Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14062

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Svolgimento del processo
Con ricorso notificato al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed all’Agenzia delle Entrate, la s.r.l. P. – premesso che "con ricorso spedito … in data 23 dicembre 2003" aveva impugnato "la cartella di pagamento … concernente IVA per l’anno … 1999" ("Euro 51.582,80 comprensiva di sanzioni e di interessi") -, in forza di tre motivi, chiede di cassare la sentenza indicata in epigrafe che ha accolto l’appello dell’Ufficio.
L’Agenzia ha depositato mero atto di costituzione; il Ministero non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1. In via preliminare va rilevata ex officio e dichiarata la inammissibilità del ricorso per cassazione proposto contro il Ministero atteso che questo ente non risulta abbia preso parte a nessuno dei precedenti gradi di merito: il "ricorso" di primo grado, infatti, come deduce la stessa ricorrente, è stato "spedito … in data 23 dicembre 2003" soltanto "all’Agenzia delle Entrate Ufficio di Roma 7".
2. La Commissione Tributaria Regionale – esposto aver l’Ufficio (a) dichiarato di "non aver rinvenuto la dichiarazione IVA 1988 che evidenziava il credito IVA riportato nella dichiarazione 1999" e (b) sottolineato essere "interesse … del contribuente presentare copia della dichiarazione richiesta …"; "rileva(to) che la documentazione allegata al ricorso riguarda le dichiarazioni IVA 1999 e seguenti" -, ha recepito l’appello dell’Ufficio affermando di dedurre ("deduce"), "in assenza dello stampato della dichiarazione IVA 1998", che "la dichiarazione annuale 1998 non sia stata presentate, sebbene, probabilmente, la società effettivamente riportava il credito IVA indicato nella dichiarazione 1999".
3. La società – assunto aver in primo grado eccepito che "la cartella" si appalesava "illegittima stante" (1) "il difetto assoluto di motivazione e di prova" ("non riportava in allegato neppure la …
comunicazione che a dire dell’Ufficio sarebbe stata predisposta in data 12 marzo 2002"), (2) "l’assoluta carenza del presupposto impositivo" e (3) la "violazione e falsa applicazione di legge" – censura la decisione per tre motivi:
(1) "violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52" per mancanza dell’"autorizzazione" ad "esperire il mezzo di gravame", sostenendo che "la mancata sottoscrizione in calce alla barratura utilizzata solitamente per firmare l’atto "in via vicaria"" costituisce "motivo di inammissibilità del gravame D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 52, rilevabile anche d’ufficio …, stante la necessità per l’ufficio periferico di acquisire l’autorizzazione da parte del responsabile dell’ufficio contenzioso tributario";
(2) "violazione e falsa applicazione" del "D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57" (per il quale ""nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove""), affermando che l’Ufficio in primo grado si era limitato ad "eccepire una … inammissibilità del ricorso" ma non aveva "minimamente" contestato "la sussistenza del credito riferito all’annualità 1998" alla quale essa contribuente, "nonostante l’assoluto difetto di motivazione dell’atto impugnato", "aveva arguito potesse riferirsi la pretesa, stante la coincidenza delle cifre": "la mancata presentazione della dichiarazione per il 1998", pertanto, era stata eccepita "tardivamente" ("così determinando l’… inammissibilità dell’appello");
(3) "violazione e falsa applicazione" del "D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 30, 54 e 55", asserendo che "la mancata presentazione della dichiarazione IVA" non costituisce, "di per se stessa", "situazione legittimante il disconoscimento del credito dell’eccedenza di imposta per l’annualità in contestazione" e non fa "decadere il contribuente dalla possibilità di richiedere il credito ex art. 30 citato" ma legittima, "di contro", "l’Ufficio ad operare in via induttiva alfine di operare l’accertamento dell’imposta computando la detraibilità soltanto dei versamenti e dell’IVA a credito risultanti dalle dichiarazioni mensili o trimestrali".
4. Il ricorso deve essere respinto.
