T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 06-04-2011, n. 3047 Demolizione di costruzioni abusive

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

erbale;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con l’ordinanza n. 2 del 21 febbraio 2006 è stata ingiunta al ricorrente la demolizione di lavori abusivi eseguiti sull’immobile sito in Bracciano, Vicolo Traversa della Selciatella n. 9, in difformità dal permesso di costruire n. 144/04.

Dalla relazione di sopralluogo fatta dal Comune di Bracciano, in data 1.2.2006, risulta che:

"a). per l’immobile è stato rilasciato permesso di costruire per la ristrutturazione ad uso magazzino agricolo n. 144 del 27 ottobre 2004, prot. Comune di Bracciano n. 31988 rilasciato al proprietario Sig. C.S.;

b). il fabbricato in oggetto ha una sagoma di ingombro misurata all’esterno delle murature perimetrali di cm 391×840 anziché cm 390×826;

c). l’altezza all’imposta del tetto è pari a cm 293, quella in gronda è pari cm 280 circa anziché come 230. Si precisa che la misurazione è stata effettuata a partire dal presunto piano finale di calpestio del marciapiede perimetrale che deve ancora essere realizzato e che avrà presumibilmente una quota pari a quella del mattonato già realizzato del portico;

d). sui prospetti C e D sono presenti vani finestre traslati rispetto a quanto autorizzato;

e). sul prospetto A è stato realizzato un vano tecnico, delle dimensioni di cm 140×52 con attacchi e predisposizione presumibilmente per l’allaccio di una caldaia esterna;

f). sul prospetto C è stata realizzata una canna fumaria con sovrastante comignolo in muratura. Internamente all’immobile, in corrispondenza della canna fumaria, è stato realizzato un piccolo camino. Sullo stesso prospetto è stato installato un aeratore esterno;

g). internamente è stato realizzato un soppalco con struttura in legno avente altezza da terra variabili da cm 216 a cm 244, detto soppalco è praticabile per mezzo di una scala in legno di collegamento tra il piano terra e il piano di calpestio del soppalco stesso;

h). l’immobile al suo interno è costituito da due ambienti: un bagno delimitato da due tamponature come da grafici autorizzati e da un ambiente dotato di angolo cottura, impiantistica e arredo di tipo abitativo in difformità alla destinazione d’uso autorizzata che è quella di magazzino".

Con il ricorso in epigrafe il ricorrente prospetta i seguenti motivi di diritto:

1) eccesso di potere per errore nei presupposti; omessa notificazione di documento;

2) eccesso di potere per errore nei presupposti;

3) violazione della disposizione di cui all’art. 33, comma 3, T.U.

Con ord. n. 3128/2006 il Collegio ha accolto la domanda cautelare.

Il Comune si è costituito con memoria depositata il 26.5.2006.

In data 15.5.2006 il ricorrente ha chiesto il permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’art. 37 del DPR n. 380/2001 (sostenendo che le opere realizzate, difformi dal permesso di costruire, sono conformi allo strumento urbanistico vigente visto che il terreno dove insiste il magazzino ha una destinazione urbanistica residenziale).

Tanto premesso, il Collegio ritiene che si può prescindere dalle eccezioni preliminari sollevate da controparte in quanto il ricorso è infondato e deve essere respinto.

1). Con il primo motivo di ricorso l’interessato lamenta che – nel provvedimento impugnato – risulta incorporato anche il verbale di accertamento di contravvenzione di opere eseguite in difformità; tale verbale non è stato mai notificato, né allegato.

2). Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che -dalla relazione in data 30.1.2006- si ricavano dati del tutto inidonei a fornire il presupposto di un provvedimento di demolizione.

3). Infine, con l’ultimo motivo di ricorso l’interessato sostiene che l’esistenza del vincolo paesistico comporterebbe per la PA l’obbligo di indicare criteri e modalità da adottare e seguire ai fini dell’intimata restituzione in pristino dei luoghi.

Tutte e tre le censure dedotte non meritano positivo apprezzamento.

