteggiare l’emergenza rifiuti nella suddetta Regione) abbia voluto riferirsi ai soli reati connessi ovvero abbia più in generale esplicitato quale dovesse essere la competenza del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e del GIP e GUP regionale. Non vi è dubbio che la modifica dell’art. 3 in sede di conversione in legge è stata dettata dalla esigenza di contenere la infelice formulazione del testo iniziale del decreto legge con riferimento ai reati connessi e la disposizione che ne è seguita porta a ritenere che la limitazione ai reati riferiti alla gestione dei rifiuti sia insita nella legge anche con riguardo ai reati principali.
Non si vuole seguire l’orientamento per cui, essendo la espressione "nonchè in quelli connessi a norma dell’art. 12 c.p.p." contenuta fra due virgole e quindi avente valore di inciso, la successiva espressione "attinenti alle attribuzioni del Sottosegretario di cui all’art. 2 del presente decreto" sarebbe riferita "ai reati in materia ambientali" che sarebbero così specificati, anche con riguardo ai reati principali, come quelli rientranti nella competenza del Sottosegretario di Stato, quanto piuttosto ai canoni ermeneutici della voluta legis, della occasio legis ed al criterio della interpretazione sistematica della disposizione nell’ambito complessivo della legge in cui è inserita, nonchè della indicazione specifica risultante proprio dal titolo dell’art. 3, che portano tutti a ritenere, che, anche con riguardo ai reati principali, il legislatore non abbia voluto attribuire al GIP e al GUP regionale tutti i reati in materia ambientale, bensì soltanto quelli che erano riferiti alla gestione dei rifiuti e che avevano attinenza con le attribuzioni del Sottosegretario di Stato, compresi ovviamente i nuovi reati introdotti dal D.L. art. 2, per i quali si voleva concentrare in un unico P.M. e nel GIP e GUP regionale la competenza ai fini di celerità ed omogeneità degli interventi in relazione alla emergenza rifiuti della Regione Campania. Tale interpretazione è confortata dal rilievo che si tratta di norma eccezionale, perchè introduce la figura del GIP e del GUP regionali, addirittura in composizione collegiale come GIP per le misure cautelari personali e reali, che non esistevano in precedenza nel nostro ordinamento e per cui la interpretazione deve essere restrittiva, apparendo altresì incongruo che il legislatore, che si è occupato della emergenza rifiuti in Campania, volesse oberare l’organo giurisdizionale di nuova istituzione di tutte le incombenze in materia di reati ambientali. E’ vero che le materie " ambientale, paesaggistico – territoriale, di pianificazione del territorio e della difesa del suolo, nonchè igienico – sanitaria" sono menzionate nel D.L. art. 2 poi convertito in legge, ma solo per escludere la azione del Sottosegretario di Stato dalla osservanza persino delle leggi in tali materie, onde rendere più immediata ed incisiva la sua azione, "fatto salvo soltanto l’obbligo di assicurare le misure indispensabili alla tutela della salute e dell’ambiente previste dal diritto comunitario". Anche con riguardo al giudice amministrativo, di cui è stata ampliata con la stessa legge la giurisdizione esclusiva (art. 4), la competenza è stata limitata alle controversie comunque attinenti alla gestione dei rifiuti, con ciò confermando lo specifico intento del legislatore di attribuire anche agli organi della giurisdizione amministrativa una competenza speculare a quella degli organi della giurisdizione penale, ovviamente in materie diverse. Ciò posto, si ritiene che la competenza attribuita agli organi di cui all’art. 3 sia limitata, come recita anche il titolo di tale articolo, "ai procedimenti penali relativi alla gestione rifiuti nella Regione Campania" che sono poi quelli attinenti alle specifiche attribuzione del Sottosegretario di Stato. Tali reati, come già rilevato, sono in primo luogo quelli introdotti ex novo dal decreto legge e poi quelli che sono previsti e sanzionati essenzialmente dalla parte quarta del codice ambientale "Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati", che sono poi quelli attinenti alle violazioni sanzionate penalmente nelle materie attribuite alla competenza del Sottosegretario di Stato (gestione dei rifiuti, degli imballaggi, di particolari categorie di rifiuti e bonifica dei siti contaminati, da cui derivano le attività, sanzionate penalmente dal titolo sesto della quarta parte, di abbandono dei rifiuti, attività di gestione dei rifiuti non autorizzata, bonifica dei siti, violazione degli obblighi di comunicazione di tenuta dei registri obbligatoli e dei formulari, di attività organizzata per il traffico illecito dei rifiuti ecc.); il che consente di eliminare anche le incertezze in merito ai reati che il legislatore ha voluto attribuire alla nuova autorità giurisdizionale, rapportando le attribuzioni del Sottosegretario a quelle in materia di rifiuti disciplinate dal codice ambientale ed escludendo invece quelle, ad esempio, in materia di gestione del suolo, di difesa delle risorse idriche e di inquinamento dell’aria, che non rientrano nella competenza del Sottosegretario.
Nel caso in esame si tratta di una violazione, prevista dal codice ambientale, in materia di raccolta di rifiuti senza autorizzazione, che richiama ai soli fini punitivi l’art. 256 dello stesso codice per cui deve ritenersi che la competenza resti attribuita al GIP del tribunale territorialmente competente seconda la regola generale.
P.Q.M.
La Corte dichiara la competenza del GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere cui dispone trasmettersi gli atti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Corte Costituzionale, Sentenza n. 230 del 2011, in materia di sport nella Regione Calabria