A. L’infondatezza del primo motivo discende dal principio – da tempo affermato da questa Corte (Cass., un., 14 gennaio 2005 n. 604, da cui gli excerpta che seguono, seguita da Cass., trib.: 22 settembre 2006 n. 20516, 28 giugno 2007 n. 14912, 12 ottobre 2007 n. 21473, 11 marzo 2010 n. 5928, ex multis), che va ribadito per carenza di qualsivoglia argomentazione contraria – secondo cui la disposizione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 52, comma 2, abrogato dal D.L. 25 marzo 2010, n. 40, art. 3, comma 1, lett. c), per la quale "gli uffici periferici del dipartimento delle entrate devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell’appello principale dal responsabile del servizio contenzioso della competente direzione regionale delle entrate; gli uffici del territorio devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell’appello principale dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione compartimentale del territorio" non è "più suscettibile di applicazione nell’intervenuta operatività della normativa, di cui al D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, che ha istituito le agenzie fiscali, attribuendo ad esse la gestione della generalità delle funzioni in precedenza esercitate dai dipartimenti e dagli uffici del Ministero delle finanze, e trasferendo alle medesime i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze, da esercitarsi secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia (art. 57)", essendo "palese che, nell’intervenuta soppressione di tutti gli uffici ed organi ministeriali ai quali essa fa riferimento, si deve escludere che da detta norma possano farsi discendere condizionamenti al diritto delle agenzie, e, in particolare, dell’Agenzia del demanio, di impugnare in appello le sentenze delle commissioni tributarie provinciali ad esse sfavorevoli".
B. La carenza di fondamento della seconda doglianza (".violazione e falsa applicazione" del "D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57") risulta evidente sol considerando la natura impugnatoria del processo tributario, la quale, come noto (Cass., trib., 13 ottobre 2006 n. 22010, che richiama "Cass., trib., 7 marzo 2002 n. 3345;… trib., 3 dicembre 2001 n. 15234;… trib., 22 marzo 2002 n. 4125"), "circoscrive il dibattito alla pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati ma entro i limiti delle contestazioni mosse dal contribuente" .
In conseguenza, la "preclusione" dello ius novorum nel giudizio tributario di appello posta dall’art. 57 riguarda soltanto il "mutamento", "in secondo grado" "degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa", precisamente di quegli elementi posti dall’ente impositore a fondamento della pretesa fiscale contenuta nell’atto oggetto di impugnazione giurisdizionale.
Nel caso la "mancata presentazione della dichiarazione per il 1998" costituisce, per riconoscimento della stessa contribuente ("aveva arguito potesse riferirsi la pretesa, stante la coincidenza delle cifre"), la ragione stessa della richiesta dell’imposta indicata nella cartella impugnata.
C. L’ultima doglianza – della quale, peraltro, non vi è traccia nella sentenza impugnata, in cui si sostiene che "la mancata presentazione della dichiarazione IVA" non costituisce, "di per se stessa", "situazione legittimante il disconoscimento del credito dell’eccedenza di imposta per l’annualità in contestazione" -, infine, è inammissibile non essendo stata esposta (nè ravvisandosi) ragione della sua concreta rilevanza ai fini del decidere e, comunque, supponendo un motivo di ricorso, fondato (peraltro) su di un accertamento di fatto (sussistenza di una "IVA a credito risultante dalle dichiarazioni mensili o trimestrali") che il giudice di appello non menziona, che non risulta essere mai stato sottoposto all’esame della Commissione Tributaria Provinciale.
5. Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alle spese del giudizio di legittimità in quanto nessuna delle amministrazioni pubbliche intimate ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. VI 30-10-2008 (16-10-2008), n. 40589 Atto contrario ai doveri d’ufficio – Individuazione – Successiva verifica dell’esistenza dei requisiti necessari per l’adozione dell’atto

