T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 14-01-2011, n. 282

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto notificato il 13 luglio 2010, depositato nei termini, il Tenente dei Carabinieri V.P.G. ha proposto ricorso per l’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza n.930/2010 di questa Sezione, non impugnata dal Ministero della Difesa, con la quale, in accoglimento del ricorso n. 11707/2008 proposto dal ricorrente, si annullavano gli atti impugnati con la condanna dell’Amministrazione resistente al pagamento delle spese di lite.

Constatata l’inerzia dell’Amministrazione della Difesa, il ricorrente ha proposto in data 11 maggio 2010 formale atto di diffida e messa in mora al Ministero della Difesa, in persona del Ministro protempore, a dare corretta ed integrale esecuzione alla suddetta sentenza nel termine di trenta giorni dalla notifica del suddetto atto.

Perdurando l’inerzia dell’Amministrazione intimata il ricorrente ha proposto il presente ricorso per l’esecuzione del giudicato con contestuale nomina di un Commissario ad acta in caso di persistente inadempimento.

Il Ministero della Difesa si è formalmente costituito in giudizio.

Alla Camera di Consiglio del 3 novembre 2010 la causa è passata in decisione.

Il ricorso si appalesa fondato atteso che il procedimento rivolto all’accertamento dell’obbligo per l’Amministrazione di conformarsi al giudicato è stato correttamente seguito.

Pertanto il ricorso va accolto con il conseguente ordine all’Amministrazione intimata di dare corretta ed integrale esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza sopra specificata nel termine di 60 giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza o dalla sua notifica, se anteriore. In caso di persistente inadempimento il Collegio nomina fin d’ora un Commissario ad acta, nella persona del Capo di Stato Maggiore dell’Arma dei Carabinieri, o di un suo delegato, affinché, nell’ulteriore termine di 60 giorni, provveda alla adozione di tutti gli atti necessari a dare esecuzione al giudicato di che trattasi.

Le spese del presente giudizio vanno poste a carico dell’Amministrazione intimata.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, ordina al Ministero della Difesa, in persona del Ministro protempore, di dare esecuzione al giudicato formatosi sulla sentenza di questa Sezione n.930/2010 nei termini e modi di cui in motivazione, specificando che, in caso di ulteriore inottemperanza, al suddetto incombente provvederà il Commissario ad acta indicato nella parte motiva del presente atto.

Condanna l’Amministrazione intimata al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 1.500,00 (millecinquecento).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Elia Orciuolo, Presidente

Franco Angelo Maria De Bernardi, Consigliere

Domenico Landi, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. V, Sent., 25-01-2011, n. 511

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

la struttura sanitaria ricorrente, accreditata con DRG n. 2591 del 19.12.2000, ha impugnato in primo grado la nota del direttore generale della AUSL con cui è stato richiesto il rimborso delle somme pagate per prestazioni eccedenti la capacità operativa stabilita con l’accreditamento;

che il Tar per il Lazio con la sentenza indicata in epigrafe, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo;

che l’interessata propone appello sul rilievo che la controversia non riguarderebbe il pagamento delle prestazioni rese ma l’abilitazione della casa di cura a rendere le prestazioni e l’illegittimo abbattimento del numero di posti per i quali avrebbe dovuto essere abilitata;

che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il giudizio non verte sul provvedimento di accreditamento, bensì sulla richiesta di restituzione delle somme relative a prestazioni indebitamente corrisposte in eccesso ai limiti dell’accreditamento;

che, per giurisprudenza consolidata (ex multis, Cons. St. sez. V, 10.2.2010, n. 649; 16.2.2010, n. 866), sussiste una posizione di interesse legittimo a fronte dell’esercizio del potere autoritativo di programmazione sanitaria espresso attraverso la fissazione della capacità operativa della struttura, mentre sussiste una posizione di diritto soggettivo, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 204/1994, azionabile esclusivamente dinanzi al giudice ordinario, relativamente alle controversie riguardanti diritti patrimoniali per il riconoscimento di prestazioni rese in eccedenza rispetto ai limiti massimi predeterminati per ciascuna struttura;

che, pertanto, avuto riguardo alla posizione giuridica di diritto soggettivo dell’appellante incisa dalla nota di richiesta di rimborso, con cui l’amministrazione si è limitata a dare esecuzione al rapporto convenzionale in modo strettamente vincolato al numero delle prestazioni già riconosciute come ammissibili al rimborso, deve riconoscersi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo;

che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo;

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge e conferma la sentenza di primo grado.

