Cass. civ. Sez. V, Sent., 11-11-2011, n. 23620 Accertamento Base imponibile Imposta reddito persone giuridiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il 29 settembre 2005 la Commissione tributaria regionale della Campania ha rigettato gli appelli riuniti che l’Agenzia delle entrate aveva proposto nei confronti della proprietaria soc. Impresa Schiavone Costruzioni, confermando l’annullamento degli avvisi di accertamento notificati alla contribuente per IRPEG/ILOR in relazione all’omessa contabilizzazione negli anni 1995 e 1997 di canoni locativi riscossi, invece, dal custode d’immobili sottoposti a sequestro giudiziario. Ha motivato la decisione ritenendo che:

a) il legislatore del 1973 (D.P.R. n. 597) e del 1986 (D.P.R. n. 917), quanto al presupposto fiscale, ha inteso riferirsi alla titolarità giuridica dei redditi quale materiale disponibilità di essi da parte del soggetto d’imposta, comprendendo nel reddito complessivo, non soltanto i redditi propri, ma anche quelli dei quali abbia la libera disponibilità;

b) il possesso di un reddito, secondo la terminologia tributaria, non deve essere assunto nella sua accezione civilistica, cioè come situazione di fatto sulla cosa corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, bensì come mera disponibilità del reddito stesso, ossia come effettiva possibilità di fruire del reddito anche senza averne la titolarità giuridica;

c) il custode giudiziario, disponendo dei beni sequestrati e del reddito prodotto, diventa il destinatario di tutti i relativi obblighi formali e sostanziali, ivi compresi quelli fiscali, così come chiarito anche da risoluzioni ministeriali (es. n. 184/E del 14/08/1996, in materia di IVA) e desumibile, inoltre, dall’art. 2 T.U.I.R. (nella parte in cui, stabilendo che l’imposta si applica solo sui redditi posseduti da contribuente, esclude dalla tassazione i redditi non disponibili). Ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un solo motivo, l’Agenzia delle entrate; la soc. contribuente non si è costituita.

Disposta la rinnovazione della notifica del ricorso, la ricorrente vi ha provveduto 12 aprile 2011 nel termine concessole giusta ordinanza del 21 febbraio 2011, comunicata il 5 aprile 2011. La soc. contribuente non si è costituita, nonostante la ricezione dell’atto sia avvenuta in data 15 aprile 2011 (dep. 31/05/2011).

Motivi della decisione

1.-Con l’unico motivo, l’avvocatura erariale denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 1, 3,6 e 86, e dell’art. 670 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.

Premesso che l’attività del custode sequestratario è diretta alla conservazione del bene – e dei suoi frutti – della cui proprietà si controverta, sostiene che egli sarebbe mero detentore processuale del bene senza possibilità di fruizione del reddito e dunque non potrebbe mai essere destinatario di obblighi fiscali, rimasti a carico della parte intestataria dell’immobile sequestrato in quanto possessore in via mediata, tramite il custode, di tale cespite. Trae, pertanto, la conclusione che i canoni di locazione, ancorchè riscossi dal custode sequestratario, andavano inseriti nella dichiarazione dei redditi della società intestataria dell’immobile.

Il motivo non è fondato.

2.-La questione delle responsabilità fiscali del custode nel sequestro giudiziario trova ampio riscontro, contrario alle tesi sostenute in giudizio, nella stessa prassi amministrativa, che merita di essere ricostruita per la migliore comprensione del dibattito sviluppatosi sul tema. Si richiama, in proposito, la risoluzione n. 195/E del 13 ottobre 2003 – che sviluppa le considerazioni svolte nella circolare n.l56/E del 2000 (in tema di sequestro antimafia) e già anticipate dalla circolare del ministero delle finanze n. 184/E del 14 agosto 1996 (citata dai giudici d’appello) – ed è a sua volta richiamata nella risoluzione n.l58/E dell’11 novembre 2005. 2.1.-La risoluzione del 2003 ripercorre l’orientamento formatosi in tema di sequestro antimafia (legge 575 del 1965) e che ritiene applicabili, all’amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati in attesa della confisca, la disciplina fiscale relativa all’eredità giacente dettata dall’art. 131 T.U.I.R., e dal D.P.R. 42 del 1988, art. 19. E’ evidenziato che, in attesa della confisca o della restituzione al proprietario, il titolare dei beni non è individuato a titolo definitivo e per questo motivo non ha la disponibilità dei medesimi. La veste del soggetto passivo d’imposta spetta a colui che assumerà la titolarità dei beni sequestrati e l’amministratore giudiziario, in pendenza di sequestro, opera dunque quale "rappresentante in incerta personam", curando la gestione del patrimonio per conto di un soggetto non ancora individuato. Lo stesso, pertanto, non assume al pari del curatore dell’eredità giacente, un’autonoma soggettività tributaria, ma opera quale rappresentante in incertam personam, applicandosi le regole dettate dall’art. 131 cit. e dall’art. 19 cit..