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FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Lecce, per quel che ancora interessa il presente procedimento, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della città in data 29 giugno 2000, ha ridotto la pena inflitta ad F.A. dal giudice di primo grado per i reati di cui ai capi A) (corruzione aggravata in concorso con altri per atti contrari ai doveri di ufficio, così riqualificato il fatto originariamente contestato come concussione), I) (corruzione aggravata in concorso con altri per atti contrari ai doveri di ufficio), e Q) (corruzione aggravata in concorso con altri per atti contrari) ad anni tre di reclusione.
– Con la prima imputazione veniva contestato al F., nella qualità di componente della Commissione medica per l’accertamento della invalidità civile presso la USL (OMISSIS), di avere accettato, in concorso con D.M.C. (titolare di un bar sito nei pressi della sede della ASL, persona in stretti rapporti con il F., operante quale tramite nelle richieste indebite di denaro tra quest’ultimo e le persone richiedenti riconoscimenti di invalidità), la promessa di ottenere la somma di L. 20 milioni dai coniugi M.L. e D.F.G., interessati al riconoscimento di invalidità con accompagnamento della M., in cambio dell’accoglimento della domanda senza intralci, e poi di avere ricevuto detta somma, una volta percepiti dalla M. gli arretrati della pensione pari a L. 63 milioni complessivi (in (OMISSIS)).
L’episodio, così riqualificato già in sede di giudizio di primo grado come corruzione propria antecedente, rispetto alla originaria imputazione di concussione, era venuto a conoscenza della autorità giudiziaria in base a denuncia degli interessati ed era stato confermato dalla stessa D.M., ritenuta intrinsecamente attendibile, la quale ha reso dichiarazioni auto ed etera accusatorie; le dichiarazioni erano confermate dai riscontri esterni consistenti nella deposizione di I.V., dipendente della Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili, dalle dichiarazioni dei coimputati L. e C., dalle ammissioni parziali dello stesso imputato, dalla deposizione di L.M. R., dalle concordi dichiarazione degli interessati, i quali avevano consegnato alla D.M. per il F. la somma di L. 20 milioni, dalla deposizione del teste P..
La riqualificazione del fatto come corruzione propria era riconducibile alla considerazione della mancanza di qualsiasi forma di coercizione della D.M. e, attraverso di essa, dal F., nonchè dalla ritenuta realizzazione di un negozio illecito paritetico, posto in essere per il tramite della D. M., finalizzato al conseguimento del beneficio richiesto dalla M..
La Corte d’appello nel confermare la condanna per tale capo aveva osservato che non era neppure ipotizzabile il reato di corruzione impropria giacchè il comportamento dell’imputato era manifestazione di un "asservimento addirittura "preventivo" della pubblica funzione agli interessi del privato", dal momento che era emerso che il F. aveva preso atto della patologia della M. e aveva garantito il buon esito della pratica ancor prima di prendere visione della (sola) documentazione allegata a sostegno della domanda.
– All’imputato era inoltre contestato il reato di corruzione impropria aggravata, ancora in concorso con la D.M., perchè entrambi accettavano la somma di L. 3 milioni da Fr.
L. per il compimento da parte del F. di un atto contrario ai doveri di ufficio quale componente della Commissione medica per l’invalidità civile presso la ASL (OMISSIS), consistente nel garantire il buon esito della pratica grazie al suo ruolo di membro della Commissione, e nell’inviare il Fr. da medici di sua fiducia che avevano redatto compiacenti certificazioni mediche poste a fondamento dell’accoglimento della domanda di invalidità: la domanda di pensione di invalidità veniva poi accolta senza che il Fr. venisse sottoposto a visita medica.
