T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 23-11-2011, n. 935

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Svolgimento del processo

Con il presente ricorso si impugna il provvedimento emesso dallo Sportello Unico per l’Immigrazione di Frosinone prot. n. PFR/L/N/2009/100694 del 25 novembre 2010 con cui veniva respinta la dichiarazione di emersione dal lavoro irregolare presentata dal ricorrente in data 23 settembre 2009.

Con ordinanza collegiale R.O. 145/2011 veniva accolta l’istanza cautelare di sospensiva. Nella pubblica udienza odierna il ricorso è trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

Deduce il ricorrente violazione ed errata applicazione dell’art. 3 L. 241/90 per carenza di motivazione. La censura è fondata posto che il provvedimento impugnato respinge la domanda di emersione del lavoro regolare sul presupposto della " non adeguata" documentazione, senza null’altro aggiungere. Assorbiti gli altri motivi formali, il ricorso va accolto. Sussistono motivi per disporre la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sezione staccata di Latina (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. III, Sent., 15-12-2011, n. 9785

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Svolgimento del processo

Con il proposto gravame la società ricorrente, la quale nel 2005 aveva ottenuto, ai sensi dell’art.2, comma 6, del DPR n.115/2004, il rilascio dell’autorizzazione a prestare fideiussioni in relazione all’affidamento di lavori pubblici, ha impugnato la determinazione, in epigrafe indicata, con cui l’intimato ministero, sulla base di una segnalazione della Banca d’Italia, ha disposto la revoca della menzionata autorizzazione, essendo risultato che l’odierna istante non aveva ottemperato agli obblighi derivanti da alcuni contratti di fideiussione tutti stipulati in settori diversi dai lavori pubblici.

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi di doglianza:

1) Invalidità del provvedimento di revoca per omessa indicazione della data;

2) Violazione e falsa applicazione dell’art.2 del DPR n.115/2004. Contraddittorietà. Eccesso di potere. Disparità di trattamento. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Illogicità. Irragionevolezza. Sviamento di potere. Carenza di motivazione;

3) Violazione e falsa applicazione dell’art.2 del DPR n.115/2004. Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Erroneità. Eccesso di potere;

4) Violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità. Eccesso di potere. Erroneità. Irragionevolezza. Violazione del principio di parità di trattamento. Violazione e falsa applicazione dell’art.1 della L. n.241/1990;

5) Violazione dei principi generali in materia di revoca di atti amministrativi e segnatamente dell’art. 21 quinquies della L. n.241/1990. Omessa motivazione sull’interesse pubblico specifico ed attuale alla revoca. Violazione del principio del contrarius actus. Violazione del principio di stretta proporzionalità della revoca sanzione rispetto al preteso illecito amministrativo. Difetto di istruttoria e di ragionevolezza della decisione. Violazione dei principi comunitari e costituzionali di equità e proporzionalità. Violazione ob relationem art.1 della L. n.241/1990. Violazione per analogia dell’obbligo di predecisione amministrativa di cui all’art.10 bis della L. n.241/1990. Violazione del principio del giusto procedimento e della integrità del contraddittorio e del diritto di difesa;

6) Questione di illegittimità costituzionale. Violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

Successivamente la ricorrente ha proposto i seguenti ulteriori motivi di doglianza con i quali ha impugnato oltre ai precedenti provvedimenti gravati in via principale anche il DPR n.115/2004, deducendo a tal fine le seguenti censure:

7) Violazione del principio della riserva assoluta in materia di provvedimenti sanzionatori ex art.97 della Costituzione e del principio di tassatività della fattispecie incriminatrice di cui all’art.13 della Costituzione applicabile ai procedimenti amministrativi. Illegittimità dell’art.2 comma 6 del DPR n.115/2004 per violazione del codice dei contratti approvato con DPR n.163/2006 (già art.30 della legge n.109/1994);

8) Violazione dei principi generali del diritto amministrativo in materia sanzionatoria. Illegittimità sotto altro profilo dell’art.2, comma 6, del DPR n.115/2004. Violazione del principio di tipicità e tassatività della contestazione degli addebiti. Difetto di istruttoria e omissione della richiesta di controdeduzioni.

Si è costituito l’intimato Ministero contestando con dovizia di argomentazioni la fondatezza delle dedotte doglianze e concludendo per il rigetto delle stesse.

E’ intervenuta ad opponendum la spa M.M., la quale nel giustificare il proprio intervento sul presupposto che si era classificata seconda in una gara nella quale la prima classificata aveva prestato la cauzione provvisoria presentando a tal fine una polizza rilasciata dalla società ricorrente, ha confutato la fondatezza delle prospettazioni ricorsuali chiedendone il rigetto.

Alla pubblica udienza del 2.11.2011 il gravame è stato assunto in decisione.

Motivi della decisione

Con il proposto gravame la società ricorrente, la quale nel 2005 aveva ottenuto, ai sensi dell’art.2, comma 6, del DPR n.115/2004, il rilascio dell’autorizzazione a prestare fideiussioni in relazione all’affidamento di lavori pubblici, ha impugnato la determinazione, in epigrafe indicata, con cui l’intimato ministero, sulla base di una segnalazione della Banca d’Italia, ha disposto la revoca della menzionata autorizzazione, essendo risultato che l’odierna istante non aveva ottemperato agli obblighi derivanti da alcuni contratti di fideiussione tutti stipulati in settori diversi dai lavori pubblici.

Da rigettare è il primo motivo di doglianza con cui è stata prospettata l’illegittimità del gravato provvedimento di revoca in quanto privo della data di adozione dello stesso.

In merito il Collegio, in linea con una precedente sentenza in argomento (Tar Puglia, Bari, Sez.II, n.53/2010) sottolinea che la mancanza di data non è elemento di per se idoneo a determinarne l’illegittimità, non costituendo un requisito essenziale, la cui mancanza comporti de iure la nullità dell’atto, ma semplicemente un elemento della forma di esso, che può dar luogo ad un vizio dell’atto medesimo quando abbia particolare influenza sul procedimento logico e terminativo del provvedimento, sicché l’omissione della data sull’atto della pubblica amministrazione (da presumersi quale semplice errore materiale) "non ne esclude la validità e l’efficacia, sia quando sussista altro fatto che dia la certezza di quella data e sia quando la data non sia particolarmente rilevante per la realizzazione del fine cui tende l’atto stesso" (Cassazione civile, sez I, 28 marzo 1983, n. 2214). La presenza – come è dato individuare nella fattispecie in esame – del timbro postale di spedizione del provvedimento impugnato, costituisce pertanto elemento aliunde percepto idoneo a comprovarne anche la data.

