Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-03-2011) 23-09-2011, n. 34539

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 11 giugno 2010 il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., ha respinto la richiesta di riesame proposta avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa il 21 maggio 2010 dal G.i.p. dello stesso Tribunale nei confronti di P.F. cl. (OMISSIS), sottoposto a indagini per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., contestato al capo 1) della Imputazione provvisoria, con riguardo alla partecipazione all’associazione mafiosa denominata ‘ndrina Pesce, operante in Rosarno e zone limitrofe, con il ruolo di collegamento e trasmissione delle comunicazioni e degli ordini tra i vertici del sodalizio in stato di detenzione (in particolare Pe.

A. cl. (OMISSIS), detto (OMISSIS), zio dell’indagato) e gli altri associati (primo fra tutti P.G., detto (OMISSIS), padre dell’indagato).

2. Il Tribunale premetteva che P.F., unitamente ad altri coindagati, era stato sottoposto a fermo di indiziato di delitto, disposto dalla Procura D.D.A. di Reggio Calabria il 26 aprile 2010, eseguito il 28 aprile 2010, e che il G.i.p. del Tribunale di Palmi, che non aveva convalidato il fermo per l’insussistenza del pericolo di fuga, con ordinanza del 1 maggio 2010 aveva disposto la custodia cautelare in carcere, ravvisando nei confronti dell’indagato indizi di colpevolezza con riferimento al delitto contestato, e aveva dichiarato la propria incompetenza per territorio, trasmettendo gli atti al P.M. presso il Tribunale di Palmi per i provvedimenti di sua competenza ai sensi dell’art. 27 cod. proc. pen..

Detta ordinanza era stata confermata in sede di riesame, e il 21 maggio 2010 il G.i.p. del Tribunale di Reggio Calabria aveva disposto, a seguito delle richieste del P.M. distrettuale in sede del 5 e 12 maggio 2010, l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, con valutazioni, quanto alla gravità del quadro indiziario e alle esigenze cautelari, perfettamente coincidenti con quelle già espresse dal G.i.p. del Tribunale di Palmi.

3. Tanto premesso, il Tribunale, dopo aver richiamato i principi di diritto regolanti il riesame della misura cautelare, rilevato lo stretto collegamento e la complementarietà tra il provvedimento restrittivo della libertà personale e l’ordinanza che decide sul riesame, e analizzati elementi caratterizzanti la fattispecie associativa prevista dall’art. 416-bis cod. pen., argomentava la decisione, ritenendo l’infondatezza delle richieste difensive volte a contestare la sussistenza del quadro indiziario e delle esigenze cautelari, per essere specifici e gravi gli elementi indiziari circa la sussistenza della fattispecie criminosa oggetto di addebito e la sua riferibilità all’indagato, e ricorrenti le esigenze cautelari.

3.1. La vicenda sottoposta ad esame era inquadrata nel contesto, ampiamente descritto, della esistenza e operatività della ed. cosca Pesce e della accertata esistenza di una confederazione di ‘ndrine (essenzialmente le famiglie Piromalli, Molè, Pesce, Bellocco), volta al controllo, con metodo mafioso, del territorio del Porto di Gioia Tauro, e della progressiva ascesa criminale di Pe.An. cl.

(OMISSIS), detto (OMISSIS), che, alla morte dello zio P.G. cl.

(OMISSIS), aveva assunto di fatto le redini della cosca, e che, grazie al prestigio e al potere mafioso goduto fra la popolazione locale, aveva fruito durante il decennale periodo di latitanza, terminato il 7 febbraio 1993, di protezione e favori negli ambienti della malavita e di appoggi economici. Tale potere di direzione della "ndrina Pesce era stato esercitato dal predetto anche durante la sua detenzione carcerarla, continuando a mantenere il ruolo di "capo carismatico del gruppo", per mezzo di direttive Impartite ai familiari sulla gestione dei più importanti affari di interesse della cosca e con interventi volti a dirimere gli accesi contrasti insorti, all’interno del clan, tra i diversi soggetti aspiranti a ricoprire un ruolo verticistico, ovvero il figlio F. cl. (OMISSIS), pure detto (OMISSIS), e i fratelli, G., detto (OMISSIS), e V., detto (OMISSIS).

3.2. Gli elementi indiziari a carico di P.F. cl. (OMISSIS), compendiati essenzialmente nella informativa integrativa dell’11 aprile 2009 del RONO dei Carabinieri di Reggio Calabria, erano costituititi da alcuni colloqui intercettati tra il medesimo e lo zio detenuto P.A., che dava al nipote ordini e disposizioni da portare all’esterno, e in particolare:

– il colloquio del 25 gennaio 2007, intercorso tra P.A., suo figlio F. cl. (OMISSIS), il nipote P.F. cl. (OMISSIS) (odierno indagato) e Gi.Ro..

Nel corso di detto colloquio, P.A. aveva affidato al nipote F. il compito di far pervenire al proprio fratello G., padre dello stesso F., i messaggi inerenti alle modalità di conduzione degli affari della cosca e alla garanzia sui futuri comportamenti rispettosi del figlio F. cl. (OMISSIS).

Tale colloquio rivelava, ad avviso del Tribunale, il ruolo di P. F. cl. (OMISSIS), quale tramite tra lo zio P.A. e il padre P.G.; dimostrava il clima di tensione creatosi all’interno della ‘ndrina Pesce tra il giovane Pe.Fr. cl.

(OMISSIS) e gli zii P.G. e V., emerso nel corso della svolta indagine; confermava il ruolo di capo carismatico della cosca del detenuto P.A., capace di rivendicare a sè la posizione di supremo comando dell’associazione e di evitare l’indebolimento del clan, placando i contrasti interni e inducendo l’esuberante figlio F. a rispettare gli zii; evidenziava l’intraneità al contesto associativo dell’indagato P.F. cl. (OMISSIS), in quanto "portavoce" all’esterno di un importante messaggio per la ricomposizione degli insorti dissidi, affidatogli dal boss, personalmente garante dei futuri comportamenti rispettosi del figlio, e in quanto destinatario di specifiche direttive circa le modalità di conduzione degli affari nell’ottica del potenziamento della già solida struttura economica della "ndrina Pesce; escludeva la fondatezza dei rilievi difensivi volti a ricondurre il contenuto dello stesso dialogo a un colloquio di carattere puramente familiare, a svilire il ruolo di messaggero dell’indagato e a riconoscere tale ruolo a Gi.Ro., pure presente e richiesto da P. A. di fare anche da tramite tra il figlio F. e il fratello G.;

– il colloquio del 12 aprile 2007 tra il detenuto P.A., il figlio Fr. cl. (OMISSIS) e il nipote P.F. cl.

(OMISSIS).

Nel corso di detto colloquio l’indagato aveva dimostrato la perfetta conoscenza delle diverse questioni che costituivano oggetto della preoccupazione dello zio detenuto, e, senza bisogno di particolari spiegazioni, aveva subito afferrato i riferimenti degli altri conversanti alle riferite vicende.

Il comportamento tenuto dal predetto, che aveva continuato a portare avanti la sua funzione di tramite tra lo zio detenuto e l’esterno, attestava "in maniera Inequivocabile" la stretta sudditanza del medesimo alle direttive dello zio, che all’obbediente nipote aveva affidato i messaggi da recapitare al fratello G. in ordine alla gestione dei rapporti conflittuali con il figlio Fr. cl. (OMISSIS), e in ordine a un affare economico, oggetto del colloquio, coinvolgente verosimilmente gli interessi dei fratelli G. e V..

3.3. Da tali colloqui erano desumibili, secondo il Tribunale, elementi tali da far ritenere pienamente Integrato il quadro di gravità indiziaria della partecipazione dell’indagato all’associazione mafiosa, denominata ‘ndrina Pesce, con il ruolo di assicurare lo scambio di informazioni tra lo storico capocosca detenuto P.A. e gli altri esponenti di vertice del sodalizio, tra cui il padre P.G., e con quello di contribuire alla gestione di alcune iniziative economiche di riferimento del clan secondo le direttive dello zio.

4. Le esigenze cautelari trovavano fondamento nella presunzione di pericolosità sociale, posta dall’art. 275 c.p.p., comma 3 nei confronti dell’indagato del delitto di associazione di tipo mafioso, superabile con la dimostrazione della stabile rescissione da parte dell’assodato dei legami con l’organizzazione criminosa, nella specie non provata, tenuto anche conto della provata perdurante operatività del sodalizio.

5. Il provvedimento cautelare andava confermato anche nella parte in cui era stato disposto il sequestro preventivo dell’auto Audi A3 TDL, intestata a T.M.C., moglie dell’indagato P. F. cl. (OMISSIS), rispetto al quale erano state avanzate censure incidentali unicamente nella memoria depositata in cancelleria, contestualmente allo svolgimento dell’udienza camerale, dall’avv. Domanico, avuto riguardo alla sicura sussistenza del fumus commissi delicti del reato contestato, alla intraneità dell’indagato alla cosca Pesce costantemente Impegnata nel reimpiego dei capitali illeciti e alla mancanza di contrarie concrete allegazioni in merito alla provenienza del denaro necessario all’acquisto del veicolo.

6. Avverso detta ordinanza reiettiva della richiesta di riesame, ha proposto due ricorsi per cassazione, per mezzo dei suoi difensori di fiducia, P.F. che ne chiede l’annullamento.

6.1. Con il ricorso presentato per mezzo dell’avv. Cacciola, il ricorrente deduce con unico motivo erronea applicazione e/o violazione di legge con riferimento all’art. 273 cod. proc. pen. e manifesta illogicità, contraddittorietà (e travisamento del fatto) della motivazione.

Il ricorrente rileva che, a fronte della formulata contestazione e della lunga e articolata attività di indagine, due sono in assoluto i contatti da lui tenuti con lo zio P.A., senza che siano risultati suoi contatti con gli altri associati, il suo utilizzo da parte dello zio come nuncius per collegamenti criminali/mafiosi con l’esterno e suoi incontri con il padre G., dopo quelli avuti con lo zio.

Secondo il ricorrente tali limitati contatti, occasionali ed eccezionali, privi di alcuna prova del passaggio ulteriore della destinazione all’esterno dell’ordine ricevuto, e quindi del necessario dinamismo del contributo offerto in concreto, dimostrano la carenza strutturale della gravità indiziaria in ordine all’ipotesi criminosa contestata.

Tale carenza è evidenziata, ad avviso del ricorrente, dal contenuto dei colloqui, atteso che:

– il primo del 25 gennaio 2007 contiene un’ambasceria proposta da P.A., attinente a una questione di natura familiare- personale che riguarda i rapporti tra il figlio Fr. cl. (OMISSIS) e il fratello G., e non questioni di natura criminale- mafiosa; tale ambasceria è stata poi dirottata sul solo Gi.

R.; P.A. ha manifestato il proposito di incontrare il fratello, dando ai presenti consigli ed esortazioni verso attività di natura lecita, senza che il ricorrente abbia mai fatto sentire la sua voce che consentisse di desumerne l’assenso o la condivisione delle cose o delle questioni ascoltate;

– il secondo del 12 aprile 2007 contiene il riferimento a una segnalazione fatta da P.A. al ricorrente di altra questione di natura personale e familiare intervenuta con il fratello V., a fronte della quale il fratello G. doveva reagire in un certo modo, e uno scorcio di dialogo "di non facile comprensione". 6.2. Con il secondo ricorso, presentato per mezzo dell’avv. Francesco Saverio Fortuna, il ricorrente articola quattro motivi.

6.2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c), formale inosservanza dei canoni normativi di valutazione della prova cautelare di cui agli artt. 192 e 273 cod. proc. pen. e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 416-bis cod. pen..

Si assume che il Tribunale ha posto a sostegno della misura cautelare un singolo indizio cautelare, consistente nella mera presenza passiva, quasi di mero ascolto, del ricorrente a due colloqui in carcere con P.A. cl. (OMISSIS) e altri familiari, ritenendolo sintomatico della partecipazione dello stesso a consorteria mafiosa, e che, viceversa, dalla visione e dall’ascolto del "brogliaccio" emerge in modo certo che P.A. si è rivolto durante i colloqui agli altri interlocutori più qualificati, escludendosi In tal modo un ruolo dinamico e funzionale dell’incensurato ricorrente.

Si aggiunge che la gravità del quadro indiziario in ordine al delitto associativo non poteva basarsi solo sulle due isolate captazioni ambientali, in mancanza di ulteriori gravi e convergenti elementi (qualifica di uomo d’onore, precedenti penali e giudiziari, assoggettamento a misure di prevenzione, pregresso coinvolgimento in procedimenti penali), e in mancanza della prova del contributo effettivo e attuale prestato dal ricorrente, con partecipazione psicologica, all’esistenza e al rafforzamento dell’associazione, attraverso un ruolo continuativo e non occasionale come invece è emerso, e della prova della effettiva trasmissione degli ordini all’esterno e della commissione di reati fine.

6.2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c), erronea applicazione della legge processuale e illogica valutazione della prova cautelare in relazione agli artt. 192, 273 e 266 e segg. cod. proc. pen..

Si assume che il Tribunale ha interpretato il significato delle due captazioni ambientali del 25 gennaio 2007 e del 12 aprile 2007, criptiche anche dopo il loro video-ascolto, in maniera del tutto avulsa dal loro obiettivo significato dando un risultato contrario agli atti del procedimento, ai criteri della logica e alle massime di esperienza, atteso che:

– nella prima conversazione (dalla durata di un’ora, cinquantasei minuti e trentotto secondi) P.A. si è rivolto tre volte a Gi.Ro., dicendogli di fare da tramite tra il figlio F. e il fratello, e il ricorrente è stato destinatario di esortazioni e auspici da parte dello zio a comportarsi bene e a occuparsi solo di attività lecite;

– nella seconda conversazione il ricorrente è intervenuto con pochissime battute e manca qualsiasi indizio sull’oggetto della conversazione, pervenendosi da parte del Tribunale a conclusioni non giustificabili e non spiegate e senza eliminazione dei dubbi derivanti dalla incomprensibilità del testo, in mancanza di qualsiasi riscontro.

6.2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c), erronea applicazione della legge penale e motivazione illogica in relazione all’art. 274 c.p.p. e art. 275 c.p.p., comma 3.

Si osserva che l’art. 275 c.p.p., comma 3, pone una presunzione relativa di pericolosità sociale e una assoluta di adeguatezza e proporzionalità della misura, e che il Tribunale ha omesso di motivare sulle ragioni per le quali ha ritenuto irrilevanti le circostanze dedotte dalla difesa in punto di esclusione delle esigenze presunte (risalenza delle condotte, incensuratezza, mancanza di problemi con la giustizia), senza che sia necessaria la prova positiva della rescissione del vincolo associativo.

6.2.4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità In relazione all’art. 111 Cost., art. 125 c.p.p., comma 3, artt. 292, 309, 321 e 324 cod. proc. pen., e motivazione contraria agli atti del procedimento, rilevando che il Tribunale ha erroneamente affermato che il riesame fosse limitato alla sola misura personale quando invece aveva riguardato anche il disposto sequestro preventivo dell’autovettura Audi A3 TDI, intestata alla moglie di esso ricorrente.

Con lo stesso quarto motivo si censura l’ordinanza, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), per erronea applicazione della legge processuale e per motivazione carente, in relazione all’art. 321 cod. proc. pen., art. 240 c.p.p., comma 2, e art. 416-bis cod. pen., sul rilievo che il Tribunale ha motivato per relationem all’ordinanza cautelare, che nulla diceva in merito al vincolo reale, e ha omesso di motivare sulle doglianze difensive attinenti alla illegittimità del disposto sequestro e sviluppate con la memoria (quanto alla mancanza del nesso di pertinenzialità tra la res e l’indagine, alla mancanza di motivazione del periculum, alla sproporzione tra redditi dell’indagato e bene sequestrato e alla mancata giustificazione della lecita provenienza dello stesso, essendo stato il bene acquistato con contratto di finanziamento con pagamento rateizzato).

7. Nell’interesse del ricorrente sono state depositate brevi note di udienza datate 18 marzo 2011, con le quali, nel richiamarsi al secondo motivo del secondo ricorso, si propone un motivo unico aggiunto, deducendosi, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c), inosservanza della legge processuale, e in particolare degli artt. 192, 266 e segg. e 273 cod. proc. pen. e art. 416-bis cod. pen., e carenza della motivazione, e, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed c), erronea applicazione della legge processuale e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 274 c.p.p., e art. 275 c.p.p., comma 3, e art. 309 cod. proc. pen..

In particolare, si contestano la gravità del quadro indiziario e la sussistenza delle esigenze cautelari, con richiamo, da un lato, alle risultanze di una consulenza tecnica di parte del 13 novembre 2010, avente ad oggetto la trascrizione delle conversazioni video- ambientali del 25 gennaio 2007 e del 14 aprile 2007 e che, depositata in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, conferma "la posizione meramente passiva di P.F. cl. (OMISSIS) alle indicate conversazioni ambientali" e l’attribuzione da parte del Tribunale del valore di massima di esperienza a mere congetture, non verificate empiricamente, e con richiamo, dall’altro lato, all’Intervenuto decesso del padre del ricorrente nel mese di agosto 2010, incidente sul quadro dell’attualità della pericolosità in rapporto alla condotta contestata.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è Infondato.

2. Quanto all’unico motivo sviluppato con il primo ricorso presentato per mezzo dell’avv. Cacciola e ai due primi motivi del secondo ricorso, presentato per mezzo dell’avv. Fortuna, richiamati con le note di udienza e attinenti al quadro indiziarlo di colpevolezza, si osserva che le vantazioni da compiersi dal giudice al fini dell’adozione di una misura cautelare personale devono essere fondate, secondo le linee direttive della Costituzione, con il massimo di prudenza su un incisivo giudizio prognostico di "elevata probabilità di colpevolezza", tanto lontano da una sommaria delibazione e tanto prossimo a un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poichè di tipo "statico" e condotto, allo stato degli atti, sui soli elementi già acquisiti dal Pubblico Ministero, e non su prove, ma su Indizi (Corte Cost, sent. n. 121 del 2009, ord. n. 314 del 1996, sent. n. 131 del 1996, sent. n. 71 del 1996, sent. n. 432 del 1995).