Il F. percepiva quindi il compenso illecito pattuito (in (OMISSIS)). Le prove erano date dalle dichiarazioni della D.M. che avevano trovato puntuale riscontro nelle dichiarazioni di Fr.Lu. e nella testimonianza di Fr.Pi.. La ricostruzione dei fatti e la qualificazione giuridica erano ritenute corrette dalla Corte di merito. Anche in tal caso il F., in via preventiva, aveva garantito le prestazioni dell’ente pubblico, così asservendo la funzione pubblica a esigenze meramente private.
– Quanto poi al reato sub Q), l’episodio è sostanzialmente analogo a quello appena descritto e riguarda Fr.Im., sorella di Lu.. A fondamento della responsabilità erano poste le dichiarazioni della D.M. e della F. I. oltre che del teste C.U.. (in (OMISSIS)).
Avverso la predetta sentenza propone ricorso per Cassazione il difensore di F. che deduce quanto segue.
– Con un primo motivo (concernente l’episodio M.) lamenta la falsa applicazione dell’art. 192 c.p.p. e il vizio di motivazione.
Si duole della motivazione sulla attendibilità della D.M. osservando che a nulla rilevava la circostanza che la donna avesse reso anche dichiarazioni autoaccusatorie. Si duole altresì della mancata risposta alle deduzioni svolte sul punto in sede di appello:
la donna era originariamente imputata di millantato credito e solo dopo aveva accusato il F. aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Inoltre ella aveva un interesse a chiamare in correità il F. per coprire la figlia e il fratello che avevano fornito un contributo ai fini del conseguimento della somma di denaro di cui la D.M. si era impossessata dopo che la M. aveva ottenuto gli arretrati.
Sotto altro aspetto si duole della violazione dell’art. 192 c.p.p. e del vizio di motivazione nonchè della contraddittorietà di essa in relazione ad atti del processo con riferimento al medesimo episodio M.. F. non è mai stato Presidente della Commissione di prima istanza della Usl (OMISSIS), ma solo componente quale rappresentante di categoria: aveva poteri limitati davanti ad altri membri del collegio (v. verbale visita M. del 22 maggio 1992).
Inoltre F. non aveva neppure preso parte alla visita della M. che aveva dato luogo al riconoscimento della invalidità (verbale visita anzidetto e certificazione prodotta in primo grado).
Ciò doveva indurre la Corte di merito a ritenere che mancasse la prova della corruzione per mancanza di un atto contrario ai doveri di ufficio. Vi erano anche forti contraddizioni tra le dichiarazioni della D.M. e quelle della M..
Quest’ultima aveva detto che la D.M. si era interessata, dopo presentazione del marito, molto dopo la visita favorevole e solo per ottenere gli arretrati. La D.M. aveva invece dichiarato che era intervenuta subito sul F., nella fase del riconoscimento di beneficio. Inoltre v’era discrasia, sulla fase di pagamento degli arretrati tra la versione della chiamante e dei testi D.F. e M.. Ugualmente doveva dirsi in ordine al contrasto (tra la M. e il D.F. da un lato e la D.M. dall’altro) sulle modalità con cui erano stati cambiati gli assegni dalla M. e con cui la D.M. si era impossessata dei soldi.
La stessa cosa doveva dirsi sia sulle modalità con cui era stata appresa dalla D.M. la notizia della denuncia presentata dalla M., sia sulla decisione (secondo la D.M. sollecitata da F.) di aprire un libretto postale intestato al D. F..
Vi sarebbe contrasto anche con la teste B. (assistente sociale).
Sotto un diverso profilo deduce la violazione dell’art. 319 c.p..
Sostiene che il reato si sarebbe dovuto derubricare in quello di corruzione impropria, in quanto non risultava da alcun atto processuale che le patologie lamentate dalla M. fossero insussistenti (per episodi analoghi la Corte era pervenuta a qualificare il fatto come corruzione propria). Inoltre, come detto, F. non aveva neppure partecipato alla visita presso la Commissione di prima istanza della USL (OMISSIS). Il reato si sarebbe dunque dovuto dichiarare prescritto.
– Ulteriore motivo concerne gli episodi riguardanti Fr.
L. e Fr.Im.. Anche per tali analoghi episodi, la difesa rileva, sotto un primo profilo, il vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p..
