Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-02-2011) 11-04-2011, n. 14261 Detenzione abusiva e omessa denuncia

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Svolgimento del processo

1. Avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, che ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta dal GIP del Tribunale del riesame di Napoli del 03.09.2010, per il delitto di porto e detenzione di armi clandestine e relativo munizionamento, aggravato dal fine di agevolazione mafiosa, ricorre la difesa del F. lamentando mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione perchè, come afferma pedissequamente il ricorrente, "alla luce degli elementi investigativi raccolti non emerge un quadro indiziario significativo e grave della condotta del F. ……che ha ammesso di essere stato presente nel momento in cui M. occultava le armi nel luogo ove successivamente le hanno rinvenute i Carabinieri.

Al F. è un accompagnatore indifferente inerte e di nessun aiuto all’operazione di occultamento delle armi…"come emerge, sempre secondo il ricorrente, dalle intercettazioni telefoniche di M.N. che parla del F. come di un soggetto mongoloide e dedito all’uso di sostanze stupefacenti. Sarebbe così provato che l’apporto causale della condotta del F. nella detenzione delle armi è nullo, come emergerebbe anche dal tenore delle dichiarazioni di S.F., collaboratore di giustizia, che residuali sono le esigenze cautelari e che non sussiste l’aggravante dell’agevolazione mafiosa.
Motivi della decisione

2. Il ricorso, per la sua manifesta infondatezza, va dichiarato inammissibile.

2.1 Il ricorrente deduce che i giudici del riesame avrebbero errato a ritenere la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati attribuiti all’indagato, e assume che tale errore sarebbe stato determinato da una non corretta valutazione del materiale probatorio, che riprende in esame, proponendone una diversa – e a suo avviso più corretta – interpretazione; nella sostanza i motivi di ricorso si risolvono nella riproposizione di argomenti difensivi adeguatamente presi in esame e confutati nel provvedimento impugnato e svolgono considerazioni di fatto, non suscettibili di valutazione in un giudizio di legittimità.

Invece la motivazione appare congrua, logicamente coerente ed esaustiva, mentre le censure, oltre ad essere incentrate sul merito della valutazione e decisamente versate in fatto, sono anche decisamente pretestuose considerate le ammissioni dell’indagato.

2.3 Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

3. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, il ricorrente che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti; inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 27-04-2011, n. 2465

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Svolgimento del processo

Con la sentenza 26 gennaio 2005, n. 248, il T.A.R. per il Veneto ha accolto il ricorso n. 919 del 2004, proposto dalla società odierna appellata avverso gli atti (provvedimento del Magistrato delle Acque 29 gennaio 2004, prot. 224, deliberazione della Giunta Regionale del Veneto 30 dicembre 2003, n. 4361; parere della Commissione Tecnica Regionale, Sez. Ambiente 18 dicembre 2003, n. 3184) con cui è stato disposto che, nell’impianto gestito dalla E. V. Corporation Italia S.p.A. presso il Petrolchimico di Marghera, "fino alla scadenza della proroga del 30 giugno 2004, il valore medio di concentrazione di CVM allo scarico delle colonne di stripping sia pari a 1,0 µg/L e il limite di concentrazione di 3,7 µg/L (che risulta essere il valore massimo riscontrato da E.V.C. nel 2003) possa essere superato al massimo una sola volta".

Giova considerare che, come ricostruito in fatto dal primo giudice, all’interno del Petrolchimico di Venezia Marghera, stabilimento industriale posto sulla terraferma, ai confini con l’area lagunare, la E. V. Corporation (E.V.C.) Italia S.p.A. conduce un reparto identificato dalla sigla CV22, in cui è prodotto cloruro di vinile monomero (CVM).

Le relative acque reflue di processo, impiegate direttamente nella produzione, dopo un primo trattamento di purificazione effettuato nello stesso reparto, attraverso un procedimento detto stripping, con successiva filtrazione, sono immesse nella rete fognaria dello stabilimento giungendo all’impianto di depurazione SG31, cui fanno capo anche i reflui di altri reparti: impianto gestito da Marghera Servizi industriali S.r.l. (M.A.S.I.).