2.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di misure cautelari personali, non è richiesto il requisito della precisione e della concordanza, ma quello della gravità degli indizi di colpevolezza, per tali intendendosi tutti quegli elementi a carico ancorati a fatti certi, di natura logica o rappresentativa, che non valgono di per sè a dimostrare, oltre ogni dubbio, la responsabilità dell’indagato e tuttavia sono tali da lasciar desumere con elevata valenza probabilistica l’attribuzione del reato al medesimo (Sez. U, n. 11 del 21/04/1995, dep. 01/08/1995, Costantino e altro, Rv. 202002, e, tra le successive conformi, Sez. 2, n. 3777 del 10/09/1995, dep. 22/11/1995, Tomasello, Rv. 203118;

Sez. 6, n. 863 del 10/03/1999, dep. 15/04/1999, Capriati e altro, Rv.

212998; Sez. 6, n. 2641 del 07/06/2000, dep. 03/07/2000, Pascola, Rv.

217541; Sez. 2, n. 5043 del 15/01/2004, dep. 09/02/2004, Acanfora, Rv. 227511), e la loro valutazione, a norma dell’art. 273 c.p.p., comma 1-bis, deve procedere applicando, tra le altre, le disposizioni contenute nell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che delineano, pertanto, i confini del libero convincimento del giudice cautelare (Sez. F, n. 31992 del 28/08/2002, dep. 26/09/2002, Desogus, Rv. 222377; Sez. 1, n. 29403 del 24/04/2003, dep. 11/07/2003, Esposito, Rv. 226191; Sez. 6, n. 36767 del 04/06/2003, dep. 25/09/2003, Grasso Rv. 226799; Sez. 6, n. 45441 del 07/10/2004, dep. 24/11/2004, Fanara, Rv. 230755; Sez. 1, n. 19867 del 04/05/2005, dep. 25/05/2005, Cricchio, Rv. 232601).

2.2. Si è, inoltre, osservato che, in tema di misure cautelari personali, quando sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame riguardo alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il controllo di legittimità è limitato, in relazione alla peculiare natura del giudizio e ai limiti che a esso ineriscono, all’esame del contenuto dell’atto impugnato e alla verifica dell’adeguatezza e della congruenza del tessuto argomentativo riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (tra le altre, Sez. 4, n. 2050 del 17/08/1996, dep. 24/10/1996, Marseglia, Rv. 206104; Sez. 6, n. 3529 del 12/11/1998, dep. 01/02/1999, Sabatini G., Rv. 212565; Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, dep. 02/05/2000, Audino, Rv. 215828; Sez. 2, n. 9532 del 22/01/2002, dep. 08/03/2002, Borragine e altri, Rv. 221001; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, dep. 08/06/2007, Terranova, Rv. 237012), senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa e, per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini (tra le altre, Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, dep. 12/12/1994, De Lorenzo, Rv. 199391; Sez. 1, n. 1496 del 11/03/1998, dep. 04/07/1998, Marrazzo, Rv. 211027; Sez. 1, n. 6972 del 07/12/1999, dep. 08/02/2000, Alberti, Rv. 215331).

Il detto limite del sindacato di legittimità in relazione alla gravità degli indizi riguarda anche il quadro delle esigenze cautelari, essendo compito primario ed esclusivo del giudice della cautela valutare "in concreto" la sussistenza delle stesse e rendere un’adeguata e logica motivazione (Sez. 1, n. 1083 dei 20/02/1998, dep. 14/03/1998, Martorana, Rv. 210019).

3. Nel caso di specie, la ricostruzione dei fatti e l’indicazione del quadro Indiziarlo a carico dell’indagato, operate dal Tribunale, sono conformi ai principi di diritto suddetti, congrui e coerenti con le acquisizioni processuali richiamate nella decisione, e conformi ai canoni della logica e della non contraddizione.

3.1. Il Tribunale, infatti, esattamente interpretando le norme applicate alla luce dei principi di diritto fissati da questa Corte, e dando conto adeguatamente delle ragioni della propria decisione, ha ritenuto sussistente a carico del ricorrente una solida piattaforma indiziaria, con riferimento alla contestata condotta di partecipazione all’associazione criminosa di stampo mafioso denominata ‘ndrina Pesce, e ha ancorato il proprio giudizio a elementi specifici risultanti dagli atti, dalla cui valutatone globale ha tratto un giudizio in termini di qualificata probabilità circa l’attribuzione del reato contestato al predetto.

Sono stati, infatti, valorizzati due colloqui intercettati, Intercorsi tra il ricorrente e lo zio detenuto P.A., e coerentemente inquadrati nel contesto, ampiamente descritto, della esistenza e operatività della ‘ndrina Pesce, dell’interscambio tra i componenti della stessa In stato di detenzione e l’esterno, dell’acceso contrasto apertosi per la copertura di ruolo verticistico in seno allo stesso clan tra Pe.Fr. cl. (OMISSIS) e P. G. cl. (OMISSIS), rispettivamente figlio e fratello di P. A., storico esponente di vertice detenuto, del persistente esercizio del potere di direzione e gestione esercitato da quest’ultimo a mezzo di direttive Impartite ai familiari, e della sua persistente posizione di garante degli equilibri interni alla stessa ‘ndrina.

Il Tribunale, procedendo a logica lettura e plausibile interpretazione del contenuto dei colloqui, ha rilevato che dagli stessi si traggono elementi univoci della intraneità del ricorrente nella ‘ndrina di riferimento, evidenziando, con richiami alla loro trascrizione, riportata nell’ordinanza, che:

– nel colloquio del 25 gennaio 2007 P.A., in presenza del figlio Fr. cl. (OMISSIS) e di Gi.Ro., non solo ha affidato al ricorrente, figlio del fratello G., il compito di far pervenire al padre suoi messaggi in materia di conduzione degli affari della cosca, ma anche di porsi come suo portavoce per confermarne il ruolo di garante nella ricomposizione dei dissidi insorti tra i componenti della famiglia, e in particolare dei rapporti conflittuali tra il fratello G. e il figlio F., in vista del mantenimento inalterato del potere mafioso;

– nel colloquio del 12 aprile 2007 il ricorrente non solo ha dimostrato di essere perfettamente a conoscenza delle diverse vicende, oggetto della conversazione con lo zio P.A. e il cugino P.F., senza bisogno di particolari spiegazioni, ma ha dimostrato di avere margini di operatività con riferimento alle questioni di interesse della cosca, e di essere fedele tramite tra lo zio detenuto e l’esterno, rassicurando lo stesso in merito alla trasmissione da parte sua delle direttive ai destinatari, senza bisogno che il medesimo scrivesse dal carcere.

Tale analisi non è stata disgiunta dalla valutatone delle deduzioni difensive, delle quali è stata esclusa la fondatezza, adeguatamente evidenziandosi, in rapporto al contenuto dei colloqui e delle direttive impartite da P.A., alle preoccupazioni dallo stesso espresse e alle finalità avute di mira, che i contenuti delle conversazioni non erano riferibili a normali affari di famiglia, il suggerimento rivolto da P.A. anche al ricorrente di comportarsi onestamente senza "toccare il codice penale" esprimeva il progetto di intraprendere attività solo In apparenza "pulite" per potenziare la struttura economica della ‘ndrina, evitando le attenzioni delle Forze dell’ordine, il compito di recapitare al fratello G. l’importante messaggio per la ricomposizione dei dissidi interni e per la conduzione degli affari della cosca era stato affidato da P.A. al ricorrente, e il ruolo rivestito da quest’ultimo non era mai apparso meramente passivo nel corso dei colloqui con riferimento alle questioni di interesse della cosca.

3.2. A fronte di detto articolato e logico giudizio espresso dal Tribunale, il ricorrente ha opposto censure, che, pur prospettate come deduzioni dimostrative della violazione delle regole di valutazione del quadro indiziario e della illegittimità e inadeguatezza della motivazione, sono censure di merito volte a prospettare – riconducendo l’ambasceria proposta da P.A. al ricorrente nel primo colloquio e la sua segnalazione fatta allo stesso nel secondo colloquio a questioni di natura familiare- personale e le sue direttive a consigli e auspici verso attività di natura lecita, e considerando il secondo colloquio di non facile comprensione, ed entrambi di significato criptico – una lettura alternativa, parziale e incerta della vicenda processuale e dei dati fattuali, logicamente e ampiamente analizzati anche alla luce della compiuta analisi delle argomentazioni difensive; una diversa interpretazione delle risultanze delle indagini e della specifica consistenza dei dati indizianti attraverso la minimizzazione a mera presenza passiva del ruolo avuto dal ricorrente, l’esclusione del necessario dinamismo del contributo dato e la deduzione del dirottamento dell’ambasceria sul solo Gi.Ro.; una diversa valutazione della loro concludenza, attraverso la prospettazione della inidoneità delle captazioni ambientali a integrare la gravità del quadro indiziario in ordine al delitto associativo.

3.3. Nè l’alternativa lettura dei dati indiziari acquisiti, dei quali il Tribunale ha dato ampio conto, concordando con la coerente valutazione svolta nel provvedimento impositivo, il cui contenuto ha recepito e confermato, e sviluppando, rispetto allo stesso, le valutazioni critiche alla luce delle obiezioni e deduzioni difensive fatte oggetto dei motivi del riesame, può essere legittimamente introdotta, come proposto dal ricorrente, attraverso la tardiva produzione di una consulenza di parte, a mezzo note di udienza, e attraverso la prospettazione di una possibile diversa analisi delle emergenze del colloquio, in contrasto con la preclusione, in questa sede, di un dissenso di merito di fronte ad una motivazione logicamente e congruamente articolata.

4. Destituito di fondamento è anche il terzo motivo del secondo ricorso che attiene alla Inesistenza delle esigenze cautelari, riconosciute dal Tribunale, per il ritenuto superamento della presunzione di legge al riguardo.

La presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, posta dall’art. 275 c.p.p., comma 3 con riguardo al titolo del delitto contestato, di cui ricorrono i gravi indizi di colpevolezza, postula, infatti, l’acquisizione di specifici elementi perchè possa ritenersi superata, che, nella specie, sono stati ritenuti insussistenti dal Tribunale, tali non potendo ritenersi il periodo di carcerazione sofferto, l’incensuratezza, l’assenza di carichi pendenti, il non essersi dato alla latitanza, e richiedendosi invece specifiche acquisizioni probatorie con riguardo a fatti concreti che siano probativi della rescissione del vincolo associativo.

Il ricorrente, opponendo la non univocità del principio di diritto richiamato dal Tribunale, oppone gli stessi elementi che II Tribunale con logiche e coerenti argomentazioni e valutazioni ha ritenuto inidonei allo scopo. Nè l’incidenza sull’attualità delle esigenze cautelari, riferita, con le note di udienza, all’intervenuto decesso del padre del ricorrente nel mese di agosto 2010, è valutabile in questa sede attenendo a circostanza fattuale, peraltro successiva al provvedimento custodiate, estranea al giudizio di legittimità. 5. Il quarto motivo, che attiene alla misura cautelare reale del sequestro preventivo dell’autovettura Audi A3 TDI, intestata alla moglie del ricorrente, è inammissibile.

La circostanza, rilevata dal Tribunale, che, rispetto al sequestro sono state avanzate censure incidentali unicamente nella memoria depositata in cancelleria, contestualmente allo svolgimento dell’udienza camerale, dall’avv. Domanico, è coerente con le emergenze degli atti attinenti al riesame, poichè il ricorso per riesame presentato dall’avv. Cacciola ha riguardato solo l’ordinanza di custodia cautelare, alla pari della memoria depositata dallo stesso difensore all’udienza del 10 giugno 2010, mentre la memoria dell’avv. Domanico, indicata come contenente il riferimento al sequestro, ha limitato tale riferimento nelle sole conclusioni, chiedendo "l’annullamento dell’ordinanza cautelare e del decreto di sequestro preventivo", senza l’introduzione di alcuna censura e/o argomentazione pertinente alla misura cautelare reale.

6. Il ricorso, infondato nelle sue deduzioni, deve essere pertanto rigettato. Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La Cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento del Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 08-11-2011, n. 5903 Provvedimenti contingibili ed urgenti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con l’appello in esame, la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Commissario delegato per lo svolgimento dei mondiali di nuoto Roma 2009, impugna la sentenza 1 febbraio 2011 n. 904, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I, ha in parte respinto, in parte dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla Casa Generalizia dell’Istituto dei fratelli del Sacro Cuore avverso la nota 11 gennaio 2010, con la quale il Comune di Roma ha ritenuto che i lavori da essa eseguiti in base al provvedimento autorizzatorio rilasciato dal Commissario delegato per i mondiali di nuoto Roma 2009 sono "privi di titolo"; di conseguenza, è stata subordinata la regolarizzazione delle opere eseguite alla formalizzazione di domanda in sanatoria ai sensi e per gli effetti dell’art. 22 l. reg. n. 15/2008 e 36 DPR n. 380/2011.

Con il predetto ricorso in I grado era stata altresì proposta domanda di accertamento della equipollenza o della validità a tenere luogo del permesso di costruire ex art. 14 DPR n. 380/2001, del titolo autorizzatorio rilasciato dal Commissario delegato alla citata Casa Generalizia, per l’implementazione della struttura sportiva funzionale al "grande evento".

La presente controversia riguarda, in sostanza, la denegata regolarizzazione, da parte del Comune di Roma, delle opere eseguite dalla società appellante per lo svolgimento dei mondiali di nuoto Roma 2009.

Infatti, avanzata dalla società domanda di (eventuale) regolarizzazione, il Comune di Roma, con la nota 11 gennaio 2010 impugnata, ha fatto presente che quest’ultima, non essendo riconducibile ad una richiesta di permesso di costruire in sanatoria, era comunque subordinata alla formalizzazione di un’apposita domanda volta a conseguire il titolo mancante, corredata da tutta la documentazione necessaria per l’istruttoria tecnicoamministrativa.

Gli interventi realizzati erano in tal modo considerati illegittimi, perché privi di un titolo autorizzatorio edilizio. E ciò a fronte di atti (provvedimento del Commissario 27 giugno 2008) che – nella prospettazione della ricorrente in I grado – avrebbero già autorizzato i lavori di ampliamento e potenziamento del centro sportivo di sua proprietà, sussistendo il potere del Commissario delegato di definire gli interventi, in deroga alle previsioni urbanistiche vigenti.

La sentenza appellata ha innanzi tutto rilevato che:

– l’atto impugnato (nota 11 gennaio 2010 del Comune di Roma) ha carattere provvedimentale, in quanto esso "sia pure implicitamente, qualifica come abusivi gli interventi edilizi realizzati dalla Casa generalizia dell’Istituto dei fratelli del Sacro Cuore per lo svolgimento dei mondiali di nuoto Roma 2009, informando, proprio in ragione dell’attuale assenza di titolo abilitativo, che l’eventuale regolarizzazione delle opere è subordinata alla presentazione di una domanda di sanatoria";

– è inammissibile la domanda di accertamento poiché essa (e la relativa azione) "postula la natura di diritto soggettivo della posizione giuridica dedotta in giudizio che, nel caso di specie, ha invece natura di interesse legittimo". Precisa la sentenza che "d’altra parte, l’interesse sostanziale dedotto in giudizio dalla ricorrente si concreta proprio nell’accertamento della liceità e della legittimità dell’intervento edilizio realizzato per lo svolgimento dei campionati del mondo di nuoto e tale bene della vita potrebbe essere conseguito con l’eventuale accoglimento dell’azione di annullamento dell’atto dell’11 gennaio 2010 che ha qualificato come abusivi gli interventi realizzati".