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 32 del 27-7-2011

Sentenza nel giudizio di legittimita’ costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera m), 11, commi 5, 6 e 7, e 17, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Calabria 22 novembre 2010, n. 28 (Norme in materia di sport nella Regione Calabria), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 31 gennaio – 3 febbraio 2011, depositato in cancelleria il 4 febbraio 2011 ed iscritto al n. 5 del registro ricorsi 2011. Udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi; udito l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato il 31 gennaio 2011 e depositato il successivo 4 febbraio (reg. ric. n. 5 del 2011) il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimita’ costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera m), 11, commi 5, 6 e 7, e 17, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Calabria 22 novembre 2010, n. 28 (Norme in materia di sport nella Regione Calabria), in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione. La legge impugnata reca un’articolata disciplina dello sport e delle attivita’ sportive sul territorio regionale, includendo in tale ambito un intervento relativo a figure professionali operanti in tale settore. In particolare, l’art. 3, comma 1, lettera m), stabilisce che la Regione istituisce gli albi relativi alle figure professionali operanti in ambito sportivo. L’art. 11, comma 5, individua nominativamente tali figure nelle seguenti: a) associazioni sportive dilettantistiche; b) dirigenti sportivi; c) esperti gestori di impianti sportivi; d) istruttori qualificati; e) tecnici federali; f) assistenti o operatori specializzati; g) atleti e praticanti; h) fisioterapisti e massaggiatori; i) altre figure tecnico-sportive. Sempre l’art. 11, comma 6, prevede che l’iscrizione agli albi necessiti di un titolo professionale rilasciato previo espletamento di uno specifico corso, mentre il comma 7 regola l’aggiornamento degli albi. Infine, l’art. 17, comma 1, lettere a) e b), attribuisce alla Giunta regionale il potere sia di definire con regolamento i profili professionali, laddove non disciplinati dalla legge statale, individuando caratteristiche e requisiti dei percorsi formativi, sia di costituire i relativi albi. Il ricorrente, basandosi su ampi richiami alla giurisprudenza di questa Corte, ritiene che tali disposizioni violino la competenza dello Stato a determinare i principi fondamentali della materia professioni (art. 117, terzo comma, Cost.), posto che tra di essi si deve includere la definizione delle figure professionali e l’istituzione dei relativi albi, senza spazio per la legislazione regionale che pretenda di «riempiere un vuoto normativo» avocando a se’ la competenza dello Stato. 2. – La Regione Calabria non si e’ costituita in giudizio. Considerato in diritto 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimita’ costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera m), 11, commi 5, 6 e 7, e 17, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Calabria 22 novembre 2010, n. 28 (Norme in materia di sport nella Regione Calabria), in relazione all’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Con la legge impugnata, il legislatore regionale ha inteso disciplinare organicamente le attivita’ sportive e ricreative: in tale ambito, le disposizioni specificamente oggetto di censura si occupano della disciplina dei profili professionali rilevanti e della istituzione dei relativi albi. In particolare, l’art. 11, comma 5, reca un elenco delle «professioni in ambito sportivo», mentre il comma 6 indica le