Sostiene che la Corte d’appello aveva mancato di considerare le dedotte divergenze tra le dichiarazioni della D.M. con quelle della Fr.: quest’ultima aveva detto, contrariamente alla D.M., che il compenso era stato chiesto dopo l’ottenimento del beneficio. Inoltre la dichiarazione della dazione dei tre milioni dalla D.M. al F. era rimasta priva di qualsiasi riscontro individualizzante. Non solo ma non v’era il minimo indizio del fatto che per "facilitare l’iter della pratica" fosse stato il F. a prendere la decisione di eseguire la visita domiciliare, nè avrebbe potuto prenderla non essendo Presidente della commissione.
– Sotto altro aspetto rileva che i fratelli Fr. avevano diritto alle prestazioni. Per di più l’intervento del dottor F. sarebbe intervenuto in via preventiva. Non si sarebbe trattato di un atto contrario ai doveri di ufficio, ma semmai di un atto di ufficio in violazione di un dovere di imparzialità e di correttezza, ma non già di un asservimento di una pubblica funzione all’interesse pubblico attraverso un atto contrario ai doveri di ufficio. Il reato riqualificato sarebbe coperto da prescrizione.
Osserva la Corte, in ordine ai primi due motivi di ricorso concernenti l’episodio M., che la motivazione in punto di ricostruzione dei fatti operata dalla Corte d’appello come pure di valutazione della prove sia del tutto congrua e immune da vizi logici e, ancora di più, da vizi di violazione dell’art. 192 c.p.p..
Si deve ricordare che Sez. U, Sentenza n. 2110 del 23/11/1995 Ud.
(dep. 23/02/1996), Fachini, Rv. 203767 hanno affermato che la Corte di Cassazione non può esprimere un giudizio sulla rilevanza e sulla attendibilità delle fonti di prova una volta verificato che le scelte compiute dal giudice di merito siano coerenti, sul piano logico, e frutto di un’esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite: tali scelte si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova. Nella specie i giudici di merito, in primo e secondo grado, hanno esaminato tutte le fonti di prova, valutando come di scarso rilievo, e quindi non decisivi, alcuni contrasti nelle dichiarazioni della M. e del D.F. da un lato e della D.M. dall’altro (neppure specificati analiticamente nel ricorso per Cassazione – salvo quello tra la M. e il D.F. sul momento di intervento della D.M., del tutto congruamente spiegato alla pag. 29 della sentenza di primo grado) e comunque implicanti una inammissibile rivalutazione delle prove da parte del giudice di legittimità), e non risulta (nè è stato dedotto) che abbiano travisato i risultati probatori (salvo quanto subito si dirà): consegue che, anche sotto questo aspetto, le emergenze probatorie non possono essere rivisitate dalla Corte di Cassazione. E’ vero che a pag. 4 della sentenza F. è indicato come Presidente della Commissione, ma tale indicazione è riportata in un passo in cui la sentenza richiama le dichiarazioni della D.M..
E’ certo comunque che in nessuna parte delle sentenze di primo e secondo grado si fa derivare da tale erronea qualità una qualsiasi conseguenza, perchè nelle imputazioni e in ogni altra parte delle decisioni si parla del F. come componente della Commissione medica quale rappresentante dell’ANMIC. Ciò serve anche a superare l’obiezione del ricorrente sulla sua mancata presenza il giorno della visita. A parte il fatto che la visita costituisce un momento del procedimento di riconoscimento della invalidità e che la motivazione del provvedimento può anche essere redatta successivamente, la sentenza di primo grado spiega molto bene come il F. avesse già esaminato prima della visita la documentazione medica offerta dalla M., consigliandola di non produrre altri documenti, sicuro che gli interessi della M. sarebbero stati salvaguardati da quei documenti e dal fatto che in quella seduta avrebbe partecipato il dottor G. in sua sostituzione quale medico di categoria perchè collega del F..
Del resto, è altrettanto pacifico che sono ininfluenti le minime incongruenze e che debbono considerarsi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate – come nella specie lo sono – in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento. (Sez. U., Sentenza n. 00024 DEL 16/12/1999 – UD 24/11/1999, Spina, RV. 214794).