Tanto premesso, la sentenza appellata, precisato che, stante il provvedimento di autorizzazione 27 giugno 2008 del Commissario delegato, "il thema decidendum della controversia è costituito dalla verifica della idoneità o meno di tale provvedimento a fungere da titolo abilitativo, atteso che l’esito di tale verifica è inevitabilmente destinato a riflettersi sul giudizio di legittimità del provvedimento impugnato che, ritenendo assente un idoneo titolo abilitativo, ha qualificato come abusivi gli interventi realizzati", afferma:

– l’art. 5 l. n. 225/1992, "nell’attribuire il potere di ordinanza in deroga alle leggi vigenti, determina un ribaltamento nella gerarchia delle fonti normative presenti nel nostro ordinamento, investendo l’autorità amministrativa del potere di derogare alla norma ordinaria, sia pure nel rispetto dei principi generali". Da ciò consegue che detto articolo "deve qualificarsi come norma eccezionale, che necessita di strettissima interpretazione e tale esigenza, se possibile, è ancora più rafforzata nella fattispecie in esame dal fatto che non si versa in una situazione emergenziale, ma si è in presenza di un "grande evento", circostanza alla quale si applicano le norme di cui all’art. 5 l. n. 225/1992, per effetto dell’estensione prevista dall’art. 5bis, co. 5, d.l. n. 343/2001;

– stante il contesto normativo ora delineato, "il potere di deroga della normativa primaria conferito all’autorità amministrativa, pertanto, è ammissibile subordinatamente non solo al carattere eccezionale e temporaneo della situazione, ma anche all’esigenza che i poteri degli organi amministrativi siano ben definiti nel contenuto, nei tempi e nelle modalità di esercizio";

– nel caso di specie, "le norme che il Commissario delegato è stato autorizzato a derogare sono solo quelle e soltanto quelle espressamente indicate nell’OPCM n. 3489/2005, non essendo consentito all’interprete – in ragione del carattere di evidente eccezionalità della norma attributiva del potere di ordinanza, che consente ad una fonte di rango inferiore di derogare ad una fonte normativa superiore – alcuna operazione estensiva, quantunque quest’ultima sia basata su plausibili argomenti ermeneutici"; in altre parole, "l’interpretazione deve essere esclusivamente letterale, limitata cioè alle norme espressamente ed inequivocabilmente indicate, e non può essere di tipo sistematico, volta cioè ad includere, sebbene in ragione di prospettazioni plausibili, anche norme non specificamente richiamate";

– l’OPCM n. 3429/2005 "ha autorizzato il Commissario delegato, ove ritenuto indispensabile, a derogare agli artt. 7, comma 1, lett. c), 14, 20, 22, 24 e 25 DPR n. 380/2001, ma non ha indicato l’art. 13 del Testo Unico in materia edilizia, secondo cui il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile del competente ufficio comunale nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici. Ne consegue che al Commissario delegato non è stato attribuito alcun potere di rilasciare il permesso di costruire per la realizzazione dei singoli interventi edilizi in luogo della competente amministrazione comunale";

– né è possibile ritenere che le opere realizzate dalla Casa Generalizia "non potrebbero essere ritenute abusive fino a quando il titolo autorizzatorio rilasciato dal Commissario delegato non sia annullato dal giudice amministrativo", poiché, essendo nullo il provvedimento amministrativo viziato da difetto assoluto di attribuzione, ex art. 21septies l. n. 241/1990, "deve qualificarsi nullo e non meramente annullabile il titolo abilitativo rilasciato dal Commissario delegato in assenza del relativo potere in data 18 giugno 2008, sicchè, correttamente, l’amministrazione comunale con l’atto impugnato ha sostanzialmente ritenuto lo stesso tamquam non esset";

– l’atto impugnato non può, peraltro, ritenersi viziato per avere il Comune di Roma "espresso nel procedimento parere favorevole all’intervento, limitatamente all’adeguamento del solo impianto natatorio e servizi connessi, atteso che l’atto impugnato non pone in discussione la compatibilità urbanistica dei lavori di ampliamento dell’impianto ma la competenza al rilascio del titolo abilitativo edilizio e la circostanza che l’amministrazione comunale non sia intervenuta in itinere per adottare atti volti a bloccare l’esecuzione delle opere non impedisce che, sebbene successivamente, posa ritenere gli interventi realizzati in assenza del permesso di costruire";

– non rileva il richiamo all’art. 14ter l. n. 241/1990, poiché l’amministrazione procedente (quella che, secondo tale norma, adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento) non avrebbe potuto essere il Commissario delegato in quanto privo della competenza al rilascio del titolo abilitativo.

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:

error in iudicando, in quanto

a) non risultano "supportate sul piano normativo" le affermazioni, contenute in sentenza, circa un difetto di potere del Commissario delegato a rilasciare il permesso di costruire, posto che l’OPCM 30 giugno 2009 n. 3787 ha esplicitamente previsto (art. 1, co. 1), che il Piano delle opere possa essere integrato anche con interventi privati, e che si prescinde dall’intesa con l’Assessore all’urbanistica e dal parere della Giunta Comunale di Roma relativamente a quegli interventi in ordine ai quali la deroga non esorbita dai limiti ordinariamente assentibili ai sensi dell’art. 14 DPR n. 380/2011. Al contrario, si prevede che l’intesa o il parere conforme della Giunta – necessari nel caso in cui la deroga alle disposizioni urbanistiche ed al regolamento edilizio, disposta dal Commissario straordinario, ecceda i detti limiti ex art. 14 – possono intervenire anche successivamente all’autorizzazione da parte del Commissario delegato, tenendo luogo, in uno all’assenso commissariale, del permesso di costruire;

b) i titoli autorizzatori rilasciati dal Commissario delegato "non possono ritenersi nulli ai sensi dell’art. 21septies della l. n. 241/1990… ma semmai annullabili su ricorso di eventuali controinteressati, per cui il Comune di Roma non può considerare le autorizzazioni alla realizzazione degli interventi emesse dal Commissario delegato tamquam non esset (con ciò che ne deriva riguardo alla qualificazione abusiva delle opere) almeno fino a quando esse non vengano annullate dal giudice amministrativo". Ciò in quanto, secondo l’appellante (sulla base di una ricognizione della normativa vigente: pagg. 14 – 20 appello), "la ripartizione dei compiti tra organi straordinari e ordinari nell’ambito del Servizio Nazionale della Protezione Civile avviene in base ad un criterio di competenza e non di separazione di attribuzioni, anche se si tratta di organi appartenenti a Enti/amministrazioni diversi (la sfera di attribuzioni è ripartita, infatti, all’interno di un "Servizio Nazionale")"; dal che consegue che, laddove si ritenesse che il Commissario delegato ha adottato un provvedimento che rientra (o è rimasto) nella competenza di un organo amministrativo ordinario (dirigente del Comune di Roma) "l’atto non potrebbe considerarsi nullo per difetto assoluto di attribuzione, ma semmai annullabile per incompetenza relativa";

c) "tutte le autorizzazioni rilasciate dal Commissario delegato sono state precedute da conferenze di servizi, in esito alle quali il Comune ha espresso, nei casi nei quali erano necessarie deroghe urbanistiche, parere contrario "fatte salve le prerogative del Commissario delegato"; tale formula è da intendere come un nulla osta all’esercizio dei poteri derogatori previsti dalle ordinanze, con particolare riguardo al d. lgs. n. 380/2001 ed al d. lgs. n. 42/2004 (artt. 146 e 147 relativi all’autorizzazione ambientale)";

d) "l’assenso del Commissario delegato produce gli stessi effetti del permesso di costruire e, pertanto, può legittimamente sostituire lo stesso, che in regime ordinario viene rilasciato dall’Amministrazione comunale". Infatti, sulla base dell’art. 1, comma 2, lett. a) ed aa) OPCM n. 3489/2005, il commissario delegato è stato "autorizzato ad esercitare tutti i poteri di pianificazione urbanistica straordinaria mediante variante, essendo ascritto allo stesso il potere di individuare le aree dove localizzare gli ampliamenti e i potenziamenti degli impianti natatori"; e ciò con un potere di deroga anche più ampio di quello già previsto dall’art. 14 DPR n. 380/2001, in quanto la citata OPCM "ha riconosciuto al Commissario delegato la possibilità di approvare i progetti degli impianti sportivi derogando alle destinazioni urbanistiche di zona, purchè tali interventi risultino inclusi nel Piano delle opere di cui all’art. 1, comma 2, lett. a)… che costituisce esso, ove occorra, variante agli strumenti urbanistici". Peraltro, "le richiamate disposizioni contenute nelle citate ordinanze non sono state impugnate dal Comune di Roma e, pertanto., non possono essere arbitrariamente disapplicate dallo stesso";

e) "l’OPCM n. 3489/2005 e ss. mm. ii.., conferisce al Commissario delegato per i mondiali di nuoto di Roma 2009 anche il potere di autorizzare l’esecuzione degli interventi"; infatti, l’interpretazione "letterale e logica" delle Ordinanze "induce inequivocabilmente a ritenere che al commissario è stata conferita non solo la prerogativa di approvare l’inserimento degli interventi edilizi nell’ambito della pianificazione urbanistica generale (il Piano delle opere, che ha valore, ove occorra, di variante al piano regolatore del Comune…) ma anche il potere di autorizzare l’esecuzione dei singoli interventi edilizi mediante il rilascio di un permesso di costruire o di un atto equipollente". Depongono in tal senso sia considerazioni di ordine letterale (v. pagg. 34 – 36 appello), ma anche di ordine logico (v. pagg. 37 – 43 appello). Secondo l’appellante Presidenza del Consiglio, infatti, "il giudice penale – alla cui tesi il Comune di Roma ha espressamente aderito nella nota dirigenziale impugnata in I grado – ha sostenuto che il Commissario delegato non poteva rilasciare il permesso di costruire in quanto l’OPCM non contempla, fra le dispo0sizioni derogabili dal Commissario, l’art. 13 del DPR n. 380/2001" (tesi poi condivisa dal TAR Lazio). A fronte di ciò secondo l’appellante, occorre osservare: e1) che "l’art. 5 della l. n. 225/1992 esige nelle ordinanze di protezione civile "l’indicazione delle principali norme cui si intende derogare" e non di tutte", di modo che la mancanza di un esplicito riferimento all’art. 13 cit. "non è affatto sufficiente per dimostrare che il Commissario delegato non aveva la competenza ad autorizzare l’esecuzione degli interventi"; in sostanza, "il riconoscimento del potere autorizzatorio del Commissario delegato non presuppone l’estensione analogica di norme eccezionali ma la semplice interpretazione sistematica e logica delle norme istitutive dei poteri commissariali" (v., in proposito, la prevista deroga agli artt. 7 e 20 DPR n. 380/2001; e2) seguendo la tesi della sentenza appellata, "risulterebbe inspiegabile la previsione della facoltà di deroga all’art. 14 del DPR n. 380/2001, che concerne il rilascio del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali, se poi si dovesse concludere che il Commissario delegato poteva solo prevedere gli interventi in via di pianificazione urbanistica ma giammai autorizzarne l’esecuzione. Al contrario, proprio la possibilità di derogare all’art. 14 conferma che la competenza a rilasciare il permesso di costruire doveva ritenersi ricompresa nei compiti del Commissario sia pure con i limiti poi circostanziati"; e3) contrariamente a quanto sostenuto nel giudizio di I grado dal Comune di Roma, "le ordinanze di protezione civile possono derogare anche alle norme sulla competenza (che anzi sono le prime norme ad essere derogate) e, in generale, a qualsiasi disposizione di legge con il solo limite dei principi generali dell’ordinamento";

f) "il Commissario delegato ha rilasciato il titolo autorizzatorio edilizio con il provvedimento di raggiunta intesa sul quale la Giunta e l’Assessore ai lavori pubblici e alle periferie del Comune di Roma hanno espresso la propria formale intesa il 6 luglio 2009". Contrariamente a quanto ritenuto dal Comune di Roma con il provvedimento impugnato in I grado, "il permesso di costruire o altro titolo autorizzatorio esiste, è stato rilasciato dal Commissario delegato e sull’intervento edilizio il Comune ha prestato… la prescritta intesa ai fini urbanistici". Da ciò consegue che "le opere realizzate non possono essere ritenute abusive fino a quando il titolo autorizzatorio rilasciato dal Commissario delegato, sul quale il Comune ha espresso la propria intesa, non venga annullato dal giudice amministrativo su ricorso di eventuali controinteressati" e quindi il tentativo del Comune di Roma di considerare i provvedimenti del Commissario delegato tamquam non esset, sulla scorta delle considerazioni formulate dal giudice penale in fase di conclusione delle indagini preliminari, appare dunque illegittimo".

2. Ha proposto appello incidentale nel presente giudizio (nonché appello autonomo di identico testo) la Casa Generalizia dell’Istituto dei Fratelli del Sacro Cuore, proponendo i seguenti motivi di appello:

error in iudicando, in quanto:

a) erroneamente il giudice di I grado ha ritenuto che gli interventi edilizi sarebbero stati realizzati in mancanza del prescritto permesso di costruire, posto che essi sono stati assentiti dal commissario delegato, i cui poteri traggono origine dall’art. 5 l. n. 225/1992, estesi ai "grandi eventi" dall’art. 5bis d.l. n. 243/2001, conv. in l. n. 401/2001, e dall’OPCM n. 3489 del 2005. In particolare, "il potere del Commissario delegato incontrava precisi limiti solo se vi fosse stata l’esigenza di derogare alle previsioni urbanistiche di piano o di regolamento (che per i lavori della Casa generalizia non era necessaria, essendo stati realizzati su un’area privata su cui preesistevano impianti sportivi…). In ogni caso, "un’interpretazione corretta del significato e dell’esatta portata di una disposizione non può essere ancorata al mero dato letterale, ma implica necessariamente il ricorso al criterio logico/sistematico, senza che ciò comporti una interpretazione estensiva delle norme derogabili", e, in tal senso, "proprio la possibilità di derogare agli artt. 14 e 20 (del Testo Unico edilizia) conferma che la competenza a rilasciare il permesso di costruire doveva considerarsi ricompresa nei compiti del Commissario";

b) risulta applicabile pienamente al caso di specie l’art. 14ter l. n. 241/1990, stante il potere del Commissario delegato di rilasciare il titolo edilizio; peraltro, "la competenza del Commissario delegato ad indire la Conferenza dei servizi non è stata mai eccepita, nel corso dei lavori, da nessuna delle amministrazioni partecipanti, tantomeno dal Comune di Roma, al quale il Commissario delegato ha inviato il progetto delle opere che la Casa generalizia intendeva realizzare e sul quale il Comune ha espresso parere favorevole". In conferenza dei servizi, il progetto della Casa generalizia, "che non ha comportato deroga alcuna agli strumenti urbanistici vigenti", ha riportato il parere favorevole di tutte le amministrazioni coinvolte nel procedimento. Ne consegue che "il tentativo del Comune di Roma… di considerare i provvedimenti del Commissario delegato tamquam non essent – sulla scorta delle considerazioni formulate dal giudice penale in fase delle conclusioni delle indagini preliminari – appare dunque illegittimo e contrario ai principi di buon andamento della P.A., ex art. 97 Cost., palesandosi come un "dissenso postumo" in manifesta contraddizione con il parere positivo che lo stesso Comune ha espresso nel corso della conferenza dei servizi e con l’intesa raggiunta sul Piano delle opere;

c) quanto alla asserita nullità del decreto del Commissario delegato, la ripartizione dei compiti tra organi straordinari e ordinari nell’ambito del Servizio Nazionale della Protezione Civile "avviene sulla base di un criterio di competenza e non di separazione di attribuzioni, anche se si tratta di organi appartenenti a Enti/amministrazioni diversi (la sfera di attribuzioni è ripartita, infatti, all’interno di un "Servizio Nazionale")"; dal che consegue che, laddove si ritenesse che il Commissario delegato ha adottato un provvedimento che rientra (o è rimasto) nella competenza di un organo amministrativo ordinario (dirigente del Comune di Roma) "l’atto non potrebbe considerarsi nullo per difetto assoluto di attribuzione, ma semmai annullabile per incompetenza relativa";

d) sussiste il difetto di motivazione del provvedimento impugnato, posto che lo stesso richiama "il contenuto del decreto di sequestro del GIP, facendo espresso riferimento a valutazioni espresse dal Tribunale del riesame in un procedimento giudiziario al quale la Casa Generalizia è rimasta del tutto estranea, nonché ad un parere che avrebbe reso l’Avvocatura Comunale, del quale però non è indicato alcun estremo". Pur essendo ammessa la motivazione per relationem, "il Comune tuttavia avrebbe dovuto allegare gli atti cui si rinvia o, quantomeno, indicarne con precisione gli estremi", ai sensi dell’art. 3, co. 3, l. n. 241/1990;

e) quanto alla pronunciata inammissibilità dell’azione di accertamento, quest’ultima deve ritenersi ammissibile, pur non essendo stata espressamente codificata, sia in ragione del "rinvio esterno di cui all’art. 39, co. 1, Cpa, ai principi generali del Codice di procedura civile (ove è indiscutibilmente ammessa detta azione) e in considerazione del fatto che il nuovo Codice… contempla azioni sicuramente dichiarative". Né può desumersi "dal tessuto della nuova codificazione, un divieto implicito nel giudizio amministrativo di azioni di accertamento non espressamente previste (ovvero un principio di tipicità delle azioni), poiché un ostacolo di tal fatta ad esperire, in generale, azioni di accertamento si porrebbe in stridente contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., che sancisce il diritto di azione per la tutela degli interessi legittimi in sé considerati".

3. Si è costituita in giudizio Roma Capitale (già Comune di Roma), che ha concluso per il rigetto degli appelli, stante la loro infondatezza, e per la integrale conferma della sentenza di I grado.

In particolare Roma Capitale (pur non formulando e/o riproponendo apposita eccezione), osserva che "se un errore il TAR ha commesso, questo è stato proprio nell’attribuire carattere provvedimentale ad una mera nota del Dipartimento IX, quella dell’11 gennaio 2010, con la quale l’ufficio si è limitato solo a riscontrare l’irritualità della domanda ex art. 36 T.U. n. 380/2001 siccome presentata dalla Casa Generalizia".

Inoltre, Roma Capitale, replicando ai motivi di appello, afferma che "l’art. 13 del T.U. n. 380/2011 è una norma di principio che mira ad evitare che l’organo politico si sostituisca a quello gestionale, prevaricandone le funzioni e le prerogative… in nessuna delle quattro ordinanze presidenziali la norma in questione è menzionata", di modo che "se l’art. 13 non è richiamato vuol dire che non si voleva che il Commissario rilasciasse lui i permessi di costruire".

All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.

4. Con l’appello n. 4585/2011 r.g., la Casa generalizia dell’Istituto dei fratelli del Sacro Cuore ha autonomamente impugnato la sentenza del TAR per il Lazio, sez. I, 1 febbraio 2011 n. 904, avverso la quale, come si è già esposto al precedente punto 2, ha altresì proposto appello incidentale nell’ambito del giudizio impugnatorio instaurato – avverso la già citata sentenza – con proprio ricorso in appello dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Con l’atto di appello in esame, vengono proposti i medesimi motivi di cui all’appello incidentale, già riportati sub lettere a – e del precedente punto 2.

Si è costituita in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.

Motivi della decisione

5. Preliminarmente, il Collegio deve disporre la riunione dei ricorsi in appello, ai sensi dell’art. 96, comma 1, Cpa, essendo gli stessi proposti avverso la stessa sentenza.

Il Collegio deve altresì dichiarare l’inammissibilità dell’appello proposto in via principale dalla Casa Generalizia dell’Istituto dei fratelli del Sacro Cuore (r.g. n. 4585/2011 r.g.), in quanto tale ricorso in appello risulta identico a quello dalla medesima Casa Genreralizia proposto in via incidentale nell’ambito del giudizio r.g. n. 3715/2011 r.g..

E ciò in quanto, ai sensi dell’art. 333 C.p.c., richiamato dall’art. 96, co. 2, Cpa (secondo il quale "le parti alle quali sono state fatte le notificazioni di cui agli articoli precedenti debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo"), occorre accordare prevalenza all’appello incidentale.