condizioni richieste ai fini dell’iscrizione negli albi professionali, di cui il comma 7 regola l’aggiornamento. L’istituzione di tali albi e’ disciplinata dall’art. 3, comma 1, lettera m), e dall’art. 17, comma 1, lettera b), che assegna alla Giunta il potere di costituirli, mentre la lettera a) le conferisce il compito di definire i profili professionali nelle discipline sportive, laddove non disciplinati dalla legge statale, e di individuare caratteristiche e requisiti dei percorsi formativi. Il ricorrente ritiene che tali disposizioni ledano la competenza dello Stato a dettare i principi fondamentali della materia a riparto concorrente professioni, nella quale rientra l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti didattici, come e’ stato affermato da questa Corte fin dalla sentenza n. 353 del 2003. 2. – La questione e’ fondata. Le disposizioni impugnate vanno senza dubbio ascritte alla materia, di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), delle professioni, dato che ne e’ evidente la finalita’, e l’effetto obiettivo, di incidere sulla individuazione dei profili professionali operanti nell’ambito sportivo: questa Corte ha gia’ ritenuto che, ai fini della selezione della materia pertinente, non abbia «alcuna influenza» l’oggetto su cui si esercita l’attivita’ professionale, venendo in rilievo la sola prioritaria attinenza dell’intervento legislativo al campo delle professioni (sentenze n. 424 del 2005, n. 138 del 2009, n. 222 del 2008, n. 40 del 2006). Si tratta, percio’, di decidere se il legislatore regionale abbia ecceduto i limiti della normativa di dettaglio. Sotto tale profilo, va posto in rilievo che le norme censurate operano su di un duplice livello: da un lato, esse consentono alla Giunta, ove la legge statale non abbia riconosciuto determinate figure professionali, di definirne gli elementi costitutivi e le modalita’ formative (art. 17, comma 1, lettera a); dall’altro lato, istituiscono direttamente (art. 3, comma 1, lettera m; art. 11, comma 5) o per atto della Giunta (art. 17, comma 1, lettera b), e comunque disciplinano (art. 11, commi 6 e 7) gli albi professionali. Si e’ percio’ in presenza di un articolato intervento, il cui nucleo si colloca nella fase genetica di individuazione normativa della professione: all’esito di essa una particolare attivita’ lavorativa assume un tratto che la distingue da ogni altra e la rende oggetto di una posizione qualificata nell’ambito dell’ordinamento giuridico, di cui si rende espressione, con funzione costitutiva, l’albo. Questa Corte ha costantemente ritenuto che una simile operazione abbia carattere di principio e competa pertanto al solo legislatore statale (ex plurimis, sentenze n. 300 del 2010, n. 328 del 2009, n. 93 del 2008, n. 57 del 2007, n. 153 del 2006, n. 424 del 2005 e n. 353 del 2003). In particolare, non spetta alla legge regionale ne’ creare nuove professioni, ne’ introdurre diversificazioni in seno all’unica figura professionale disciplinata dalla legge dello Stato (sentenza n. 328 del 2009), ne’, infine, assegnare tali compiti all’amministrazione regionale, e in particolare alla Giunta (sentenze n. 93 del 2008, n. 449 del 2006). Infatti, la potesta’ legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale (art. 1, comma 3, del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30, recante norme in tema di ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131). Nel caso di specie, le disposizioni impugnate sono incorse in tutti questi profili di invasione della competenza statale: l’art. 11, comma 5, contiene un elenco di professioni sportive, anche ignote, in quanto