2.2. – Tanto premesso, la risoluzione del 2003 prosegue affermando che "la provvisorietà dei beni sequestrati si rileva anche nella fattispecie di sequestro giudiziario", nel quale caso "vi è la compresenza di due o più proprietarì, cioè un soggetto si afferma proprietario in contrasto con l’altra parte, determinando una situazione d’incertezza che si protrarrà fino alla chiusura delle vicenda processuale, quando verrà individuato a titolo definitivo e con effetto retroattivo il soggetto titolare dei beni sequestrati e, quindi, l’effettivo soggetto passivo d’imposta". 2.3.-Indi, la risoluzione conclude: "Il custode in pendenza di giudizio ed in via provvisoria opera quale rappresentante in incertam personam e cura la gestione delle somme versate alla custodia.

Pertanto, anche nell’ipotesi prospettata trovano applicazione le regole sull’eredità giacente recate dall’art. 131 del T.U.I.R. e dal D.P.R. n. 42 del 1988, art. 19. Il custode giudiziario è, pertanto, tenuto a presentare, nei termini ordinar, le dichiarazioni dei redditi relative ai periodi d’imposta interessati dalla custodia giudiziaria (con l’esclusione del periodo d’imposta nel corso del quale essa cessa), con il conseguente obbligo di effettuare i versamenti dei tributi ivi liquidati in via provvisoria". 2.3. – Con la successiva risoluzione del 2005, l’amministrazione, premesso che nell’ambito della misura cautelare di cui all’art. 670 c.p.c., sussiste incertezza sull’effettivo titolare del bene, ribadisce che "in caso di sequestro il custode giudiziario opera nella veste di rappresentante in incertam personam e si applicano le norme concernenti l’eredità giacente, come chiarito con la risoluzione n. 195/E del 13 ottobre 2003". 3.-A conclusioni non dissimili, e fondate in particolare sull’aspetto dinamico del concetto di "disponibilità", giunge anche la giurisprudenza di legittimità, allorquando stabilisce:

"In tema di IRPEF, nel vigore della disciplina del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, come modificato dalla legge 13 aprile 1977, n.114, in caso di sequestro conservativo di immobili, il debitore nominato custode non può considerarsi titolare di alcun reddito proveniente dagli stessi, poichè i frutti civili sono sottratti alla sua disponibilità, ai sensi dell’art. 559 c.p.c., richiamato dal successivo art. 679, e l’obbligo legale di rendiconto prescritto dall’art. 560 impone l’esclusione di tali frutti dalla base imponibile, ai sensi del D.P.R. n. 597 del 1973, art. 3, comma 1, a tenore del quale l’imposta si applica sul reddito complessivo netto formato da tutti i redditi del soggetto passivo, compresi i redditi altrui dei quali egli ha la libera disponibilità o l’amministrazione senza obbligo della resa dei conti" (Cass. Trib., 8 marzo 2006, n. 4943).

3.1.-Inoltre, già negli anni ’80, si era affermato in giurisprudenza che "il custode sequestratalo assume la qualità di amministratore dei beni sequestrati per conto di colui il quale, in definitiva, ne sia dichiarato proprietario o possessore" (Cass. Civ., 14 marzo 1988, n. 2429, Riv. 458197).

4.-Le risultanze della prassi amministrativa e gli orientamenti di questa Corte di legittimità meritano alcune precisazioni.