Condanna l’appellante al pagamento in favore della Azienda Sanitaria Usl Rm/B delle spese di giudizio liquidate in euro 5.000,00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Vito Poli, Presidente

Eugenio Mele, Consigliere

Francesca Quadri, Consigliere, Estensore

Doris Durante, Consigliere

Nicola Gaviano, Consigliere
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. II 31-10-2008 (09-10-2008), n. 40824 Separazione – Processo del tribunale monocratico – Persistenza della cognizione del tribunale collegiale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Il difensore di fiducia di R.A. e A.C. chiede l’annullamento della sentenza del 6 marzo 2004, con la quale la Corte d’Appello di Palermo ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di truffa aggravata per il quale i due erano stati condannati dal Tribunale di Palermo ed ha confermato la condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da quantificarsi in sede di giudizio civile, confermando la provvisionale di cento milioni e la condanna al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili.
La truffa aggravata dichiarata estinta per prescrizione è consistita nel fatto che i due ricorrenti, rappresentante legale e gestore di fatto della Strumentalia sas, in concorso con M.F. titolare di una farmacia, ponevano in essere i seguenti artifici e raggiri: il M. stipulava un contratto di leasing finanziario in quaranta rate con la Comini spa per l’importo complessivo di L. 434.500.000 per la fornitura di beni per la farmacia da parte della Strumentalia sas, fornitura che in realtà risultava fittizia. La Strumentalia incassava la somma dalla Comini, ma il M. pagava solo la prima rata. Il tutto procurava un danno di rilevante entità alla Comini, che si costituiva parte civile nel processo. Il ricorso è articolato in tre motivi.
Con il primo si contesta alla sentenza di non aver rilevato l’incompetenza del giudice di primo grado e di non aver annullato di conseguenza la sentenza dallo stesso emessa, ritrasmettendo gli atti al giudice competente. La Corte avrebbe violato così gli artt. 17, 24 c.p.p., e artt. 33 quinquies, septies ed octies c.p.p., ed avrebbe emesso una sentenza priva di motivazione o con motivazione manifestamente illogica sul punto. La tesi dei ricorrenti è che il Tribunale in composizione collegiale non poteva spogliarsi del processo rimettendolo al giudice monocratico, anche se, a seguito della separazione dei procedimenti concernenti altri imputati che avevano chiesto riti alternativi, i reati per i quali si procedeva con rito ordinario nei confronti dei ricorrenti erano di competenza del giudice monocratico.
La Corte ha giustificato la decisione del tribunale con due argomenti. Ha sostenuto che l’art. 17 bis c.p.p., è applicabile solo nel caso di separazione disposta dopo una precedente riunione e non per la separazione disposta in un processo per reati contestati insieme sin dall’inizio. Ha poi sostenuto che la legge non prevede una sanzione.
Tale motivazione è condivisibile. L’art. 17 c.p.p., disciplina i meccanismi di riunione dei processi e prevede che la riunione deve avvenire davanti al tribunale collegiale quando alcuni dei processi pendono dinanzi a tale tribunale ed altri dinanzi al Tribunale monocratico. All’interno di tale ambito, la norma completa la disciplina prevedendo che il processo così riunito rimane incardinato dinanzi al Tribunale collegiale anche nel caso di successiva separazione dei processi, senza che sia necessario cambiare nuovamente il giudice. L’ultimo frammento della norma è, pertanto, tutto interno e strettamente ancorato alla specifica disciplina e non può essere