In particolare si osserva quanto segue:

a). è incontestato che i lavori abusivi sono stati realizzati in area sottoposta a vincolo paesaggisticoambientale ( DM 23.10.1960);

b). è pure oggettivamente riscontrabile, dagli atti di causa, che il ricorrente ha determinato un cambio di destinazione d’uso realizzato mediante importanti interventi edilizi;

c). nella fattispecie, come sostenuto dal Comune, si ricade nel disposto dell’art. 32 del DPR n. 380/2001 in quanto trattasi di interventi effettuati su immobili sottoposti a vincolo.. che sono considerati in totale difformità dal permesso ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44;

d). dunque, l’attività compiuta dalla PA è frutto di una valutazione tecnica ampiamente discrezionale, tipica manifestazione del potere autoritativo che come tale si sottrae al sindacato di legittimità, tranne le ipotesi di manifesta illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità ovvero macroscopico travisamento dei fatti (C.d.S., sez. VI, 7 ottobre 2008, n. 4823), che non si rinvengono nel caso di specie;

e). anche la motivazione del provvedimento impugnato (ivi compresa quella che rinvia per relationem agli atti istruttori del procedimento) appare congrua e adeguata.

Come è ampiamente noto, il provvedimento che ingiunge la demolizione è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.

Presupposto per la sua adozione è, infatti, soltanto la constatata esecuzione dell’opera in difformità dalla concessione o in assenza della medesima, con la conseguenza che tale provvedimento, ove ricorrano i predetti requisiti, è sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione né, trattandosi di atti del tutto vincolati, è necessaria una comparazione di interessi e una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Consiglio Stato, sez. V, 07 settembre 2009, n. 5229; T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 07 settembre 2009, n. 4899; T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 16 luglio 2009, n. 7036; T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 02 aprile 2009, n. 3579);

f). infine, l’accertamento di conformità previsto dagli art. 36 (per le opere eseguite in assenza di permesso di costruire) e 37 comma 4 (per le opere eseguite in assenza di d.i.a.) d.P.R. n. 380 del 2001 è diretto a sanare – a regime – le opere solo "formalmente" abusive, in quanto eseguite senza titolo edilizio (rispettivamente, permesso di costruire o d.i.a.), ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell’istanza di sanatoria (c.d. doppia conformità).

Non è invece applicabile nei riguardi delle opere che siano state eseguite – come nel caso di specie – non solo senza titolo, ma anche in difformità dalle norme urbanistiche:

In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso in epigrafe.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 2000,00 in favore della resistente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-07-2011, n. 16617 Lavoro subordinato

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Svolgimento del processo

Con ricorso per insinuazione tardiva nel fallimento srl Brach Prever, l’Inps, quale gestore del Fondo di garanzia di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2, – premesso di avere corrisposto il TFR a lavoratore già dipendente della fallita società, insinuato al passivo – chiedeva di essere surrogato nel relativo credito ai sensi del citato art. 2, comma 7, con i privilegi di cui agli artt. 2751 bis e 2776 c.c., per un importo complessivo di rivalutazione monetaria ed interessi maturati fino al pagamento. Il Curatore non contestava il credito ed il relativo privilegio, opponendosi tuttavia al conteggio della rivalutazione per l’epoca successiva alla esecutività dello stato passivo, nonchè degli interessi per l’epoca posteriore alla liquidazione dell’attivo. La domanda avanzata dall’Istituto veniva accolta dal Tribunale di Torino, ma la statuizione veniva riformata dalla locale Corte d’appello che, con la sentenza impugnata, ammetteva l’Istituto al passivo fallimentare con il privilegio ex artt. 2751 bis e 2776 c.c., per la minor somma comprensiva del capitale, nonchè degli interessi maturati fino alla vendita ed della rivalutazione monetaria maturata fino alla esecutività dello stato passivo, ai sensi della L. Fall., artt. 54, 55 e 59, quali risultanti a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale 204/89 e 162/2001. Riteneva la Corte adita che l’espresso richiamo fatto dalla L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 7, agli artt. 2751 bis e 2776 c.c., in tema di privilegio, implicano anche il recepimento della connessa disciplina dell’estensione del privilegio agli accessori contenuta nell’art. 2749 c.c.. Tale era infatti la disciplina applicabile sul piano del diritto fallimentare, che interessava nella specie, fermo restando l’obbligo a carico dell’Istituto, di cui all’art. 429 c.p.c., ossia di corrispondere al lavoratore interessato gli accessori maturati fino alla data del pagamento.