4.1.-Inizialmente – sulla scorta della tradizione romanistica secondo cui "sequester cum depositario assimiletur" e della dottrina francese che a essa si era ispirata – si era ritenuto che la finalità di custodia fosse prevalente, in quanto obbligazione privatistica assunta nei confronti delle parti processuali; da altri si era invece sostenuto che nel sequestro si realizzerebbe una sorta di "negotiorum gestio". Altri ancora avevano prospettato la tesi della rappresentanza, assumendo che la figura del sequestratario fosse assimilabile a quella di un mandatario per conto di chi spetta. In realtà il sequestratario deve ritenersi, più che rappresentante delle parti, un gestore autonomo, un ausiliario del giudice, dal quale direttamente ripete l’investitura e i poteri-doveri che attengono alla custodia e all’amministrazione dei beni sequestrati.

Egli opera perciò sotto la direzione e il controllo del giudice ed è tenuto alla retta amministrazione non tanto verso le parti o i terzi, quanto rispetto alla autorità giudiziaria, che gli ha conferito tale "munus publicum" (così Cass. Civ., 17 luglio 1963, n.1958, Riv. 263014; Sez. Un. Civ., 13 febbraio 1963, n. 287, Riv.

260363; Cass. Civ., 3 settembre 1955, n.2569, Riv. 880404). Il custode-amministratore assume (nell’ambito dei sequestri e in particolare di quello giudiziario civile ex art. 670 c.p.c.) la figura giuridica di ausiliario di giustizia, essendo un privato che in seguito al provvedimento del giudice viene occasionalmente incaricato di un pubblico ufficio temporaneo, che deve esercitare, imparzialmente, come "longa manus" degli organi giudiziari, ancorchè con una certa autonomia.

4.2. – Tale concezione va inquadrata in quella più vasta del titolare d’ufficio e non va confusa neppure con quella del legale rappresentante, dalla quale si discosta perchè l’operato del custode è diretto al perseguimento del fine che si prefigge l’ufficio cautelare e dell’interesse di un titolare ignoto o incerto, la cui identificazione spetta al giudice all’esito del giudizio civile. Il custode-amministratore esercita, dunque, una pubblica funzione in quanto ausiliare dell’autorità giudiziaria, così pienamente giustificandosi la sistemazione del codice di procedura civile che il custode, nel capo 3^ del libro 1^. Nella giurisprudenza è, quindi, esattamente ricorrente il riferimento sia all’assenza di ogni rapporto di tipo privatistico con i titolari delle cose sotto sequestro, sia all’esercizio di una funzione pubblica temporanea da svolgere quale "longa raanus" degli organi giudiziari (Parlano, riguardo al sequestro civile, di pubblica funzione Cass. Civ., 15 maggio 1971, n. 1406, Riv. 351668 e Cass. Civ., 21 agosto 1985, n. 4464, Riv. 441928).

Del resto il custode – amministratore presenta, sotto il profilo empirico, tutte le caratteristiche individuate dalla dottrina amministrativistica per delineare la titolarità di un ufficio:

mancanza di mandato; utilità sociale; obbligatorietà, con azione parzialmente vincolata; derivazione da provvedimento dell’autorità;

obbligo di diligenza.

4.3. – Se questo è l’inquadramento dommatico della figura del custode giudiziario non possono residuare obblighi fiscali dell’intestatario dell’immobile riguardo ai canoni per la locazione dell’immobile sequestrato. Il riferimento della normativa fiscale, in particolare del D.P.R. n. 917, art. 25, (ora art. 26), al "possesso" quale presupposto impositivo va collegato con le modalità di esecuzione del sequestro giudiziario che, ai sensi dell’art. 677 c.p.c., seguono le forme dell’art. 605 c.p.c. e segg., e in particolare l’art. 608 c.p.c., quanto al modo del rilascio. In base a tale disposizione, "l’ufficiale giudiziario…. immette il custode nel possesso dell’immobile…. ingiungendo agli eventuali detentori di riconoscere il nuovo possessore". Il che esclude in radice che permanga, in qualche modo, il possesso dell’intestatario del cespite.

4.4.-Questo, dunque, non può considerarsi titolare di alcun reddito proveniente dall’immobile sequestrato, poichè i canoni e in generale tutti i frutti civili sono nella disponibilità del custode, ai sensi dell’art. 560 c.p.c., richiamato dal successivo art. 676, e l’obbligo legale di rendiconto prescritto a carico del custode dall’art. 593 impone l’esclusione di tali frutti dalla base imponibile dell’intestatario, ai sensi del D.P.R. n. 917, art. 3, comma 1, a tenore del quale "l’imposta si applica sul reddito complessivo netto del soggetto, formato… da tutti i redditi posseduti".