6. Gli appelli della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Casa Generalizia dell’Istituto dei fratelli del Sacro Cuore (di seguito indicata come "Casa generalizia") sono fondati e devono essere, pertanto, accolti, nei sensi e limiti di seguito esposti.

L’oggetto della presente controversia è, innanzi tutto, rappresentato dalla riconducibilità (o meno) dell’atto di assenso rilasciato dal Commissario delegato per i mondiali di nuoto Roma 2009 (provvedimento 27 giugno 2008) al permesso di costruire, previsto dall’art. 13 DPR n. 380/2001. In tal senso si esprime anche la sentenza appellata, laddove afferma che "il thema decidendum della controversia è costituito dalla verifica della idoneità o meno di tale provvedimento a fungere da titolo abilitativo, atteso che l’esito di tale verifica è inevitabilmente destinato a riflettersi sul giudizio di legittimità del provvedimento impugnato che, ritenendo assente un idoneo titolo abilitativo, ha qualificato come abusivi gli interventi realizzati".

La suddetta riconducibilità è esclusa dal giudice di I grado, secondo il quale, poiché l’art. 5 l. n. 225/1992, "nell’attribuire il potere di ordinanza in deroga alle leggi vigenti, determina un ribaltamento nella gerarchia delle fonti normative presenti nel nostro ordinamento, investendo l’autorità amministrativa del potere di derogare alla norma ordinaria, sia pure nel rispetto dei principi generali", esso "deve qualificarsi come norma eccezionale, che necessita di strettissima interpretazione e tale esigenza, se possibile, è ancora più rafforzata nella fattispecie in esame dal fatto che non si versa in una situazione emergenziale, ma si è in presenza di un "grande evento", circostanza alla quale si applicano le norme di cui all’art. 5 l. n. 225/1992, per effetto dell’estensione prevista dall’art. 5bis, co. 5, d.l. n. 343/2001.

Da ciò consegue che "le norme che il Commissario delegato è stato autorizzato a derogare sono solo quelle e soltanto quelle espressamente indicate nell’OPCM n. 3489/2005, non essendo consentito all’interprete – in ragione del carattere di evidente eccezionalità della norma attributiva del potere di ordinanza, che consente ad una fonte di rango inferiore di derogare ad una fonte normativa superiore – alcuna operazione estensiva, quantunque quest’ultima sia basata su plausibili argomenti ermeneutici".

E poiché l’art. 13 DPR n. 380/2001 (relativo alla competenza al rilascio del permesso di costruire) non è ricompreso tra le norme espressamente indicate come "derogabili" dalla OPCM n 3489/2005 (che pure ne indica altre del medesimo DPR), ne consegue che sussiste un difetto assoluto di attribuzione del potere di rilasciare permessi di costruire in capo al Commissario straordinario.

Proprio il riscontrato difetto assoluto di attribuzione comporta – secondo la sentenza appellata – non già l’annullabilità (come conseguenza dell’illegittimità) del permesso di costruire (provvedimento d raggiunta intesa del 18 giugno 2008), bensì la sua nullità ex art. 21septies l. n. 241/1990, di modo che "correttamente l’amministrazione comunale, con l’atto impugnato, ha sostanzialmente ritenuto lo stesso tamquam non esset".

Ne è conseguito, in I grado, il rigetto del ricorso proposto e, dunque, la sostanziale declaratoria di legittimità della impugnata nota 11 gennaio 2010 del Comune di Roma.

La ricostruzione del I giudice è contestata dagli appellanti, in particolare con i motivi di appello sub a), d) ed e) (appello Presidenza del Consiglio) e sub a) dell’esposizione in fatto (appello incidentale Casa generalizia), motivi con i quali si nega, con una pluralità di argomentazioni, che l’interpretazione delle norme sui poteri di deroga del Commissario debba essere di tipo esclusivamente letterale, ritenendosi, invece, ampiamente ricompreso in tali poteri anche quello di emanare permessi di costruire.

Inoltre, la Presidenza del Consiglio dei Ministri (motivi di appello sub b) ed f) ha negato la possibilità di ritenere nullo ex art. 21septies l’atto del Commissario del 18 giugno 2008, costituente permesso di costruire, essendo lo stesso, semmai, annullabile, di modo che il Comune di Roma non avrebbe potuto adottare l’atto impugnato, fin tanto che il precedente provvedimento commissariale non fosse stato eliminato da mondo giuridico. In tal senso, conclude anche il motivo (sub c) dell’esposizione in fatto), proposto dalla Casa generalizia.

7. Al fine di meglio comprendere i profili in diritto della presente controversia, e quindi affrontare il thema decidendum della stessa, come sopra delineato, il Collegio ritiene opportuno ricordare la disciplina normativa delle cd. ordinanze commissariali in deroga ed i limiti ad esse posti, sia dal legislatore sia dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale.

L’art. 5 della legge 24 febbraio 1992 n. 225, concernente "stato di emergenza e potere di ordinanza", prevede, tra l’altro, che:

"1. Al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir meno dei relativi presupposti.

2. Per l’attuazione degli interventi di emergenza conseguenti alla dichiarazione di cui al comma 1, si provvede, nel quadro di quanto previsto dagli articoli 12, 13, 14, 15 e 16, anche a mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento giuridico.

3. Il Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della protezione civile, può emanare altresì ordinanze finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose. Le predette ordinanze sono comunicate al Presidente del Consiglio dei ministri, qualora non siano di diretta sua emanazione.

4. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della protezione civile, per l’attuazione degli interventi di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo, può avvalersi di commissari delegati. Il relativo provvedimento di delega deve indicare il contenuto della delega dell’incarico, i tempi e le modalità del suo esercizio.

5. Le ordinanze emanate in deroga alle leggi vigenti devono contenere l’indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere motivate.".

Successivamente, l’art. 4 d.l. 31 maggio 2005 n. 90 (conv. in l. 26 luglio 2005 n. 152), ha previsto, per quel che interessa nella presente sede, che:

(comma 1) "Al fine di garantire l’uniforme determinazione delle politiche di protezione civile, delle attività di coordinamento e dei relativi poteri di ordinanza, nonché il consequenziale, unitario ed efficace espletamento delle attribuzioni del Servizio nazionale della protezione civile, è attribuita, ai sensi del disposto di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, la titolarità della funzione in materia di protezione civile al Presidente del Consiglio dei Ministri che può delegarne l’esercizio ai sensi dell’articolo 9, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, fatte salve le competenze regionali previste dalla normativa vigente."

Dunque, a seguito di uno degli eventi indicati all’art. 2, comma 1, lett. c) della medesima legge (e precisamente "calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari"), dichiarato lo stato di emergenza dal Consiglio dei Ministri, (che deve contestualmente determinare "durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi"), possono essere emanate ordinanze "in deroga ad ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento giuridico"; e ciò:

– per l’attuazione degli interventi conseguenti alla dichiarazione dello stato di emergenza (comma 2);

– per "evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose" (comma 3). Né può essere ritenuto dubbio che anche queste ultime ordinanze possono essere "in deroga", posto che – benchè il legislatore non abbia ripetuto al comma 3 la previsione espressa al comma 2 – con esse si affrontano problemi strettamente connessi all’evento calamitoso; inoltre l’art. 5 prevede per tutte le ordinanze da esso contemplate le medesime forme di pubblicità e di tutela per i soggetti da esse pregiudicati, né dal tenore letterale delle singole disposizioni si evincono distinzioni tra le ordinanze di cui ai commi 2 e 3.

In definitiva, l’esercizio del potere di ordinanza "in deroga" necessita sia della previa dichiarazione dello stato di emergenza, e quindi del rispetto dei dati territoriali e temporali ivi previsti, sia di una chiara finalizzazione di quanto dall’ordinanza contemplato a fronteggiare situazioni strettamente connesse alle calamità, catastrofi o altri eventi di cui all’art. 2, lett. c).

Anche le "situazioni di pericolo" ovvero i "maggiori danni a persone o cose", per evitare i quali è esercitabile il potere di ordinanza (art. 5, comma 3), devono trovare stretta connessione con il concreto dato emergenziale. Ed infatti, il richiamo al "pericolo" da evitare, non può che connettere tale stato all’evento per il quale vi è stata la dichiarazione, così come i "maggiori danni" non possono che avere, quale presupposto, che i danni già provocati dall’evento calamitoso.

Al di là del dato letterale delle disposizioni, occorre inoltre tenere presente che le stesse, in quanto "norme eccezionali", volte ad incidere (anche) sul quadro delle fonti, non possono che essere di "stretta interpretazione" (in quanto "eccezionali", ex art. 14 disp. prel. cod. civ.), non potendosene consentire (interpretazioni e quindi) applicazioni, al di là dei casi strettamente contemplati.

D’altra parte, già prima della stessa legge n. 225/1992 la Corte Costituzionale, nell’ammettere le cd. ordinanze "extra ordinem" o "libere", ha avuto modo di precisare i limiti entro i quali è ammesso nel nostro ordinamento l’esercizio di un siffatto potere e, quindi, l’adozione di tali ordinanze.

La Corte, chiamata a giustificare tali ordinanze, anche con riferimento alle disposizioni costituzionali di attribuzione della potestà legislativa, ne ha affermato la legittimità (sentt. 28 maggio 1987 n. 201 e 30 dicembre 1987 n. 617), nel caso in cui i provvedimenti siano emanati per motivi di necessità ed urgenza, sulla base di una specifica autorizzazione legislativa, la quale, anche se non disciplina il contenuto dell’atto (che resta a contenuto libero), deve tuttavia indicarne il presupposto, la materia, la finalità dell’intervento e l’autorità legittimata, nonché le dimensioni territoriali e temporali della concreta situazione di fatto che si deve fronteggiare.

In particolare, secondo la Corte Costituzionale (sent. n. 201/1987), " nel nostro ordinamento costituzionale non sono individuabili clausole che autorizzino in via generale modifiche, o anche soltanto deroghe, alla normativa primaria, con disposizioni relative tanto a casi singoli quanto ad una generalità di soggetti,.. per l’esercizio da parte di autorità amministrative di siffatti poteri, con effetto di deroga – ma non anche di abrogazione e modifica – della normativa primaria, occorre una specifica autorizzazione legislativa". Inoltre "il contenuto delle disposizioni derogatorie è soggetto a rispettare le garanzie costituzionali e a non invadere la riserva assoluta di legge" ed ancora "i poteri con esse esercitati devono adeguarsi alle dimensioni, territoriali e temporali, della concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare".

Anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 225/1992, la Corte Costituzionale ha ribadito come "l’emergenza consista in una condizione anomala e grave, ma anche temporanea" sostenendo che "i provvedimenti extra ordinem consequenziali, emanati da autorità amministrative, debbono essere attuati in riferimento alla concreta situazione di fatto, con adeguamento alla dimensione spaziale e temporale di quest’ultima"; di conseguenza, la Corte (nell’ambito di un conflitto per attribuzione di potere) ha censurato i casi in cui, ancorchè l’emergenza fosse cessata da tempo, il Governo avesse continuato a tenere in vita il DPCM e la conseguente ordinanza "una volta cessati i presupposti che ne avrebbero legittimato l’emanazione" (sent. 14 aprile 1995 n. 127).

Tali considerazioni in ordine ai limiti del potere di ordinanza sono state già più volte espresse anche da questo Consiglio di Stato (tra le altre, sez. VI, 6 settembre 2010 n. 6464), secondo il quale, in particolare, le situazioni di emergenza prese in considerazione dall’art. 5, l. n. 225 del 1992 consentono l’esercizio di poteri derogatori della normativa primaria solo a condizione che si tratti di deroghe temporalmente delimitate, non anche di abrogazione o modifica di norme vigenti, e sempre che tali poteri siano ben definiti nel contenuto, nei tempi, nelle modalità di esercizio, non potendo in particolare il loro impiego realizzarsi senza che sia specificato il nesso di strumentalità tra lo stato di emergenza e le norme di cui si consente la temporanea sospensione.

Quanto alla natura delle cd. ordinanze extra ordinem, è stato da tempo chiarito che le stesse non hanno carattere di fonti primarie dell’ordinamento giuridico, attesa la loro efficacia meramente derogatoria, e non innovativa, nell’ordinamento medesimo. La stessa Corte Costituzionale, con sentenza 28 maggio 1987 n. 201, ha affermato che "allorquando in riferimento a situazioni di urgenza e di necessità, la legge attribuisca ad una autorità – diversa da quelle investite, secondo la Costituzione di poteri propri e delegati di normazione primaria – il potere eccezionale di derogare alle stesse norme primarie con disposizioni relative tanto a casi singoli quanto ad una generalità di soggetti o a una serie di casi possibili, tali disposizioni sono sottoposte al regime degli atti amministrativi".

Alla stessa conclusione si giunge sulla base della sentenza della Corte Costituzionale 9 novembre 1992 n. 418, secondo la quale l’organizzazione delle funzioni di protezione civile "risulta indispensabile, ove si considerino l’estrema gravità che possono assumere gli eventi calamitosi, l’intrinseca difficoltà delle operazioni di soccorso e l’immediatezza con cui le stesse devono essere poste in atto… Tenuto conto della rilevanza nazionale delle attività di tutela nel loro complesso, e dell’ampio coinvolgimento in esse dell’amministrazione statale, i poteri di promozione e coordinamento non possono che essere conferiti al Governo."

La Corte Costituzionale, dunque, nell’affermare, nel quadro dei rapporti Stato – Regioni, la legittimità costituzionale dell’attribuzione allo Stato dei "poteri di promozione e coordinamento" in materia, non attribuisce affatto agli atti emanati nell’esercizio dei poteri suddetti natura di "atto politico", come tale non oggetto di impugnazione innanzi al giudice amministrativo (art 31 R.D. 26 giugno 1924 n. 1054; ora art. 7, comma 1, Cpa), ma riconosce agli stessi (sent. n. 201/1987), natura di atto amministrativo.

E ciò vale sia per la deliberazione con la quale il Consiglio dei Ministri dichiara lo "stato di emergenza" e per il conseguente decreto (art. 5, co. 1, l. n. 225/1992), sia per le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato (art. 5, commi 23), sia per le ordinanze specificamente emanate dal Commissario nominato proprio per fronteggiare l’emergenza precedentemente dichiarata (art. 5, commi 45).

Né l’eventuale attribuzione a tali ordinanze "extra ordinem" o "libere" della qualifica di "atti di alta amministrazione" le sottrae al sindacato giurisdizionale, dato che tali atti sono pacificamente sindacabili dal giudice amministrativo (Cass., Sez. Un., 7 marzo 2006 n. 4813).

Quanto alla motivazione che deve sorreggere l’ordinanza extra ordinem, si è affermato (Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 2005 n. 2795), che le scelte dell’amministrazione straordinaria devono essere concretamente valutate in rapporto ad una situazione di emergenza del tutto eccezionale e straordinaria, nella quale la ponderazione e la comparazione dei diversi interessi in gioco non segue pedissequamente le regole ed i criteri che governano l’azione pubblica in situazioni ordinarie, così che non ogni carenza, insufficienza o contraddittorietà a livello istruttorio o di motivazione ridonda automaticamente e necessariamente in vizio del relativo procedimento, sotto forma di una delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere.

In definitiva, il giudice amministrativo, nell’esercizio del proprio sindacato, deve tenere conto sia della natura di "atto di alta amministrazione" delle ordinanze in esame – e conseguentemente della ampia discrezionalità della quale gode l’amministrazione – sia delle particolari circostanze (situazioni di calamità che richiedono urgenza nell’agire) che fungono da presupposto dell’atto adottato.

Ciò, tuttavia, significa anche che, a fronte dei limiti del sindacato del giudice, relativi al modo in cui in concreto il potere è stato esercitato (e quindi alle scelte in concreto operare dall’amministrazione con l’atto emanato), il medesimo sindacato giurisdizionale deve essere invece rigoroso ed attento nel verificare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza, e quindi la sussistenza delle ragioni di urgenza e la evidenza della connessione tra disposizioni adottate e dichiarazione dello stato di emergenza, oltre a verificare, come è ovvio, il rispetto dei limiti temporali e territoriali indicati dalla già citata dichiarazione dello stato di emergenza; e ciò secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale.

In caso contrario, il potere in deroga (ed il "prodotto" del suo esercizio, rappresentato dalle ordinanze extra ordinem) rimarrebbero senza alcuna possibilità di controllo in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’esercizio legittimo, di modo che si verterebbe in una situazione che, oltre a violare l’art. 113 Cost., risulterebbe intollerabile per l’ordinamento giuridico nel suo complesso.

8. Il quadro sinora disegnato – e che si fonda sull’art. 5 l. n. 225/1992 e sulla giurisprudenza costituzionale, anche anteriore all’entrata in vigore di tale disposizione – si è ulteriormente ampliato, per effetto dell’art. 5bis, comma 5, d.l. 7 settembre 2001 n. 343, conv. in l. 9 novembre 2001 n. 401, in base al quale "le disposizioni di cui all’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, si applicano anche con riferimento alla dichiarazione dei grandi eventi rientranti nella competenza del Dipartimento della protezione civile e diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza".

In base al successivo art. 14 del d.l. 23 maggio 2008 n. 90 (conv. in l. 14 luglio 2008 n. 123), i provvedimenti adottati sia ai sensi dell’art. 5 l. n. 225/1992, sia ai sensi dell’art. 5bis d.l. n. 343/2001, non sono soggetti al controllo preventivo di legittimità previsto dall’art. 3 l. n. 20/1994.

Infine, l’art. 4 d.l. 31 maggio 2005 n. 90 (conv. in l. 26 luglio 2005 n. 152), prevede (comma 2), per quel che qui interessa, che "ferme le competenze in materia di cooperazione del Ministero degli affari esteri, l’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e l’articolo 5bis, comma 5, del decretolegge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, si applicano anche agli interventi all’estero del Dipartimento della protezione civile, per quanto di competenza in coordinamento con il Ministero degli affari esteri.".