tali, alla legge nazionale (cariche nelle associazioni sportive dilettantistiche; dirigenti sportivi; esperti gestori di impianti sportivi; istruttori qualificati; tecnici federali; assistenti o operatori specializzati; atleti e praticanti; altre figure tecnico-sportive): l’incompiutezza della descrizione normativa rende, poi, obbligato il ricorso ad un atto della Giunta, al fine di definirne in forma sufficientemente analitica gli elementi costitutivi. Nel contempo, l’albo professionale non svolge una funzione meramente ricognitiva o di comunicazione e di aggiornamento di professioni gia’ riconosciute dalla legge statale, come e’ invece consentito disporre da parte della legge regionale (sentenza n. 271 del 2009), ma, all’esito di un percorso formativo cui e’ subordinata l’iscrizione, assume una particolare capacita’ selettiva ed individuatrice delle professioni, che ne tradisce l’illegittimita’ costituzionale, «anche prescindendo dal fatto che la iscrizione nel suddetto registro si ponga come condizione necessaria ai fini dell’esercizio della attivita’ da esso contemplata» (sentenze n. 93 del 2008, n. 132 del 2010, n. 138 del 2009). L’introduzione dell’albo, inoltre, diviene indice sintomatico (sentenza n. 93 del 2008) dell’illegittimita’ dell’intervento normativo regionale, anche con riguardo alle figure dei fisioterapisti e dei massaggiatori, indicate dall’art. 11, comma 5, lettera h), ma oggetto di normazione da parte della stessa legge dello Stato. Quanto ai fisioterapisti, non e’ consentito alla legge regionale, a fronte di un profilo compiutamente descritto dal decreto ministeriale 14 settembre 1994, n. 741 (Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale del fisioterapista), sulla base dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), conferire una particolare specificita’ al fisioterapista sportivo, giungendo a richiedere a tal fine il conseguimento di un titolo rilasciato da enti pubblici o istituzioni sportive abilitate, in potenziale contrasto con le competenze attribuite sul punto al Ministro dell’universita’ e della ricerca scientifica (art. 6, comma 3, del d. lgs. n. 502 del 1992). Analogamente, la normativa statale si e’ limitata ad istituire l’albo dei massaggiatori privi della vista (art. 8 della legge 21 luglio 1961, n. 686, recante norme sul collocamento obbligatorio dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi), senza conferire invece ai massaggiatori sportivi alcuna posizione differenziata, rispetto a quanto previsto in via generale, e con riguardo anche al titolo di studio necessario, dalla legge 19 maggio 1971, n. 403 (Nuove norme sulla professione e sul collocamento dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi) (sentenze n. 179 del 2008, n. 449 del 2006, n. 319 del 2005). Ne’ emerge quale particolare collegamento vi possa essere tra le disposizioni censurate e le peculiari esigenze della realta’ territoriale cui la legge regionale si rivolge, e in relazione alle quali soltanto si giustifica l’intervento legislativo di dettaglio nella materia delle professioni (sentenza n. 153 del 2006). 3. – In conclusione, tutte le disposizioni impugnate si pongono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., e vanno conseguentemente dichiarate costituzionalmente illegittime.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l’illegittimita’ costituzionale degli artt. 3, comma 1,
lettera m), 11, commi 5, 6 e 7, e 17, comma 1, lettere a) e b), della
legge della Regione Calabria 22 novembre 2010, n. 28 (Norme in
materia di sport nella Regione Calabria).
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 luglio 2011.

