T.A.R. Lazio Roma Sez. III, Sent., 19-09-2011, n. 7408

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il proposto gravame e con i successivi motivi aggiunti la società ricorrente – la quale aveva alla procedura aperta indetta dalla Consip per la fornitura del servizio di telefonia fissa e connettività IP in favore delle pubbliche Amministrazioni suddivisa in due lotti e risultando aggiudicataria del secondo lotto – ha impugnato l’aggiudicazione definitiva del primo dei lotti in questione intervenuta a favore di Telecom Italia.

Si è costituita Consip spa la quale ha confutato analiticamente la fondatezza delle prospettazioni ricorsuali chiedendone il rigetto.

Si è costituita Telecom Italia spa, la quale ha prospettato l’inammissibilità del proposto gravame nonchè l’infondatezza delle censure ivi dedotte, ed ha infine proposto ricorso incidentale contestando la mancata esclusione dalla gara de qua della società ricorrente.

Il ricorso – chiamato all’odierna camera di consiglio del 15.07.2011 per la delibazione dell’istanza cautelare proposta da parte ricorrente – viene ritenuto per la decisione del merito, ai sensi dell’art. 60 del d.lgvo n.104/2010, il quale stabilisce che " In sede di decisione della domanda cautelare, purchè siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata, salvo che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza ovvero regolamento di giurisdizione"

Ricorrono, quanto alla sottoposta vicenda contenziosa, i presupposti contemplati dalla citata disposizione al fine di consentire un’immediata definizione della controversia mediante decisione da assumere "in forma semplificata".

Ciò preliminarmente rilevato, in primis il Collegio osserva che con atto depositato in data 13.7.2011, notificato alle parti resistenti, la società ricorrente ha dichiarato di rinunciare al ricorso con compensazione delle spese.

Nulla per le spese stante la mancata opposizione alla richiesta di compensazione avanzata in tal senso dalla odierna istante.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione III, ritenuto per la decisione nel merito, ai sensi dell’art. 60 del d.lgvo n.104/2010, il ricorso indicato in epigrafe, dà atto della rinuncia allo stesso.

Nulla per le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03-02-2012, n. 1639 Rapporto di pubblico impiego

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Svolgimento del processo

Con sentenza n. 16/03 il Tribunale di Avellino accoglieva solo parzialmente l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal Comune di Solofra contro il decreto ingiuntivo – emesso ad istanza dell’INPS – con cui gli era stato ingiunto il pagamento della complessiva somma di L. 1.923.994.306 di cui L. 578.376.000 a titolo di contributi non versati per prestazioni lavorative rese in favore di detta amministrazione in regime di convenzioni che, in realtà, presentavano i requisiti propri del rapporto di lavoro subordinato;

revocato il decreto opposto, il Tribunale condannava il Comune a pagare la sola somma di Euro 298.706,27 per contributi.

Con sentenza depositata il 16.10.06 la Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame interposto dal Comune di Solofra.

Statuivano i giudici del merito che i contratti de quibus, sostanzialmente di lavoro subordinato, pur essendo nulli perchè stipulati senza previo concorso o prova pubblica selettiva, nondimeno producevano ex art. 2126 c.c. le conseguenti obbligazioni contributive a carico del Comune, contributi da versarsi non alla CPDEL ma all’INPS. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Comune di Solofra affidandosi a quattro motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso l’INPS.

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. e 2126 c.c. per avere l’impugnata sentenza ritenuto applicabile l’art. 2126 c.c. a contratti di pubblico impiego nulli perchè costituiti senza le prescritte modalità, mentre la norma codicistica è da riservarsi ai soli contratti di lavoro subordinato; inoltre, quelli de quibus intercorsi con il Comune di Solofra erano validi rapporti di prestazione d’opera professionale L. n. 219 del 1981, ex art. 60 instaurati secondo legittimi e non impugnati atti di convenzione.

Il motivo è infondato.

Per costante insegnamento di questa Corte Suprema – al quale va data continuità – un rapporto di lavoro subordinato sorto con un ente pubblico non economico per i fini istituzionali dello stesso, nullo perchè non assistito da un regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra pur sempre sotto la sfera di applicazione dell’art. 2126 c.c., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo e alla contribuzione previdenziale per il tempo in cui abbia avuto materiale esecuzione (cfr. Cass. 17.10.05 n. 20009; Cass. 20.5.08 n. 12749; Cass. 3.7.03 n. 10551; Cass. 14.6.99 n. 5895: gli unici accenti non concordanti nel quadro di tale giurisprudenza attengono all’individuazione del creditore dei contributi – se INPS o CPDEL e, poi, INPDAP -, ma si tratta di questione non sollevata nel presente contenzioso).

