Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-03-2012, n. 3798

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Nel corso di un procedimento penale nei confronti di M.A. e altri, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza conferiva al geometra N.L.P. l’incarico di consulente tecnico d’ufficio (cd. Perizia SOBATEC s.r.l.).

Espletato l’incarico, il P.M. liquidava in favore del consulente tecnico d’ufficio un compenso di Euro 7.977,42 oltre Euro 1.155,00 per spese documentate.

Avverso il decreto di liquidazione, N.L.P. proponeva opposizione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170.

Il Presidente del Tribunale di Cosenza, con ordinanza depositata il 26 maggio 2010, in parziale accoglimento dell’opposizione, ha rideterminato le spese in Euro 2.200,00, confermando il decreto nel resto.

Per la cassazione di questa ordinanza, N.L.P. ha proposto ricorso ex art. 111 Cost., comma 7; l’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Il collegio ha deliberato l’adozione delle motivazione semplificata nella redazione della sentenza.

Preliminare alla stessa esposizione dei motivi del ricorso è il rilievo che il procedimento di opposizione al decreto di liquidazione si è svolto a contraddittorio non integro.

Lo stesso ricorrente, invero, riferisce che l’incarico di consulenza gli era stato affidato nel corso di un procedimento penale a carico di M.A. e altri.

Rileva il Collegio che l’opposizione del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170, in esito al cui procedimento è stata emessa dal Presidente del Tribunale di Cosenza l’ordinanza oggetto del ricorso per cassazione, si è svolta in violazione del necessario contraddittorio con l’imputato del procedimento penale, nell’ambito del quale è stata esperita la consulenza tecnica d’ufficio.

Risulta dagli atti di causa che nel predetto giudizio di opposizione il contraddittorio è stato instaurato esclusivamente nei confronti dell’Ufficio del pubblico ministero e dell’Agenzia delle entrate, mentre nessuna notifica del ricorso in opposizione e del pedissequo decreto è avvenuta nei confronti degli imputati M.A. e altri.

Questa Corte (Cass., sez. 2, n. 4739 del 2011) ha già affermato che, in tema di procedimento di opposizione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170, per la liquidazione dei compensi al perito, l’imputato, parte del processo al quale l’attività dell’ausiliario è riferita, è senz’altro interessato al ricorso con cui il perito si dolga dell’insufficiente liquidazione, atteso che il maggior onere derivante dalla richiesta riforma del provvedimento impugnato ha una ricaduta nei suoi confronti; è pertanto viziato da nullità, per violazione del principio del contraddittorio, il provvedimento emesso in Camera di consiglio senza che all’imputato ed al suo difensore sia stata notificato l’avviso dell’udienza camerale.

Tale nullità si ricollega ad un difetto di attività del giudice a quo, al quale incombeva l’obbligo di adottare un provvedimento per assicurare il regolare contraddittorio del processo, e può essere rilevata anche d’ufficio nel giudizio di cassazione.

La riscontrata nullità impone, decidendo sul ricorso, di cassare l’ordinanza impugnata e di rinviare la causa al Tribunale di Cosenza perchè, in persona di diverso magistrato, provveda in camera di consiglio sul giudizio di opposizione previa l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli imputati.

Il giudice del rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, decidendo sul ricorso, cassa l’ordinanza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Cosenza in persona di diverso magistrato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-04-2012, n. 5779 Retribuzione pensionabile

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Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Bari, L.M., operaia agricola a tempo determinato, iscritta negli elenchi anagrafici del Comune di residenza e titolare di pensione I.N.P.S., esponeva che in conseguenza di una erronea interpretazione del D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28, l’I.N.P.S. le aveva attribuito un trattamento pensionistico inferiore a quello spettantegli, avendo l’Istituto fatto riferimento, per la determinazione della retribuzione pensionabile, al salario medio convenzionale previsto dai D.M. di cui agli artt. 5 e 28 del D.P.R. citato.

Chiedeva dunque la condanna dell’I.N.P.S. alla riliquidazione della pensione in godimento, da calcolarsi sulla base del salario convenzionale pubblicato nell’anno successivo a quello in cui il lavoro era stato prestato.