Del resto il D.P.R. n. 917, art. 1, stabilisce che "presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura", il che significa "il possesso come capacità di disporre", secondo una felice definizione dottrinaria.

Essendo i frutti dell’immobile, assoggettato a sequestro giudiziario, nella disponibilità dell’ufficio cautelare si coglie l’estraneità di essi rispetto all’imposizione fiscale verso il mero intestatario dell’immobile stesso. Il che comporta il rigetto del ricorso.

5.-Nessuna pronunzia va adottata in punto di spese stante la mancata costituzione della parte intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-04-2011) 13-07-2011, n. 27466

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Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Genova dichiarava sussistenti le condizioni per l’estradizione verso la Repubblica Francese di A.B., tratto in arresto il 12 settembre 2010 in forza del mandato di arresto in data 18 febbraio 2000 del Presidente del Tribunale di Grande Istanza di Nizza per l’esecuzione della condanna alla pena di anni sette di reclusione infettagli con sentenza del medesimo Tribunale in data 18 febbraio 2000 per violazione alla legge sugli stupefacenti.

2. Osservava tra l’altro la Corte di appello che non era di ostacolo alla estradizione dell’ A. la circostanza, su cui aveva fatto leva la difesa, che la condanna infettagli non fosse definitiva, dato che essa era comunque esecutiva, secondo la legge processuale francese.

3. Ricorre per cassazione di persona l’imputato.

3.1. Con un primo motivo, denuncia la violazione degli artt. 696 e 697 cod. proc. pen. e art. 12 della Convenzione Europea di estradizione, dato che in base a tali norme deve ritenersi che unici titoli per una richiesta di estradizione sono o una sentenza definitiva o un provvedimento cautelare.

L’art. 705 cod. proc. pen. stabilisce infatti che la estradizione possa avvenire solo se sussistono gravi indizi di colpevolezza ovvero se esiste una sentenza irrevocabile di condanna; mentre l’art. 12 della Convenzione pone a fondamento della domanda una decisione esecutiva di condanna o un mandato di arresto.

Nella specie, la domanda di estradizione risulta basata esclusivamente su una sentenza che, come si ricava testualmente dall’atto trasmesso dall’a.g. francese, non può dirsi esecutiva essendo suscettibile di appello.

3.2. Con un secondo motivo, denuncia la violazione dell’art. 47 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che stabilisce che ogni individuo i cui diritti o libertà siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice.

Nella specie, l’ A. non aveva avuto tale facoltà, dato la sentenza emessa a suo carico dal Tribunale di Nizza non gli era stata mai notificata, non essendo egli stato presente in udienza per motivi di salute.

Motivi della decisione

1. Il ricorso appare manifestamente infondato.

2. Il titolo posto a base della domanda di estradizione è una sentenza esecutiva, ancorchè, in base all’ordinamento francese, suscettibile di impugnazione, e tanto basta per ritenere rispettato l’art. 12 della Convenzione Europea di estradizione, che, al comma 2, lett. a), fa appunto riferimento a una "sentenza di condanna esecutiva" quale atto idoneo a sostenere la domanda (v., in analogo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 15221 del 10/02/2009, Cobo, Rv.

243584).

Essendo la sentenza impugnabile, non si comprende la sostanza del secondo motivo, con il quale il ricorrente lamenta di non avere la possibilità di un ricorso effettivo davanti, a un giudice, per di più impropriamente invocando l’art. 47 della CEDU (ma verosimilmente intendendosi richiamare l’art. 13 della Convenzione, che però riguarda la tutela giurisdizionale davanti a una istanza giurisdizionale una volta che sia stata già riconosciuta la violazione di diritti e libertà tutelati dalla Convenzione europea).

3. Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in relazione alle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro mille.