Il Presidente: Quaranta

Il redattore: Lattanzi

Il cancelliere: Melatti

Depositata in cancelleria il 22 luglio 2011

Il direttore della cancelleria: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 11-02-2011, n. 3350 Imposta di successione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Pe.Al. e P.E. in proprio e quale legale rappresentante delle figlie minori Pe.Di.Sa. e Pe.

S., tutti eredi di Pe.Mi. deceduto il (OMISSIS), impugnavano l’avviso di liquidazione dell’imposta di successione eccependo – per quanto qui interessa – la mancata applicazione della normativa più favorevole introdotta dalla L. 342/2000 e l’illegittima esclusione delle passività inerenti la rateizzazione quinquennale di una plusvalenza realizzata dalla Diletta Immobiliare s.a.s. di Peroni Michele & c.. L’ufficio resisteva.

L’adita Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il primo punto del ricorso e rigettava il secondo.

Proponevano appello principale l’Agenzia ed incidentale i contribuenti.

La Commissione tributaria regionale, ritenuto inammissibile l’appello dell’ufficio perchè fondato su di un’eccezione nuova, rigettava lo stesso e ritenuto infondato l’appello incidentale, confermava la sentenza di primo grado.

Contro quest’ultima sentenza, di cui in epigrafe, l’Agenzia propone ricorso per cassazione, articolato in duplice motivo; i contribuenti propongono ricorso incidentale e controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso principale l’Agenzia lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 57 e 58 con riferimento agli artt. 485, 494 e 489 c.c., D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. 31 e 63 (art. 360 c.p.c., n. 3) per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto l’inammissibilità della domanda di appello, perchè basata su di un motivo nuovo, non considerando che era stata solo richiamata una diversa norma giuridica in relazione a fatti già dedotti dal contribuente.

La censura è infondata.

Invero, come si ricava dall’impugnata sentenza, i contribuenti avevano già eccepito con il ricorso introduttivo la mancata applicazione della nuova normativa sulle successioni, di cui alla L. 342/2000, e l’ufficio in primo grado aveva contrastato tale domanda affermando che nell’ipotesi di specie trovava applicazione il disposto dell’art. 494 c.c., secondo il quale decade dal beneficio d’inventario l’erede che ha omesso in mala fede di denunziare nell’inventario beni appartenenti all’eredità, beni nella specie costituiti da quanto contenuto in una cassetta di sicurezza aperta solo successivamente alla redazione del verbale d’inventario.

Conseguentemente, secondo l’ufficio, il termine di sei mesi per la denuncia di successione doveva considerarsi come decorrente dall’apertura della successione (10.3.2000) e non dal compimento dell’inventario. Non poteva pertanto trovare applicazione la L. 342/2000 che, ex art. 69, era applicabile solo alle successioni per le quali il termine di presentazione delle relative dichiarazioni scadeva successivamente al 31.12.2000.

Solo con l’atto di appello l’ufficio ha dedotto l’inapplicabilità della più favorevole normativa per essere gli eredi in possesso dei beni ereditari, circostanza questa che, determinando l’applicabilità del disposto dell’art. 485 c.c. (che prevede che il termine di mesi tre per la formazione dell’inventario decorra dall’apertura della successione e non – come nel caso di mancato possesso dei beni – dall’accettazione dell’eredità) portava a prima del 31.12.2000 il termine per la dichiarazione di successione.

Da quanto sopra deriva che, nel caso in esame, l’ufficio non si è limitato a richiamare una diversa norma giuridica in relazione a fatti già dedotti dai contribuenti, ma ha introdotto una eccezione nuova: ha infatti invocato un fatto nuovo (cioè il possesso dei beni ereditari), diverso da quello assunto dai contribuenti nel ricorso introduttivo (ove gli stessi – secondo l’impugnata sentenza – avevano dichiarato la non possidenza dei beni), sul quale non si è mai formato un contraddittorio.

Contraddittorio, si badi bene, necessario trattandosi di una circostanza non pacifica e che, attesa la natura dei beni (azioni, quote di società, conti correnti, altri immobili), non risulta per tabulas dalla mera ed indimostrata coabitazione con il de cuius.

Correttamente pertanto il giudice dell’appello ha ritenuto esservi violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57; la censura in esame va pertanto rigettata.