Esaurito il trattamento, le acque sono quindi immesse in una canaletta che sfocia in laguna – questo scarico finale è identificato con la sigla SM15 – nel canale MalamoccoMarghera.

Ebbene, a partire dalla fine degli anni novanta, è in via di attuazione una nuova disciplina speciale (in specie recata dal D.M. 23 aprile 1998) per gli scarichi nella laguna di Venezia, riguardante anche gli impianti industriali esistenti (tra cui quello della E.V.C.); disciplina che vieta, in particolare, l’eliminazione in tal forma di determinate sostanze, considerate particolarmente inquinanti.

E’ quanto ha imposto il graduale adeguamento degli impianti interessati, secondo progetti approvati negli ultimi anni dalla Regione Veneto, la cui realizzazione non ha però sempre rispettato le scadenze prestabilite.

Con la deliberazione 30 dicembre 2003, n. 4361, la giunta regionale veneta ha quindi disposto di prorogare a determinati soggetti i termini di adeguamento, consentendo dunque che, fino alla nuova scadenza, i loro impianti di depurazione continuassero ad operare secondo le precedenti regole, fatte salve tuttavia eventuali prescrizioni temporanee più rigorose.

Tra tali impianti è incluso anche quello di E.V.C., cui la proroga è stata concessa nei limiti e con le prescrizioni proposte dalla Commissione tecnica regionale sezione ambiente (C.T.R.A.), con il parere 18 dicembre 2003, n. 3184.

Tra queste prescrizioni, vi è stata quella, contestata dalla società ricorrente in primo grado, in forza della quale "fino alla scadenza della proroga del 30 giugno 2004, il valore medio di concentrazione di CVM allo scarico delle colonne di stripping sia pari a 1,0 µg/L e il limite di concentrazione di 3,7 µg/L (che risulta essere il valore massimo riscontrato da E.V.C. nel 2003) possa essere superato al massimo una sola volta".

Con il successivo provvedimento 29 gennaio 2004, prot. 224, il Magistrato delle Acque ha quindi sì rinnovato la precedente autorizzazione allo scarico SM15 in favore delle aziende che lo utilizzavano anche indirettamente, tra cui la E.V.C., stabilendo tuttavia, tra l’altro, che i soggetti autorizzati avrebbero dovuto rispettare le prescrizioni stabilite nei pareri emessi dalla C.T.R.A.

Nell’accogliere il ricorso proposto dalla società odierna appellata avverso gli atti amministrativi indicati, il giudice di primo grado ha ritenuto che:

o non troverebbe applicazione alla fattispecie la disciplina in materia di rifiuti, mancando quella interruzione del nesso di collegamento diretto tra la fonte di produzione del liquame ed il corpo ricettore che da sola determinerebbe la trasformazione del liquame di scarico in un ordinario rifiuto liquido, con conseguente inapplicabilità delle disposizioni del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, ed il necessario rispetto della disciplina in tema, per l’appunto, di rifiuti;

o non potrebbe essere addotto a fondamento normativo degli atti impugnati l’art. 34, co. 2, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, se non altro perché l’Amministrazione non avrebbe posto in essere le attività istruttorie che quella stessa previsione normativa impone di condurre al fine di verificare l’esistenza di particolari situazioni di accertato pericolo per l’ambiente e di determinare la soglia di emissioni sulla base di una valutazione tecnica, in relazione alle circostanze concrete.

Avverso la indicata sentenza, propone gravame l’Amministrazione ricorrente, ritenendone l’erroneità e chiedendo in sua riforma la reiezione del ricorso di primo grado.

All’udienza del 22 febbraio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione

L’appello va accolto.

Ritiene il Collegio assorbente l’esame del terzo motivo di appello, con cui si censura la sentenza impugnata laddove ha escluso che a fondamento degli atti contestati in primo grado possa addursi l’art. 34, co. 2, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, vigente all’epoca e in forza del quale "Tenendo conto della tossicità, della persistenza e della bioaccumulazione della sostanza considerata nell’ambiente in cui è effettuato lo scarico, l’autorità competente in sede di rilascio dell’autorizzazione può fissare, in particolari situazioni di accertato pericolo per l’ambiente anche per la compresenza di altri scarichi di sostanze pericolose, valorilimite di emissione più restrittivi di quelli fissati ai sensi dell’articolo 28, commi 1 e 2".