trasformato in regola generale, valida anche per il caso in cui non vi è stata una modifica del giudice originariamente competente a causa della riunione. Non lo consente la struttura della norma e la stretta correlazione tra le regole che essa detta. Lo esclude inoltre la chiara ratio dell’art. 17 c.p.p., che è finalizzato ad evitare le diseconomie processuali che si determinerebbero procedendo prima alla unificazione di processi incardinati dinanzi a giudici diversi e poi ad un nuovo cambio del giudice, con ritorno del processo al giudice monocratico. Problema che non si pone nel caso in cui non vi sia stata una preventiva riunione.
Nè può condividersi la affermazione del ricorrente secondo cui tale regola costituirebbe un principio generale: se i rapporti tra giudice monocratico e collegiale fossero regolati in via generale da questo principio, non si spiegherebbe perchè il legislatore avrebbe dettato, all’interno delle situazioni tracciate e regolate dall’art. 17 c.p.p., la norma dell’art. 17 c.p.p., u.p.. La presenza di questa norma specifica comprova che non vi è una regola generale in tal senso.
Con un secondo rilievo si assume che vi è stata irritualità nella fissazione della nuova udienza davanti al giudice monocratico eseguita con ordinanza del giudice collegiale senza che tale ordinanza venisse notificata agli interessati a cura del giudice collegiale. Con riferimento a questa censura la Corte aveva però espressamente motivato, spiegando che i due imputati erano presenti alla lettura della ordinanza il che ha reso superflua la notifica (sentenza di appello, pag. 6) e la circostanza non è stata contestata nei motivi di ricorso in cassazione.
Il secondo motivo concerne la posizione specifica dell’ A.. Si denunzia la mancata correlazione tra accusa e difesa perchè nella imputazione egli è chiamato a rispondere quale gestore di fatto della Strumentalia, mentre il tribunale ha argomentato la sua responsabilità in quanto consulente. Il motivo è privo di fondamento perchè anche l’attività dell’ A. è stata esaminata nei suoi atti concreti, a prescindere dalla veste formale rivestita, senza travalicare l’ambito della contestazione e senza certamente limitare le possibilità di difesa.
Con il terzo motivo si denunzia la manifesta illogicità della motivazione; la mancata assunzione di una prova decisiva, la violazione di norme sostanziali e processuali.
Si censura il passaggio con il quale la sentenza impugnata ha rigettato l’istanza di riapertura del dibattimento per ascoltare la teste B., al fine di dimostrare che i beni erano stati effettivamente consegnati alla farmacia. Il Tribunale aveva dichiarato l’inammissibilità di tale prova, perchè non era stata richiesta nei termini di cui all’art. 468 c.p.p., comma 2, e tale statuizione non è stata oggetto di censura nei motivi di appello, con i quali i ricorrenti si sono limitati a chiedere la riapertura del dibattimento "per la indispensabilità e utilità di tale teste", senza peraltro spiegare con precisione in cosa consistesse la indispensabilità (la mera utilità non rileva). Al contrario, la Corte ha ritenuto che tale indispensabilità non sussistesse, spiegandone le ragioni con un ragionamento immune da vizi logici.
Altra censura concerne quelli che i ricorrenti definiscono reiterati errori logici e violazioni delle norme sulla valutazione della prova.