Nè ad inficiare la fondatezza della tesi avallata dalla Sezione risultano essere conferenti i rilievi ricorsuali secondo cui nella fattispecie in esame la data risultava essere particolarmente rilevante " sia perchè rappresenta la conclusione di un procedimento iniziato in data 13.12.2010 il cui termine per la conclusione era di 90 giorni, sia in quanto la data rappresenta il dies a quo dal quale far decorrere eventuali impugnazioni".

In merito deve essere osservato che:

a) il termine di 90 gg per l’adozione del provvedimento di revoca ha natura procedimentale, il cui eventuale sforamento, per giurisprudenza consolidata, la cui notorietà esime il Collegio da ogni citazione in argomento, non inficia la legittimità del provvedimento di ritiro;

b) il dies a quo per impugnare il provvedimento di revoca inizia a decorrere non dalla sua data di adozione ma dalla data di comunicazione dello stesso.

Con il secondo motivo di doglianza è stata prospettata la violazione dell’art.2, comma 6, del DPR 115/2004 il quale testualmente stabilisce che l’autorizzazione a prestare fideiussioni in relazione all’affidamento di lavori pubblici è revocata qualora si accerti che l’intermediario non abbia ottemperato agli obblighi derivanti anche da un singolo contratto di fideiussione, stipulato anche in settori di attività diversi da quello delle opere pubbliche.

In la società ricorrente ha fatto presente che:

a) le fattispecie cui ha fatto riferimento la contestata determinazione di revoca erano oggetto di contenzioso e pertanto, non poteva ritenersi definitivamente accertato il presupposto (mancato adempimento agli obblighi derivanti da un singolo contratto di fideiussione) che ne aveva giustificato l’adozione;

b) tale interpretazione risultava avallata implicitamente dal resistente Ministero il quale su 13 posizioni inizialmente contestate con la comunicazione del 13.12.2010 relative a n.16 fideiussioni emesse ha, contraddittoriamente, ritenuto che per n.5 posizioni non risultava accertato l’inadempimento essendo in corso contenziosi dinanzi l’organo giudiziario competente, mentre ha ritenuto sussistente il presupposto legittimante l’adozione del contestato provvedimento con riferimento a n.4 posizioni (nn.1, 2, 3, 7 e 9 del provvedimento di revoca) per le quali era in corso un contenzioso ed a una posizione (n.9) per la quale era stata regolarmente pagata la polizza.

La fondatezza della prospettazione ricorsuale è stata contestata dalla resistente amministrazione la quale, senza giustificare in alcun modo l’asserita e palese contraddittorietà del proprio operato, ha sostenuto che poichè la finalità del citato DPR è quella di garantire nel settore di lavori pubblici il rilascio di garanzie da parte di intermediari finanziari affidabili e in possesso di adeguata solidità patrimoniale, la tesi ricorsuale comporterebbe che qualsiasi contenzioso giurisdizionale avente ad oggetto l’inadempimento della polizza fideiussoria, anche il più pretestuoso, finirebbe con il paralizzare il potere di revoca dell’amministrazione per un tempo indeterminato, privando così di concreta efficacia il disposto normativo con sacrificio dell’interesse pubblico nel delicato settore degli appalti pubblici.

Ciò considerato, il Collegio osserva che l’esigenza di assicurare nel settore degli appalti pubblici il rilascio di polizze fideiussorie da parte di intermediari in possesso di adeguata stabilità patrimoniale è tutelata dal fatto che i suddetti intermediari, come l’odierna ricorrente, iscritta nell’elenco speciale di cui all’art.107 del TUB, sono sottoposti alla vigilanza prudenziale della Banca d’Italia ed a revisione contabile da parte di società iscritte nell’albo dei revisori, per cui non può in alcun modo ritenersi che l’inadempimento agli obblighi derivanti da un singolo contratto di fideiussione possa automaticamente comportare un giudizio negativo in ordine alla solidità patrimoniale dell’istituto che aveva rilasciato la polizza.

Per quanto concerne l’altro aspetto connesso al requisito dell’affidabilità il Collegio sottolinea che la tesi di fondo fatta propria dalla gravata determinazione individua sic et simpliciter nelle garanzie fideiussoria a prima richiesta nella mancata ottemperanza agli obblighi derivanti dalla polizza un mero inadempimento imputabile.

Al riguardo, come rilevato dalla società ricorrente alla luce della giurisprudenza in materia copiosamente richiamata, l’ordinamento ha consentito anche nel caso di contratti autonomi di garanzia al garante di opporre eccezioni in grado di giustificare l’inadempimento agli obblighi sullo stesso gravanti, anche per non pregiudicare l’esercizio del proprio diritto di rivalsa nei confronti del soggetto garantito, per cui, in ossequio al principio di ragionevolezza e di certezza del diritto non può dubitarsi che l’accertamento richiesto ai fini dell’esercizio del potere di revoca sia quello riservato all’autorità giurisdizionale.

Tale conclusione risulta, infine, avvalorata dalla circostanza che a seguire la tesi della resistente amministrazione il garante in presenza di una richiesta di escussione illegittima sarebbe sostanzialmente obbligato ad adempiere al fine di evitare la revoca dell’autorizzazione, con conseguente pregiudizio del proprio diritto di difesa e del diritto di rivalsa.

In tale contesto, quindi, in linea con quanto prospettato dall’odierna istante, l’invocato art.2, comma 6, deve essere interpretato nel senso che la suddetta norma richiede che l’inadempimento degli obblighi derivanti da un singolo contratto di fideiussione sia accertato in sede giurisdizionale, non essendo a tal fine sufficiente un accertamento da parte dell’intimato Ministero, che nella fattispecie in esame, peraltro, risulta essere stato effettuato tenendo conto del mero dato oggettivo dell’avvenuto inadempimento senza alcuna specifica ed analitica valutazione delle circostanze addotte dalla ricorrente che lo avevano giustificato.

Ciò premesso, la doglianza in esame è fondata, ed il proposto gravame deve essere accolto, con conseguente assorbimento delle altre doglianze dedotte.