Ad avviso del giudice di primo grado, l’Amministrazione non avrebbe posto in essere le attività istruttorie che la succitata previsione normativa impone di condurre al fine di verificare l’esistenza di particolari situazioni di accertato pericolo per l’ambiente e di determinare la soglia di emissioni sulla base di una valutazione tecnica, in relazione alle circostanze concrete.

Si tratta di assunto che non può essere in alcun modo condiviso dal Collegio.

Giova, invero, considerare che, il D.M. 23 aprile 1998, riguardante anche gli impianti industriali esistenti (tra cui quello della E.V.C.), ha vietato l’eliminazione nella laguna di Venezia di determinate sostanze, considerate particolarmente inquinanti: tra queste il cloruro di vinile monomero (CVM), la cui pericolosità risulta scientificamente accertata.

L’indicata disciplina ha quindi imposto il graduale adeguamento degli impianti interessati, secondo progetti approvati negli ultimi anni dalla Regione Veneto, la cui realizzazione non ha però sempre rispettato le scadenze prestabilite.

Nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, pertanto, l’Amministrazione ha dovuto attendere ad un bilanciamento tra le ragioni di tutela ambientale e quelle della produzione; e non vi è dubbio che non irragionevole sarebbe stato il suddetto bilanciamento se, nel condurlo, l’Amministrazione si fosse attenuta al criterio del non aggravamento della situazione ambientale già esistente.

Ebbene, con gli atti contestati in primo grado, l’Amministrazione si è limitata a prescrivere alla società appellata che, fino alla scadenza della proroga del 30 giugno 2004, "il valore medio di concentrazione di CVM allo scarico delle colonne di stripping sia pari a 1,0 µg/L e il limite di concentrazione di 3,7 µg/L (che risulta essere il valore massimo riscontrato da E.V.C. nel 2003) possa essere superato al massimo una sola volta".

Lungi dall’incorrere in un difetto di istruttoria, pertanto, l’Amministrazione, sul presupposto della sicura tossicità del CVM e dell’impatto inquinante conseguente allo scarico delle acque di processo nel quale lo stesso è contenuto, ha, con prescrizione amministrativa quanto mai ragionevole, imposto alla società appellata di non superare, nell’esercizio dell’attività sottoposta alla autorizzazione prorogata, il valore massimo registrato nel corso dell’anno precedente.

Alla stregua delle esposte ragioni va dunque accolto il gravame e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il ricorso di primo grado.

Infatti, la rilevata sussistenza della specifica ragione giustificatrice dell’atto rende irrilevante l’ulteriore questione, contestata tra le parti, sulla qualificabilità degli scarichi in questione come "rifiuto liquido’.

Consegue la condanna della società appellata al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 2015 del 2006, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza del T.A.R. Veneto 26 gennaio 2005, n. 248, respinge il ricorso di primo grado n. 919 del 2004.

Condanna la società appellata al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio, liquidate in complessivi 8.000 (ottomila) euro.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, Sent., 13-05-2011, n. 318

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Svolgimento del processo

La ricorrente ditta fa presente di essere proprietaria di un’area individuata come sito contaminato, ai sensi del D Lgs 152 del 2006, dal Decreto del Ministero dell’ambiente 28 maggio 2008, nonché di un’area adiacente. Le due diffide riguardano la messa in sicurezza in via d’urgenza del sito nonché, solo per il comparto "Z", anche l’ordine di presentazione dei risultati della caratterizzazione e analisi di rischio.

A sostegno illustra i seguenti motivi di ricorso:

1. Difetto di competenza, in quanto sui siti ex art 244 D Lgs 152 del 2006 la competenza è della Provincia, con una normativa che deroga all’usuale competenza sindacale in materia.

2. Violazione e falsa applicazione degli articoli 242, 244, 245, 252 e 253 del D Lgs 152 del 2006, difetto di istruttoria e sviamento.