Si contesta ai giudici di merito di aver fondato la condanna anche sulle dichiarazioni rese dal M., coimputato in reato connesso, al curatore fallimentare. Deve però ricordarsi che "le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all’art. 63 c.p.p., comma 2, che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria da chi, sin dall’inizio, avrebbe dovuto essere sentito in qualità d’imputato, in quanto il curatore non rientra in queste categorie e la sua attività non può farsi rientrare nella previsione di cui all’art. 220, norme di coordinamento cod. proc. pen., che concerne le attività ispettive e di vigilanza. (Sez. 5, Sentenza n. 46795 del 04/10/2004 Ud. (dep. 02/12/2004 ) Rv. 230520, ma v. già, Cass., n. 41134 del 2001, Rv.
220257).
Si contesta infine proprio la deposizione del curatore, che effettuò un sopralluogo nella farmacia, e dichiarò che il mobilio e gli arredi non erano nuovi, assumendo che il curatore potrebbe essere stato suggestionato e che la sua percezione del carattere non nuovo dei mobili e degli arredi della farmacia potrebbe essere stata una percezione errata, potrebbe essere addirittura che egli abbia visionato beni diversi da quelli della fornitura di Strumentalia.
Questi rilievi critici sono cruciali, perchè cruciale è sicuramente la dichiarazione del curatore fallimentare assunto come teste e testimone oculare di quanto constatato in sede di sopralluogo. Ma la valutazione di queste dichiarazioni, attentamente vagliate dalla Corte, attiene al merito. L’analisi e la valutazione effettuata dalla Corte d’Appello è completa, razionale e priva di contraddizioni o illogicità.
Infine si contesta la motivazione nella parte relativa al danno risarcibile alle parti civili. La curatela fallimentare, a parere dei ricorrenti non ha subito alcun danno, anzi dal contratto simulato ricaverebbe un beneficio. Parimenti la COMIFIN, a parere dei ricorrenti, non ha subito danni in quanto si è insinuata nel passivo fallimentare così avendo la possibilità di recuperare le somme erogate. Le tesi sono entrambe infondate. La curatela ha assunto un debito nei confronti della finanziaria. La finanziaria dal canto suo a fronte della erogazione di 434.500.000 milioni, ha percepito solo la prima delle quaranta rate. Solo in parte queste somme potranno essere recuperate e spetterà al giudice civile quantificare l’entità finale del danno.
L’ultima censura concerne la liquidazione della provvisionale, di cui si denunzia la carenza di motivazione. Il motivo di ricorso è inammissibile. Per giurisprudenza costante e consolidata "Il provvedimento che liquida somme a titolo di provvisionale alla parte civile non è ricorribile per cassazione, perchè non è suscettibile di passaggio in giudicato e destinato a rimanere assorbito nella pronuncia definitiva sul risarcimento che, sola, può essere oggetto di impugnazione con ricorso per cassazione" (fra le tante, cfr.
Cass., Sez. 2, Sentenza n. 36536 del 20/06/2003 Ud. (dep. 23/09/2003) Rv. 226454).
Il ricorso pertanto deve essere rigettato. Ne deriva la condanna al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile COMIFIN spa, che liquida per il presente grado in complessivi 3.000,00 Euro, oltre IVA, Cpa e spese forfettarie.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione, Sez. VI, 20 maggio 2010, n. 19085 Droga, i criteri per valutare l’aggravante dell’ingente quantità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Bologna ha rigettato l’appello proposto da OMISSIS e OMISSIS contro la sentenza datata 15.10.2007, con cui il giudice dell’udienza preliminare del locale Tribunale aveva condannato, tra gli altri imputati, la OMISSIS alla pena di sei anni di reclusione e il OMISSIS a quella di dieci anni per i reati di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. 390/90, ritenuta la continuazione tra i reati e applicate le diminuzioni di pena per le riconosciute circostanze attenuanti generiche e per il rito abbreviato.