La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 07-06-2011) 26-07-2011, n. 29883 Cause di non punibilità, di improcedibilità, di estinzione del reato o della pena

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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Cagliari, con sentenza emessa il 14/09/010, in parziale riforma della sentenza del Gup del Tribunale di Oristano in data 24/06/08 – appellata da A.L. ed emessa nei confronti del predetto A. e di S.M., imputati dei reati di cui agli artt. 56, 609 bis, 609 ter, 609 septies c.p., comma 2 n. 3, (come loro rispettivamente contestati) in ordine ai quali A. L. veniva condannato alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione in relazione agli episodi di violenza sessuale, come contestati ai capi B) e C) della rubrica; mentre veniva emessa declaratoria di improcedibilità nei confronti di S.M. in riferimento ai reati contestatigli, per mancanza di querela – dichiarava S.M. colpevole dei reati ascrittigli e lo condannava alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione, pena sospesa e non menzione; con condanna anche al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile; confermava nel resto.

A.L. e S.M. proponevano distinti ricorsi per Cassazione, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e). In particolare la difesa di A.L. esponeva:

1. che era illegittima l’acquisizione da parte del PM degli atti di indagine difensiva, di cui andava affermata l’inutilizzabilità;

2. che, stante la mancanza di querela, l’azione penale era improcedibile, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di procedibilità di ufficio, ex art. 609 septies c.p., n. 3 e 4;

3. che vi era contrasto tra il dispositivo e la motivazione della sentenza di 1 grado, poichè nel primo veniva pronunciata declaratoria di non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dell’ A. in ordine al reato di cui al capo a) – episodio commesso in data prossima al 2000 – nella motivazione invece si precisava che la prescrizione riguardava un episodio risalente al 1998;

4. che era nullo l’avviso di conclusione delle indagini preliminari in relazione al reato di cui al capo b) per indeterminatezza della imputazione;

5. che la decisione impugnata non era congruamente motivata quanto alla sussistenza della responsabilità penale dell’imputato.

La difesa di S.M., a sua volta, eccepiva:

1. che l’azione penale era improcedibile per mancanza di querela e per assenza delle condizioni di procedibilità di ufficio;

2. che le imputazioni contestate non erano determinate, con conseguente impossibilità dell’imputato di esercitare nella sua pienezza il diritto di difesa;

3. che le indagini suppletive e/o integrative erano inutilizzabili;

4. che era nullo l’avviso di conclusione delle indagini preliminari per carenza di chiarezza nella formulazione dell’accusa;

5. che erano inutilizzabili le dichiarazioni rese al dott. F., direttore della Casa Circondariale di Oristano, perchè in violazione della norma di cui all’art. 63 c.p.p..

6. che la decisione impugnata non era congruamente motivata quanto alla sussistenza della responsabilità penale dell’imputato.

Tanto dedotto i ricorrenti chiedevano l’annullamento della sentenza impugnata.

Le difese di entrambi i ricorrenti presentavano, in data 18/05/011, memorie difensive con cui insistevano nelle loro richieste, specie in riferimento alla mancanza della procedibilità di ufficio dei reati loro contestati.

Il P.G. della Cassazione, nella pubblica udienza del 07/06/011, ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

I ricorsi sono infondati.

La sentenza della Corte Territoriale ha congruamente motivato tutti i punti fondamentali della decisione.

In particolare la Corte di Appello, mediante un esame analitico, puntuale ed esaustivo delle risultanze processuali ha accertato che, A.L. e S.M., entrambi appartenenti alla Polizia Penitenziaria, nell’esercizio delle loro funzioni presso la casa circondariale di Oristano – nelle condizioni di tempo e di luogo come l’individuate in atti – avevano commesso abusi sessuali in danno di loro colleghe. In specie l’ A. aveva costretto la collega A.R. a subire con violenza e repentinamente atti libidinosi, quali un bacio sulla bocca (fatto commesso in data prossima al 2000) nonchè abbracci e palpeggiamenti dei fianchi e della vita (in data prossima al 2002). Il S., a sua volta aveva costretto l’agente penitenziaria C.R. (nel mentre espletavano entrambi il servizio di sentinella presso l’istituto carcerario di Oristano) a subire violenza sessuale consistita nell’introdurre il mitra che aveva in dotazione tra le cosce della collega sino a raggiungere la zona vaginale, ed esclamare: "Ti piace?" (fatto commesso il (OMISSIS)); aveva altresì costretto la collega M.R. (mentre entrambi si trovavano nello spaccio del carcere di Oristano) a subire violenza sessuale consistita nell’introdurre con repentinità, tra le gambe della stessa, la fondina della pistola di ordinanza (fatto commesso in data (OMISSIS)); il tutto contro la volontà delle due citate colleghe e con sfregamento libidinoso delle parti del corpo delle stesse toccate dal mitra e dalla fondina della pistola.