A tale consolidato principio si è attenuta l’impugnata sentenza, che – quindi – non merita censura.

2- Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 219 del 1981, art. 60, art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c. nonchè vizio di motivazione laddove l’impugnata sentenza ha ritenuto che su atti formali adottati dalla pubblica amministrazione (anteriormente alla contrattualizzazione del pubblico impiego a seguito del D.Lgs. n. 29 del 1993) e non rimossi attraverso apposita impugnativa giurisdizionale possa prevalere l’accertamento dell’effettiva natura del rapporto.

Il motivo è infondato.

Correttamente l’impugnata sentenza ha ricordato che la qualificazione giuridica di contratto d’opera o per prestazioni professionali data dall’amministrazione è sempre suscettibile di verifica giurisdizionale, atteso che una diversa esegesi risulterebbe costituzionalmente illegittima (cfr. Corte cost. n. 115/94). In altre parole, non esiste una presunzione relativa (o, men che meno, assoluta) di conformità della natura giuridica del rapporto al nomen iuris attribuitogli dall’amministrazione.

A sua volta la difformità tra qualificazione giuridica del rapporto e suo reale svolgimento può emergere indifferentemente dalla prova diretta dell’elemento della subordinazione o da quella indiziaria attraverso indici rivelatori (cfr., ex aliis, Cass. 25.7.02 n. 10971;

Cass. 25.5.98 n. 5214), senza che a tal fine risulti pregiudiziale un’eventuale rimozione a seguito di impugnativa giurisdizionale, vertendosi – anzi -in materia attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario anche prima del D.Lgs. n. 29 del 1993, trattandosi di controversia non tra lavoratore e datore di lavoro pubblico, ma tra quest’ultimo e l’INPS. Invero, qualora venga dedotto in giudizio l’omesso versamento di contributi assicurativi obbligatori (come nel caso di specie) vantati da un istituto previdenziale nei confronti di un ente pubblico non economico in relazione a pretesi rapporti di lavoro subordinato instaurati con tale ente, la causa deve essere decisa dal giudice ordinario, dovendosi distinguere – in base al titolo, ai soggetti e al contenuto – tra il rapporto previdenziale e quello di pubblico impiego la cui cognizione, relativamente alle fattispecie in cui non trovi applicazione, ai fini della determinazione della giurisdizione, la nuova disciplina di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993 e, successivamente, di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998 (entrambi poi confluiti nel t.u. approvato con D.Lgs. n. 165 del 2001), è attribuita invece alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Nè in contrario rileva il fatto che da parte dell’ente pubblico sia contestata l’esistenza d’un rapporto di natura sostanzialmente subordinata, dal momento che anche la relativa questione pregiudiziale è riservata all’accertamento del giudice della causa pregiudicata – da compiersi, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., solamente in via incidentale – salvo che taluna delle parti, che dimostri di avervi un concreto interesse trascendente quello immediato alla risoluzione della controversia, non chieda una pronuncia con efficacia di giudicato sulla specifica questione; in tale ultima evenienza si configura l’esistenza di una causa pregiudiziale, devoluta al giudice amministrativo (per le fattispecie – s’intende – anteriori all’operatività del nuovo regime introdotto con la contrattualizzazione del pubblico impiego), nel necessario contraddittorio con tutti i soggetti ai quali è stata riferita l’omissione contributiva dedotta in giudizio (cfr. Cass. S.U. n. 30.5.05 11329; Cass. S.U. 5.5.03 n. 6767).

Quanto al dedotto vizio di motivazione, esso si colloca all’esterno dell’area dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacchè quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 384 c.p.c., u.c.), senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire.

Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorchè malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

3- Con il terzo motivo il ricorrente si duole di vizio di motivazione per erronea valutazione del materiale probatorio quanto ad orario di lavoro, esclusività o meno del rapporto, possesso di partita IVA da parte dei soggetti con i quali il Comune aveva stipulato i contratti e deposizioni acquisite.