2. I giudici di merito hanno accertato e ritenuto la sussistenza di un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, costituita in provincia di Bologna da OMISSIS , che ne era il capo e l’organizzatore, dedita, nel periodo gennaio-settembre 2006, all’importazione di droga dall’estero ed alla distribuzione in Bologna e provincia, nonché alla rimessa verso il Marocco del denaro provento della vendita illecita. La OMISSIS aveva svolto il ruolo di corriere dalla Francia e dall’Olanda verso l’Italia. Agli imputati sono stati addebitati anche singoli episodi d’importazione (art. 73 d.P.R. 309/90), operati dalla OMISSIS , tra cui un trasporto con viaggio in treno di kg. 4,5 di cocaina (con percentuale di principio attivo compreso tra il 50 e il 55%), ritenuto quantitativo ingente ex art. 80.2 d.P.R. cit.

Motivi della decisione

3. Contro la sentenza ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, con separati ricorsi.

3.1. Il OMISSIS deduce “violazione dell’art. 606 comma 1 lettere b), c) ed e) c.p.p., con riferimento alla sussistenza del sodalizio criminoso, alla qualifica di capo-organizzatore, all’aggravante dell’ingente quantità, nonché al diniego della circostanza attenuante della collaborazione.

3.2. La OMISSIS , con il primo motivo, deduce “insussistenza del reato di associazione a delinquere ex art. 74 c. 2 d.P.R. 309/90”, contestando la condotta di partecipe attribuita all’imputata, che “ha svolto solo tre volte l’attività di mero corriere per un soggetto tunisino, residente a Firenze”.

Con il secondo motivo censura la ritenuta “errata sussistenza dell’aggravante dell’ingente quantitativo di cui all’art. 73 c. 1 e 80 c. 2 d.P.R. 309790”.

Si duole, infine, del mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 73 c. 7 del d.P.R. cit.

4. I ricorsi meritano parziale accoglimento.

4.1. I motivi relativi alla ritenuta responsabilità penale degli imputati, nei ruoli rispettivamente loro ascritti, sono inammissibili. Sia le doglianze del OMISSIS sia quella della OMISSIS – del tutto ripetitive di quelle svolte con gli atti d’appello, analiticamente esaminati dalla Corte territoriale e rigettati con motivazione giuridicamente corretta ed indenne da vizi logici – si risolvono in censure di merito alla valutazione probatoria dei giudici, idonee a legittimare la richiesta del giudizio d’appello, ma inammissibili dinanzi alla Corte di legittimità.

4.2. Parimenti inammissibili sono le doglianze per il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della collaborazione.

Quella della OMISSIS non può neppure essere presa in considerazione, a norma dell’art. 606.3 c.p.p., per non essere stata dedotta come motivo d’appello.

Quella della OMISSIS , come gli altri suoi motivi esaminati, si risolve in valutazioni di merito antitetiche rispetto a quelle correttamente in espresse nella sentenza impugnata, che evidenzia come l’imputato abbia reso solo parziale confessione, senza fornire alcun particolare contributo per consentire agli inquirenti di individuare i fornitori dei rilevanti quantitativi di stupefacenti commerciati e senza adeguatamente riferire sul suolo dei correi.

4.3. Va, invece, accolto il motivo, dedotto da entrambi gli imputati, sulla ritenuta ingente quantità di cocaina, ritenuta con riferimento all’importazione di circa 4,5 chilogrammi, con percentuale di principio attivo compreso tra il 50% e il 55%, con sostanza drogante di circa 2.250 grammi.

Il riferimento operato dalla sentenza all’agevolazione dei consumi nei riguardi di un elevato numero di tossicodipendenti è troppo generico e indeterminato per dar conto dell’esistenza dell’aggravante, che punisce in modo severo il commercio di quantità ingenti. Prescindendo dal superato collegamento alla cd. saturazione del mercato, la circostanza aggravante della quantità “ingente”, di cui all’art. 80 comma secondo d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, deve ritenersi sussistente quando, pur non potendo essere precisato un valore massimo, che rimane sostanzialmente indeterminabile, sia oggettivamente di quantità straordinaria e comunque tale da superare, con accento d’eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell’ambito territoriale nel quale opera il giudice del fatto, tenendo conto ovviamente anche della qualità della sostanza, determinata dalla quantità di principio attivo della sostanza commerciata (cfr. Cass. 47891/2004, Mauro).

5. Su tale specifico punto, la sentenza va annullata con rinvio.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. 309/90 e rinvia, per nuovo giudizio sul punto, ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna. Rigetta nel resto i ricorsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.