Ricorrevano, pertanto, nella fattispecie in esame nei confronti di entrambi gli imputati, gli elementi costitutivi, soggettivo ed oggettivo, del reato di violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p. come loro rispettivamente contestati in atti. Trattasi di condotte aventi indubbio carattere libidinoso ed erotico in danno delle citate persone offese; condotte che avevano leso la libertà di autodeterminazione delle stesse in relazione alla loro sfera sessuale.

Le censure dedotte nel ricorso – sia quanto alle eccezioni processuali, sia quanto alla sussistenza della responsabilità penale degli imputati – sono generiche perchè meramente ripetitive di quanto esposto in sede di Appello, già valutato esaustivamente dalla Corte Territoriale.

Sono infondate perchè-in ordine alle condotte materiali attribuite agli imputati – sono in contrasto con quanto accertato e congruamente motivato dai giudici di merito. Dette doglianze, peraltro – quantunque prospettate come violazione di legge e/o vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) – costituiscono nella sostanza eccezioni in punto di fatto, poichè non inerenti ad errori di diritto o vizi logici della decisione impugnata, ma alle valutazioni operate dai giudici di merito. Si chiede, in realtà, al giudice di legittimità una rilettura degli atti probatori, per pervenire ad una diversa interpretazione degli stessi, più favorevole alla tesi difensiva del ricorrente. Trattasi di censura non consentita in sede di legittimità perchè in violazione della disciplina di cui all’art. 606 c.p.p.. Giurisprudenza consolidata:

Cass. Sez. Unite Sent. n. 6402 del 02/07/97, rv 207944; Cass. Sez. Unite Sent. n. 930 del 29/01/96, rv 203428; Cass. Sez. 1^ Sent. n. 5285 del 06/05/98, rv 210543; Cass. Sez. 5^ Sent. n. 1004 del 31/01/2000, rv 215745; Cass. Sez. 5^ Ord. N. 13648 del 14/04/2006, rv 233381. Le eccezioni processuali attinenti: a) all’inutilizzabilità degli atti acquisiti dal PM e delle indagini investigative svolte dallo stesso; b) alla nullità delle imputazioni per indeterminazione delle stesse, alla inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal S. al direttore della Casa Circondariale di Oristano (dott. F.), sono generiche e comunque infondate trattandosi di atti legittimi, come già esaustivamente argomentato dalla Corte Territoriale; atti in ordine ai quali i ricorrenti hanno esercitato nella loro pienezza il diritto di difesa.

Peraltro, in riferimento alle dichiarazioni rese da S. al dott. F., si evidenzia che trattavasi di atti espletati in sede amministrativa e non ai sensi dell’art. 63 c.p.p.. Quanto all’eccezione relativa alla difformità tra il dispositivo e la motivazione della sentenza di 1 grado (ricorso A.), la stessa è palesemente infondata. Invero mediante il deposito della sentenza risultava evidente che la declaratoria di prescrizione riguardava l’episodio di tentativo di violenza sessuale, commesso nel 1998 in danno di F.S.; mentre la declaratoria di condanna era attinente agli episodi di violenza sessuale commessi in danno di A.R., come analiticamente contestata in atti (fatti commessi rispettivamente il primo in data prossima al 2000, il secondo in data prossima al 2002).

In ordine alle citate violenze sessuali per cui vi è stata condanna penale, l’ A. è stato posto in grado di esercitare nella sua interezza il diritto di difesa, mediante impugnazione in Appello della sentenza di 1 grado, gravame tempestivamente proposto.

Ancora i reati di violenza sessuale contestati ad entrambi gli imputati erano procedibili di ufficio, perchè commessi dagli stessi – che rivestivano la qualifica di pubblici ufficiali in quanto appartenenti alla Polizia Penitenziaria – nell’espletamento delle loro funzioni; il tutto come previsto esplicitamente dalla norma di cui all’art. 609 septies c.p., comma 4 n. 3.