Avverso detta sentenza l’Inps ricorre con un motivo, illustrato da memoria. Resiste il fallimento con controricorso.
Motivi della decisione

L’Istituto lamenta violazione della L. n. 297 del 1982, art. 2, e L. Fall., artt. 54, 55 e 59, per non avere la Corte territoriale riconosciuto il privilegio sulle somme erogate da esso Fondo di garanzia e in misura comprensiva di interessi e rivalutazione fino alla data del pagamento a favore del lavoratore. Sostiene l’Istituto che il Fondo, quando si surroga ai diritti dei lavoratori, non troverebbe alcuna limitazione in ordine all’ammontare degli accessori maturati sul TFR. La giurisprudenza avrebbe affermato che il Fondo, dovendosi sostituire al datore di lavoro inadempiente, deve pagare gli accessori maturati fino alla data dell’effettivo pagamento.

Inoltre consentire la discrasia tra le somme erogate dal Fondo e quelle dallo stesso recuperate in misura ridotta in sede di procedura concorsuale, finirebbe con il vanificare l’obiettivo pubblicistico di pareggio della gestione del Fondo medesimo, per cui al Fondo non potrebbero essere opposte le limitazioni di cui alla L. Fall., artt. 54, 55 e 59.

Il ricorso non è fondato.

1. Si precisa che la questione attiene il privilegio da applicare agli accessori sul TFR erogati dall’Inps ai lavoratori, e precisamente su una parte di detti accessori: l’Istituto infatti li ha pagati al lavoratore facendoli maturare fino alla data di pagamento della sorte ed in ugual misura pretende di surrogarsi al lavoratore nei beni del fallimento. La sentenza impugnata afferma invece che tale surroga non possa avvenire in misura integrale, ma dovrebbe essere determinata, secondo la disciplina che regola, nel fallimento, il privilegio su interessi e rivalutazione monetaria, e quindi comprendendo nel credito privilegiato solo gli interessi maturati fino alla vendita e la rivalutazione maturata fino alla esecutività dello stato passivo. E’ quindi in questione solo una parte degli accessori: ossia gli interessi maturati dalla vendita al pagamento e la rivalutazione maturata dalla esecutività dello stato passivo fino al pagamento.

La L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 7, sul fondo di garanzia prevede che il fondo sia surrogato di diritto al lavoratore nel privilegio spettante sul patrimonio dei datori di lavoro ex artt. 2751 bis e 2776 c.c., per le somme da esso pagate.

Il fondo dunque succede nel medesimo credito privilegiato che avrebbe il lavoratore nei confronti del fallimento.

2. Va quindi esaminata la disciplinai dettata dalla legge fallimentare in tema di estensione del privilegio su interessi e rivalutazione.

2.1. Interessi. Per gli interessi la L. Fall., art. 54, u.c., rimanda ad art. 2788 c.c. (prelazione per il credito degli interessi), il quale prevede la prelazione anche sugli "interessi dell’anno in corso alla data del pignoramento, oppure alla data della notifica del precetto". Soggiunge la predetta norma che "La prelazione opera anche per gli interessi maturati successivamente al pignoramento, ma solo nella misura legale, e fino alla vendita". La Corte Costituzionale ha affermato che, anche in relazione al fallimento, per quanto riguarda gli interessi, vale la regola di cui all’art. 2749 del codice, in quanto disposizione di portata generale sui privilegi il quale prevede "Il privilegio si estende anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del pignoramento e per quelli dell’anno precedente. Gli interessi successivamente maturati hanno privilegio nei limiti della misura legale fino alla data della vendita".

Infatti, con la sentenza n.162 del 2001 la Corte ha affermato che "E’ costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 54, comma 3, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non richiama, ai fini dell’estensione del diritto di prelazione agli interessi, l’art. 2749 c.c.. Tale norma, infatti, senza alcuna ragione giustificatrice, esclude che gli interessi su crediti privilegiati possano essere ammessi al passivo fallimentare in via principale, discriminando così i creditori privilegiati che agiscono in sede concorsuale da quelli che agiscono in sede esecutiva ordinaria". 2.2. Rivalutazione monetaria: Ha affamato la Corte con la sentenza n. 0204 del 1989 che: "Il principio costituzionale di eguaglianza tollera disparità di trattamento se giustificate dall’attuazione di un valore costituzionale; pertanto, lai regola della par condicio creditorum, alla quale è ispirato il procedimento fallimentare, anche a ravvisarne il fondamento nel suddetto principio di eguaglianza, non può precludere, per i crediti da lavoro, la rivalutazione per il periodo successivo alla dichiarazione di fallimento, esclusa, per la generalità dei crediti, dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 59, in quanto la rivalutazione costituisce strumento destinato ad assicurare l’effettività della garanzia apprestata dall’art. 36 Cost., mentre la sua esclusione determina ingiustificata disparità di trattamento tra portatori di crediti da lavoro nel fallimento e portatori di detti crediti fatti valere in altri procedimenti. La rivalutazione dei crediti da lavoro nel fallimento non può tuttavia aver luogo senza limiti, ma soltanto fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo, onde non sacrificare ingiustificatamente l’interesse degli altri creditori e non urtare contro le esigenze proprie del procedimento fallimentare".