Da rigettare è invece la proposta azione risarcitoria stante la genericità della sua formulazione e tenuto conto, altresì, che la gravata determinazione è stata sospesa dalla Sezione con ordinanza n.1258 del 7.4.2011, confermata dall’ordinanza della Quarta Sezione del Consiglio di Stato n.3128 del 20.7.2011.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione III, definitivamente pronunciando sul ricorso n.2285 del 2011, come in epigrafe proposto, accoglie la proposta azione impugnatoria, e, per gli effetti, annulla la gravata determinazione di revoca e rigetta l’azione risarcitoria.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 15-06-2012, n. 9901

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Svolgimento del processo

Con sentenza n. 11/02/06, depositata il 17.2.2006, la CTR del Lazio, giudicando sull’impugnazione proposta dal Comune di Roma, nei confronti della SPOT Snc di Pettarelli Maurizio, avverso la sentenza con cui la CTP di Roma aveva annullato sette cartelle di pagamento relative ad imposta sulla pubblicità per l’anno 1994, ha dichiarato inammissibile l’appello, perchè sottoscritto dal Direttore del Servizio e non dal Sindaco o dal Vice Sindaco.

Il Comune di Roma ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, in base a due motivi. La S.r.l. SPOT Pubblicità, qualificandosi successore della Società contribuente, resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Va, preliminarmente, esaminata l’eccezione con cui la controricorrente ha affermato l’inammissibilità del ricorso, perchè proposto nei confronti della SPOT Snc di Pettarelli Maurizio, soggetto giuridico ormai inesistente, per essere intervenuta, già nell’anno 2003, la trasformazione di detta Società nella SPOT Pubblicità S.r.l..

1.1. L’eccezione è infondata. La giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 26826 del 2006; n. 3269 del 2009; n. 13467 del 2011) ha, infatti, chiarito che la trasformazione di una società commerciale in una società di altro tipo non determina la creazione di un soggetto diverso da quello originario, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, che comporta, solo, una variazione di assetto e di struttura organizzativa, ma non incide sui rapporti sostanziali e processuali facenti capo all’originaria organizzazione societaria.

2. Sempre in via preliminare, va rilevata l’inammissibilità della produzione documentale depositata dalla controricorrente alla pubblica udienza: non solo, infatti, non risultano osservate le forme di cui all’art. 372 c.p.c., comma 2, (ed il Comune non è intervenuto in udienza, cfr., in proposito, Cass. SU n. 450 del 2000, n. 529 del 2003; n. 14657del 2009), ma i documenti non attengono, neppure in astratto, all’ammissibilità del ricorso per l’intervenuto perfezionamento della procedura di definizione agevolata, di cui alla Delib. n. 31 del 2009 del CC di Roma, trattandosi delle domande di definizione della lite pendente e di alcuni versamenti, sui quali non consta che il Comune abbia deliberato; nè tale carenza può esser supplita in questa sede, dovendo la veridicità dei dati in esse assunti e la correttezza dei versamenti effettuati esser valutate, in base alla citata Delib. n. 31 del 2009, art. 7 dai "competenti Uffici dell’Amministrazione Comunale" e dovendo il buon esito della procedura constare, giusta il disposto del precedente art. 5, da un atto di rinuncia alla prosecuzione del giudizio (nella specie del Comune ricorrente) debitamente sottoscritto dalla controparte, per accettazione della richiesta di compensazione delle spese, e, cioè, mediante la presentazione di un atto proveniente dalle parti a ciò legittimate.

3. Col primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 345 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 per avere la CTR esaminato l’eccezione relativa al vizio di rappresentanza in giudizio del Comune, che la Società aveva sollevato, solo, in seno alla memoria illustrativa.

3.1. Il motivo è infondato: il divieto di cui alle invocate norme riguarda, infatti, le eccezioni in senso stretto, e non le mere difese volte a sollecitare il potere del giudice di procedere alla valutazione delle questioni rilevabili ex officio, quale la legittimazione processuale della parte appellante, che costituisce un’indagine essenziale ai fini della valutazione della regolarità della costituzione del rapporto processuale d’appello.

4. Col secondo motivo, deducendo vizio di motivazione nonchè violazione e falsa applicazione della L. n. 88 del 2005, art. 3 bis il ricorrente afferma che la CTR ha errato nel dichiarare inammissibile l’appello, tenuto conto che, in base al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11 nel testo novellato dal citato art. 3 bis, la legittimazione processuale compete, anche, al dirigente dell’Ufficio.

4.1. Il motivo è fondato. Il D.L. n. 44 del 2005, art. 3 bis, comma 1, convertito con modificazioni nella L. n. 88 del 2005, in vigore dal 1.6.2005, sostituendo il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 3, dispone che l’ente locale, nei cui confronti è proposto il ricorso, può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell’ufficio tributi (o, in mancanza di tale figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa comprendente l’ufficio tributi). Il comma 2 dell’art. 3 bis, in esame, estende, poi, ai processi in corso, come il presente, la suddetta disposizione, restando, in conseguenza, acclarata la legittimazione processuale dei dirigenti locali ad intervenire nei giudizi innanzi alle commissione tributarie, sia di primo grado che d’appello.

4.2. Sotto altro profilo, va rilevato che le SU di questa Corte, con la sentenza n. 12868 del 2005, hanno affermato il principio secondo cui, nel nuovo sistema istituzionale e costituzionale degli enti locali, lo statuto del Comune – ed anche il regolamento cui lo statuto contenga un espressamente rinvii – può legittimamente affidare la rappresentanza a stare in giudizio ai dirigenti, nell’ambito dei rispettivi settori di competenza, quale espressione del potere gestionale loro proprio, ovvero ad esponenti apicali della struttura burocratico – amministrativa del Comune. E lo statuto del Comune di Roma, approvato con Delib. Consiliare 17 luglio 2000, n. 122 (successivamente integrato con Delib. 19 gennaio 2001, n. 22), dopo aver previsto, all’art. 24, comma 1, che "Il Sindaco è l’organo responsabile dell’amministrazione del Comune e rappresenta l’Ente", stabilisce, all’art. 34, comma 4, che "I Dirigenti promuovono e resistono alle liti anche in materia di tributi comunali ed hanno il potere di conciliare e transigere". Peraltro, con specifico riferimento alla materia tributaria, il regolamento approvato con Delib. di giunta del 25 febbraio 2000, n. 130, (disciplina interna del contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie), dispone, all’art. 3, che "i dirigenti hanno il potere di decisione autonoma sulla scelta di resistere, intervenire e agire nei giudizi dinanzi alle commissioni tributarie, valutando tutti gli aspetti della controversia in fatto e in diritto, e il potere di rappresentanza diretta del comune sottoscrivendo gli atti processuali" (cfr. in proposito, Cass. 1915 del 2007).