Per quanto riguarda il terzo motivo relativo all’episodio M. è infondata la tesi in diritto prospettata dal ricorrente, secondo cui la insussistenza di prova di fattori contrari al riconoscimento della invalidità farebbe esulare il fatto dal reato di corruzione propria (art. 319 c.p.) per farlo rientrare in quello di corruzione impropria (art. 318 c.p.), in mancanza di un atto contrario ai doveri di ufficio. Va sottolineata invece la precisione e la adeguatezza della imputazione giacchè il modus operandi del F., venuto alla luce anche in ragione di altri episodi analoghi giudicati nello stesso procedimento, era quello solito di promettere il buon esito della pratica di riconoscimento di invalidità (tramite la D. M.) ancor prima di esaminare la documentazione medica e a prescindere da essa. Non ha importanza ai fini della valutazione della sussistenza dell’atto contrario ai doveri di ufficio la circostanza che poi si sarebbe verificata la ricorrenza degli elementi per un riconoscimento della invalidità. Così comportandosi il F. faceva mercimonio della sua funzione ponendo in essere sicuramente atti contrari ai doveri d’ufficio, aderendo, in via preventiva, alla ipotesi del certo riconoscimento della invalidità indipendentemente dalla accertata esistenza dei requisiti per tale riconoscimento, e anzi accettando preventivamente l’eventualità che non sussistessero, così veramente asservendo la funzione pubblica agli interessi privati, e non semplicemente violando i doveri di imparzialità e correttezza per la trattazione (sollecita) della pratica.
Per quel attiene agli analoghi episodi relativi ai fratelli Fr. va anzitutto precisato che i reati di corruzione propria non sono prescritti. Tenuto conto della contestazione sino al (OMISSIS), il periodo massimo della prescrizione sarebbe scaduto nel settembre 2008, quindi pochi giorni prima della odierna udienza. Sennonchè dal solo fascicolo della Corte d’appello risultano alcuni episodi di sospensione della prescrizione, quale quello dal 17 giugno 2005 al 21 settembre 2005 (impedimento del difensore del F. avv. Bonsegna), pari a tre mesi e quattro giorni, termine sufficiente ampio per ritenere che alla data della odierna udienza il reato non era ancora prescritto.
Fatta tale premessa, va rilevato che il primo motivo di ricorso di tali due fratelli, riguarda, in realtà il solo episodio di Fr.Im.. Alla pag. 22 della sentenza di primo grado è scritto a chiare lettere che la donna, non appena avuto l’avviso di convocazione da parte della Commissione di Marzano "ne parlò alla D.M., dalla quale apprese che per la favorevole definizione della domanda avrebbe dovuto versare una somma di denaro" precisando poi che "riscossi gli arretrati, ne parlò alla D. M., alla quale consegnò su richiesta, la somma di L. 3.000.000, dopo averla prelevata dal libretto postale". Non risulta dunque dalle sentenze di primo e di secondo grado alcun contrasto tra le due dichiarazioni. E d’altra parte, sulla questione della carenza di riscontri in ordine alla consegna dei denari al F., non è vero che le dichiarazioni della D.M. non siano riscontrate, in quanto la Fr.Im. ha reso, sia pure genericamente, analoghe dichiarazioni. Riscontri sulla materiale consegna del denaro a F. sono poi ricavati correttamente da riscontri di carattere logico tratti dalla ricostruzione dell’identico episodio di Fr.Lu. (a sua volta riproducente il modus operandi del F. e della D.M. in altre occasioni) in cui costui e il figlio P. hanno confermato di aver versato i denari nelle mani del F., e tratti, altresì, dalla celerità con la quale veniva trattata e definita la pratica (vedasi anche la deposizione di C.).
Sulla sussistenza del reato di corruzione propria antecedente, va poi richiamato quanto già si è detto in relazione all’episodio M..
Per tutte tali ragioni il ricorso va rigettato e al rigetto consegue la domanda del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione, Sez. II, 20 aprile 2010, n. 15111 Ingiurie e minacce all’ex coniuge per riavere la casa coniugale, è estorsione!