Ha concluso la Corte che "E’ pertanto costituzionalmente illegittimo il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 59, anche in relazione all’art. 429 c.p.c., nella parte in cui non prevede la rivalutazione dei crediti da lavoro con riguardo al periodo successivo all’apertura del fallimento fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo". 3. Ne consegue che, ove si trattasse di credito fatto valere direttamente dal lavoratore nei confronti del fallimento, il privilegio sarebbe sottoposto, dopo i citati interventi della Corte Costituzionale, alle regole di cui sopra: il privilegio coprirebbe gli interessi maturati fino alla vendita (ai sensi della norma generale di cui all’art. 2749 c.c.), nonchè la rivalutazione maturata fino al momento in cui lo stato passivo diventa definitivo.

Ed è ciò che la sentenza impugnata ha riconosciuto anche all’Inps, così rispettando la regola di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 7, per cui "Il fondo è surrogato di diritto al lavoratore nel privilegio spettante sul patrimonio dei datori di lavoro, ai sensi degli artt. 2751 bis e 2776 c.c., per le somme da esso pagate". La sentenza cioè ha ammesso l’Istituto nella stessa posizione che avrebbe assunto, nella procedura fallimentare, il lavoratore richiedente il pagamento del TFR. Sembra allora che l’Inps di nulla possa avere a dolersi, perchè, nell’ambito della procedura fallimentare, nessun creditore si colloca in via privilegiata per gli interessi maturati dopo la vendita e per la rivalutazione maturata dopo il momento in cui lo stato passivo diventa definitivo.

4. Inoltre, se è vero che l’Istituto ha pagato una somma maggiore, rispetto a quella che ha collocazione privilegiata, perchè è comprensiva del maggiore importo per interessi e rivalutazione maturati in data successiva e cioè fino alla data del pagamento, ciò deriva dalla configurazione stessa degli obblighi del fondo di cui alla L. n. 297 del 1982.

Infatti, com’è stato ritenuto dalla giurisprudenza (tra le tante Cass. n. 27917 del 19/12/2005), il diritto del lavoratore di ottenere dall’INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del T.F.R. a carico dello speciale fondo di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2, ha natura di diritto di credito ad una prestazione previdenziale, ed è perciò distinto ed autonomo rispetto al credito vantato nei confronti del datore di lavoro (restando esclusa, pertanto, la fattispecie di obbligazione solidale), diritto che si perfeziona (non con la cessazione del rapporto di lavoro ma) al verificarsi dei presupposti previsti da detta legge (insolvenza del datore di lavoro, verifica dell’esistenza e misura del credito in sede di ammissione al passivo, ovvero all’esito di procedura esecutiva).

4.2. Il Fondo di garanzia costituisce attuazione di una forma di assicurazione sociale obbligatoria (con relativa obbligazione contributiva posta ad esclusivo carico del datore di lavoro), con la sola particolarità che l’interesse del lavoratore alla tutela è conseguito mediante l’assunzione da parte dell’ente previdenziale, in caso d’insolvenza del datore di lavoro, di un’obbligazione pecuniaria il cui quantum è determinato con riferimento al credito di lavoro nel suo ammontare complessivo.

4.3. Il diritto alla prestazione del Fondo nasce, quindi, non in forza del rapporto di lavoro, ma del distinto rapporto assicurativo – previdenziale, in presenza dei presupposti previsti dalla legge:

insolvenza del datore di lavoro e accertamento del credito nell’ambito della procedura concorsuale, secondo le regole specifiche di queste; formazione di un titolo giudiziale ed esperimento non satisfattivo dell’esecuzione forzata.