5. La sentenza,che non si è attenuta al suddetto principio va, in conseguenza, cassata, restando assorbito il dedotto vizio di motivazione f con rinvio alla CTR del Lazio, in diversa composizione, per l’esame delle censure dedotte in seno all’atto d’appello e per provvedere, anche alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, cassa e rinvia, anche per le spese, alla CTR del Lazio, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, 23 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-07-2012, n. 11780 Retribuzione

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Svolgimento del processo

C.P. propose appello avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Palermo che gli aveva respinto la domanda volta sia alla corresponsione del TFR maturato fino al 31/5/95 alle dipendenze dell’I. s.p.a., sia dell’indennità di mancato preavviso, sia al risarcimento del danno per la mancata percezione dell’indennità di mobilità; nel contempo, l’appellante impugnò anche il rigetto della domanda, formulata in via alternativa, diretta sia al trasferimento delle quote accantonate del TFR alla società R. s.p.a., presso la quale egli era transitato il 25/1/99 in forza della L.R. n. 5 del 1999, art. 8, sia al risarcimento del danno patito per il mancato godimento del trattamento straordinario di integrazione salariale nel periodo 1/6/95 – 31/7/96.
Il primo giudice aveva motivato il rigetto delle domande del ricorrente sulla scorta delle seguenti motivazioni: le domande tese al conseguimento del T.F.R., dell’indennità di mancato preavviso e del risarcimento per mancata fruizione dell’indennità di mobilità presupponevano la risoluzione del rapporto che era rimasto, invece, solo sospeso; vi era carenza di interesse del lavoratore a sentir dichiarare il suo diritto ad ottenere il trasferimento del TFR in pendenza del rapporto lavorativo con la R. s.p.a.; sussisteva solo un suo interesse legittimo al conseguimento del trattamento di c.i.g.s. e, comunque, difettava la prova che quest’ultimo sarebbe stato concesso nell’ipotesi in cui la domanda fosse stata avanzata dalla datrice di lavoro I. s.p.a. anche per il ricorrente.
Il primo giudice accolse, invece, parzialmente la domanda riconvenzionale svolta dalla società per il recupero delle somme versate al lavoratore a titolo di anticipazione del T.F.R. e, per l’effetto, condannò il ricorrente al pagamento dell’importo di Euro 1162,03, somma che il medesimo aveva ammesso di aver ricevuto.
Con sentenza del 14/1 – 11/2/2010 la Corte d’appello di Palermo – sezione lavoro ha riformato parzialmente tale decisione dichiarando che la I. s.p.a. era tenuta a trasferire alla R. s.p.a il trattamento di fine rapporto maturato dal C.P. sino al 25/1/99 per un importo complessivo di Euro 3092,03, oltre accessori, avendo il lavoratore interesse ad una tale pronunzia in relazione all’accertamento del relativo credito maturato "prò rata temporis";
inoltre, ha ordinato alla società appellata di procedere a tale trasferimento e l’ha condannata a versare al lavoratore, a titolo di risarcimento del danno per la mancata fruizione del trattamento di cigs la somma di Euro 8093,42, avendo accertato al riguardo una responsabilità da inadempimento della parte datoriale, mentre ha confermato la sentenza gravata per la sola parte concernente l’accoglimento della domanda riconvenzionale spiegata dalla società.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’I. s.p.a.
che affida l’impugnazione a sei motivi di censura.
Resiste con controricorso C.P..
La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1260 e 1264 cod. civ., nonchè dell’art. 81 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4).
Sostiene la ricorrente che se, in base a quanto affermato in sentenza, il rapporto tra l’I. s.p.a. ed il controricorrente era da considerare cessato "ex lege" in applicazione della L.R. n. 5 del 1999, art. 8, comma 2, a decorrere dal 25/1/99 al momento del suo passaggio alla R. s.p.a., doveva trarsi anche la conseguenza che l’ex-lavoratore aveva sostanzialmente ceduto, ai sensi dell’art. 1260 c.c. ed in forza dell’art. 7 del disciplinare del 3/2/1999, il suo credito maturato sino ad allora per T.F.R. a quest’ultima società, per cui non poteva avere più alcun titolo per esigerlo, mentre unica legittimata alla relativa pretesa rimaneva la società cessionaria, in qualità di esclusiva creditrice della prestazione oggetto di cessione. Ne conseguiva che la domanda dell’ex-lavoratore, tesa all’accertamento dell’obbligo in capo alla I. spa di effettuare il versamento del T.F.R. alla R. spa avrebbe dovuto essere rigettata per carenza in capo al ricorrente della relativa "legitimatio ad causam" ai sensi del combinato disposto dell’art. 1260 c.c. ed art. 81 c.p.c..
2. Col secondo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 102, 156, 161 e 354 c.p.c., nonchè degli artt. 1260 e 1264 cod. civ., oltre che la nullità della sentenza per non integrità del contraddittorio (art. 360 c.p.c., n. 4).
Ritiene la ricorrente che, considerata la contestazione della I. spa sia in ordine all’esistenza del credito che alla sua cessione, il giudice d’appello avrebbe dovuto prendere atto della mancanza di contraddittorio per assenza della R. spa nella sua veste di cessionaria del credito per T.F.R. e, conseguentemente, avrebbe dovuto dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e rimetterla al giudice di prime cure ai sensi dell’art. 354 c.p.c..
3. Col terzo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione della L.R. 20 gennaio 1999, n. 5, artt. 8 e 10, degli artt. 6 e 7 dell’accordo collettivo "Disciplinare applicativo del protocollo regionale 5.11.1997 in esecuzione della L.R. 20 gennaio 1999, n. 5" stipulato in data 3/2/1999, nonchè degli artt. 1260 e 1264 cod. civ e dell’art. 12 disp. gen. (art. 360 c.p.c., n. 3) Si contesta, in particolare, la decisione impugnata nella parte in cui, sulla base dell’interpretazione della L.R. n. 5 del 1999, artt. 8 e 10 e dell’accordo collettivo-disciplinare applicativo del 3/2/1999, è affermato che tale disciplinare si applicava anche alla I. spa ai sensi della L.R. n. 5 del 1999, art. 10 e che, conseguentemente, il rapporto lavorativo intercorso tra quest’ultima ed il ricorrente era cessato "ope legis" al momento del suo trasferimento alla R. spa, essendo stato espressamente previsto che il personale transitato sarebbe passato alle dipendenze di quest’ultima ed avendo il lavoratore stipulato con la R. spa un nuovo contratto di lavoro a seguito di verbale di conciliazione del 23/2/1999.