Con il secondo motivo l’ufficio censura per vizio di motivazione l’impugnata sentenza "nell’eventualità che la stessa abbia inteso accertare anche" la fondatezza della questione relativa al possesso in capo agli eredi dei beni ereditari.

La censura è inammissibile non essendovi alcuna pronuncia al riguardo.

Con il ricorso incidentale i contribuenti deducono, con un unico motivo, il vizio di motivazione ed il vizio di legge per errata o falsa applicazione del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 20 per avere il giudice dell’appello erroneamente affermato la non deducibilità delle passività inerenti il debito IRPEF, conseguente alla rateizzazione quinquennale di una plusvalenza maturata dalla società Diletta Immobiliare s.a.s. di Peroni Michele & c. a seguito di una vendita immobiliare. Assumono che al momento dell’apertura della successione il de cuius conservava ancora impagato il debito relativo alle due quote residue, e che, quindi, tale debito faceva capo solo al de cuius ed era esistente al momento della successione.

La censura è fondata.

Il debito in questione, pur nascendo da una plusvalenza della s.a.s.

Diletta Immobiliare & c. era un debito Irpef da partecipazione societaria e quindi debito personale del de cuius. In quanto tale lo stesso esisteva all’apertura della successione ed, in conseguenza dell’accettazione dell’eredità da parte degli eredi, si è trasferito agli stessi. Ha pertanto errato il giudice a quo nel ritenere che tale debito non fosse una passività della successione.

Tale ricorso va pertanto accolto. Con esclusivo riferimento al capo dell’impugnata sentenza investito dal ricorso incidentale la sentenza va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa viene decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con l’accoglimento del ricorso introduttivo dei contribuenti.

In applicazione del principio della soccombenza l’Agenzia delle Entrate viene condannata alle spese del giudizio di legittimità come in dispositivo. Vengono invece compensate le spese dei giudizi di merito, tenuto conto delle discontinuità processuali.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il primo motivo e dichiara inammissibile il secondo motivo del ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale e, relativamente allo stesso, cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo dei contribuenti. Condanna l’Agenzia delle Entrate alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5000,00, delle quali Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali e competenze come per legge; compensa tra le parti le spese dei giudizi di merito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 11-03-2011, n. 5852 Imposta reddito persone fisiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’agenzia delle entrate impugnano con ricorso per cassazione, basato su due motivi, la sentenza della CTR della Campania n. 66 del 4.2.2 005, con la quale veniva rigettato l’appello della seconda contro quella della commissione tributaria provinciale di Caserta, che a sua volta aveva accolto il ricorso introduttivo della Falco Elettronica di Diana Carlo e C. sas., I.S. e R.C., i quali avevano impugnato l’avviso di accertamento relativo alla indetraibilità di costi per operazioni inesistenti per l’Irpef del 1995. Il giudice del gravame osservava che la verifica eseguita nei confronti di un terzo non poteva avere riflessi negativi in danno degli appellati, atteso che gli elementi indicati dai contribuenti non erano stati superati da alcuna prova da parte dell’agenzia;

questi non si sono costituiti.
Motivi della decisione

Preliminarmente va rilevato che il ricorso del Ministero va dichiarato inammissibile, in quanto esso non era stato parte nel giudizio di secondo grado, e perciò non poteva impugnare la sentenza del giudice di appello.

Invero in tema di contenzioso tributario, una volta che l’appello avverso la sentenza della commissione provinciale era stato proposto soltanto dall’ufficio periferico dell’Agenzia delle entrate, succeduta a titolo particolare nel diritto controverso al Ministero delle Finanze nel corso del giudizio di primo grado, e i contribuenti avevano accettato il contraddicono nei confronti del solo nuovo soggetto processuale, il rapporto processuale si svolgeva soltanto nei confronti, dell’agenzia delle entrate, che ha personalità giuridica ai sensi del D.Lgs. n. 330 del 1999, e che era divenuta operativa dal 1.1.2001 a norma del D.M. 28 dicembre 2000, senza che il dante causa Ministero delle finanze fosse stato evocato in giudizio, l’unico soggetto legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza della commissione tributaria regionale allora era solamente l’agenzia delle entrate. Pertanto il ricorso proposto dal medesimo deve essere dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione (V. pure Cass. Sentenze n. 18394 del 2004, n. 19072 del 2003).