Il motivo è inammissibile perchè, essendo stato formulato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ex art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis, vista la data di deposito dell’impugnata sentenza), si sarebbe dovuto concludere, per costante giurisprudenza di questa S.C., con un momento di sintesi del fatto controverso e decisivo, per circoscriverne puntualmente i limiti in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 1. 10.07 n. 20603; Cass. Sez. 3 25.2.08 n. 4719; Cass. Sez. 3 30.12.09 n. 27680).

A ciò si aggiunga, quale ulteriore autonomo profilo di inammissibilità, che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di un punto (ora, dopo la novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, di un "fatto") decisivo della controversia, potendosi in sede di legittimità solo controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, soltanto al quale spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 11.6.98 n. 5802 e innumerevoli successive pronunce conformi).

Nè vi è alcuna contraddizione logica fra ritenuto obbligo di orario di lavoro e svolgimento del rapporto non a tempo pieno, trattandosi di profili diversi e non incompatibili fra loro.

4- Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. 28 ottobre 1986, n. 730, art. 12, art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, laddove l’impugnata sentenza non ha escluso la natura subordinata almeno per i rapporti in convenzione in quanto il cit. art. 12 dispone l’immediata immissione straordinaria nei ruoli speciali ad esaurimento come dipendente pubblico solo di chi abbia intrattenuto un rapporto convenzionale, con esclusione del rapporto sostanzialmente subordinato la cui esistenza è pretesa dall’INPS. Tale censura di diritto è irrilevante perchè nella specie non si controverte di diritto o meno all’immissione in ruolo, nè quest’ultima può avere – in un senso piuttosto che in un altro, in astratto o in concreto – valore dirimente rispetto alla sostanziale natura subordinata delle prestazioni de quibus.

Da ultimo, quanto all’asserito vizio di motivazione dedotto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, valga quanto sopra ricordato sulla non configurabilità ove attenga alla motivazione in punto di diritto.

5- In conclusione, il corso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, che liquida Euro 80 oltre Euro 4.500,00 per onorari, oltre accessori come per legge.

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Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-05-2011) 06-10-2011, n. 36300

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Svolgimento del processo

1. – Con ordinanza del 2 dicembre 2010, il Tribunale di Torino ha respinto l’appello del prevenuto avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale che aveva rigettato l’istanza di revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare.

2. – Avverso tale provvedimento, il prevenuto ha proposto ricorso per cassazione, rilevando che le sue cattive condizioni di salute, dovute a un disturbo dell’adattamento con manifestazioni depressive e ansiose, non sarebbero state prese in considerazione sul piano della gravità e dell’inadeguatezza della struttura penitenziaria a prestare le cure necessarie.

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è inammissibile, perchè proposto per un motivo manifestamente infondato.

Il ricorrente si limita, infatti, a contestare la motivazione dell’ordinanza censurata relativamente alle ragioni di incompatibilità della misura carceraria con il suo stato di salute.

Sul punto, con argomentazione esauriente e logicamente corretta, il provvedimento impugnato ha rilevato che, dalla perizia sullo stato di salute del prevenuto, "non emergono ragioni di incompatibilità carceraria" e che, anzi, la struttura carceraria risulta pienamente adeguata ad affrontare gli eventuali sviluppi clinici, anche nel senso di un peggioramento, del disturbo sofferto.

A fronte di una siffatta motivazione – la quale appare, come anticipato, del tutto completa e coerente – le censure del ricorrente si esauriscono nella richiesta di riesame di profili di fatto già esaminati; riesame precluso in sede di legittimità. Trova, infatti, applicazione il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione dell’espressa previsione normativa dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (ex plurimis, tra le pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 c.p.p. dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46: Sez. 6, 29 marzo 2006, n. 10951; Sez. 6, 20 aprile 2006, n. 14054; Sez. 3, 19 marzo 2009, n. 12110; Sez. 1, 24 novembre 2010, n. 45578; Sez. 3, 9 febbraio 2011, n. 8096).

4. – Ne consegue l’inammissibilità del ricorso. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 12-10-2011) 25-10-2011, n. 38514

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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 25 settembre 2008 il Tribunale di Tivoli, sezione distaccata di Castelnuovo di Porto, in composizione monocratica, dichiarava la propria incompetenza per territorio nell’ambito del processo instaurato a carico di O.A., nei cui confronti era stato emesso decreto di citazione a giudizio per i delitti di cui agli artt. 648 e 489 c.p., art. 61 c.p., n. 2 e art. 640 c.p., reati tutti accertati, secondo la contestazione, in Capena, comune ricompreso nel circondario del Tribunale di Tivoli, sezione distaccata di Catselnuovo di Porto.