In sostanza, per effetto dell’art. 5bis, d.l. n. 343/2001, il potere di ordinanza in deroga, previsto dall’art. 5 l. n. 225/1992, espressamente richiamato, si estende al di là delle ipotesi di cui all’art. 2, comma 1, lett. c) della medesima legge (e precisamente "calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari"), per essere quindi applicabile anche "alla dichiarazione dei grandi eventi rientranti nella competenza del Dipartimento della protezione civile e diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza".

Tali "eventi" devono essere individuati in quelli espressamente indicati dal medesimo art.. 5, co. 1, d.l. n. 343/2001 ("altri grandi eventi, che determinano situazioni di grave rischio"), ma che non sono riconducibili a quelli previsti dall’art. 2, comma 1, lett. c) della l. n. 225/1992, dato che in relazione agli stessi è prevista la delibera dello stato di emergenza.

In definitiva, il legislatore ha in tal modo definito due categorie di eventi cui possono conseguire, tra l’altro, poteri di ordinanza in deroga:

– eventi naturali o comunque imprevedibili (quali, appunto, calamità naturali, catastrofi e simili);

– eventi determinati dalla decisione dell’uomo, e quindi non imprevedibili, ma che, per la loro ampiezza ed importanza, ed i rischi che essi comportano, vengono ritenuti tali da poter essere ragionevolmente affrontati solo con poteri straordinari..

La nuova categoria di eventi (cd. "grandi eventi"), che funge da presupposto per il conferimento ed esercizio del potere di ordinanza in deroga, comporta la necessità di applicazione di quelli che sono i limiti all’esercizio del potere in deroga, previsti dalla legge e dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale.

In tal senso, la giurisprudenza della Corte dei Conti (sez. contr., 18 marzo 2010 n. 5), ha ritenuto, argomentando dal più volte citato art. 5bis d.l. n. 343/2001, che nella definizione non rientra qualsiasi "grande evento", ma solo quegli eventi che, pur se diversi da calamità naturali e catastrofi, determinano situazioni di grave rischio per l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni o dal pericolo di danni.

In definitiva, occorre affermare che il "grande evento", una volta individuato come presupposto, funge da preciso limite sia territoriale (in relazione ai luoghi da esso interessati), sia in relazione ai tempi di esercizio del potere (volti ad esaurirsi con il cessare del grande evento). Al tempo stesso, il potere di ordinanza in deroga (che incontra i limiti derivanti dal rispetto dei principi generali dell’ordinamento e delle norme costituzionali) deve essere necessariamente limitato agli interventi ritenuti necessari per fronteggiare le esigenze che hanno determinato la stessa concessione del potere di ordinanza.

Ovviamente, stante la natura di atti di alta amministrazione riconosciuta alle ordinanze, le stesse sono sindacabili dal giudice amministrativo, nei sensi già in precedenza esposti.

9. Il contesto entro il quale si inquadrano le vicende della controversia è rappresentato da un "grande evento" (i Mondiali di nuoto Roma 2009), in ordine al quale sono stati, in particolare, emanati i seguenti atti:

– il DPCM 14 ottobre 2005, con il quale "i mondiali di nuoto che si terranno nel territorio della provincia di Roma nel corso del 2009, sono dichiarati "grande evento" ai sensi e per gli effetti dell’art. 5bis, comma 5, del d.l. 7 settembre 2001 n. 343…";

– l’OPCM 29 dicembre 2005 n. 3489, con la quale, individuato il commissario straordinario, allo stesso vengono attribuiti i compiti (tra i quali quello di "approvare, nel quadro della pianificazione urbanistica decisa dal Comune di Roma e d’intesa con il medesimo, il piano delle opere e degli interventi occorrenti, funzionali allo svolgimento del grande evento…") e si definiscono (art. 5) le "disposizioni normative" derogabili "per il compimento delle iniziative previste dalla presente ordinanza", tra le quali gli articoli 7, co. 1, lett. c), 14, 20, 22, 24 e 25 DPR 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia);

– l’OPCM 6 aprile 2006 n. 3508, la quale, modificando la precedente ordinanza n. 3489/2005, prevede, tra l’altro, l’ulteriore compito commissariale (art. 1, co. 2, lett. aa) di "definire, nell’ambito del piano di cui alla precedente lett. a), gli interventi occorrenti per l’adeguata implementazione delle strutture sportive esistenti, di proprietà pubblica e privata, funzionali alla celebrazione del grande evento… ed anche in deroga alle vigenti previsioni urbanistiche d’intesa con l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma";

– l’OPCM 15 giugno 2007 n. 3597, la quale, ulteriormente modificando la precedente ord. n. 3489/2005, prevede che l’approvazione del piano delle opere (art.1, co. 2, lett. a), avvenga "informato l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma", anziché d’intesa con lo stesso, Inoltre, essa prevede che gli interventi occorrenti per la "adeguata implementazione delle strutture sportive esistenti" avvengano non solo in deroga "alle vigenti previsioni urbanistiche" ma anche in deroga "al vigente regolamento edilizio", purchè, in ambedue le ipotesi, d’intesa con l’Assessore l’urbanistica del Comune di Roma "su conforme parere della Giunta Comunale";

– l’OPCM 30 giugno 2009 n. 3787, la quale, nuovamente modificando l’ord n. 3489/2005, prevede, all’art. 1, comma 2, lettera a), che dopo le parole "piano delle opere e degli interventi", sono inserite le seguenti: "pubblici e privati".

Essa prevede inoltre, che, all’art. 1, co. 2, lett. aa, sono aggiunti i seguenti periodi: "Si prescinde dall’intesa con l’assessore all’urbanistica e dal parere della Giunta comunale di Roma relativamente agli interventi per i quali la deroga alle previgenti previsioni urbanistiche e al previgente regolamento edilizio è contenuta entro i limiti consentiti dall’art. 14, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica del 6 giugno 2001, n. 380. In ogni caso tutti gli interventi pubblici e privati realizzati devono essere conformi agli strumenti urbanistici comunali risultanti dalla variante approvata ai sensi della precedente lettera a) e non possono essere effettuati in deroga alle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza. L’intesa con l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma o il parere conforme della Giunta comunale, ove necessari, possono intervenire in qualsiasi momento, a prescindere dallo stato di avanzamento degli interventi assentiti dal Commissario delegato o anche dall’avvenuta realizzazione degli stessi. L’assenso del Commissario delegato e, ove necessari, l’intesa con l’assessore all’urbanistica o il conforme parere della Giunta comunale di Roma, tengono luogo del permesso di costruire, con gli effetti di cui all’art. 45, comma 3, del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 380/2001.L’assenso del Commissario delegato tiene altresì luogo delle autorizzazioni di cui agli articoli 146 e 147 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42".

Alla luce delle ordinanze sopra riportate, occorre osservare che, sia pure con atti ed in tempi diversi, al Commissario delegato sono stati attribuiti:

– poteri di ordinanza in deroga – tra l’altro – agli artt. 7, co. 1, lett. c), 14, 20, 22, 24 e 25 DPR 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia), e ciò fin dalla OPCM 29 dicembre 2005 n. 3489;

– il potere di approvare il piano delle opere e degli interventi funzionali allo svolgimento del grande evento (OPCM n. 3489/2005), "pubblici e privati" (OPCM 3787/2009)

– il potere di definire, nell’ambito del piano, gli interventi occorrenti per l’adeguata implementazione delle strutture sportive esistenti, di proprietà pubblica e privata, funzionali alla celebrazione del grande evento", anche in deroga alle vigenti previsioni urbanistiche d’intesa con l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma (OPCM n. 3508/2006), poi in deroga anche "al vigente regolamento edilizio", purchè, in ambedue le ipotesi, d’intesa con l’assessore l’urbanistica del Comune di Roma "su conforme parere della giunta Comunale" (OPCM n. 3597/2007); ancora dopo, anche senza intesa e parere, se la deroga alla disciplina urbanistica ed al regolamento edilizio è contenuta nei limiti dell’art. 14, co. 3, DPR n. 380/2001 (OPCM n. 3787/2009);

– il potere di "assenso" (degli interventi occorrenti per l’adeguata implementazione delle strutture sportive esistenti, di proprietà pubblica e privata, funzionali alla celebrazione del grande evento) – unitamente, ove necessari, all’intesa con l’assessore all’urbanistica o al conforme parere della Giunta comunale di Roma, che tiene luogo "del permesso di costruire", con gli effetti di cui all’art. 45, comma 3, DPR n. 380/2001, nonché delle "autorizzazioni di cui agli articoli 146 e 147 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42" (ord. n. 3787/2009).

A fronte di tali atti generali, per ciò che riguarda la presente controversia (e gli interventi realizzati e ritenuti dal Comune di Roma privi di titolo autorizzatorio), il Commissario delegato ha rilasciato il provvedimento di raggiunta intesa 27 giugno 2008, di autorizzazione ai lavori di implementazione degli impianti della Casa Generalizia, relativamente all’impianto natatorio, servizi connessi e complementari.

Tanto premesso, il Collegio ritiene opportuno innanzi tutto precisare che le Ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri, via via susseguitesi in relazione al grande evento rappresentato dai "Mondiali di nuoto Roma 2009" (e la loro legittimità, anche sotto il profilo della violazione delle norme sulla competenza) esulano dall’oggetto del presente giudizio, poiché le stesse non hanno formato oggetto di impugnazione in I grado, né sono state considerate dalla sentenza appellata, se non al fine di verificare se le stesse consentissero (o meno) al Commissario delegato di derogare all’art. 13 DPR n. 380/2001 e di procedere, quindi, come è avvenuto, al rilascio del titolo autorizzatorio edilizio.

Non rientra, dunque, nel concreto ambito del sindacato giurisdizionale di questo Giudice la verifica di legittimità delle predette Ordinanze, secondo i criteri di valutazione innanzi evidenziati (ante, par. 6). Né, tanto meno, questo Giudice – atteso l’ambito del presente giudizio – può porsi la questione della eventuale non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5bis (in particolare, comma 5) d. l. n. 343/2001, nella parte in cui esso estende anche ai cd. "grandi eventi" il potere di ordinanza in deroga, posto che – non essendo oggetto del giudizio le Ordinanze commissariali – la questione non supera il vaglio della sua rilevanza ai fini del giudizio in corso.

10. Alla luce del thema decidendum come sopra precisato (sub par. 6), occorre esaminare, in particolare, l’esatto ambito dei poteri conferiti al Commissario delegato onde agire in deroga al DPR n. 380/2001 e se, in particolare, tra questi rientri il potere di rilasciare permessi di costruire, in deroga all’art. 13 Testo Unico cit., e quindi alla competenza normalmente attribuita agli organi comunali; e ciò anche se il citato art. 13 non sia espressamente indicato nell’ordinanza tra le disposizioni del Testo Unico Edilizia derogabili.

La sentenza appellata – qualificate le disposizioni di cui all’art. 5 l. n. 225/1992 come di "strettissima interpretazione", poiché "il potere di ordinanza… determina un ribaltamento nella gerarchia delle fonti" – ha ritenuto che delle medesime "l’interpretazione deve essere esclusivamente letterale, limitata cioè alle norme espressamente ed inequivocabilmente indicate", negando al contempo che essa interpretazione possa "essere di tipo sistematico, cioè volta ad includere, sebbene in ragione di prospettazioni plausibili, anche norme non specificamente richiamate".

Questo Consiglio di Stato ritiene che, con riferimento alla natura ed ai limiti della interpretazione delle ordinanze commissariali in deroga, debba pervenirsi, innanzi tutto sul piano generale, ad un risultato diverso da quello cui è pervenuta la sentenza appellata.

Le ordinanze commissariali in deroga non rientrano nella categoria delle fonti primarie (attesa la loro efficacia meramente derogatoria, e non innovativa, nell’ordinamento giuridico), ma costituisco atti di alta amministrazione, autorizzati dalla legge, in presenza dei presupposti (sostanziali e formali) dalla medesima indicati, a derogare, per ambiti territoriali e temporali previamente determinati, e fin tanto che vi è persistenza dei citati presupposti, anche a norme di rango primario.

Proprio perché l’ordinanza è autorizzata da norma primaria "eccezionale", ed è eccezionale essa stessa, il suo contenuto prescrittivo è di "stretta interpretazione" (ex art. 14 disp. prel. cod. civ.), non potendosene consentire (interpretazioni e quindi) applicazioni, al di là dei casi strettamente contemplati.

Ma ciò non comporta – come invece (non condivisibilmente) ritenuto dalla sentenza appellata – l’obbligo di "interpretazione letterale" (a ciò riducendo la nozione di "stretta interpretazione") E ciò a maggior ragione in presenza – come dalla stessa sentenza si afferma – di "prospettazioni plausibili" ovvero di "plausibili argomenti ermeneutici" di segno contrario, cui il giudice, è da ritenere, sarebbe impedito di accedere proprio per non poter egli varcare i confini dell’interpretazione letterale, essendo egli, dunque, costretto a rinunciare ad una interpretazione "estensiva" ovvero ad una "di tipo sistematico".

Un primo, e fondamentale, argomento contrario alle conclusioni cui è pervenuto il I giudice è offerto dalla stessa legge n. 225/1992, il cui art. 5 – che costituisce la disposizione di riferimento nel caso di specie, per effetto del rinvio ad essa operato dall’art. 5bis d.l. n. 403/2001 – nel prevedere il conferimento del potere di ordinanza in deroga, dispone che oggetto di quest’ultima possa essere "ogni disposizione vigente", fermo il rispetto "dei principi generali dell’ordinamento giuridico" (comma 2), e solo dovendo le ordinanze "contenere l’indicazione delle principali norme a cui si intende derogare" (comma 5).

La legge, nell’autorizzare il potere in deroga alla normativa primaria, proprio per la non preventivabile definizione dei presupposti che potranno rendere necessario il potere di ordinanza in deroga (non a caso la stessa Corte Costituzionale ha parlato di atti "a contenuto libero": sent. n. 201/1987), non pone, dunque, alcuna limitazione, per materia o contenuto, alle disposizioni derogabili, limitandosi ad affermare il rispetto "dei principi dell’ordinamento giuridico", cui occorre senz’altro aggiungere, sulla scorta della giurisprudenza della Corte Costituzionale, il limite del rispetto delle garanzie costituzionali e della riserva assoluta di legge (Corte cost. n. 201/1987).

Proprio in considerazione della eccezionalità del potere di ordinanza in deroga (nonché dell’esperienza di ordinanze commissariali emanate in assenza di una norma generale presupposta – ante l. n. 225/1992 – e delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale), il legislatore, nel disciplinare la materia, ha inteso evitare che l’ambito di esercizio del potere di deroga restasse senza alcuna preventiva indicazione e delimitazione, prescrivendo quanto meno la doverosa indicazione delle "principali norme a cui si intende derogare".

Mediante tale opportuna previsione, il legislatore:

– per un verso, ha verosimilmente inteso evitare di lasciare ex post all’interprete il sindacato, di volta in volta, sulla legittimità della concreta deroga operata dall’amministrazione straordinaria in rapporto all’ambito del suo esercizio (con un inevitabile abbassamento delle garanzie per il cittadino);

– per altro verso, non ha ritenuto sufficiente la mera e generale indicazione di "settori normativi" (che avrebbe potuto risolversi in una delimitazione solo apparente dell’ambito delle disposizioni oggetto di possibile deroga), richiedendo l’indicazione almeno delle "principali norme a cui si intende derogare".

Tale essendo la previsione di legge, appare evidente – già sulla base di una interpretazione letterale o di tipo "dichiarativo" della medesima – come ben difficilmente l’indicazione di norme derogabili effettuata da una ordinanza commissariale può risolversi in una indicazione "tassativa" delle medesime, avendo il legislatore espressamente richiesto l’indicazione delle "principali" (e quindi non di tutte le) norme derogabili. Di modo che appare difficilmente condivisibile, in presenza di una espressa indicazione di legge riferita alle norme "principali", una lettura, come quella offerta dalla sentenza appellata, che ritiene invece per norme derogabili solo quelle "espressamente ed inequivocabilmente indicate".

D’altra parte, la richiesta di indicare le "principali", e non "tutte" le norme derogabili (e quindi di redigere un elenco non esaustivo delle medesime), desumibile ictru oculi dalla lettera della legge, risponde in tutta coerenza anche alla natura ed alle finalità dell’atto oggetto di disciplina, cioè dell’ordinanza commissariale.

Ed infatti, posto che quest’ultima è un atto "a contenuto libero", non essendo tale contenuto predefinibile proprio in ragione delle emergenze che con le ordinanze stesse dovranno essere affrontate e dei problemi che dovranno essere concretamente risolti, se è del tutto ragionevole una delimitazione della "libertà di contenuto" dell’ordinanza, è altrettanto evidente che questo non può essere convertito nel suo opposto, e cioè in un contenuto rigidamente predefinito, la cui previsione sarebbe irragionevole proprio in relazione gli stessi presupposti che sorreggono l’eccezionalità dell’intervento.

In definitiva, il legislatore ha inteso conciliare le due esigenze – la prima, di effettività ed efficacia dell’azione amministrativa emergenziale e derogatoria, la seconda di garanzia del rispetto dell’ordinamento giuridico – attuando tra le stesse un idoneo bilanciamento. Di modo che occorre, dunque, escludere che la norma primaria imponga all’ordinanza commissariale una indicazione tassativa delle norme da essa derogabili, quasi costituenti queste ultime un numerus clausus intangibile sia dall’amministrazione, sia successivamente (in sede di sindacato giurisdizionale) dall’interprete.

L’argomento desumibile dall’art. 5 (commi 2 e 5) della legge n. 225/1992 è già, di per sé, sufficiente ad escludere che la previsione dell’ordinanza con la quale si definisce l’ambito delle norme primarie derogabili, pur di "stretta interpretazione", sia non assoggettabile, nei sensi di seguito esposti, ad operazioni interpretative che – lungi dall’ampliare l’ambito della deroga al di là del consentito – consentano di individuare l’ attinenza della norma primaria concretamente derogata all’ambito (alla materia) individuabile sulla base delle "principali norme" indicate.