La diffida andava rivolta unicamente al responsabile dell’inquinamento ma non al proprietario il quale ha solamente una facoltà e non un obbligo a intervenire per bonificare il sito. Nel caso anche in sede penale la responsabilità non è della ditta ricorrente ma di chi ha gestito per anni il polo chimico ivi esistente.

Infine, nel corso della pubblica udienza del 21 aprile 2011 la causa è stata introitata per la decisione.
Motivi della decisione

Oggetto del presente ricorso sono due coeve diffide del Sindaco di Bolognano la prima n. 4069 del 17 giugno 2010 avente a oggetto la messa in sicurezza dell’area privata "ex Montecatini" la seconda n. 4070 avente ad oggetto la messa in sicurezza di altra area adiacente, nonché, solo per il comparto "Z", anche l’ordine di presentazione dei risultati della caratterizzazione e analisi di rischio.

Va rilevato che, ai sensi degli art. 242 e 244 d.lg. 3 aprile 2006 n. 152, l’obbligo di bonifica è posto in capo al responsabile dell’inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l’onere di ricercare ed individuare, mentre il proprietario non responsabile dell’inquinamento o altri soggetti interessati hanno una mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (Consiglio Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3885). Il nesso di causalità tra la condotta del responsabile e la contaminazione riscontrata deve essere accertato applicando la regola probatoria del "più probabile che non": pertanto, il suo positivo riscontro può basarsi anche su elementi indiziari, quali la tipica riconducibilità dell’inquinamento rilevato all’attività industriale condotta sul fondo (T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 24 marzo 2010, n. 1575).

Infine dal combinato disposto degli art. 244, 250 e 253 del codice ambiente si ricava, infatti, che, nell’ipotesi di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell’inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello stesso, e sempreché non provvedano né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati, le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla p.a. competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 03 marzo 2010, n. 594).

Orbene, nel caso in esame l’ordine diffida è di provenienza comunale, laddove la normativa citata affida tale compito al Presidente della Provincia. Tale disciplina normativa va considerata speciale, e quindi prevalente sulla normativa che affida al Sindaco la decretazione d’urgenza a tutela della salute pubblica; inoltre le ordinanze contingibili e urgenti sono utilizzabili solo ove l’ordinamento non preveda altri mezzi ordinari, e nel caso è il Codice dell’ambiente a prevedere i sistemi per la bonifica dei siti inquinati, anche in via di urgenza (sulla questione si veda in termini anche Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 aprile 2011 n. 2249).

Da quanto detto emerge la fondatezza di tutte e due le censure: la prima d’incompetenza in quanto il Sindaco ha emesso un’ordinanza – diffida al di fuori delle sue competenze in materia, e la seconda in quanto il nesso causale tra inquinamento e destinatario del provvedimento non risulta affatto provato. Anzi, nell’ambito del procedimento penale n. 10426/2007 è stata accertata l’estraneità della ditta ricorrente all’inquinamento in parola, risalente a tutta evidenza al periodo in cui nella zona operava uno stabilimento chimico.

Per quanto sopra illustrato il ricorso va accolto e gli atti gravati annullati.

Le spese di giudizio, secondo la nota regola codicistica, seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’ Abruzzo sezione staccata di Pescara (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie come da motivazione.

Condanna il Comune di Bolognano al pagamento a favore della ditta ricorrente delle spese e onorari di giudizio che liquida in euro 2.000 (due mila) oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 05-05-2011) 27-05-2011, n. 21376

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Svolgimento del processo

1. La difesa di R.A.G.H. propone ricorso avverso l’ordinanza del 28/7/2010 con il quale la Corte d’appello di Genova ha respinto la richiesta di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale.

Si lamenta con il primo motivo il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. c) per inosservanza dell’art. 175 cod. proc. pen..

Facendo richiamo alla disciplina normativa indicata, nonchè ai principi in argomento fissati dalla Corte di giustizia europea, si assume che il giudice di merito non abbia adeguatamente motivato sulla conoscenza che l’odierno ricorrente aveva del procedimento, rilevando che l’elezione di domicilio, intervenuta in una fase antecedente all’iscrizione della notizia di reato, alla quale il giudice aveva fatto richiamo, non risultava firmata, e che, in ogni caso, tale atto era stato formato in una fase preliminare del giudizio, e successivamente l’imputato non risultava essere stato al corrente della formale contestazione e quindi della possibilità di apprestare la propria difesa.