Vanno respinti, pertanto, i ricorsi proposti da A.L. e S.M., con condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, Sent., 19-09-2011, n. 2235

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Svolgimento del processo

Con l’odierno ricorso, presentato alla notifica il 29 aprile 2011 e depositato il successivo 25 maggio 2011, l’esponente ha impugnato il provvedimento in epigrafe specificato, assumendone la illegittimità sotto più profili.

In sostanza, ciò di cui l’istante si duole, è che la Prefettura di Lecco abbia rigettato la dichiarazione di emersione presentata in proprio favore dal sig. Quinto Pietro, sull’unico presupposto della falsità della dichiarazione stessa, emergente dagli atti del processo penale n. 3221/09, e senza attuare alcun contraddittorio con l’istante, escluso dal procedimento amministrativo che ha condotto all’adozione dell’atto qui gravato, benché asseritamente estraneo alle ipotesi di reato ascritte a carico del proprio datore di lavoro.

Si è costituito l’intimato Ministero, controdeducendo con separata memoria (depositata il 6 giugno 2011) alle censure avversarie e sollevando, altresì, un’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del gravame.

Stando alla documentazione prodotta in giudizio dall’avvocatura erariale, il sig. Quinto Pietro avrebbe presentato ben otto domande di emersione per cittadini extracomunitari irregolari, tutti asseritamente impiegati alle proprie dipendenze come collaboratori domestici.

Da ciò l’indagine avviata dalla Questura di Lecco, che ha portato al procedimento penale n. 3221/2009 Registro notizie di reato, iscritto presso la Procura della Repubblica di Lecco (richiamato nelle premesse dell’atto impugnato), e conclusosi, per il sig. Quinto Pietro, con la sentenza di applicazione della pena (di anni 3 di reclusione ed euro 1.000,00 di multa) su richiesta delle parti, oltre la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque (n. 666/2011 del Tribunale di Lecco), per favoreggiamento della permanenza illegale di stranieri irregolari sul territorio nazionale, dietro pagamento di somme da 2.000,00 a 5.000,00 euro per straniero, di cui 500,00 euro spettanti ai datori di lavoro fittizi.

Con motivi aggiunti depositati in data 05.07.2011 l’esponente ha ulteriormente censurato il provvedimento in epigrafe specificato, lamentando l’inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione perpetrata dall’amministrazione con la produzione documentale allegata alla memoria del 6.06.2011.

Alla Camera di Consiglio dell’8.09.2011 il Collegio, valutata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti presenti, ha trattenuto la causa per la decisione con sentenza in forma semplificata.

Motivi della decisione

Il Collegio ritiene di poter prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità per difetto di legittimazione attiva sollevata da parte resistente, stante la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso.

Osserva il Collegio come, ai sensi dell’art. 1 ter D.L. 01.07.2009 n. 78, convertito in legge 03.08.2009 n.102:

"Le disposizioni del presente articolo si applicano ai datori di lavoro… che alla data del 30 giugno 2009 occupavano irregolarmente alle proprie dipendenze, da almeno tre mesi, lavoratori italiani o cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero lavoratori extracomunitari, comunque presenti nel territorio nazionale, e continuano ad occuparli alla data di presentazione della dichiarazione di cui al comma 2, adibendoli:

a) ad attività di assistenza per se stesso o per componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza;

b) ovvero al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare…".

Ebbene, è sufficiente la lettura del primo comma della richiamata norma per avvedersi della ratio della procedura in questione, racchiusa nella necessità di favorire l’emersione dalla clandestinità di quanti, fra gli stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale, siano dediti allo svolgimento, nei modi e nei termini sopra descritti, di attività lavorativa.

Appare, altresì, chiaro come, non soltanto l’iniziativa della regolarizzazione spetti al datore di lavoro, ma come siano a costui imputabili anche tutti gli ulteriori adempimenti richiesti dal legislatore, a garanzia della serietà dell’intento di regolarizzazione (così, ad esempio, a proposito della richiesta di attestazione del possesso di un reddito imponibile annuo non inferiore ad una certa soglia, ovvero, quanto alla richiesta di proposta del contratto di soggiorno previsto dall’ articolo 5bis del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; cfr. art. 1 ter, co. IV°, lett. d) e g).