Non vi è, dunque, un impedimento alla interpretazione (nei modi che si preciseranno) della previsione dell’ordinanza contemplante le (principali) norme derogabili, ma l’esigenza di verificare – proprio attraverso gli strumenti ed i limiti di una "stretta interpretazione" – la rispondenza della norma derogata (e non espressamente citata) all’ambito normativo indicato dall’ordinanza ed individuato per il tramite delle "principali norme" indicate.

E’ proprio questa l’attività interpretativa che il giudice di I grado ha non esattamente ritenuto essergli preclusa, non essendosi compiutamente considerato, nel precedente grado di giudizio, né quanto espressamente disposto dall’art. 5 l. n. 225/1992, né gli effettivi limiti dell’interpretazione della norma eccezionale, ai sensi dell’art. 14 disp. att. cod. civ., riducendo quest’ultima, non condivisibilmente, a mera "interpretazione letterale".

Ed infatti, oltre agli argomenti desumibili dallo stesso art. 5 l. n. 225/1992, occorre osservare che lo stesso art. 14 delle cd. preleggi (il quale prevede che "le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati") non comporta l’obbligo di una interpretazione ridotta alla mera "interpretazione letterale".

Deve intendersi per "eccezionale" ogni norma che non sia riconducibile ai principi generali o fondamentali dell’ordinamento giuridico, ma che anzi faccia eccezione ai detti principi o sia in contrasto con essi. In ragione di ciò, l’art. 5 l. n. 225/1992 è senza dubbio definibile come "norma eccezionale", posto che, con lo stesso, si deroga al principio di gerarchia delle fonti e, in aggiunta, con l’attribuire efficacia derogatoria non già ad un attofonte, ma ad un atto amministrativo, sia pure di "alta amministrazione". Allo stesso modo, devono essere definite "eccezionali" le concrete previsioni di deroga a norme di legge contenute nelle ordinanze.

Orbene, con riguardo alle norme eccezionali, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che delle stesse non sia consentita una "interpretazione analogica" (da ultimo, Cass., sez. lav., 24 maggio 2011 n. 11359; Cass. Civ., sez. III, 29 settembre 2009 n. 20744), mentre ammette che le medesime disposizioni possano essere interpretate estensivamente (da ultimo, Cass. Civ., sez. III, 16 luglio 2010 n. 16647; sez. II, 13 aprile 2010 n. 8778; sez. I, 5 marzo 2009 n. 5297).

Anche con riguardo alle norme penali, la giurisprudenza opera la medesima distinzione, ritenendo non consentita l’applicazione analogica, risolvendosi essa in una interpretazione "in malam partem" (e, ragionevolmente, in una violazione dell’art. 25 Cost.), mentre ammette l’interpretazione estensiva (Cass. Pen., sez. un., 25 giugno 2009 n. 38691; sez. III, 22 ottobre 2009 n. 43385 e 13 luglio 2009 n. 39078).

Tale distinzione, tradizionalmente operata dalla giurisprudenza, appare condivisibile (nei limiti in cui è possibile affrontare nella presente sede un problema plurisecolare di teoria dell’interpretazione giuridica), posto che l’interpretazione analogica attiene ai metodi di integrazione del diritto (ed è quindi, secondo talune ricostruzioni, un atto di costruzione normativa), mentre l’interpretazione estensiva rientra nei metodi interpretativi propriamente detti.

Infatti, nel caso della cd. interpretazione analogica ( art. 12, comma 2 preleggi), in realtà si applica una norma ad un caso che si riconosce come escluso dal suo campo di applicazione, ma che tuttavia abbisogna di una disciplina che l’interprete deve rinvenire nell’ordinamento giuridico. Nel caso, invece, dell’interpretazione estensiva si estende il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo significato letterale più immediato, al fine di ricavare dalla disposizione il contenuto normativo genuino che è in essa presente.

Appare, dunque, del tutto ragionevole che la locuzione "norma di stretta interpretazione", tipicamente utilizzata per le norme eccezionali, debba essere intesa come escludente la interpretazione analogica (poiché l’applicazione di una norma a casi ad essa certamente estranei ne estende l’ambito di applicazione e quindi infrange la barriera della "eccezionalità"), ma, al tempo stesso, essa non è tale da impedire che l’interprete (e comunque chi di essa debba fare applicazione) ricerchi il più genuino e congruo significato normativo scaturente dalla disposizione, anche attraverso il "significato proprio delle parole secondo la connessione di esse" e "l’intenzione del legislatore".

Diversamente opinando, si perviene ad affermare che, a fronte di norme eccezionali, l’interprete debba fermarsi ad una interpretazione letterale, intendendo quest’ultima, per di più, in una accezione che la lega meramente ed esclusivamente al primo, più immediato significato scaturente dalle parole, precludendosi in tal modo ogni possibilità di comprensione del dettato normativo per come esso effettivamente risulta dalla disposizione, dal coordinamento della stessa con il (più ampio) testo normativo, dalle finalità perseguite dal legislatore.

Paradossalmente, accedendo ad una tale "lettura" della "stretta interpretazione" delle norme eccezionali, occorrerebbe affermare l’impossibilità della stessa interpretazione secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata) della norma, non rientrando certamente quest’ultima nell’ambito della interpretazione letterale.

E’ del tutto evidente, in accordo con la costante giurisprudenza, che la interpretazione delle norme eccezionali non può essere di tipo strettamente letterale, potendo quest’ultima pervenire a risultati insoddisfacenti, se non paradossali, al punto da porre l’interprete, come nel caso di specie, innanzi alla possibilità di altre, anche più plausibili interpretazioni, che lo stesso interprete ritiene tuttavia essergli precluse dal limite di stretta interpretazione, inteso come interpretazione puramente letterale.

Proprio in virtù di tale non idonea conclusione, la sentenza appellata, pur prendendo atto dell’esistenza di altre "prospettazioni plausibili", ha non condivisibilmente concluso negando ogni possibilità di interpretazione estensiva "quantunque quest’ultima sia basata (nel caso di specie) su plausibili argomenti ermeneutici".

Alla luce di quanto sin qui esposto, occorre affermare che, con riferimento alle ordinanze commissariali in deroga, emanate in attuazione dell’art. 5 l. n. 225/1192, e, più precisamente, con riguardo alle disposizioni di legge derogabili da esse indicate, è legittima – sia in virtù d quanto disposto dal comma 5 del medesimo art. 5, sia in virtù dei generali canoni interpretativi delle norme eccezionali, ex art. 14 preleggi – una interpretazione non solo letterale, ma di tipo estensivo, tenuto per di più conto della natura meramente indicativa (e non esaustiva) dell’elenco di norme indicate come derogabili.

11. La operazione di ricomprensione di uno o più articoli non espressamente indicati, tra quelli tuttavia derogabili consegue alla verifica, in primo luogo, della appartenenza della disposizione alla materia (o al settore della materia) enucleabile, per mezzo di un procedimento di astrazione, dagli articoli espressamente indicati; in secondo luogo, dalla attinenza e coerenza della disposizione con le finalità che il legislatore ha ritenuto di dover perseguire per il tramite del potere di ordinanza in deroga, e quindi applicando un "criterio di effettività" alla disposizione stessa (ed alla norma in essa contenuta).

Ciò rende necessario verificare – sulla base della calamità o altro evento eccezionale e delle finalità di emergenza che si intendono perseguire – per un verso, la coerenza della deroga da estendere anche alla disposizione non citata con il potere derogatorio espressamente conferito e, per altro verso, la funzionalità anche della ulteriore deroga al complessivo disegno emergenziale.

Tale operazione interpretativa non differisce a seconda che si tratti di ordinanze emanate pere fronteggiare calamità e simili (art. 2, co. 1, lett. c) l. n. 225/1992), ovvero per le ipotesi di "grandi eventi" (art. 5bis d.l. n. 343/2001), come invece adombrato dalla sentenza appellata, laddove afferma che l’esigenza di "strettissima interpretazione" dell’art. 5 l. n. 225/1992 "è ancora più rafforzata nella fattispecie in esame dal fatto che non si versa in una situazione emergenziale, ma si è in presenza di un grande evento rientrante nella competenza del Dipartimento della Protezione Civile".

Fermo quanto già ricordato in ordine alle norme eccezionali e quindi di stretta interpretazione, occorre sottolineare che, mentre non è configurabile una distinzione "ontologica" tra poteri di ordinanza in deroga afferenti a calamità naturali ovvero all’organizzazione di grandi eventi (peraltro, in assenza di indicazioni normative che ciò consentono), al contrario ogni differenza tra le due specie di ordinanza (distinte in relazione al presupposto ed alla finalità perseguita) risalta in concreto, dovendosi, come si è detto, verificare l’attinenza e la coerenza della disposizione con le finalità che il legislatore ha ritenuto di dover perseguire per il tramite del potere di ordinanza in deroga, e quindi applicando un concreto "criterio di effettività".

Nel caso di specie, come si è già avuto modo di riportare (supra, sub 9), l’ordinanza 29 dicembre 2005 n. 3489 ha previsto, tra le "disposizioni normative" derogabili "per il compimento delle iniziative previste dalla presente ordinanza", gli articoli 7, co. 1, lett. c), 14, 20, 22, 24 e 25 DPR 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia).

Per effetto di tale indicazione, si consente che il Commissario delegato possa derogare:

– alla inapplicabilità delle disposizioni del Testo Unico alle sole "opere pubbliche dei Comuni deliberate dal Consiglio Comunale, ovvero dalla Giunta Comunale, assistite dalla validazione del progetto" (art. 7, co. 1, lett. c);

– alle ipotesi di "permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici" (art. 14);

– alla disciplina del procedimento per il rilascio del permesso di costruire (art. 20);

– alla disciplina degli interventi subordinati a denuncia di inizio di attività (art. 22);

– alla disciplina del certificato di agibilità (art. 24) ed a quella del procedimento per il suo rilascio (art. 25).

Tali poteri in deroga sono conferiti al Commissario, nell’ambito del più ampio potere attribuitogli

a) di approvare il piano delle opere e degli interventi funzionali allo svolgimento del grande evento (OPCM n. 3489/2005), "pubblici e privati" (OPCM 3787/2009), piano che costituisce "variante agli strumenti urbanistici";

b) di definire, nell’ambito di detto piano, "gli interventi occorrenti per l’adeguata implementazione delle strutture sportive esistenti, di proprietà pubblica e privata, funzionali alla celebrazione del grande evento", anche in deroga alle vigenti previsioni urbanistiche d’intesa con l’assessore all’urbanistica del comune di Roma (OPCM n. 3508/2006), poi in deroga anche "al vigente regolamento edilizio", purchè, in ambedue le ipotesi, d’intesa con l’assessore l’urbanistica del Comune di Roma "su conforme parere della giunta Comunale" (OPCM n. 3597/2007); ancora dopo, anche senza intesa e parere, se la deroga alla disciplina urbanistica ed al regolamento edilizio è contenuta nei limiti dell’art. 14, co. 3, DPR n. 380/2001 (OPCM n. 3787/2009).

Orbene, pur escludendo i poteri e la loro ulteriore definizione, come offerti dalla OPCM n. 3787/2009 (in quanto ordinanza adottata successivamente al provvedimento di raggiunta intesa della cui legittimità quale permesso di costruire si controverte nella presente sede), appare evidente come al Commissario delegato siano attribuiti – in relazione alle opere occorrenti per il grande evento – poteri di pianificazione urbanistica, comprensivi della definizione degli interventi di proprietà pubblica e privata necessari per l’implementazione delle strutture sportive esistenti.

Ed è in questo ampio quadro di poteri che al Commissario vengono altresì attribuiti poteri di agire in deroga alla disciplina edilizia, di cui al DPR n. 380/2001 e, più specificamente, alle norme che disciplinano gli stessi procedimenti relativi al rilascio del permesso di costruire e di costruire in deroga.

A ben osservare, le ordinanze hanno inteso definire (per il tramite delle "principali" disposizioni derogabili), quale ambito di derogabilità, da parte del Commissario delegato e della sua attività, proprio quello afferente alla assentibilità (e concreta utilizzabilità) edilizia delle costruzioni, poiché è agevole osservare come, attraverso il richiamo alla disciplina del procedimento per il rilascio del permesso di costruire, nonché del permesso di costruire in deroga, nonché degli interventi conseguenti a denuncia di inizio di attività, si copra interamente l’ambito dell’attività edilizia assentibile e/o comunque assoggettata a controllo della Pubblica Amministrazione, dal momento dell’avvio del procedimento volto a conseguire il titolo edilizio fino alla concreta utilizzabilità dell’immobile costruito (per il tramite della prevista deroga alle norme in tema di agibilità)..

Ne consegue che non vi è ragione, sulla base delle argomentazioni sin qui svolte, per ritenere non ricompresa tra le disposizioni derogabili anche quella relativa alla competenza al rilascio del titolo autorizzatorio edilizio, disposizione che, peraltro, appare la meno rilevante a fronte delle altre, di ben più profondo spessore (ed incidenza sul territorio) espressamente citate (e costituenti, appunto, le "principali" disposizioni derogabili, in ossequio all’art. 5, co. 5, l. n. 225/1992).

D’altra parte, diversamente opinando, appare del tutto irragionevole che si sia attribuito al Commissario il potere di derogare alla (ben più pregnante) disciplina del procedimento di rilascio del permesso di costruire (art. 20) o degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (art. 22), per confermare invece in capo al Comune il potere di formale rilascio del titolo autorizzatorio

Appare, inoltre, altrettanto irragionevole negare l’attribuzione al Commissario del potere di rilascio del permesso di costruire, laddove gli è stato invece attribuito il (ben più ampio) potere di derogare alla disciplina del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici che, ai sensi dell’art. 14, comma 1, riguarda non solo "edifici ed impianti pubblici", ma anche di "interesse pubblico".

Né può essere dimenticato come il permesso di costruire costituisca atto emanato in esercizio di potere vincolato. Ed allora – a fronte di un potere conferito al Commissario delegato di incidere su ogni aspetto del contesto urbanistico ed edilizio, ivi comprese la disciplina e la concreta gestione del procedimento volto al rilascio del medesimo titolo edilizio – occorrerebbe ritenere, con dubbia ragionevolezza, che l’unico potere non conferitogli sarebbe quello di derogare alla competenza al rilascio di un permesso di costruire, del quale ogni presupposto contenutistico è stato (da esso Commissario) anteriormente definito per il tramite dell’esercizio del potere in deroga.

In definitiva, l’unico potere non conferito sarebbe quello (meramente formale e totalmente vincolato) di rilascio del permesso di costruire, con ciò pervenendosi ad un risultato interpretativo in evidente difetto di ragionevolezza.

Che di tale natura sia l’approdo interpretativo non è sfuggito al I giudice, il quale ha non a caso richiamato l’esistenza di altri "plausibili argomenti ermeneutici", di altre "prospettazioni plausibili".

E poiché l’unico argomento utilizzato dalla sentenza appellata per non ricomprendere, tra le norme derogabili, l’art. 13 DPR n. 380/2001 è, in definitiva, riferito all’impedimento offerto dai limiti della "stretta interpretazione", una volta acclarata l’inesistenza di impedimenti derivanti dalla natura "eccezionale" della norma, non v’è alcuna ragione per non accedere ad una interpretazione ragionevole.

12. Sulla base di quanto sin qui esposto, devono essere accolti i motivi di appello proposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (sub a), d) ed e) dell’esposizione in fatto) e dalla Casa Generalizia (sub a) dell’esposizione in fatto), posto che il Commissario delegato per i mondiali di nuoto Roma 2010 è titolare (anche) del potere di incidere sulla competenza al rilascio del permesso di costruire ex art. 13 DPR n. 380/2001 e, pertanto, il provvedimento di raggiunta intesa del 27 giugno 2008 costituisce permesso di costruire, ai sensi dell’art. 13 cit., così come nel medesimo affermato.

Ovviamente, la riconosciuta competenza del Commissario delegato a rilasciare il permesso di costruire rende quest’ultimo legittimato – contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza appellata – ad indire la conferenza di servizi ex art. 14 ss. l. n. 241/1990.

Deve, quindi, trovare accoglimento, per questa parte, il motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), proposto dalla Casa Generalizia.

Alle presenti conclusioni, non ostano, infine, le considerazioni svolte da Roma Capitale con la propria memoria datata 8 giugno 2011.

Ribadito quanto sin qui affermato in ordine alla ricomprensione dell’art. 13 DPR n. 380/2001, occorre osservare che l’ordine delle competenze, come distribuito dalla legge tra enti ed organi, non si sottrae di per sé alla derogabilità da parte delle ordinanze commissariali, dovendosi anzi osservare che tale ordinario assetto di competenze è inevitabilmente inciso proprio dalla presenza stessa del Commissario, per effetto dell’esistenza del presupposto emergenziale.

Come ha avuto modo di osservare la Corte Costituzionale (sent. n. 418/1992) l’organizzazione delle funzioni di protezione civile "risulta indispensabile, ove si considerino l’estrema gravità che possono assumere gli eventi calamitosi, l’intrinseca difficoltà delle operazioni di soccorso e l’immediatezza con cui le stesse devono essere poste in atto… Tenuto conto della rilevanza nazionale delle attività di tutela nel loro complesso, e dell’ampio coinvolgimento in esse dell’amministrazione statale, i poteri di promozione e coordinamento non possono che essere conferiti al Governo.".

Né può trovare accoglimento quanto rappresentato da Roma Capitale, laddove afferma che la "raggiunta intesa" è stata conseguita "tra il Commissario e gli organi politici dell’amministrazione civica (Giunta Comunale e Assessore), i quali sono proprio quelli che l’ordinamento giuridico non vuole che si sostituiscano agli organi del’apparato burocratico. Se le varie OPCM non hanno mai voluto derogare alla disposizione secondo la quale il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente dell’ufficio competente, è ovvio che quell’atto di raggiunta intesa non può in nessun caso equivalere od essere reso equipollente al titolo edilizio, il cui rilascio non compete né alla Giunta né ad uno dei suoi componenti".