4.3. Sviluppo coerente è rappresentato dalla risoluzione data al problema del regime giuridico del debito dell’Inps, quale gestore del Fondo, ai fini del cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, secondo il principio di diritto enunciato dal Cass. sez. un. 3 ottobre 2002 n. 14220, per cui "Il credito del lavoratore per il trattamento di fine rapporto e per gli emolumenti relativi agli ultimi tre mesi del rapporto non muta la propria natura retributiva quando, in forza della L. 29 maggio 1982, n. 297 e del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, sia fatto valere nei confronti del Fondo di garanzia gestito dall’Inps per l’insolvenza o l’inadempimento del datore di lavoro. Peraltro la L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 2, prescrive espressamente il che lavoratore può domandare al fondo di garanzia il TFR ed "i relativi crediti accessori". 4.4. Il maggiore importo erogato dall’Istituto, che non si colloca in via privilegiata nella procedura concorsuale, si giustifica considerando che, se il diritto comunitario ha imposto agli Stati membri di introdurre istituti idonei a "garantire" (in senso ampio e non tecnico) l’adempimento di crediti retributivi, non poteva che restare esclusa qualsiasi interpretazione che, attribuendo al credito verso l’organo di garanzia una natura diversa, finisse per ridume in qualche modo l’importo rispetto a quello dovuto dal datore di lavoro, e quindi l’Inps deve pagare rivalutazione e interessi sul TFR secondo la regola di cui all’art. 429 c.p.c., e cioè fino alla data del pagamento. Questa considerazioni sono state già svolte nella motivazione della sentenza richiamata di questa Corte n. 5043 del 1995, e cioè che "a nulla rileva che, in sede di insinuazione del Fondo al passivo del fallimento del datore di lavoro per far valere in surrogazione il credito del lavoratore, tale credito possa subire in concreto una riduzione rispetto alla somma effettivamente erogata, perchè ciò è diretta conseguenza dell’applicazione della L. Fall., artt. 54, 55 e 59 (R.D. 16 marzo 1942 n. 267). In proposito è appena il caso di precisare che anche il lavoratore – il quale, invece di rivolgersi al Fondo, decidesse di insinuare il suo credito al passivo del fallimento del datore di lavoro – potrebbe subire una riduzione del suddetto complessivo credito, dato che gli interessi legali gli potrebbero essere riconosciuti solo fino alla vendita dell’ultimo bene e dato che la rivalutazione monetaria potrebbe essere calcolata solo fino al momento in cui lo stato passivo diventa definitivo (v. la suddetta L. Fall., artt. 54, 55 e 59, risultanti dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 204 del 20 aprile 1989 della Corte costituzionale). Non per questo, tuttavia, si potrebbe affermare che per la parte non ammessa nello stato passivo il diritto non potrebbe più essere fatto valere, dal momento che tale diritto permarrebbe nei confronti del datore di lavoro e ben potrebbe essere azionato al tempo in cui quest’ultimo sarà tornato in bonis". 4.5. Vi è poi da considerare ai fini dell’esigenza del pareggio della gestione del fondo di garanzia, richiamata dall’Istituto, che la L. n. 29 del 1982, art. 2, comma 8, facoltizza la modifica, in aumento o in diminuzione dell’aliquota contributiva destinata all’alimentazione del fondo medesimo, attraverso un decreto del Ministro del tesoro, sentito il consiglio di amministrazione dell’Inps sulla base del bilancio consuntivo del fondo stesso.

Conclusivamente il ricorso va rigettato. La complessità e novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-09-2011, n. 18523 licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 219 del 2007, depositata il 2 marzo 2007, decidendo sull’impugnazione proposta da CO. MI. TRA. SCRL, nei confronti di T.S., in ordine alla decisione del Tribunale di Milano n. 1559/2006, accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava le domande proposte da T.S..

2. Il T., nell’adire il Tribunale, premetteva di essere stato assunto dalla soc. cooperativa a.r.l. in questione, dopo un precedente rapporto a termine, con mansioni di carico e scarico gomme per conto di una società presso il magazzino Pirelli di (OMISSIS), di essere stato licenziato verbalmente, con allontanamento immediato, il giorno 30 giugno 2005, a seguito di rimostranze per una non concessa pausa, di avere impugnato il giorno successivo tale licenziamento, di aver ricevuto una risposta scritta il 4 luglio 2005 nella quale si formulavano alcuni addebiti a suo carico e si concludeva dicendo che si era deciso di allontanarlo.

Quindi, lo stesso, chiedeva che fosse dichiarata l’inefficacia del recesso, rivendicando l’autonomia di tale rapporto rispetto a quello sociale.