In altri termini, ciò che il legislatore ha inteso scongiurare con la norma in esame è proprio l’abuso della eccezionale procedura in questione, perpetrabile attraverso la presentazione di dichiarazioni false o comunque prive di seri riscontri in ordine alla effettiva sussistenza di un rapporto di lavoro da regolarizzazione.

Da ciò, anche le limitazioni previste dalla richiamata norma, come quella contemplata al comma 6°, per cui: "La dichiarazione… è limitata, per ciascun nucleo familiare, ad una unità per il lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare e a due unità per le attività di assistenza a soggetti affetti da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza…".

Date le suesposte premesse, è evidente, nel caso che qui occupa, la legittimità dell’operato dell’amministrazione che, accortasi della presentazione di un numero eccessivo di dichiarazioni di emersione da parte dello stesso datore di lavoro (ben otto, anziché una, come previsto per il lavoro domestico) ha effettuato ulteriori accertamenti, onde svelare eventuali profili di responsabilità penale a carico del dichiarante.

In tal senso, non è chi non veda come il coinvolgimento del sig. Quinto in un procedimento penale per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (poi conclusosi con la sentenza penale sopra citata) non possa non ripercuotere i suoi effetti sul presunto lavoratore aspirante all’emersione, atteso che, tra l’altro, nessuna dimostrazione è stata fornita da quest’ultimo nel senso della effettività del rapporto di lavoro asseritamente intercorso col sig. Quinto.

Erra, infatti, la difesa ricorrente, nel ritenere che sia sufficiente a fondare la buona fede del sig. M.E., l’affermazione della falsità delle restanti sette dichiarazioni, con salvezza della propria, atteso che, gli accertamenti condotti dall’autorità giudiziaria hanno evidenziato il carattere tutt’altro che episodico della condotta del sig. Quinto, il quale, in concorso con altri e in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, ha avanzato una pluralità d false dichiarazioni di emersione, fra cui quella nei confronti del ricorrente.

Non rileva, quindi, che il ricorrente non sia stato attinto – allo stato – da alcuna condanna, perché le responsabilità accertate a carico del presunto datore di lavoro sono sufficienti all’amministrazione per motivare il rigetto della domanda di emersione, trattandosi di domanda fittizia e, come tale, priva di ogni riscontro.

L’accertamento della falsità del rapporto di lavoro, oggetto della dichiarazione di emersione, non può non ripercuotere i suoi effetti, almeno in sede amministrativa, su entrambe le parti del predetto rapporto, benché l’accertamento della falsità del medesimo sia avvenuto in sede penale soltanto nei confronti dell’aspirante datore di lavoro.

Il richiamo a tale evenienza, benché succintamente contenuto nel decreto di rigetto qui gravato, deve ritenersi sufficiente a giustificare la determinazione negativa assunta dall’amministrazione nella procedura che qui occupa.

Né rilevano le dedotte carenze partecipative a carico dell’istante, poiché in alcuna parte del ricorso e dei motivi aggiunti o della documentazione versata in atti da parte ricorrente sono stati forniti elementi idonei a dimostrare, a dispetto di quanto risultante dagli accertamenti dell’autorità giudiziaria penale, l’effettività del rapporto di lavoro posto in essere dal ricorrente col dichiarante l’emersione e, quindi, l’utilità di una partecipazione procedimentale del primo, per scongiurare l’esito negativo della procedura de qua.

Giova ribadire, infatti, che contrariamente a quanto affermato dalla difesa ricorrente, finanche nei motivi aggiunti, la prova della falsità della domanda di emersione emerge chiaramente dalla sentenza penale depositata in atti, la quale, se non può valere a sanzionare penalmente anche l’istante, è sufficiente a sorreggere in sede amministrativa una determinazione di rigetto della procedura di emersione, avviata sulla base di una dichiarazione di emersione non veritiera, proveniente da un aspirante datore di lavoro a carico del quale è stata pronunciata una sentenza di applicazione della pena su richiesta, per il reato, fra gli altri, di favoreggiamento della permanenza illegale di extracomunitari nel territorio nazionale mediante la presentazione di false dichiarazioni di emersione.

Tanto basta a sorreggere il rigetto dell’odierno gravame e dei motivi aggiunti, stante la manifesta infondatezza delle dedotte censure.

Sulle spese il Collegio, in considerazione della natura della controversia, ritiene sussistano giusti motivi per disporne la compensazione fra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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