Al contrario, e fermo quanto già detto in relazione all’art. 13 DPR n. 380/2001, proprio per effetto dell’eccezionale (e temporaneo) trasferimento delle competenze, risulta del tutto ragionevole che il coinvolgimento degli enti, cui è temporaneamente sottratto l’esercizio di taluni poteri, avvenga non già a livello di organi dell’attività gestionale, bensì coinvolgendo gli organi di indirizzo politicoamministrativo, in quanto legittimati a tutelare gli interessi della comunità locale rappresentata.

13. Questo Consiglio di Stato ritiene, altresì, fondati il motivo di appello proposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (sub b) dell’esposizione in fatto), ed il motivo di appello proposto dalla Casa Generalizia (sub c) dell’esposizione in fatto), con i quali, nel censurare il relativo capo della sentenza impugnata, si è sostenuto l’impossibilità di ritenere nullo ex art. 21septies l’atto del Commissario del 27 giugno 2008, costituente permesso di costruire, essendo, semmai, possibile ritenere lo stesso solo annullabile, di modo che il Comune di Roma non avrebbe potuto adottare l’atto impugnato, fin tanto che il precedente provvedimento commissariale non fosse stato eliminato dal mondo giuridico.

E’, innanzi tutto, evidente che, per effetto della ritenuta competenza del Commissario delegato al rilascio di permessi di costruire, il provvedimento di raggiunta intesa non possa essere ritenuto "nullo", ovvero "tamquam non esset".

Occorre, tuttavia, evidenziare che la sentenza appellata (in un suo capo avverso il quale vengono proposti i motivi di appello sopra indicati) ha escluso che le opere realizzate dalla Casa Generalizia "non potrebbero essere ritenute abusive fino a quando il titolo autorizzatorio rilasciato dal Commissario delegato non sia annullato dal giudice amministrativo", poiché, essendo nullo il provvedimento amministrativo viziato da difetto assoluto di attribuzione, ex art. 21septies l. n. 241/1990, "deve qualificarsi nullo e non meramente annullabile il titolo abilitativo rilasciato dal Commissario delegato in assenza del relativo potere in data 27 giugno 2008, sicchè, correttamente, l’amministrazione comunale con l’atto impugnato ha sostanzialmente ritenuto lo stesso tamquam non esset".

Orbene, senza voler entrare nella verifica della identità o diversità intercorrente tra i concetti di "nullità" del provvedimento amministrativo ed "inesistenza" del medesimo (che sembrano essere reputati equivalenti dalla sentenza appellata), il Collegio rileva che il I giudice ha affermato la legittimità dell’atto adottato dal Comune di Roma (nota 11 gennaio 2010), posto che rettamente quest’ultimo avrebbe considerato nullo (o "tamquam non esset"), il provvedimento del Commissario delegato 27 giugno 2008.

Così pronunciando, tuttavia, il Tribunale ha:

– per un verso, rilevato di ufficio la nullità di un atto diverso da quello impugnato, ritenendo evidentemente ciò necessario ai fini della verifica della legittimità di quest’ultimo;

– per altro verso, ha ritenuto che un soggetto dell’ordinamento giuridico (nel caso di specie, il Comune di Roma), possa legittimamente ritenere un provvedimento come "nullo" (o "tamquam non esset"), e quindi agire di conseguenza.

Entrambi gli aspetti – e precisamente quello relativo al potere del giudice (ed ai suoi limiti) di rilevare d’ufficio la nullità di un atto amministrativo (profilo che, peraltro, non ha formato oggetto di specifico motivo di impugnazione), e quello relativo alla rilevabilità in sede non giurisdizionale della nullità dell’atto – meritano attento approfondimento, posto che i medesimi, anche in virtù della recente introduzione della invalidità dell’atto amministrativo sub specie di nullità (sia sul piano sostanziale, sia su quello, di ancor più recente disciplina, della tutela processuale), non hanno ancora ottenuto considerazioni acquisite da parte della giurisprudenza.

E’ noto che il tema della nullità (ante l. n. 15/2005, di modifica della l. n. 241/1990), non era sconosciuto alla giurisprudenza amministrativa.

In particolare, il Consiglio di Stato (Ad. Plen. n. 2/1992), ha a suo tempo individuato una serie di norme, la cui violazione ha ritenuto comportasse una forma di illegittimità "diversa" dell’atto amministrativo, definita come "illegittimità forte". Secondo la citata decisione, se è vero che "l’illegittimità è la qualificazione tradizionale del provvedimento non conforme a legge idoneo a ledere anche interessi particolari", tuttavia "quando la situazione è ribaltata perchè il provvedimento non conforme a legge favorisce il singolo, attribuendogli utilità che non gli spettano e lede, con effetti continuativi, principalmente interessi pubblici, la qualificazione di illegittimità, vuoi per la presumibile mancanza di soggetti legittimati all’impugnazione, vuoi per le non improbabili remore dell’autorità emanante ad esercitare i poteri di autotutela prima della convalescenza dell’atto per decorso del tempo, non è idonea allo scopo".

In tale ultima ipotesi, secondo la sentenza, "non sorprende, allora, che lo spostamento del fulcro della garanzia dal polo privatistico a quello pubblicistico dell’esercizio del potere dia luogo a quella qualificazione giuridica di "illegittimità forte", che è la nullità in senso tecnico". Ciò in quanto "per il provvedimento amministrativo, per il quale il principio generale è che la non conformità a legge ne determina l’illegittimità, strutturata come annullabilità, la nullità si produce nei casi tassativamente stabiliti dalla legge"; in tal senso "illegittimità e nullità del provvedimento amministrativo appaiono come il risultato di tecniche normative fondate su piani di interessi differenti e ispirate a logiche diverse".

Anche il giudice penale ha elaborato (al fine di definire i limiti del proprio potere di disapplicazione) una sua nozione di nullità/inesistenza dell’atto amministrativo. Già le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione (sent. n. 3/1987), nel restringere notevolmente l’ambito di esercizio del potere di disapplicazione da parte del giudice penale, tuttavia lo hanno ammesso nelle ipotesi di provvedimento rilasciato da organo assolutamente privo del potere di provvedere ovvero nel caso di atto giuridicamente inesistente o illecito. Successivamente, si è sostenuta la possibilità di sindacato incidentale da parte del giudice penale di fronte ad illegittimità dell’atto amministrativo "macroscopiche" (Cass. pen., sez. III, n. 4421/1996) ovvero "eclatanti" (Sez. III, n. 11988/1997).

Attualmente, l’art. 21septies l. 7 agosto 1990 n. 241 (introdotto dalla l. n. 15/2005), prevede che "è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge." (comma 1).

A sua volta, l’art. 31, comma 4, Cpa, prevede che "la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice….".

Occorre, innanzi tutto, osservare che, per effetto del citato art. 21septies, l. n. 241/1990, che enuclea le cause di nullità dell’atto amministrativo (cause che la giurisprudenza ha considerato numerus clausus: Cons. Stato, sez. VI, 31 marzo 2011 n. 1983), il "difetto assoluto di attribuzione" – in passato considerato quale indicatore di "inesistenza" dell’atto amministrativo – è ora positivamente indicato quale causa di nullità del medesimo.

Con riguardo al tema generale della nullità, si è affermato (Cons. Stato, sez. VI, n. 3173/2007 e n. 891/2006) che "nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l’annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di violazione di norme imperative è quella della nullità".

Occorre, inoltre, osservare che, per il tramite della norma processuale, il legislatore:

– per un verso, ha assoggettato la declaratoria di nullità dell’atto amministrativo alla proposizione della relativa domanda al giudice da parte di chi vi abbia interesse, entro il termine di centottanta giorni, da intendersi come decorrente dalla piena conoscenza dell’atto medesimo;

– per altro verso, ha affermato, anche per la nullità dell’atto amministrativo, sia la opponibilità "in perpetuum" della nullità ad opera della parte resistente, sia la rilevabilità di ufficio della medesima, da parte del giudice.

Come è dato rilevare, la complessiva disciplina positiva della nullità dell’atto amministrativo ha recepito solo in parte gli aspetti salienti di tale forma di invalidità.

Ed infatti, il legislatore, a fronte di un aspetto tipico della nullità, rappresentato dalla previsione di un’azione imprescrittibile volta ad ottenerne la declaratoria da parte di chiunque vi abbia interesse, ha invece previsto che la detta azione venga proposta entro il termine decadenziale di 180 giorni (e ciò sebbene parte della giurisprudenza avesse ritenuto l’imprescrittibilità dell’azione di nullità: Cons. Stato., sez. V, n. 4136/2007).

Il legislatore ha invece positivamente recepito altri aspetti tipici di disciplina della nullità, quali sono quelli della sua perpetua opponibilità in giudizio e della rilevabilità di ufficio da parte del giudice.

Orbene, il fatto che la rilevabilità di ufficio della nullità sia dall’art. 31, co. 4, Cpa demandata solo al giudice, esclude che la medesima nullità possa essere rilevata ex officio dalla Pubblica Amministrazione (se non attraverso l’esercizio, ove ne ricorrano i presupposti, del potere di autotutela su atto proprio).

Ciò appare coerente con il disegno complessivo del legislatore, che – pur in presenza dell’introdotto istituto della nullità – ha inteso conciliare quest’ultima con il più generale principio di imperatività dell’atto amministrativo, e, quindi, con la conseguente suscettività di produrre effetti da parte del provvedimento invalido (ma non ancora dichiarato tale). E ciò il legislatore ha perseguito sia con il prevedere un termine di decadenza (onde ottenere la stabilizzazione delle situazioni giuridiche sorte per effetto del provvedimento invalido), sia con il limitare al solo giudice (escludendo tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, e quindi non solo i soggetti privati, ma anche la stessa Pubblica Amministrazione), il potere di dichiarare ex officio la nullità, salvo la possibilità per la P.A., ove ne ricorrano i presupposti, dell’esercizio del potere di autotutela sull’atto nullo da essa stessa emanato.

La stessa declaratoria di ufficio della nullità da parte del giudice, deve essere correlata al rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex artt. 112 c.p.c. e 39 Cpa., in modo non dissimile da quanto già elaborato dalla giurisprudenza con riferimento alla possibilità ed ai limiti della declaratoria di ufficio della nullità del contratto, ex art. 1421 c.c. (da ultimo, Cass. Civ., sez. I, 14 aprile 2011 n. 8539; Cass. Civ. sez. III, 7 febbraio 2011 n. 1956).

Ne consegue che il giudice amministrativo può di ufficio procedere a dichiarare la nullità di atti amministrativi (ovviamente in un giudizio diverso da quello ex art. 31, co. 4 Cpa), solo se tale declaratoria risulta funzionale alla pronuncia sulla domanda introdotta in giudizio (e quindi, nel giudizio impugnatorio, alla declaratoria di illegittimità dell’atto impugnato e quindi al suo annullamento, ovvero, al contrario, al rigetto della domanda di annullamento).

In definitiva, occorre affermare che il provvedimento amministrativo, ancorchè nullo, ha, tuttavia, una propria efficacia "interinale" (fin tanto che la nullità non venga accertata), la quale rende possibile la stessa definizione dell’atto come provvedimento amministrativo dotato di imperatività (e che, pertanto, si impone unilateralmente ai suoi destinatari).

Questi ultimi non possono sottrarsi agli effetti dell’atto, ovvero agire come se l’atto non esistesse e/o fosse improduttivo di effetti, ritenendo ovvero opponendo la nullità dello stesso, ma, onde tutelare le proprie posizioni giuridiche, hanno il potere di agire in giudizio al fine di ottenerne la declaratoria di nullità. Ciò vale anche per la Pubblica Amministrazione, avverso provvedimenti emanati da altra autorità amministrativa ritenuti nulli, ed avverso i quali la prima amministrazione non è titolare di potere di autotutela.

Da quanto esposto, consegue che, nel caso di specie, il Comune di Roma non poteva, sul piano della concreta attività amministrativa, "semplicemente" considerare nullo, e quindi "tamquam non esset" il provvedimento emanato dal Commissario delegato, così adottando la nota 11 gennaio 2010 (e motivando la stessa su tale presupposto), non essendo esso titolare, al pari di ogni altro soggetto dell’ordinamento diverso dal giudice amministrativo, di un potere dichiarativo della sussistenza della nullità dell’atto amministrativo.

Laddove avesse ritenuto l’atto nullo, il Comune di Roma avrebbe dovuto adire il giudice per la declaratoria di nullità del medesimo.

Né la suddetta determinazione poteva essere unilateralmente assunta dal Comune di Roma sulla base di pronunce del giudice penale, attesa l’autonomia di valutazione di quest’ultimo (sulla scorta della citata giurisprudenza in tema di disapplicazione dell’atto amministrativo) ed i poteri ben differenti del giudice rispetto all’autorità amministrativa. Ed a maggior ragione ciò non era possibile nel caso di specie, e cioè nei confronti di atto emanato da altra Autorità, a seguito di procedimento che ha coinvolto lo stesso Comune di Roma.

Non può essere, dunque, condivisa la sentenza appellata, laddove essa afferma che "correttamente, l’amministrazione comunale con l’atto impugnato ha sostanzialmente ritenuto lo stesso tamquam non esset", così affermando la legittimità della nota 11 gennaio 2010.

Per le ragioni esposte, sono fondati, e devono essere pertanto, accolti il motivo (sub b) dell’esposizione in fatto), proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché il motivo (sub c) proposto dalla Casa Generalizia, posto che i titoli autorizzatori rilasciati dal Commissario "non possono ritenersi nulli ai sensi dell’art. 21septies della l. n. 241/1990)".

14. Deve essere, invece, rigettato, perché infondato, il motivo di appello proposto dalla Casa Generalizia (sub f) dell’esposizione in fatto), con il quale si lamenta un error in iudicando della sentenza appellata, poiché, quanto alla pronunciata inammissibilità dell’azione di accertamento, quest’ultima deve invece ritenersi ammissibile, pur non essendo stata espressamente codificata, sia in ragione del "rinvio esterno di cui all’art. 39, co. 1, Cpa, ai principi generali del Codice di procedura civile (ove è indiscutibilmente ammessa detta azione) e in considerazione del fatto che il nuovo Codice… contempla azioni sicuramente dichiarative". Né può desumersi "dal tessuto della nuova codificazione, un divieto implicito nel giudizio amministrativo di azioni di accertamento non espressamente previste (ovvero un principio di tipicità delle azioni), poiché un ostacolo di tal fatta ad esperire, in generale, azioni di accertamento si porrebbe in stridente contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., che sancisce il diritto di azione per la tutela degli interessi legittimi in sé considerati".

Orbene, la sentenza appellata ha ritenuto inammissibile la domanda di accertamento poiché essa (e la relativa azione) "postula la natura di diritto soggettivo della posizione giuridica dedotta in giudizio che, nel caso di specie, ha invece natura di interesse legittimo".

In disparte ogni preliminare considerazione in merito alla persistenza dell’interesse ad agire connesso ad una azione di mero accertamento, in presenza del conseguito esito positivo dell’azione di annullamento, le conclusioni alle quali perviene il I giudice devono essere confermate nella presente sede, ritenendosi infondate le ragioni prospettate dall’appellante.

Come è noto, il legislatore delegato non ha inteso dare (se non parziale) attuazione al criterio di delega (art. 44, co. 2, lett. b) alinea e n. 4) della l. n. 69/2009, concernente la previsione di azioni e pronunce dichiarative nell’ambito del processo amministrativo. Dal che può affermarsi che le azioni dichiarative esperibili innanzi al giudice amministrativo sono esclusivamente quelle espressamente contemplate dal Codice del processo amministrativo.

Né può ritenersi esperibile l’azione dichiarativa nell’ambito del processo amministrativo, in virtù del generale richiamo alle norme del Codice di procedura civile operato dall’art. 39 Cpa. Ed infatti l’applicazione di dette disposizioni presuppone che le stesse siano "compatibili o espressione di principi generali", laddove proprio la diversa natura della posizione giuridica soggettiva tutelata in giudizio, esclude sia "generalità del principio" sia compatibilità della disposizione.

D’altra parte, proprio la limitata introduzione dell’azione (e pronuncia) dichiarativa nell’ambito del giudizio amministrativo, porta conseguentemente ad escludere (stante la incompatibilità) la possibilità di ampliare l’ambito dell’azione dichiarativa medesima.

Tali considerazioni, ora succintamente espresse, non possono essere superate né da diversa ricostruzione dell’interesse legittimo, né da una evocazione di tutela "piena" del medesimo, ex art. 24 Cost. (che presuppone – onde valutare l’adeguatezza di tutela – la definizione della posizione giuridica e del suo contenuto), né da una presunta assenza di divieti impliciti all’esperibilità dell’azione di accertamento.

Orbene, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (sez. IV, 3 agosto 2011 n. 4644), ricostruendo la posizione di interesse legittimo:

"nell’ambito della situazione dinamica in cui si pone l’esercizio del potere amministrativo, dunque, l’interesse è "personale" in quanto esso si appunta solo in capo al soggetto che si rappresenta come titolare, non è trasferibile né è consentito al soggetto ampliarne o comunque modificarne l’ambito di titolarità (inter vivos o mortis causa); ed è altresì (inscindibilmente con la prima caratteristica), anche "diretto", in quanto il suo titolare è posto in una relazione di immediata inerenza con l’esercizio del potere amministrativo (per essere destinatario dell’atto e/o per avere nei confronti dell’atto una posizione opposta (speculare) a quella del destinatario diretto).

Da ciò consegue che non possono esservi posizioni di interesse legittimo nei confronti della Pubblica amministrazione in esercizio del potere amministrativo conferitole dall’ordinamento, che non siano quelle (e solo quelle) che sorgono per effetto dello stesso statuto normativo del potere, nell’ambito del rapporto giuridico di diritto pubblico, (pre)configurato normativamente… Laddove, dunque, gli attributi di "personale" e "diretto" attengono all’interesse legittimo in quanto posizione sostanziale, e consentono di circoscriverne la titolarità, l’ulteriore attributo di "attuale", attiene alla proiezione processuale della posizione sostanziale, alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che renda dunque necessaria l’azione in giudizio, onde ottenere tutela, e quindi "utile", a tali fini, la pronuncia del giudice.".