2.1. Il Tribunale, accogliendo la domanda, aveva dichiarato l’inefficacia del licenziamento del 30 giugno 2005, ordinando alla convenuta di reintegralo nel posto di lavoro, con condanna a corrispondere le mensilità sino alla reintegra.

3. Per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano ricorre T.S., prospettando cinque motivi di impugnazione.

4. Resiste con controricorso e ricorso incidentale la CO. MI. TRA. SCRL in liquidazione, prospettando un motivo di ricorso.
Motivi della decisione

In via preliminare occorre disporre la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

1. Con il primo motivo di ricorso il T. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè degli artt. 2727, 2729, 2730 e 2733 c.c., per non avere la Corte d’Appello di Milano, in relazione;

a) al contenuto della lettera d’impugnazione del ricorrente del 1 luglio 2005, b) a quello della lettera di risposta della società del 4 luglio 2005, c) alla mancata accettazione della prestazione; al mancato versamento della retribuzione successivamente al 30 giugno 2005, qualificato come licenziamento orale, ovvero per fatti concludenti l’allontanamento dal posto di lavoro intimato e disposto in proprio danno dalla cooperativa il 30 giugno 2005 ( art 360 c.p.c., n. 3).

Sono stati formulati i seguenti quesiti di diritto:

se, in ragion di quanto esposto nel motivo di ricorso, costituisca violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè egli artt. 2727, 2729, 2730 e 2733 c.c., il non avere la Corte d’Appello di Milano considerato quali elementi costituenti un licenziamento orale, ovvero per fatti concludenti, l’allontanamento dal posto di lavoro definitivamente intimato e disposto in danno del T. dalla cooperativa CO MI TRA SCRL in data 30 giugno 2005, la impugnazione di detto licenziamento con lettera del 1 luglio 2005, con cui si è, altresì, offerta la prestazione, la replica della convenuta in data 4 luglio 2005, con la quale si confermava l’allontanamento definitivo e non si accettava la prestazione, nonchè la definitiva cessazione della retribuzione dal momento dell’allontanamento del 30 giugno 2005. 2. Con il secondo motivo di impugnazione è dedotta omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare per non avere la Corte d’Appello di Milano motivato, ovvero, in ogni caso, per avere insufficientemente motivato in ordine al perchè "dalla stessa versione data dal ricorrente, oltre che dalla inequivocabile dichiarazione scritta successiva" si sarebbe appreso "che la volontà del datore di lavoro era stata quella di allontanare temporaneamente il lavoratore" ( art. 360 c.p.c., n. 5).

3. Con il terzo motivo di impugnazione è prospettata omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo ella controversia, per non avere in particolare la Corte d’Appello motivato, ovvero, insufficientemente motivato, in ordine al perchè:

la lettera del 5 settembre 2005 conterrebbe "la conferma che il primo atto", l’allontanamento dal posto di lavoro intimato e disposto in data 30 maggio 2006, "non era un licenziamento" ( art. 360 c.p.c., n. 5).

4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e della L. n. 142 del 2001, art. 2 nonchè dell’art. 416 c.p.c. e degli artt. 1334, 1335 e 2697 c.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto efficaci il licenziamento e la contestuale delibera di esclusione della qualità di socio del T., contenuti nella lettera della cooperativa del 5 settembre 2006, mai comunicata e pervenuta al ricorrente ( art. 360 c.p.c., n. 3).

In ordine al suddetto motivo è stato articolato il seguente quesito di diritto:

se costituisce violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, della L. n. 142 del 2001, art. 2; nonchè dell’art. 416 c.p.c. e degli artt. 1334, 1335 e 2697 c.c., l’avere la Corte d’Appello ritenuto efficaci sia il licenziamento che la contestuale delibera di esclusione della qualità di socio del T. contenuti nella lettera della cooperativa del 5 settembre 2005, nonostante tali provvedimenti non fossero mai stati comunicati al ricorrente, ovvero indirizzati all’esatta residenza dello stesso e nonostante essi, altresì e rispettivamente, fossero stati intimati, sia successivamente al già intervenuto licenziamento orale, ovvero per fatti concludenti del 30 giugno 2005, sia in ordine ad un rapporto associativo mai esistito e provato.