Costituitosi l’I.N.P.S., il Tribunale di Trani con sentenza del 12.12.2008 accoglieva la domanda, sentenza riformata dalla Corte d’appello di Bari depositata il 3.12.2009. La Corte richiamava il più recente orientamento della Suprema Corte sul punto (Cass. n. 2531/2009, Cass. n. 2596/09; Cass. n. 4355/2009) che aveva fatto applicazione della L. n. 144 del 1999, art. 45, comma 21, di interpretazione autentica della L. n. 457 del 1972, art. 3, con conseguente affermazione della legittimità del comportamento dell’INPS. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la L., affidato ad un motivo. Resiste l’INPS con controricorso, che ha depositato memoria difensiva.

Motivi della decisione

Nel motivo formulato si deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 488 del 1968, artt. 5 e 28, della L. n. 457 del 1972, art. 3, come interpretato dalla L. n. 144 del 1999, art. 45, comma 21, e degli artt. 3 e 38 Cost.. La L. n. 144 del 1999, art. 45, comma 21, può applicarsi solo per la individuazione della retribuzione da porre a base di calcolo della indennità di malattia, ovvero delle prestazioni temporanee, ma non anche delle prestazioni pensionistiche. Inoltre il principio generale in tema di determinazione delle retribuzione pensionabile, come desumibile dalla L. n. 297 del 1982, è che la misura del trattamento sia agganciata all’ultima retribuzione, principio non osservato nella prassi dell’INPS. Inoltre ben si potrebbe liquidare il trattamento sulla base dei salari registrati nell’ultimo anno di lavoro, anche se pubblicati dopo la data del trattamento, in quanto si potrebbe erogarli come differenze.

Il ricorso è infondato.

Va ricordato che questa Corte, rimeditato il precedente orientamento espresso con la sentenza n. 2377 del 5 febbraio 2007, ha ritenuto (Cass. 30 gennaio 2009 n. 2531; Cass. 3 febbraio 2009 n. 2596; Cass. 23 febbraio 2009 n. 4355) che "in tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata applicando il D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, art. 28, e, dunque, in forza della determinazione operata anno per anno dai D.M. sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale nell’anno precedente, ciò trovando conferma – oltre che nella impossibilità di rinvenire un diverso e più funzionale sistema di calcolo, che non pregiudichi l’equilibrio stesso della gestione previdenziale di settore – anche nella disposizione di cui alla L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 45, comma 21, che, nell’interpretare autenticamente la L. 8 agosto 1972, n. 457, art. 3, concernente le prestazioni temporanee in favore dei lavoratori agricoli, ha inteso estendere ai lavoratori agricoli a tempo determinato l’applicazione della media della retribuzione prevista dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente prevista per i salariati fissi, così da ricondurre l’intero sistema ad uniformità, facendo operare, ai fini del calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente".

La Corte non ha ragione di discostarsi dalle citate pronunce (che esclude la tesi avanzata nel ricorso per cui l’art. 45 si applicherebbe solo al trattamento di malattia), che trovano peraltro ulteriore conforto nella sentenza n. 257 del 2011 della Corte Cost..

Nelle more è infatti intervenuto la L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 5 (legge finanziaria 2010), avente il seguente tenore: "la L. 8 agosto 1972, n. 457, art. 3, comma 3, si interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30 ottobre per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a tempo determinato è il medesimo di quello previsto della citata L. n. 457 del 1972, art. 3, comma 2, per gli operai a tempo indeterminato". La Corte Cost. nel respingere le questioni di legittimità costituzionale della L. 23 dicembre 2009, n. 191, art. 2, comma 5, ha confermato che non appare irragionevole la finalità perseguita dal legislatore, diretta a ricondurre il sistema ad una disciplina uniforme, utilizzando, ai fini del calcolo di tutte le prestazioni in questione, le retribuzioni dell’anno precedente.

Pertanto le questioni di legittimità costituzionale prospettate nel primo motivo sono già state valutate dalle Corte delle leggi che le ha respinte, in relazione ai parametri oggi riproposti nell’ultima parte del motivo.

Il ricorso va pertanto rigettato. Stante la natura della controversia e la pregressa incertezza giurisprudenziale, l’approvazione di una norma di interpretazione autentica in materia, si devono compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. VI, Sent., 17-05-2012, n. 7798 Diritti politici e civili

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Svolgimento del processo

che:

1. Il Ministero della Giustizia propone ricorso per cassazione, basato su un unico motivo di impugnazione, avverso il decreto della Corte di appello di Roma menzionato in epigrafe, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e degli artt. 99 e 101 c.p.c..