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

Con sentenza del 26.2.2008 la Corte di appello di Napoli confermava la sentenza emessa dal GUP del Tribunale di S. Maria C. V. in data 4.6.2006 di condanna del ricorrente per il reato di estorsione alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed euro 300,00 di multa.

L’imputato avrebbe costretto la moglie alla quale prima in sede di separazione poi in sede di divorzio era stata affidata l’abitazione coniugale di proprietà dei familiari del ricorrente con ingiurie e minacce di morte ad abbandonare la detta abitazione e trasferirsi altrove.

Ricorre l’imputato che con un primo motivo allega che manca l’elemento dell’ingiusto profitto perché l’abitazione non era di proprietà della parte offesa e questa aveva già manifestato l’intenzione di trasferirsi altrove.

Inoltre le dichiarazioni della donna erano prive di sostanziali conferme.

Infine, al più, era ravvisabile il reato di cui all’art. 393 c.p. in quanto il ricorrente poteva adire il giudice per ottenere l’immobile che era di sua proprietà.

Motivi della decisione

Il ricorso, stante la sua manifesta infondatezza, va dichiarato inammissibile.

Circa il primo motivo i giudici di merito hanno accertato che in seguito alle minacce, insulti ed atti di violenza posti in essere dall’imputato la moglie fu indotta a lasciare l’abitazione che le era stata affidata sia in sede di separazione che di divorzio. Tali episodi emergono dalle precise ed univoche dichiarazioni erse dalla p.o. e il giudice di primo grado ha indicato i riscontri derivanti dalle dichiarazioni rese dai testi I., G. S., S. A., M. G..

Il motivo è assolutamente generico perché ignora le dette dichiarazioni e non sottopone neppure a specifiche censure le dichiarazioni della moglie. L’ipotesi che la stessa abbia volontariamente abbandonato l’appartamento perché desiderava spostarsi altrove è smentita dalle sentenze di merito e non vengono indicati gli elementi dai quali questa ipotesi sarebbe confermata. Pur essendo l’appartamento di proprietà dei familiari del ricorrente l’ingiusto profitto è evidente, posto che l’imputato, essendo stato l’immobile affidato alla moglie sia in sede di separazione che di divorzio, non ne aveva la disponibilità.

Quanto all’ultima doglianza circa l’applicabilità dell’art. 393 c.p., il motivo è generico. Certamente l’imputato poteva in astratto adire il giudice ma facendo valere ragioni di diritto che non vengono nemmeno indicate.

Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-02-2011, n. 3604 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 7 settembre 2006, la Corte d’Appello di Napoli rigettava il gravame svolto dalla Tangenziale di Napoli spa, in persona del legale rappresentate pro tempore, contro la sentenza di primo grado che aveva dichiarato la nullità dei contratti a tempo determinato stipulati tra la società e C.C. ed altri trenta lavoratori, condannando la società alla riammissione in servizio dei lavoratori, al pagamento del risarcimento dei danni commisurati alla retribuzione contrattuale da ciascuno goduta all’atto della risoluzione dell’ultimo rapporto e fino alla pronuncia del dispositivo di primo grado, da quantificare in separato giudizio.

2. La Corte territoriale, esclusa preliminarmente la volontà abdicativa dei diritti derivanti dalla declaratoria di nullità del termine, riteneva i contratti in questione soggetti alla L. n. 230 del 1962, come integrata dalla L. n. 56 del 1987 e soggetti, per la nullità del termine, alla conversione del contratto ab initio in contratto a tempo indeterminato, come espressamente previsto dalla legge.

3. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la Tangenziale di Napoli spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c. con la quale si insiste per la cassazione della decisione di merito anche alla luce dello ius superveniens (L. n. 183 del 2010). L’intimato ha resistito con controricorso, eccependo la tardività del ricorso ex artt. 325 e 327 c.p.c., l’inammissibilità, per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. e l’infondatezza del ricorso.

Motivi della decisione

4. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1324 e 1362 c.c., in relazione all’art. 2113 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), formulando il quesito di diritto con il quale chiede alla Corte di dire se violi o no i predetti articoli del codice civile la sentenza che fornisce un’errata interpretazione del contenuto della quietanza e del comportamento successivamente tenuto dal suo sottoscrittore, negando valore di rinuncia alla quietanza medesima.