1) In ordine poi alla posizione dell’altra ricorrente, e cioè l’agenzia, col primo motivo essa deduce violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto il giudice di appello non considerava che l’atto impositivo conteneva tutti gli elementi su cui la pretesa fiscale si basava, posto che vi era richiamato il pvc. della polizia tributaria circa La verifica svolta nei riguardi del terzo fornitore C., peraltro conosciuto dai contribuenti, cui era stato notificato.

Il motivo è fondato. Invero di fronte agli elementi forniti con l’atto impositivo dall’ufficio, ancorchè basati su verifica svolta riguardo a terzi, scatta automaticamente la prova presuntiva a carico del contribuente, che perciò risulta onerato del relativo carico probatorio in ordine al suo assunto difensivo, senza che perciò debba l’agenzia fornire la prova della pretesa azionata.

2) Col secondo motivo la ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e art. 2767 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, giacche il giudice di appello non considerava che l’accertamento analitico induttivo si basava sui riscontri, della polizia tributaria, e precisamente dai materiali ferrosi indicati nelle fatture, i quali non erano compatibili con l’attività di officina meccanica svolta dal terzo, e per di più in un locale angusto e privo di attrezzature; cancellato dalla camera di commercio, e quindi privo di partita iva; la Falco elettronica si occupava di commercio di materiali medicali e chirurgici; il tutto ben indicato nell’avviso ed annessi, come pure negli atti prodotti nel corso del giudizio del doppio grado. Di contro nessun elemento di prova a proprio favore era stato mai offerto dai contribuenti.

La censura va condivisa, da momento che per l’accertamento parziale di tributi diretti, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 4 bis tra gli elementi indiziari che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un reddito parziale dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare quello imponibile, rientrano anche le dichiarazioni rilasciate da terzi alla polizia tributaria, a prescindere dal fatto che tale maggior reddito non risulti dalle scritture contabili, facendo le stesse prova contro l’imprenditore, ma non a suo favore ( art. 2709 cod. civ., con l’eccezione stabilita dal successivo art. 2710), ed essendo, quindi, contentabili con qualunque mezzo di prova, non necessariamente documentale, posto che tali elementi possono essere desunti da qualsiasi fonte d’informazione, come pure; dalle indagini svolte nei confronti di terzi (V. pure Cass. Sentenze n. 3573 del 16/02/2010, n. 16845 del 2008). Invero nel processo tributario, gli elementi indiziari, come la dichiarazione del terzo – nella specie, acquisita dalla guardia di finanza nel corso di un’ispezione, il cui verbale era stato debitamente notificato alla società contribuente – concorrono a formare il convincimento del giudice, se confortati da altri elementi di prova; se rivestono i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ., essi danno luogo a presunzioni semplici ( D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54), generalmente ammissibili nel contenzioso tributario, nonostante il divieto di prova testimoniale (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 9402 del 20/04/2007, n. 4472 del 2003).

Ne discende che il ricorso va accolto, con conseguente cassazione della decisione impugnata, con rinvio alla CTR della Campania, altra sezione, per nuovo esame.

Quanto alle spese dell’intero giudizio, non si fa luogo ad alcuna pronuncia in ordine a quelle relative al rapporto tra il Ministero e i contribuenti, non avendo questi svolto attività difensiva in quello presente, mentre per il resto, se ne demanda il regolamento al giudice del rinvio stesso.
P.Q.M.

LA CORTE Dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’economia e delle finanze; accoglie quello dell’agenzia; cassa la sentenza impugnata, e rinvia, ariette per le altre spese dell’intero giudizio, alla CTR della Campania, altra sezione, per nuovo esame.

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