2. Il Ministero ricorrente fa rimarcare che T.C. non è intervenuta nella procedura fallimentare della s.r.l. dopo la morte del suo dante causa avvenuta il (OMISSIS). Ciononostante la Corte di appello ha liquidato l’equa riparazione per la durata eccessiva della procedura fallimentare anche in relazione al periodo successivo a quello che ha visto la partecipazione, quale creditore, del padre della T., M.N..

3. Il Ministero lamenta a tale proposito la violazione del principio, pacifico in giurisprudenza (Casa. civ. 11302/2009, 2983/08), secondo cui in caso di mancata costituzione in giudizio dopo il decesso del dante causa nessun danno può essere riconosciuto agli eredi e, specificamente in materia di equa riparazione ex L. n. 89 del 2001, l’erede ha diritto a conseguire, iure successionis, l’indennizzo maturato dal de cuius per la eccessiva durata del processo di cui è stato parte mentre iure proprio l’erede può richiedere l’indennizzo dovuto in relazione all’ulteriore corso della procedura dopo la morte del proprio dante causa solo dal momento in cui abbia assunto formalmente la qualità di parte (Cass. civ. 25531/09, 21168/09, 2983/09).

4. Non svolge difese T.C..

Motivi della decisione

che:

5. la Corte di appello ha liquidato il danno per il periodo di 17 anni che ha ritenuto corrispondente alla durata eccessiva della procedura, tenendo conto di un periodo fisiologico di tre anni da considerare normale per la definizione della procedura. Se si considera che la dichiarazione di fallimento è del 29 ottobre 1986 e la domanda di insinuazione al passivo del padre della odierna intimata risale all’inizio del 1987 si dovrà anche rilevare che la procedura fallimentare, se avesse avuto una durata normale secondo il parametro adottato dalla Corte di appello, sarebbe terminata il 29 ottobre 1989. Da questa data, quindi, si deve far decorrere il diritto all’indennizzo spettante al dante causa della T. sino alla data della sua morte avvenuta il (OMISSIS).

6. E’ fondato quanto rilevato dal Ministero con riferimento alla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. anche, fra le molte, Cass. civ. n. 13803 del 23 giugno 2011) ma tale giurisprudenza non può applicarsi alla procedura fallimentare nella quale non è necessaria una costituzione in giudizio degli eredi dei creditori.

L’attivazione della richiesta di ammissione al passivo del credito compiuta dal de cuius rimane valida anche nei confronti degli eredi e pertanto non è fondata alcuna distinzione, al fine di valutare la esistenza di un danno da eccessiva durata della procedura fallimentare, fra durata della procedura prima e oltre il decesso del creditore insinuato al passivo.

7. Il ricorso va pertanto respinto senza statuizioni sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese processuali del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10-11-2011) 28-11-2011, n. 44052

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza in data 7.7.2010 la Corte di Appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Tolmezzo del 13.2.2009, con la quale A.G., era stato condannato alla pena di anni 3, mesi 7 di reclusione ed Euro 1.150.000,00 di multa per i reati di cui all’art. 110 c.p., D.P.R. n. 43 del 1973, art. 291 bis, (capo a) ed all’art. 110 c.p., D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 1 e 70 (capo b), unificati sotto il vincolo della continuazione, riconosceva le circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti sulla contestata recidiva, rideterminando la pena in anni 3 di reclusione ed Euro 1.150.000,00 di multa.

2) Ricorre per cassazione A.G., a mezzo del difensore, denunciando, con motivo unico, la contraddittorietà della motivazione, avendo la Corte territoriale da un lato concesso le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva e, dall’altro, fatto "rivivere" la medesima recidiva applicando, ai fini dell’aumento di pena per la continuazione, il disposto dell’art. 81 c.p., comma 3. 3) Il ricorso è infondato.