5. Col secondo motivo di ricorso lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 in relazione all’art. 12 disp. gen., nonchè dell’art. 2, commi 2 e 3, lett. a) e b) del CCNL per il personale dipendente da Società e Consorzi concessionari di Consorzi e trafori, anche in relazione all’art. 1362 c.c., L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 3 in relazione all’art. 2697 c.c. (art 360 c.p.c., n. 3).

Formula il quesito di diritto con il quale chiede alla Corte di dire se violi o no la L. n. 56 del 1987, art. 23 in relazione all’art. 12 disp. gen., nonchè dell’art. 2, commi 2 e 3, lett. a) e b) del CCNL per il personale dipendente da Società e Consorzi concessionari di Consorzi e trafori, anche in relazione all’art. 1362 c.c., L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 3 in relazione all’art. 2697 c.c., la sentenza che neghi la possibilità, per la contrattazione collettiva, di introdurre nuove ipotesi di apposizione del termine alla durata del contratto nuovo e diverso rispetto a quello previsto dalla L. n. 230 cit. e, in quanto tali, svincolate dai principi ispiratori di tale legge.

6. Col terzo motivo lamenta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), in ordine alla nullità della clausola, riportando ampie parti degli atti difensivi dei pregressi gradi.

7. Col quarto motivo lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 e della L. n. 230 cit., art. 2 in relazione all’art. 11 preleggi, e degli artt. 1339, 1372, 1418, 1419, 1424 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio. Rileva la ricorrente che a nessuna delle categorie codicistiche utilizzate (conversione del contratto, sostituzione di clausole e nullità parziale) può farsi riferimento, equivalendo l’allontanamento del lavoratore per scadenza del termine non legittimo ad un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo con applicazione della relativa tutela. Formula il quesito di diritto con il quale chiede alla Corte di dire se violi o no il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 e la L. n. 230 cit., art. 2 in relazione all’art. 11 preleggi, nonchè gli artt. 1339, 1372, 1418, 1419, 1424 c.c., la sentenza che dichiari la conversione di un contratto a tempo determinato nullo in contratto a tempo indeterminato nonostante che, al momento dell’accertata nullità, la conversione non fosse più prevista come sanzione legale.

8. Preliminarmente osserva il Collegio che va disattesa l’eccezione di tardività del ricorso per cassazione, avverso sentenza di appello pubblicata il 7 settembre 2006, per essere stato il ricorso tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica il 7 settembre 2007. Invero, per il computo dei termini a mese o ad anno si osserva il calendario comune, facendo riferimento al nome e al numero attribuiti, rispettivamente, a ciascun mese e giorno; ne consegue, in particolare, che la scadenza del termine annuale per l’impugnazione delle sentenze – nelle controversie, come quelle di lavoro, a cui non è applicabile la sospensione feriale dei termini – coincide con lo spirare del giorno (dell’anno successivo) avente la stessa denominazione, quanto a mese e numero, di quello in cui la sentenza è stata depositata (ex multis, Cass. 23479/2007).

9. Ciò premesso, il Collegio ritiene di non poter procedere allo scrutinio delle censure avverso la decisione della Corte territoriale posto che il ricorso non soddisfa la prescrizione contenuta nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, secondo la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa. Nella specie è del tutto omessa, nella narrazione, qualsivoglia esposizione relativa ai contratti intercorsi fra la ricorrente e le numerose parti del giudizio, con riferimento alla relativa durata e, ancor prima, all’epoca della stipulazione, a nulla rilevando il riferimento, per relationem, alla memoria di costituzione in primo grado con la quale la società "indicava ogni contratto di lavoro a termine per cui è causa (circa 20 per ciascun lavoratore), indicando, specificamente il relativo periodo temporale e la relativa causale di assunzione". La descritta omissione infirma l’autosufficienza del ricorso, nè ad essa può sopperirsi coordinando i motivi di censura con il tenore della decisione impugnata, attesa l’assoluta genericità con cui la Corte territoriale, in narrativa e nei motivi della decisione, ha inteso far riferimento ai contratti a termine per i quali gli attuali intimati hanno agito in giudizio.

10. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 51,00, oltre Euro 4.000,00 (quattromila/00) per onorario, IVA e CPA e spese generali.

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