5. Con il quinto motivo di impugnazione è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., per non avere la Corte d’Appello ritenuto che, ai sensi di tale norma, il ricorrente avesse in ogni caso riproposto nella memoria ex art. 436 c.p.c. tutte le stesse conclusioni proposte nel ricorso introduttivo e, così, anche quelle relative alla richiesta, in via subordinata, della applicazione dei principi generali previsto dall’ordinamento in materia dì nullità del recesso datoriale, ovvero di nullità della estromissione del lavoratore con obbligo di corrispondere la retribuzione maturata dalla estromissione all’eventuale provvedimento di riammissione ( art. 360 c.p.c., n. 3).

In relazione al suddetto motivo è stato prospettato il seguente quesito di diritto:

se costituisce violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c. l’avere la Corte d’Appello ritenuto che il ricorrente, pur avendo ritrascritto nella memoria di costituzione in appello tutte le conclusioni formulate nel primo grado di giudizio sia in via principale che in via subordinata e pur avendo espressamente "richiamate e riproposte tutte le conclusioni formulate nel ricorso introduttivo", nella memoria di costituzione depositata nel secondo grado del presente giudizio, non avesse correttamente riformulato le domande subordinate così come tutte formulate nel ricorso introduttivo.

6. I primi tre motivi di ricorso devono essere trattati unitamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono fondati.

Punto centrale delle doglianze del ricorrente è il valore attribuito dalla Corte d’Appello all’allontanamento del lavoratore disposto dal datore di lavoro il 30 giugno 2005.

Per il T. ciò integrava licenziamento orale, mentre il giudice di appello ha ritenuto che si sia determinato solo un effetto sospensivo del rapporto, privo di efficacia risolutivo del rapporto di lavoro.

Il licenziamento, afferma la Corte d’Appello, sarebbe intervenuto successivamente, il 5 settembre 2005, costituendo oggetto di autonoma impugnazione.

7. Statuisce la Corte d’Appello "Non può invece condividersi la decisione sul punto della inefficacia del licenziamento orale, in quanto, in mancanza di una prova specifica sul fatto, dalla stessa versione data dal ricorrente, oltre che dalla inequivocabile dichiarazione scritta successiva, si apprende che la volontà del datore di lavoro era stata semplicemente quella di allontanare temporaneamente il lavoratore a motivo dei suoi comportamenti e non di licenziarlo, nemmeno con il secondo atto (che altrimenti non essendo stato impugnato avrebbe definitivamente pregiudicato le sorti del rapporto di lavoro), che costituisce una semplice renovatio in forma scritta della precedente manifestazione di volontà".

Il Giudice d’appello ha ritenuto, quindi, che la mancata presentazione del lavoratore era ricollegabile a tale disposizione datoriale e non poteva equivalere ad un recesso senza preavviso, con la conseguente conferma del rigetto della domanda riconvenzionale decisa dal giudice di primo grado; tale capo della sentenza non ha costituito oggetto di impugnazione da parte della CO. MI. TRA. SCRL. 8. Con riguardo alle doglianze prospettate con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, occorre ribadire, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., sentenza n. 6727 del 2001) che, non può ravvisarsi una violazione di legge nella mancata applicazione del principio relativo alla sufficienza della prova del licenziamento, in presenza dell’estromissione dal posto di lavoro, poichè "non può ritenersi effettivamente sussistente un principio di diritto avente tale portata, con riferimento alla semplice cessazione di fatto delle prestazioni".

Ciò sia nel caso in cui ci si riferisca alla semplice constatazione della cessazione di fatto dell’attuazione del rapporto, sia che ci si riferisca ad uno specifico comportamento del datore di lavoro, che a un certo punto abbia rifiutato le prestazioni offerte dal lavoratore.

In entrambi i casi, le prove acquisite devono essere idonee a dimostrare che nell’occasione specifica è intervenuto un licenziamento per fatti concludenti.

Deve, quindi, riaffermarsi il principio secondo il quale il lavoratore, che invoca i rimedi contro il licenziamento illegittimo, ha l’onere di provare l’esistenza del licenziamento, essendo a carico del datore di lavoro la prova della giusta causa o del giustificato motivo.

Tale principio di diritto va, tuttavia, specificato come segue, nel senso cioè che, in caso di cessazione dell’attuazione del rapporto di lavoro, in assenza di atti formali di licenziamento o di dimissioni, e in presenza di contrapposte tesi in giudizio circa la causale di detta cessazione, il giudice di merito, ai fini dell’accertamento del fatto, deve prestare particolare attenzione, indagandone la rilevanza ai fini sostanziali o probatori nel caso concreto, anche agli eventuali episodi consistenti nell’offerta delle prestazioni da parte del lavoratore e nel rifiuto o mancata accettazione delle stesse da parte del datore di lavoro.