3.1) Come già affermato da questa Corte "Secondo il testo novellato dell’art. 99 c.p., il giudice è obbligato a riconoscere la recidiva solo se l’imputato recidivo commette uno dei delitti elencati nell’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a)….". "Negli altri casi il giudice può, ma non obbligatoriamente deve, riconoscere la recidiva, sia essa semplice (comma 1), aggravata (comma 2), pluriaggravata (comma 3) o reiterata (comma 4): c.d. recidiva facoltativa o discrezionale. In tali ipotesi, il giudice può non applicare il relativo aumento di pena se reputa in concreto che la ricaduta nel delitto non sia espressione di maggiore colpevolezza o di maggior pericolosità sociale. Questa corretta esegesi dell’art. 99 c.p. ha una logica conseguenza anche per la interpretazione del testo novellato dell’art. 69 c.p.. Il citato articolo, u.c., così come sostituito dalla predetta L. n. 251 del 2005, anzitutto conferma la previgente disciplina che, in caso di concorso eterogeneo di circostanze, ammetteva il giudizio di comparazione anche per le circostanze c.d. autonome (che comportano una pena di specie diversa da quella prevista per il reato semplice), per le circostanze c.d. indipendenti (che comportano una pena della stessa specie, ma stabilita in modo indipendente rispetto alla pena del reato semplice), e per le circostanze inerenti alla persona del colpevole (tra cui la recidiva). Ma introduce una novità, predeterminando parzialmente l’esito del giudizio di bilanciamento, laddove vieta che le attenuanti possano essere ritenute prevalenti su alcune circostanze aggravanti, tra cui la recidiva reiterata di cui al predetto art. 99 c.p., comma 4. Da questo articolato sottosistema normativo deriva che, nella ipotesi di recidiva reiterata, il giudice: a) può non riconoscerla come espressione di maggior colpevolezza e pericolosità, e quindi non applicare il relativo aumento di pena; b) se la riconosce, nel giudizio di comparazione con eventuali circostanze attenuanti, non può ritenerla subvalente rispetto a queste. In altri termini, poichè anche la recidiva reiterata è facoltativa, il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva siessa opera soltanto quando il giudice ritenga applicabile quest’ultima. Mentre qualora il giudice non ritenga applicabile la recidiva, dovrà tener conto soltanto delle circostanze attenuanti, atteso che in tal caso non c’è alcuno spazio per il giudizio di comparazione (in tal senso è la costante giurisprudenza di legittimità, salvo una iniziale pronuncia che è rimasta isolata). C’è solo da aggiungere che il divieto di prevalenza delle attenuanti è formulato in modo generale e assoluto, sicchè, quando operante, si applica sia per le attenuanti comuni ( art. 62 c.p.), sia per le attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.), sia per le attenuanti speciali.." (cfr.Cass.pen.sez.3 n.45965 del 25.9.2008- P.G. in proc.Pellegrino).

Tale interpretazione è stata ulteriormente ribadita dalla giurisprudenza successiva di questa Corte (cfr.Cass.pen.sez.5 n.4221 del 9.12.2008; Cass.sez. 4 n.5488 del 29.1.2009; Cass.sez. 5 n.13658 del 30.1.2009; Cass.sez. 5 n.28871 del 15.5.2009) ed infine dalle sezioni unite, per cui può ritenersi ormai consolidata. Le sezioni unite con la sentenza n.35738 del 27.5.2010 hanno, infatti, affermato che "Una volta contestata la recidiva nel reato, anche reiterata, purchè non ai sensi dell’art. 99 c.p., comma 5, qualora essa sia stata esclusa dal giudice, non solo non ha luogo l’aggravamento della pena, ma non operano neanche gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, di cui all’art. 69 c.p., comma 4, dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all’art. 81 c.p., comma 4, dall’inibizione dell’accesso al cosiddetto patteggiamento allargato ed alla relativa riduzione premiale di cui all’art. 444 c.p.p., comma 1 bis; effetti che si determinano integralmente qualora, invece, la recidiva non sia sta esclusa, per essere stata ritenuta sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità". 3.1.1) Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente la recidiva specifica reiterata, contestata all’ A. nel capo di imputazione, non è stata affatto esclusa. La Corte di merito, dopo aver dato atto che l’imputato era gravato da numerosi precedenti penali, di cui nove specifici e due per ricettazione, ha, anzi, espressamente affermato: "Non vi sono i presupposti per escludere la recidiva o non valutarla nella determinazione della pena". Ha ritenuto, quindi, sussistente la recidiva perchè sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità. E, conseguentemente, senza alcuna contraddizione, l’ha considerata "solo" equivalente alle concesse circostanze attenuanti generiche.

Non essendo stata esclusa la recidiva, operano gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione ed in particolare quelli rappresentati dal limite minimo di aumento della pena ex art. 81 c.p., comma 4.

Correttamente, pertanto, è stato disposto un aumento di pena non inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.