Secondo la ricorrente, invece, il predetto disciplinare del 3/2/1999 non poteva ritenersi applicabile al personale della ex I. spa transitato alla R. spa per le seguenti ragioni: la L.R. n. 5 del 1999, art. 10 prevede che il Presidente della Regione applica al personale previsto dalla stessa legge, cioè quello appartenente agli enti economici regionali ed alle società a totale partecipazione regionale, i trattamenti economici e normativi da corrispondere all’atto della risoluzione del rapporto; le ipotesi di risoluzione del rapporto sono previste dall’art. 4 (conseguimento da parte del personale Azasi, Ems ed Espi dei requisiti minimi per la pensione di vecchiaia e di anzianità), art. 5 (quanto previsto dal precedente art. 4 anche in favore del personale delle società a totale partecipazione degli enti economici regionali), art. 6 (richiesta di prepensionamento ai sensi della L.R. n. 42 del 1975) e art. 7 (richiesta di versamento di indennità "una tantum" ai sensi della L.R. n. 27 del 1984); la stessa L.R. n. 5 del 1999, art. 8 non stabilisce che il personale residuato a seguito dell’applicazione degli artt. precedenti cessi dal servizio e, quindi, risolva il rapporto, ma che venga trasferito alla R. spa; con la locuzione "personale indicato nei precedenti artt. l’art. 10 fa, quindi, riferimento al personale di cui alla L.R. n. 5 del 1999, citati artt. 4, 5, 6 e 7 e non al personale di cui all’art. 8, in quanto solo nelle ipotesi di cui agli artt. da 4 a 7 è prevista la risoluzione del rapporto di lavoro; la Presidenza della Regione non avrebbe potuto imporre il predetto accordo alla I. spa che non era un ente economico regionale, nè una società a totale partecipazione della Regione; l’I. spa aveva sempre contestato l’applicabilità nei suoi confronti del disciplinare del 3/2/99, non avendolo sottoscritto; all’I. si applicava, invece, l’art. 7 del disciplinare del 3/2/1999 che prevedeva un diversa regolamentazione rispetto a quella dell’art. 6, in quanto quest’ultima disposizione, riguardante il personale proveniente dall’ESPI, dall’EMS, dall’AZASI e dalle società a totale partecipazione regionale, aveva previsto che il trasferimento sarebbe dovuto avvenire mediante lo strumento giuridico del passaggio diretto ed immediato, mentre la norma di cui all’art. 7 aveva stabilito che la R. spa avrebbe dovuto prendere in carico il personale dell’I. spa, per cui la prima subentrava alla seconda senza soluzione di continuità e non poteva, perciò, esservi la cessazione "ope legis" del rapporto di lavoro prefigurata dal giudice d’appello, nè una cessione alla R. del credito maturato per T.F.R..
A conclusione di tale iter argomentativo la ricorrente osserva che, non essendovi stata la risoluzione del rapporto di lavoro, non esisteva alcun diritto di credito del lavoratore a percepire il T.F.R. ed aggiunge che in caso di cessione del rapporto di lavoro compete solo al cessionario, nella fattispecie la R. spa, procedere al versamento del trattamento di fine rapporto anche per il periodo in cui il lavoratore era stato alle dipendenze del precedente datore di lavoro, in quanto il diritto al pagamento del trattamento di fine rapporto sorge solo al momento della cessazione del rapporto lavorativo, per cui il ricorrente non avrebbe potuto esperire alcuna azione al riguardo nei suoi confronti quale ex datrice di lavoro.
Osserva la Corte che i primi tre motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto l’oggetto della questione ad essi comune è quello del diritto e della relativa legittimazione dell’ex dipendente della I. ad agire per il trasferimento presso la società R. spa, dalla quale era stato preso in carico, delle quote del maturato trattamento di fine rapporto in relazione al periodo di servizio svolto presso la prima datrice di lavoro. Ebbene, tali motivi sono infondati.
in effetti, la ricorrente, nel tentativo di giustificare la propria tesi difensiva, incentrata su un suo presunto difetto di legittimazione passiva, opera una ricostruzione giuridica della vicenda in esame che non trova riscontri nella situazione descritta compiutamente nella sentenza impugnata in maniera aderente ai dati storici che contraddistinsero il passaggio del personale dell’I. spa alla R. spa sulla base della legislazione regionale sopra richiamata e degli accordi che ne seguirono.
La ricostruzione difensiva fa, infatti, leva su di una asserita e supposta cessione del credito del lavoratore alla R. spa al momento del suo passaggio a quest’ultima che sarebbe stata, perciò, tenuta al versamento del trattamento di fine rapporto anche per il periodo in cui il dipendente era stato alle dipendenze del precedente datore di lavoro. Ulteriore conseguenza di tale ricostruzione difensiva è che giammai il lavoratore avrebbe potuto intraprendere l’azione contestata avente ad oggetto la richiesta di trasferimento alla R. delle quote maturate per trattamento di fine rapporto presso l’originaria datrice di lavoro. L’infondatezza di un tale assunto emerge, anzitutto, dal fatto, giustamente eccepito dal controricorrente, che, se fosse corretta la ricostruzione giuridica operata dalla difesa della I. spa, quest’ultima avrebbe finito per trarre un indebito arricchimento dal mancato versamento delle quote di T.F.R. maturate dal lavoratore nel periodo in cui era stato alle sue dipendenze, senza considerare che una tale prospettazione giuridica presuppone un consenso dell’ex-dipendente alla cessione del credito maturato per T.F.R in relazione al periodo di lavoro svolto presso la I. spa, cessione che non risulta affatto dagli atti.
In pratica, il giudice d’appello ha correttamente evidenziato la peculiarità della vicenda in esame, caratterizzata dall’intervento legislativo regionale siciliano che disciplinò il passaggio dei lavoratori, a seguito della cessazione "ope legis" del rapporto al momento del trasferimento del personale dalla I. spa alla R. spa, sulla base di un apposito disciplinare del 3/2/1999 che mirava, essenzialmente, alla salvaguardia dell’occupazione. E’ spiegato in sentenza che attraverso tale disciplinare, intervenuto tra l’Assessore regionale all’industria e le organizzazioni sindacali, con la partecipazione di un rappresentante della R., fu previsto che la presa in carico del personale dell’I. da parte della R. sarebbe avvenuta mediante passaggio diretto ed immediato e previa risoluzione del rapporto lavorativo da parte del datore di lavoro cedente, il quale avrebbe dovuto liquidare tutte le competenze aggiuntive maturate.