Sono, quindi, ravvisabili, nella sentenza appellata vizi di motivazione.

Come più volte affermato da questa Corte, il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciatale con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si configura soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, vizio che non è certamente riscontrabile allorchè il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (ex multis, Cass. n. 6288 del 2011).

Nella fattispecie in esame, la sintetica e assertiva motivazione della sentenza d’appello non consente l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, ai figli del vaglio di congruenza in sede di giudizio di legittimità.

L’analisi compiuta dal giudice di merito prende le mosse dalla versione del ricorrente, riassunta nella sentenza medesima nel senso dell’allontanamento immediato a seguito di rimostranze per una non concessa pausa, e dalla "inequivocabile dichiarazione scritta successiva", e giunge a ritenere che da ciò si apprendeva che "la volontà del datore di lavoro era stata semplicemente quella di allontanare temporaneamente il lavoratore a motivo dei suoi comportamenti e non già di licenziarlo".

La Corte d’Appello, dunque, omette dì esporre attraverso un percorso logico argomentativo ragionato, i dati, riferiti nella lettera di risposta della CO.MI.TRA. del 4 luglio 2005 – anche in relazione all’impugnazione del ritenuto licenziamento da parte del T. – pur richiamando la stessa, così affidando la ritenuta insussistenza del licenziamento all’essere in presenza di un semplice allontanamento immediato, sulle cui causa non si sofferma.

Il fatto della mancata concessione di una pausa e quello delle relative rimostranze, di per sè, in mancanza di un più ampio quadro di riferimento, non offrono elementi per ritenere la legittimità o meno dell’una o delle altre, quale indice di valutazione dei successivi comportamenti adottati dalle parti, per cui è causa (allontamento – impugnazione – risposta).

Considerato che la Corte d’Appello non ha addotto altri elementi al fine di escludere la sussistenza di un licenziamento, gli evidenziati vizi di motivazione assumono valore decisivo ai fini dell’accoglimento dei suddetti motivi di ricorso.

9. L’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso determina l’assorbimento dei restanti due motivi di impugnazione del ricorso principale.

10. Anche il ricorso incidentale, con il quale è stata prospettata violazione falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5) circa l’intervenuta compensazione delle spese in entrambi i gradi di giudizio, nonostante la soccombenza del T., rimane assorbito a seguito dell’accoglimento dei suddetti motivi del ricorso principale.

11. Pertanto, in accoglimento dei primi tre motivi del ricorso principale, la sentenza deve essere cassata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.
P.Q.M.

La Corte riunisce ricorsi. Accoglie i primi tre motivi del ricorso principale. Assorbiti gli ulteriori due motivi ed il ricorso incidentale. Cassa con rinvio in ordine ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione, anche per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 27-05-2011, n. 795

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

alla stregua del fondante e pur avanzato motivo di ricorso, la altrimenti questione di fondo verte, in sostanza, sulla riconducibilità (o meno) del particolare tipo di reato – come definitivamente all’interessato ascritto in ragione della accertata inosservanza in sede penale di un ordine di espulsioneallontanamento dal territorio nazionale (art. 14 comma 5 ter dec. leg.vo 286/98) – a quelli, in seguito all’esito finale di cui sopra, per i quali non risulterebbe poi consentita la c.d. emersione per un inserimento lavorativo inerente a specifiche e particolari categorie di prestatori di lavoro subordinato ex lege n. 102 del 2009;

Vista la sentenza della Corte di Giustizia Sez. I del 28.4.2011 in C. 61/11 PPU e le sentenze della A.P. del C.d.S. n. 7 ed 8 del 10.5.2011 e ritenute le controdeduzioni dell’Avvocatura erariale;

Ritenuto altrimenti di adeguarsi a tali statuizioni della A.P. e perciò di accogliere il presente ricorso che, verte, soprattutto ed in modo assorbente nell’esito, su quanto già sopra brevemente descritto;

– Ritenuto che, in relazione alle note oscillazioni giurisprudenziali, sia opportuno compensare le spese di lite tra le parti;
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima) definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato nei limiti dedotti, salvi gli ulteriori atti della P.A.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.