Ne consegue, secondo il ricorrente, che manchi la prova della conoscenza del provvedimento e di una consapevole rinuncia ad impugnarlo, circostanza che fonda la richiesta di annullamento dell’ordinanza oggetto di ricorso, con rinvio ad altro giudice per nuova determinazione.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato. L’esame degli atti ha consentito di accertare che l’odierno ricorrente, reso edotto dalla polizia giudiziaria che sarebbe stato denunciato per il reato di resistenza, nominò un difensore di fiducia ed elesse domicilio presso questi.

Le risultanze di tale verbale possono essere ritenute idonee a ricavare la consapevolezza del procedimento da parte dell’odierno ricorrente in quanto, se tale atto non reca la sottoscrizione dell’interessato, non risulta allegato da questi, neppure nell’odierno procedimento, che ciò sia avvenuto perchè si intendeva contestare la rispondenza al reale del suo contenuto, unica circostanza in relazione alla quale è possibile non tenere in alcuna considerazione quanto risulti nell’atto non sottoscritto (Sez. 5, Sentenza n. 35506 del 01/07/2010, dep. 01/10/2010, imp. Gilli, Rv.

248497).

La mancata contestazione di conformità dell’atto alle dichiarazioni effettivamente rese dall’interessato, non costituisce l’unico indicatore della loro effettività, dovendo questa ricavarsi dalla convalida del contenuto desumibile dal successivo sviluppo processuale dell’attività difensiva, in quanto risulta che l’odierno ricorrente sia stato difeso di fiducia, esattamente dal professionista nominato nel verbale e nel medesimo contesto eletto domiciliatario, professionista che, a quel che consta, solo a tale atto poteva ricondurre la legittimità di svolgimento suo mandato professionale; nè questi risulta aver esplicitato il venir meno del rapporto di fiducia, e sollecitato quindi la nomina di un difensore d’ufficio.

La condotta tenuta dal legale, che ha garantito la difesa per tutto l’iter del procedimento di primo grado, e non ha eccepito l’assenza di notifica dell’atto introduttivo del giudizio, per irregolare elezione di domicilio, denota l’effettività del contatto con il cliente, e conseguentemente, la consapevolezza, da parte di quest’ultimo, dell’esistenza del procedimento penale negli sviluppi successivi all’iscrizione nel registro degli indagati e della compiuta contestazione degli addebiti, circostanza che non legittima la richiesta di restituzione nel termine.

E’ bene ricordare, per completezza che, con riferimento alla natura giuridica dell’elezione di domicilio, si è ripetutamente affermata la natura negoziale costitutiva dell’atto (Cass. Sez. 3, Sent. n. 22844 del 26/03/2003, dep. 23/05/2003, imp. Barbiere, Rv224870.), che presuppone il consenso del domiciliatario e che lo investe dello specifico ruolo di alter ego dell’effettivo destinatario dell’atto.

Si tratta di un atto di disposizione effettuato per libera scelta dell’imputato, sicchè la notifica a mani del domiciliatario adempie a quelle esigenze di effettività che la norma impone e che, una volta di più dimostra la conoscenza, o conoscibilità da parte di G. del procedimento, che esclude la possibilità di accogliere la sua richiesta di restituzione nel termine, dovendo ricondursi la sua mancata comparizione, e omessa impugnazione, a consapevole scelta processuale, derivante dalla piena conoscenza del suo svolgimento.

2. In ragione delle circostanze di fatto evocate è fuori luogo evocare la violazione del dettato della sentenza della Corte Edu del 10 novembre 2004 proc. Sejdovic, essendosi quella pronuncia limitata ad imporre la tutela del diritto del contumace ad avere un giusto processo, laddove manchi la prova che questi fosse a conoscenza del processo stesso o che ad esso si fosse volontariamente sottratto, circostanza di fatto la cui ricorrenza deve escludersi nel caso concreto, sulla base di quanto esposto.

3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, in forza dell’art. 616 cod. proc. pen..
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.