Inoltre, il concreto interesse del lavoratore alla pronunzia di cui trattasi derivava, come posto in risalto dalla Corte di merito, anche dalla circostanza che nel suddetto disciplinare era previsto, con riguardo al T.F.R. maturato presso l’ente di provenienza, che il relativo corrispettivo sarebbe stato posto a credito del singolo beneficiario non appena la R. avrebbe ricevuto le relative somme rivalutate ex lege n. 297 del 1982.
Nè si è mancato di evidenziare in sentenza che la presa in carico del lavoratore presso la R. spa, con riconoscimento dell’anzianità pregressa, e la stipula di un nuovo rapporto con quest’ultima risultavano anche dal successivo verbale di conciliazione stipulato in data 23/2/1999, con la precisazione che col nuovo contratto si era evidenziato che il T.F.R. maturato presso la società di provenienza sarebbe stato integrato con le quote di T.F.R. maturate alle dipendenze del nuovo datore di lavoro non appena la R. avrebbe ricevuto le relative somme rivalutate.
In ogni caso, se è vero che il pagamento del trattamento di fine rapporto decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro è, altresì, certo che tale diritto non va confuso col diritto, sussistente anche nel corso del rapporto, all’accertamento della quota temporaneamente maturata: infatti, l’uno ha per oggetto una condanna, mentre l’altro ha per oggetto un mero accertamento. Nè poteva escludersi in interesse del lavoratore ad un’azione di accertamento del TFR per il solo fatto che il rapporto era ancora in essere, seppur con la nuova società che lo aveva preso in carico sulla base del citato intervento legislativo regionale e, quindi, una sua legittimazione ad esperire la relativa azione.
Infatti, al riguardo si è già avuto modo di chiarire (Cass. sez. lav. n. 18501 del 4/7/2008) che "il lavoratore ancora in servizio può avere interesse, concreto ed attuale, a proporre azione di mero accertamento avente ad oggetto le quote annuali del trattamento che il datore di lavoro liquiderà alla cessazione del rapporto (nella specie, dell’indennità di anzianità dei dipendenti regionali assicurata dalla L.R. Lombardia n. 38 del 2001, artt. da 16 a 18), ancorchè le quote stesse non siano ancora esigibili e, come tali, non possano formare oggetto di azione di condanna." (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 4329/92).
Quanto alla permanenza dell’obbligo di versamento delle quote di accantonamento del TFR da parte del datore di lavoro che cede l’impresa e presso il quale le medesime son maturate si è specificatamente affermato di recente (Cass. sez. lav. n. 19291 del 22/09/2011) che "in caso di cessione d’azienda assoggettata al regime di cui all’art. 2112 cod. civ., posto il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituisce istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto sia proseguito con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale, mentre il datore cessionario è obbligato per la stessa quota solo in ragione del vincolo di solidarietà, e resta l’unico obbligato quanto alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione." La rilevata insussistenza di una ipotesi di cessione del credito maturato per T.F.R dall’ex-dipendente della I. spa alla R. spa, ipotesi sulla quale è incentrata la doglianza riflettente la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di quest’ultima, determina, di conseguenza, l’infondatezza della relativa censura.
4. Col quarto motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione della L. n. 164 del 1975, art. 7, della L. n. 223 del 1991, art. 1, degli artt. 1218, 1256 e 1463 cod. civ. e dell’art. 12 disp. gen. (violazione art. 360 c.p.c., n. 3).
Attraverso tale motivo la difesa della società ricorrente, dopo aver evidenziato che il fermo produttivo del comparto dei sali minerali, di cui l’Area di servizio di Palermo faceva parte, era stato determinato da fatto non imputabile all’I. s.p.a., fa rilevare che il giudice d’appello ha riconosciuto alla controparte il diritto al risarcimento del danno commisurato al mancato godimento del trattamento di CIGS esclusivamente sul presupposto che la datrice di lavoro aveva colpevolmente errato a formulare la domanda di concessione di tale trattamento. Ciò non costituirebbe, però, a suo giudizio, una forma di inadempimento, in quanto, diversamente, il medesimo giudicante avrebbe dovuto condannarla alla corresponsione del trattamento stesso.
Quindi, secondo tale assunto, la sospensione del C. dal servizio a decorrere dal 31/5/1995 avvenne a seguito di definitiva cessazione dell’attività produttiva nel comparto dei Sali alcalini/potassici, di cui l’Area dei servizi di Palermo faceva parte e nella quale il medesimo lavorava, cessazione determinata, per quanto accertato dalla Corte d’appello con la decisione n. 146/2000, per fatto imputabile alla Regione siciliana.
Nel contempo la stessa difesa osserva che non si trattò di omessa presentazione della domanda diretta al conseguimento del trattamento di CIGS, bensì di presentazione della stessa unitamente alla richiesta di proroga del trattamento di cigs del quale erano beneficiari altri lavoratori, per cui non era ravvisarle nella fattispecie la violazione della L. n. 164 del 1975, art. 7. D’altra parte, il motivo per il quale il controricorrente, pur facendo parte dell’Area servizi, non era stato incluso in origine tra i lavoratori da collocare in CIGS era dipeso esclusivamente dalla decisione della società di continuare a versargli dal 4/10/93 al 31/5/95 l’intero trattamento retributivo, ragione per cui era stato possibile formulare per la prima volta la domanda che lo riguardava ai fini dell’accesso alla Cigs solo assieme a quella di proroga del trattamento in precedenza concesso per gli altri dipendenti già sospesi dal servizio a decorrere dal 4/10/1993.
In definitiva, non era stato possibile includere il C. nell’elenco degli altri lavoratori avviati alla CIGS in quanto il medesimo non era stato sospeso dal servizio prima del 31/5/95, per cui la Corte d’appello aveva omesso di valutare, con un giudizio di prognosi postuma, se in caso di autonoma presentazione della domanda per il periodo decorrente dal 31/5/95 la stessa sarebbe stata accolta sulla base della lettera di sospensione dell’attività del 30/5/95;
invece, erroneamente, il giudice d’appello aveva dato per scontato che la colpa della parte datoriale era dipesa dalla mancata formulazione di un’autonoma domanda di trattamento di CIGS per il C., mentre se avesse correttamente interpretato la normativa di riferimento avrebbe avuto modo di accertare che un’istanza di ammissione alla CIGS a decorrere dal 31/5/95, sulla base della "causa integrabile" rappresentata dalla sospensione definitiva dell’attività produttiva dell’Area Servizi per fatto imputabile alla Regione, non avrebbe potuto avere esito favorevole.