Alla luce di tale ricostruzione dell’interesse legittimo, dalla quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, consegue a tutta evidenza la impossibilità di configurare una azione dichiarativa della sussistenza di tale posizione giuridica sostanziale..

Ed infatti, se tale posizione sostanziale risulta percepibile solo nel momento dinamico dell’esercizio del potere, appare evidente come essa sfugga ad una operazione di "accertamento", per venire ad essere tutelata attraverso il sindacato sull’esercizio, o sul mancato esercizio (provvedimento negativo) del potere da parte dell’amministrazione cui lo stesso è funzionalmente conferito.

In definitiva, l’azione di accertamento, lungi dal poter avere una propria autonomia (ed anche una qualche utilità), si confonde nella più generale azione di annullamento, ottenendo la posizione giuridica soddisfazione per il tramite dell’annullamento dell’atto (cui è funzionale il previo profilo "di accertamento" della pronuncia del giudice) e, ove necessario, per mezzo del successivo giudizio di ottemperanza.

Pere tutte le ragioni esposte, il motivo di appello (sub f) dell’esposizione in fatto), proposto dalla Casa Generalizia è infondato e deve essere, pertanto, rigettato, con conseguente conferma, sul punto, della sentenza appellata.

15. Per tutte le ragioni sin qui esposte (e ritenuto assorbito ogni ulteriore motivo di impugnazione), gli appelli proposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (in via principale) e dalla Casa Generalizia (in via incidentale) devono essere accolti, nei modi e limiti sopra precisati, e pertanto, in riforma della sentenza appellata, ed in accoglimento del ricorso proposto dalla Casa Generalizia in I grado, deve essere annullato l’atto del Comune di Roma 11 gennaio 2010.

Resta fermo che l’annullamento di tale atto è disposto in relazione alla illegittima affermazione della insussistenza di titolo autorizzatorio edilizio per gli interventi realizzati dalla Casa Generalizia, a seguito del provvedimento di raggiunta intesa emesso dal Commissario delegato per i campionati mondiali di nuoto Roma 2009, restando impregiudicato ogni accertamento e valutazione della conformità degli interventi concretamente realizzati con detto titolo autorizzatorio.

Infine, deve essere rigettato l’appello incidentale, in quanto proposto avverso la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto in I grado, con riferimento alla avanzata domanda di accertamento.

Stante la natura e complessità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (n. 3715/2011 r.g.), nonché sull’appello incidentale proposto dalla Casa Generalizia dell’Istituto dei fratelli del Sacro Cuore:

a) accoglie in parte l’appello, nonchè l’appello incidentale, nei sensi e limiti precisati in motivazione, e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, ed in accoglimento del ricorso proposto in I grado dalla Casa Generalizia dell’Istituto dei fratelli del Sacro Cuore, annulla la nota 11 gennaio 2010 del Comune di Roma;

b) rigetta l’appello incidentale, con riferimento alla declaratoria di inammissibilità della avanzata domanda di accertamento, confermando sul punto l’impugnata sentenza;

c) compensa tra le parti spese, diritti ed onorari del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. III, Sent., 23-11-2011, n. 6180 Equo indennizzo Infermita’: rimborso spese di cura

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

– La Sig.ra A. L. F., vedova del Sig. C. B. (dipendente dell’ente appellato, deceduto il 24 agosto 1992, a causa di una neoplasia polmonare), ricorre in appello avverso la sentenza del TAR della Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria, n. 849/2007, con cui è stato respinto il ricorso proposto per l’annullamento del diniego di equo indennizzo (delibera n. 531 del 18.4.1996 della ASL n. 9 di Locri).

– L’appello è essenzialmente affidato ad un unico motivo: il TAR avrebbe omesso di pronunciare sulla richiesta di CTU medica, tesa a verificare il nesso causale tra la neoplasia polmonare da cui era affetto il defunto marito della ricorrente ed il servizio da lui prestato, quale Vice Direttore amministrativo, che avrebbe inalato o contattato sostanze chimiche nell’organizzazione di servizio di disinfezione e disinfestazione, nonché nei sopralluoghi in discariche presso inceneritore dell’Ospedale (come risulterebbe dalla relazione inviata alla C.M.O. dal Capo Servizio n. 1 e dalla relazione del dirigente sanitario dell’11 luglio 1995).

La sentenza del TAR andrebbe, dunque, annullata perché priva di adeguata motivazione a sostegno della decisione.

– L’appellante chiede, pertanto, in via preliminare, che venga disposta in appello la consulenza tecnica.

– Non si è costituita l’Azienda Sanitaria Locale n. 9 di Locri.

– All’udienza del 21 ottobre 2011, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

Motivi della decisione

– L’appello non è fondato.

– Con unico motivo la ricorrente ha lamentato la mancata ammissione da parte del Giudice di primo grado della Consulenza tecnica medica, ritualmente richiesta, che consentirebbe un controllo sulla veridicità del giudizio di fatto compiuto dall’Amministrazione, ovvero consentirebbe di accertare se la neoplasia polmonare, che ha condotto a morte il coniuge, fosse stata o meno contratta a causa di servizio.

Ha lamentato, inoltre, l’omessa motivazione sul punto, chiedendo che la prova venga ammessa in grado di appello.

– Il Collegio non ritiene che l’istanza istruttoria, su cui ha omesso di pronunciare il TAR, riformulata dall’appellante, andasse accolta.

Ad avviso del Collegio, era intervenuta nel procedimento amministrativo, una sufficiente istruttoria ed è condivisibile la decisione del Tar secondo cui, a fronte di un giudizio tecnico (quello del C.P.P.O.) puntualmente e largamente motivato, l’Amministrazione non era tenuta ad ulteriori verifiche, né ad esplicitare le ragioni della propria adesione a tale parere.

Il parere del Comitato è stato espresso sulla scorta di tutta la documentazione afferente al servizio, trasmessa con nota del 7.12.1995 n. 48417, e contiene, difatti, l’affermazione che "non si rinvengono nei precedenti di servizio dell’interessato fattori specifici potenzialmente idonei a dar luogo a genesi neoplastica".

Non vi sono elementi certi od indizi gravi, precisi e concordanti da cui desumere che il Comitato non abbia adeguatamente valutato l’attività di servizio svolta in concreto dal dipendente, né che la ritenuta mancanza di un rapporto eziologico dell’infermità con il servizio svolto, con riferimento alle modalità di espletamento ed all’ambiente di lavoro, sia dipesa dal mancato esame di atti, relazioni o fatti, come sembra ritenere l’appellante.

Non vi è ragione, dunque, di ritenere che fosse necessario espletare ulteriore accertamento tecnico in giudizio.

Pertanto, sul punto, la sentenza del TAR ha implicitamente motivato la decisione di non ammettere ulteriori prove.

– D’altra parte, la giurisprudenza, pacificamente, è nel senso di ritenere che la variegata e qualificatissima estrazione tecnica dei componenti del CPPO, organo nel quale sono presenti professionalità mediche, giuridiche ed amministrative, e la più completa istruttoria da questo esperita, non limitata ai soli aspetti medicolegali, sono garanzia circa l’attendibilità della determinazione A.; con la conseguenza che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di motivare le ragioni della preferenza accordata al parere obbligatorio reso dal Comitato (Consiglio Stato, sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 1115; 17 ottobre 2008, n. 5054; sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 6333).

– Pertanto, nessun pregio può accordarsi neppure alle affermazioni dell’appellante, secondo cui mancherebbe idonea motivazione a sostegno della decisione impugnata.

– Per le considerazioni esposte l’appello in epigrafe va respinto.

– Nulla per le spese del secondo grado, non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione appellata.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Nulla spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 15-12-2011, n. 9811

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Svolgimento del processo

Con il ricorso introduttivo del giudizio la ricorrente P.R. ha chiesto l’accertamento del suo diritto ad essere inquadrata nella qualifica funzionale e profilo professionale superiori così come indicato in epigrafe.

La ricorrente, dipendente civile del Ministero della Difesa, in servizio presso S.M.M.E.P., inquadrata ai sensi dell’art. 4, ottavo comma, della legge n. 312/80 nel profilo professionale n. 25 della IV qualifica funzionale, fa presente di essere stata assegnata, a decorrere dal 1981, allo svolgimento delle superiori mansioni di assistente amministrativo, inerenti il profilo professionale n. 2 della VII qualifica funzionale, il cui espletamento risulta da atti formali della P.A.

Con lettera dell’11 maggio 1992 la ricorrente inoltrava all’Amministrazione competente una richiesta di inquadramento nella VII qualifica funzionale, profilo professionale n. 2, ai sensi del 10° comma dell’art. 4 della legge n. 312/80.

L’Amministrazione non adottava alcun provvedimento limitandosi a fornire all’interessata una risposta evasiva e comunque interlocutoria con foglio n. 24303 del 4 giugno 1992.

Ritenendo erroneo ed illegittimo il comportamento dell’Amministrazione la ricorrente ha proposto il presente ricorso, nel quale ha sollevato, in via pregiudiziale, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 57 del D. L.vo n. 29 del 3 febbraio 1993 in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui, in deroga all’art. 2103 del Cod. civ., prevede che l’esercizio temporaneo di mansioni superiori non attribuisca al dipendente il diritto all’assegnazione definitiva delle stesse.

L’Amministrazione intimata si è costituita formalmente in giudizio a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato.

Alla pubblica udienza del 18 maggio 2011 la causa è passata in decisione.

Motivi della decisione

1. Il Collegio osserva che la ricorrente, dipendente civile del Ministero della Difesa, in servizio presso S.M.M.E.P., sul presupposto di aver svolto dal 1981 mansioni superiori rientranti nell’ambito del profilo professionale n. 2 della VII qualifica funzionale, ha chiesto l’accertamento del suo diritto ad un diverso superiore inquadramento.

Al riguardo, è stato sostenuto che l’Amministrazione avrebbe erroneamente interpretato le disposizioni contenute nel d. lgs. n. 29/1993, senza tenere conto che la parte ricorrente aveva maturato tale diritto nella vigenza dell’abrogato comma 10 dell’articolo 4 della legge n. 312 del 1980, il quale prevedeva l’inquadramento nella corrispondente qualifica funzionale per i dipendenti che svolgevano da oltre cinque anni mansioni superiori, previo espletamento di una prova selettiva mai indetta dall’Amministrazione.

Peraltro, tale pretesa, a parere della ricorrente, non sarebbe in contrasto con quanto stabilito dall’art. 57 del d. lgs. n. 29/1993, considerando che l’interessato aveva svolto per un lungo numero di anni mansioni superiori e che, quindi, in ragione delle necessità funzionali e organizzative dell’Amministrazione, le mansioni assegnate avevano acquistato i caratteri della definitività e dell’irreversibilità, sicchè non si comprendono le ragioni per le quali l’Amministrazione non avrebbe potuto soddisfare le richieste della parte ricorrente, se non altro per ragioni di equità e di giustizia sostanziale.

Comunque, lo svolgimento di mansioni superiori con le modalità e per il tempo indicati, hanno determinato il consolidamento della situazione soggettiva della ricorrente.

La ricorrente ha, inoltre, dedotto la violazione dell’art. 57 del D. Lgs. 3/2/93, n. 29, in quanto la disciplina introdotta con il citato articolo 57 ha previsto che "l’utilizzazione del dipendente può essere disposta esclusivamente per un periodo non eccedente i tre mesi (I comma). Nel caso di assegnazione a superiori mansioni il dipendente ha diritto al trattamento economico corrispondente all’attività per il periodo di espletamento delle medesime…". In sostanza, in deroga all’art. 2103 c.c. tale normativa non ha previsto che l’esercizio temporaneo di mansioni superiori attribuisca il diritto all’assegnazione definitiva delle stesse. Nel caso di specie, però, le superiori mansioni corrispondenti alla VI qualifica funzionale ex D.P.R. n. 12189/84, assegnate ed espletate dalla ricorrente per molti anni in favore del Ministero della Difesa, hanno acquisito nel corso del tempo, in ragione delle necessità funzionali ed organizzative dell’articolazione pubblica, il predicato della definitività e della non reversibilità, risolvendosi nella sostanza in una riscontrata modificazione dei compiti in origine assegnati al dipendente. L’eccezionalità e la particolarità della condizione lavorativa della ricorrente impongono, quindi, per ragioni di equità e giustizia sostanziale, la declaratoria del diritto alla tutela apprestata al prestatore di lavoro dall’art. 2103 c.c. sia in ordine alla richiesta di inquadramento professionale superiore, sia ai fini del riconoscimento del diritto alla liquidazione delle differenze retributive medio tempore maturate e mai corrisposte dall’Amministrazione.

In via pregiudiziale la ricorrente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del suddetto art. 57 in relazione all’art. 3 della Costituzione nella parte in cui, in deroga all’art. 2103 del Cod. civ., stabilisce che l’esercizio temporaneo di mansioni superiori non attribuisca al pubblico dipendente il diritto all’assegnazione definitiva delle stesse.

In subordine, la ricorrente ha evidenziato che la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent. n.57 del 23/2/89), in tema di prestazioni lavorative di fatto ha sancito il principio per cui il difetto di atto formale che conferisca al dipendente l’assegnazioni a mansioni superiori è supplito dal principio della prestazione di fatto di cui all’art. 2126 c.c., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego. Per cui l’Amministrazione non può disconoscere al ricorrente il diritto di godere del maggior trattamento economico sulla base anche del disposto dell’art. 2126 c.c.

2. Il Collegio ritiene che la domanda avanzata dalla parte ricorrente – di accertamento del diritto di essere inquadrato in un diverso profilo professionale – sia infondata e debba essere respinta per le ragioni di seguito indicate.

L’art. 4 del D.P.R. n. 312/1980 (recante il Nuovo assetto retributivofunzionale del personale civile e militare dello Stato), richiamato dalla ricorrente, nel disciplinare il primo inquadramento nelle qualifiche funzionali del personale in servizio al 1° gennaio 1978 ha, tra l’altro, stabilito che "il personale che ritenga di individuare in una qualifica funzionale superiore a quella in cui è stato inquadrato le attribuzioni effettivamente svolte da almeno cinque anni può essere sottoposto, a domanda da presentarsi entro 90 giorni dall’entrata in vigore della presente legge e previa favorevole valutazione del consiglio di amministrazione, ad una prova selettiva intesa ad accertare l’effettivo possesso della relativa professionalità" (comma 10).

Tale comma è stato abrogato dall’art. 74, D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e dall’art. 72, D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 ma durante la sua vigenza risulta evidente che non si è addivenuti ad un nuovo inquadramento dell’interessato non tanto perché l’Amministrazione non avesse disposto la prova selettiva intesa ad accertare l’effettivo possesso della relativa professionalità (prevista dall’ultima parte del citato comma 10, dell’art. 3, D.P.R. n. 312/1980), quanto perché la ricorrente non risulta aver presentato (come imposto dalla norma richiamata) domanda entro 90 giorni dall’entrata in vigore della norma citata al fine di essere sottoposto alla valutazione del Consiglio di Amministrazione ed alla prova selettiva tesa ad accertare l’effettivo possesso della sua professionalità.

Appare evidente, pertanto, che la ricorrente non può lamentare di non aver ottenuto un diverso inquadramento, posto che non risulta neanche averlo chiesto a tempo debito.

Né si può giungere ad una diversa conclusione sulla base di quanto stabilito dall’art. 57 del d.lgs. n.29/1993 (poi trasfuso nel d.lgs. n.165/2001), in quanto tale norma, nel dettare disposizioni in tema di mansioni superiori, ha stabilito che solo "per obiettive esigenze di servizio, il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni immediatamente superiori: a) nel caso di vacanza di posto in organico, per un periodo non superiori a tre mesi dal verificarsi della vacanza, salva possibilità di attribuire le mansioni superiori ad altri dipendenti per non oltre tre mesi ulteriori della vacanza stessa; b) nel caso di sostituzione di altro dipendente con diritto alla conservazione del posto per tutto il periodo di assenza, tranne quello per ferie". Ma "L’assegnazione alle mansioni superiori è disposta, con le procedure previste dai rispettivi ordinamenti, dal dirigente preposto all’unità organizzativa presso cui il dipendente presta servizio, anche se in posizione di fuori ruolo o comando, con provvedimento motivato, ferma restando la responsabilità disciplinare e patrimoniale del dirigente stesso. Qualora l’utilizzazione del dipendente per lo svolgimento di mansioni superiori sia disposta per sopperire a vacanze dei posti di organico, contestualmente alla data in cui il dipendente è assegnato alle predette mansioni devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti". E, comunque, "Non costituisce esercizio di mansioni superiori l’attribuzione di alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni stesse, disposta ai sensi dell’articolo 56, comma 2".

Tali disposizioni, peraltro, hanno assunto efficacia a decorrere dalla data di emanazione, in ciascuna Amministrazione, dei provvedimenti di ridefinizione degli Uffici e delle piante organiche di cui agli articoli 30 e 31 e, comunque, a decorrere dal 31 dicembre 1996 (art.57, comma 6, d.lgs. n.29/1003).

Va, quindi, rigettata la domanda della ricorrente volta ad ottenere l’accertamento del diritto all’inquadramento superiore richiesto.

In ordine, infine, alla dedotta questione di legittimità costituzionale dell’art. 57 del D. L.vo n. 29 del 1993, la stessa si appalesa manifestamente infondata, attesa la particolare natura del rapporto di pubblico impiego nel quale non possono assumere alcun rilievo le mansioni superiori svolte dai pubblici dipendenti, sia ai fini giuridici che economici, salvo i casi in cui una espressa norma di legge intenda derogare a tale principio nei soli limiti da essa sanciti.

3. Alla luce delle considerazioni che precedono il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e debba essere respinto.

4. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione resistente, delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (duemila).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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