Ad avviso del Tribunale, peraltro, in relazione al più grave delitto di ricettazione non emergeva elementi obiettivi idonei a consentire l’individuazione del luogo di commissione del reato e che il verbale di sequestro in data 5 aprile 2002, prodotto dalla difesa, indicava che un assegno circolare, identico a quello oggetto del procedimento in esame, era stato rinvenuto presso l’abitazione dell’imputato, situata in Roma. Pertanto, non essendo possibile individuare il luogo in cui O. aveva conseguito il possesso dell’assegno e della carta d’identità, doveva farsi luogo, sempre con riferimento al delitto di cui all’art. 648 c.p., ai criteri suppletivi disciplinati dall’art. 9 c.p.p. Poichè, quindi, O. è residente in Roma, la competenza apparteneva al Tribunale di Roma, in composizione monocratica.

2. Quest’ultimo, investito del decreto di citazione a giudizio emesso dal Procuratore della Repubblica di Roma il 30 ottobre 2009, nel dichiarare a sua volta la propria incompetenza territoriale, sollevava conflitto negativo di competenza e disponeva la trasmissione degli atti a questa Corte per la risoluzione dello stesso, sulla base delle seguenti considerazioni.

L’impossibilità di accertare il luogo di consumazione del reato più grave tra quelli contestati all’ O. (nel caso di specie il reato di ricettazione) non giustificava il ricorso alle regole suppletive dettate dall’art. 9 c.p.p., comma 2, bensì imponeva di individuare il luogo di consumazione del reato immediatamente meno grave, vertendosi in un’ipotesi ex art. 16 c.p.p.. Pertanto, poichè sia il più grave fra i residui reati oggetto di contestazione (il reato di cui all’art. 640 c.p., aggravato ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 2) che quello di cui all’art. 489 c.p. (capo b) erano stati commessi nel territorio del comune di Capena, la competenza apparteneva al Tribunale di Tivoli, sezione distaccata di Castelnuovo di Porto.

3. Con memoria depositata il 30 settembre 2011 presso la cancelleria della Prima Sezione Penale di questa Corte il difensore di O. osservava che la competenza a conoscere del processo apparteneva al Tribunale di Roma, in quanto una parte della condotta di ricettazione era stata posta in essere in territorio di Roma, ove, presso l’abitazione dell’imputato, era stato trovato un assegno circolare identico a quello oggetto del presente procedimento.

Motivi della decisione

1. Il conflitto sussiste, in quanto due giudici ordinari contemporaneamente ricusano la cognizione del medesimo fatto loro deferito, dando così luogo a quella situazione di stallo processuale, prevista dall’art. 28 c.p.p. e la cui risoluzione è demandata a questa Corte dalla norme successive.

2. Il conflitto deve essere risolto con la dichiarazione di competenza del Tribunale di Tivoli, sezione distaccata di Castelnuovo di Porto.

3. Nell’ipotesi in cui si proceda per più reati connessi ( art. 16 c.p.p., comma 1), l’impossibilità di individuare il luogo di consumazione del reato più grave, comporta che si debba accertare il luogo di commissione del reato che, in via gradata, si presenta come il più grave fra quelli residui. Solo qualora sia impossibile stabilire il luogo di consumazione di tutti i reati connessi e, quindi, dare applicazione alle regole stabilite dall’art. 8 c.p., è consentito fare ricorso alle regole suppletive disciplinate nell’art. 9 c.p. (Sez. Un. 20 ottobre 2009, n. 40537).

4. Nel caso di specie, a fronte dell’impossibilità di stabilire il luogo in cui è stato realizzato il delitto di ricettazione – in assoluto il più grave fra quelli oggetto di contestazione e connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p., comma 1, lett. b), – è indubbio che il meno in via gradata più grave (quello di truffa aggravata di cui al capo e della rubrica) è stato posto in essere nel territorio del comune di Capena, dove è stato consumato anche il reato ex art. 489 c.p. (capo b).

Nè, d’altra parte, può rilevare, per pervenire ad una diversa conclusione – prospettata anche dalla difesa di O. -, il luogo di consumazione di una condotta diversa, concretizzatasi nella ricettazione di un titolo di credito non compreso nella contestazione oggetto del presente processo.

P.Q.M.

Dichiara la competenza del Tribunale di Tivoli, sezione distaccata di Castelnuovo di Porto, cui dispone trasmettersi gli atti.

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