5. Col quinto motivo è lamentata l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la causa (art. 360 c.p.c., n. 5).
La lamentata omissione risiederebbe nel fatto che la Corte d’appello non avrebbe motivato in ordine alla condizione fondamentale per l’accoglimento della domanda risarcitoria, vale a dire quella di verificare se la causa di sospensione del rapporto indicata nella lettera del 30/5/95 rientrava tra le cosiddette "cause integrabili" previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 1 e se la stessa sospensione poteva essere considerata in maniera tale da lasciar presumere che l’istanza di CIGS, se correttamente presentata, sarebbe stata accolta.
6. Col sesto motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione della L.R. siciliana 1 settembre 1993, n. 25, art. 28, commi 3 quinquies e sexies, così come autenticamente interpretato dalla L.R. 19 dicembre 1995, n. 84, art. 5, dalla L.R. 18 maggio 1996, n. 33, art. 32 e dell’art. 12 disp. gen.. Si contesta, in tal caso, la parte della motivazione della sentenza attraverso la quale è stata ritenuta infondata la tesi difensiva della società secondo cui l’appellante non aveva diritto al risarcimento dei danni in quanto avrebbe dovuto essere utilizzato dall’Amministrazione regionale in lavori socialmente utili col pagamento della relativa indennità.
Con tale motivazione, oggetto di contestazione, la Corte territoriale ha rilevato che la società non aveva spiegato il motivo per il quale aveva, comunque, chiesto l’ammissione del C. e degli altri lavoratori alla cassa integrazione, tanto che in seguito aveva proposto ricorso avverso il provvedimento di rigetto e, in ogni caso, l’impiego dell’appellante e degli altri dipendenti in lavori socialmente utili non escludeva per gli stessi la possibilità di accesso al trattamento di cassa integrazione.
Sostiene, invece, la ricorrente che un’attenta lettura della normativa regionale di riferimento di cui in premessa ed in particolare della norma di cui alla L.R. 18 maggio 1996, n. 33, art. 32 avrebbe dovuto indurre a ritenere che, se l’ex dipendente dell’I. non avesse beneficiato della cigs, la Regione avrebbe dovuto versargli l’intero trattamento economico goduto prima della sospensione.
Una tale interpretazione riceve conforto, secondo la ricorrente, dall’ulteriore precisazione contenuta nella stessa norma per la quale il trattamento complessivo da parte della Regione si doveva ritenere corrisposto anche a titolo di anticipazione della CIGS ove la stessa fosse stata accordata. Si aggiunge che la correttezza di una tale prospettazione scaturisce anche dal fatto che l’intimato era stato impiegato, in applicazione della L.R. n. 25 del 1993, art. 28, comma 3 quinquies, in lavori socialmente utili dal 18/7/96 sino al suo trasferimento nella R. spa, avvenuto nel mese di febbraio del 1999, ed in quel periodo aveva percepito il trattamento economico previsto dalla L.R. n. 33 del 1996, art. 32, pur non essendo stato ammesso alla Cigs.
Infine, era indubbio che a seguito dell’entrata in vigore della L.R. n. 8 del 1995, art. 1, che introduceva i commi 3 quinquies e sexies all’art. 28, L.R. n. 25 del 1993, così come autenticamente interpretati dalla L.R. n. 84 del 1995, art. 5 la Regione aveva l’obbligo di utilizzare, immediatamente dopo la loro sospensione, gli ex-lavoratori della I. s.p.a., compresi quelli dell’Area Servizi, in servizi socialmente utili, versando loro il trattamento economico di cui alla L.R. n. 33 del 1996, art. 32.
Osserva la Corte che il quarto ed il quinto motivo possono essere trattati congiuntamente, posto che la tematica ad essi sottesa è la medesima, seppur affrontata sotto diversi aspetti.
Ebbene, entrambi i motivi sono infondati.
Invero, la Corte d’appello è pervenuta al convincimento, basato sul contenuto del ricorso amministrativo della società I. s.p.a.
avverso il diniego del trattamento di cassa integrazione, che il mancato accoglimento dell’integrazione salariale era riconducibile alla condotta inadempiente della società appellata.
Infatti, quest’ultima si era vista respingere in sede amministrativa anche il ricorso, proposto peraltro ad organo incompetente, avverso il provvedimento sfavorevole dell’Inps, in quanto non aveva provveduto a chiedere autonomamente il trattamento per gli addetti all’area servizi di Palermo, tra i quali rientrava il ricorrente. In effetti, la richiesta riguardante il C. era stata formulata erroneamente insieme a quella diretta alla proroga del trattamento di C.I.G.S. di cui erano già beneficiari altri lavoratori.
Al riguardo è bene ricordare che la L. 20 maggio 1975, n. 164, art. 7, contenente provvedimenti per la garanzia del salario, nel disciplinare il procedimento di integrazione salariale ordinaria prevede quanto segue:- "Qualora dall’omessa o tardiva presentazione della domanda derivi a danno dei lavoratori dipendenti la perdita totale o parziale del diritto all’integrazione salariale, l’imprenditore è tenuto a corrispondere ai lavoratori stessi una somma d’importo equivalente all’integrazione salariale non percepita".
Nè va trascurato che si è già avuto modo di affermare (Cass. sez. lav. n. 3125 del 7/5/1983) che "in base alla disciplina dettata dal D.Lgs.Lgt. 9 novembre 1945, n. 788, dal D.L.C.P.S. 12 agosto 1947, n. 869 e per il settore dell’edilizia dalla L. 3 febbraio 1963, n. 77, l’ammissione al beneficio della integrazione salariale, previsto come normale conseguenza delle situazioni di legittima riduzione o sospensione dell’attività aziendale, è subordinata a valutazioni amministrative e ad eventuali condizionamenti discrezionali.
Pertanto, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia disposto la sospensione e l’integrazione salariale non sia stata autorizzata, la pretesa dei lavoratori alla corresponsione di un trattamento economico da parte del datore di lavoro non può fondarsi che sull’accertamento dell’insussistenza dei presupposti legittimanti la sospensione, salvo – anche a norma della L. 20 maggio 1975, n. 164, art. 7 – l’obbligo dello stesso datore di lavoro di risarcire il danno (mediante corresponsione di una somma equivalente all’integrazione salariale non percepita) ai dipendenti ai quali egli, in presenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio, abbia impedito l’acquisizione del diritto all’integrazione, omettendo o ritardando l’attivazione del relativo procedimento amministrativo.
Si è, altresì, statuito (Cass. sez. lav. n. 3144 del 22/5/1982) che "nel caso di mancato accoglimento della domanda del datore di lavoro diretta al provvedimento di ammissione al meccanismo di pagamento della integrazione salariale, la sospensione temporanea dell’attività dell’imprenditore ed il conseguente mancato pagamento della retribuzione ai lavoratori per la durata di tale sospensione non da luogo a responsabilità dell’imprenditore L. 20 maggio 1975, n. 164, ex art. 7 (provvedimenti per la garanzia del salario), che concerne il caso di omissione o di tardività della domanda, ma configura una ipotesi di inadempimento del datore di lavoro, la cui non imputabilità deve essere provata dal datore di lavoro medesimo secondo la regola generale di cui all’art. 1218 cod. civ., senza che possa rilevare il fatto della presentazione della domanda ed il relativo esito." Era, quindi, onere della datrice di lavoro provare ex art. 1218 c.c. la non imputabilità del proprio inadempimento, così come individuato dal giudice d’appello, in quanto tra i suoi obblighi datoriali rientrava anche quello di attivarsi correttamente per l’avvio del procedimento di ammissione alla cassa integrazione, una volta appurata la sussistenza delle condizioni legittimanti l’accesso ad un tale trattamento.
L’inadempimento è, infatti, consistito, secondo la corretta ricostruzione operata dalla Corte, nella erronea formulazione della domanda in sede amministrativa, in quanto la stessa non era stata proposta dalla società autonomamente per l’odierno intimato, bensì unitamente alla diversa domanda di proroga del trattamento di cigs che riguardava altri dipendenti, e ciò aveva determinato il rigetto dell’istanza, a nulla valendo il successivo ricorso.
D’altra parte, dalla sentenza impugnata si ricava che era stata la stessa I. ad aver ammesso, nella sede del ricorso in sede amministrativa avverso il provvedimento di rigetto del trattamento di integrazione salariale da parte dell’Inps, che i lavoratori dell’Area servizi di Palermo avevano anch’essi diritto all’integrazione salariale, per cui a nulla rilevano le odierne censure attraverso le quali, nel tentativo di superare l’ostacolo dell’accertata presentazione tardiva ed irregolare della domanda di cigs per il C., si cerca di accreditare la presunta necessità di un giudizio di prognosi postuma ad opera del giudice d’appello, il quale avrebbe dovuto valutare se in caso di autonoma presentazione della domanda per il periodo decorrente dal 31/5/95 la stessa sarebbe stata accolta sulla base della lettera di sospensione dell’attività del 30/5/95. Anche per quel che concerne l’ultimo motivo di doglianza non può che rilevarsene l’infondatezza per le seguenti ragioni: – Anzitutto, per quel che in questa sede interessa, i commi 3-quinquies e 3-sexies, art. 28, L.R. n. 25 del 1993, come aggiunti, assieme ad altre integrazioni, dalla L.R. n. 8 del 1995, art. 1, (recante norme per l’applicazione della L.R. 9 maggio 1984, n. 27, ai dipendenti dell’I., addetti al comparto dei Sali alcalini), testualmente così recitano: "3-quinquies – L’Amministrazione regionale, anche a mezzo del Corpo regionale delle miniere, è autorizzata ad utilizzare in servizi socialmente utili i dipendenti della S.p.A. I. che, non avendo i requisiti dell’età o della contribuzione previdenziale previsti dal comma 3, hanno i requisiti per fruire delle provvidenze previste dalla L. 23 luglio 1991, n. 223. Ai medesimi lavoratori, che maturino le condizioni di età o di contribuzione previdenziale durante il periodo di utilizzazione nei servizi socialmente utili, sono applicabili i benefici previsti dai commi 2 e 3".
"3-sexies – Per le finalità del comma 3-quinquies è iscritto apposito capitolo nel bilancio della Regione da utilizzare per far fronte all’onere integrativo conseguente, da calcolarsi in misura corrispondente alla differenza tra l’ultima retribuzione goduta ed il trattamento straordinario di integrazione salariale attribuito a ciascun dipendente".
Successivamente, il legislatore regionale con la L.R. n. 33 del 1996, art. 32, al primo comma ha disposto che: "1. Per l’attuazione dei progetti socialmente utili previsti dall’art. 1 comma 3 quinquies, della L.R. 10 gennaio 1995, n. 8 e successive modifiche ed integrazioni per il trattamento economico previsto dalla L. 19 luglio 1994, n. 451 in favore dei lavoratori impiegati nei progetti medesimi, l’onere relativo è a carico dell’Amministrazione regionale. Ai predetti lavoratori l’integrazione prevista dalla citata L.R. n. 8 del 1995, art. 1, comma 3 – sexies, è concessa fino alla concorrenza dell’ultima retribuzione goduta da ogni singolo lavoratore. Il trattamento economico complessivo di cui al presente comma si deve intendere corrisposto a titolo di anticipazione del trattamento straordinario di integrazione salariale, ove accordato dallo Stato…..".
Dalla lettura di tali norme si ricava, dunque, che è stato previsto un onere integrativo a carico della Regione in favore dei dipendenti dell’I. nelle summenzionate ipotesi individuate dalla stessa legislazione regionale, onere da calcolarsi in misura corrispondente alla differenza tra l’ultima retribuzione goduta ed il trattamento straordinario di integrazione salariale attribuito a ciascun dipendente che, a sua volta, è prevista fino alla concorrenza dell’ultima retribuzione goduta; tale trattamento è, inoltre, da intendersi corrisposto a titolo di anticipazione di quello straordinario di integrazione salariale, ove accordato dallo Stato.
Orbene, un tale intervento di tipo integrativo non può di certo rivestire, come pretenderebbe la ricorrente, carattere sostituivo del suo obbligo risarcitorio, obbligo cui la medesima è tenuta in qualità di parte datoriale una volta che è stata accertata la sua inadempienza in seno alla procedura diretta al conseguimento in favore del predetto dipendente del trattamento di integrazione salariale cui quest’ultimo poteva legittimamente aspirare.
Nè può sostenersi, come vorrebbe la ricorrente, che l’utilizzazione dei lavoratori in l.s.u. implichi la perdita del trattamento di cigs, atteso che il D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 14, convenuto nella L. 19 luglio 1994, n. 451 in materia di lavori socialmente utili, stabilisce che "l’utilizzazione dei lavoratori non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro, non implica la perdita del trattamento straordinario di integrazione salariale o dell’indennità di mobilità e non comporta la cancellazione dalle liste di collocamento o dalle liste di mobilità".
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio in Euro 3000,00 per onorario ed Euro 50,00 per esborsi, nonchè I.V.A., C.P.A. e spese generali ai sensi di legge.
Così deciso in Roma, il 11 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2012

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