Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-06-2011, n. 14465 Condizioni per la concessione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso ex art. 700 c.p.c. del 2000, F.L. lamentava che la proprietaria di un fondo contiguo al suo, B.R., impediva che, per completare lavori di ristrutturazione della propria abitazione egli appoggiasse, per due giorni, una tavola di contenimento di modeste dimensioni a confine tra le due proprietà, con conseguente pericolo per la parte di opera già svolta; chiedeva pertanto che le si ordinasse di non ostacolare la prosecuzione dei lavori.

Con ordinanza del 9.11.2000, l’adito tribunale di Pordenone accoglieva in via cautelare la domanda del ricorrente e, a seguito di citazione del F., con cui si chiedeva la condanna della controparte alla rifusione delle spese relative alla fase monitoria, cui la B. replicava argomentando nel merito, e proponeva domanda riconvenzionale, poi rinunciata, l’adito tribunale, con sentenza del 2003, confermava il provvedimento cautelare, rigettava la richiesta del F. di risarcimento del danno e provvedeva sulle spese.

Proponeva appello la B., cui resisteva il F..

Con sentenza in data 8.6/26.7.2005, la Corte di appello di Trieste rigettava l’impugnazione e regolava le spese.

Osservava la Corte giuliana che la mera omissione della richiesta di conferma nel merito dell’ordinanza cautelare era superata dall’implicita domanda meritale esplicitata nella formulata richiesta di condanna alle spese relative al procedimento cautelare.

L’opera costruttiva aveva poi riguardato solo il fondo dominante, ma per un periodo di due soli giorni, con incomodo del tutto trascurabile.

La valutazione della tecnica costruttiva adottata nella specie comportava un giudizio di adeguatezza, attese le modeste conseguenze derivate a carico del fondo contiguo, mentre la regolamentazione delle spese, quale operata dal primo giudice, era frutto dell’esito della lite.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre, sulla base di sei motivi, illustrati anche con memoria, la B.; resiste il F. con controricorso.
Motivi della decisione

I primi due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, atteso che, sia pure sotto profili diversi, investono la medesima tematica; infatti, con il primo mezzo si lamenta violazione dell’art. 112 e art. 163 c.p.c., n. 4, nonchè vizio di motivazione, riferita alla affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui, pur avendo il F. richiesto in sede di appello soltanto le spese relative alla fase cautelare, in tanto era implicita la richiesta di conferma del provvedimento adottato. Nel secondo motivo ci si duole di violazione degli artt. 669 octies e nonies c.p.c. e di vizio di motivazione, in ordine alla tesi secondo cui il giudice della fase di merito avrebbe il solo compito di valutare la correttezza del provvedimento provvisorio, onde confermarlo o revocarlo.

La doglianza è fondata, atteso che il F. non ha avanzato alcuna richiesta di merito relativa al procedimento ex art. 700 c.p.c., da lui instaurato di fronte al primo giudice, ma si è limitato a chiedere la condanna della controparte alle spese della fase monitoria.

Il senso del procedimento di merito poi, come ha esattamente osservato la ricorrente non è quello di confermare o revocare il provvedimento provvisorio, ma quello di esaminare la fattispecie dedotta e di giungere ad una compiuta pronuncia di merito al riguardo, che non abbia il connotato della provvisorietà.

Il fatto che tale decisione comporti necessariamente una statuizione sulla valenza del provvedimento cautelare adottato nella fase monitoria discende dalla natura del provvedimento di merito, che non ha però il senso di una conferma del provvedimento di urgenza, bensì di statuizione sul rapporto contenzioso dedotto. Il provvedimento cautelare, emanato a seguito di una sommaria attività istruttoria, connotata in modo specifico dalla legge, ha la funzione di pervenire ad una statuizione cautelare, che ha natura provvisoria, in relazione all’esito del giudizio di merito che deve risolvere la controversia secondo le regole generali del procedimento civile;

consegue a tanto che la mera richiesta di condanna della controparte al pagamento delle spese relative alla fase monitoria non può assolutamente comportare anche una domanda di merito, indispensabile perchè il giudice potesse pronunciarsi al riguardo.

Sussiste quindi la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. e il vizio motivazionale in ordine ad entrambi i profili relativamente a cui è stato lamentato e, conseguentemente, i motivi in esame devono essere accolti con conseguente assorbimento degli altri.

L’impugnata sentenza va pertanto cassata in relazione ai motivi accolti e questa Corte, pronunciando nel merito, accoglie il primo motivo di appello con cui si lamentavano sia la violazione (qui ritenuta sussistente) dell’art. 112 c.p.c. che i vizi motivazionali pure riscontrati in questa sede, con conseguente sanzione di inammissibilità della domanda attorea.

In ragione del particolare svolgimento che, sin dalla fase cautelare, ha connotato la presente vicenda processuale, sussistono valide ragioni per compensare interamente tra le parti le spese dell’intero procedimento.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata; decidendo nel merito, accoglie il primo motivo di appello e dichiara inammissibile la domanda. Compensa le spese dell’intero procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 07-04-2011) 28-04-2011, n. 16558

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Svolgimento del processo

p.1. Con sentenza del 27 aprile 2010 la Corte d’appello di Milano ha confermato la condanna inflitta in primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, a M.G. per plurimi reati contro l’amministrazione della giustizia, che possono essere suddivisi in due gruppi: un primo gruppo, contraddistinto dal fine di procurare l’impunità agli autori di una violenza sessuale in danno di B. V., l’altro, dal fine di procurare l’impunità a C. P., contravvenzionato per guida di autovettura in stato di ebbrezza.

Cominciando dal primo gruppo, secondo la ricostruzione del fatto esposta dai giudici di merito, la quindicenne B.V. la notte del (OMISSIS) fu vittima di violenza sessuale da parte di quattro giovani, che all’uscita dalla discoteca si erano offerti di riaccompagnarla a casa. Una settimana dopo il fatto la ragazza veniva ricoverata in ospedale per ingestione eccessiva di farmaci e rivelava ai sanitari la violenza subita. La notizia era riferita alla polizia giudiziaria, la quale, il (OMISSIS), sentiva a s.i. C. P., fidanzato della minorenne, il quale raccontava che la ragazza si era confidata con lui l’indomani del fatto e, trascorsa una settimana, mentre stavano in una birreria, aveva riconosciuto i suoi aggressori, uno dei quali, dopo che la ragazza al solo vederli era scappata via, l’aveva avvicinato pregandolo di non denunciarlo, perchè – così diceva – lui, a differenza dei suoi amici, non aveva fatto niente e aggiungeva che non si era opposto all’aggressione perchè altrimenti "le avrebbe prese". Il (OMISSIS) veniva presentata richiesta di rinvio a giudizio contro gli imputati della violenza commessa ai danni di V. e il (OMISSIS) C. indirizzava al pubblico ministero una lettera in cui dichiarava di ritrattare le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria.

Sopravvenuto il rinvio a giudizio (il decreto del giudice dell’udienza preliminare è del 16.2.2007), C.P., istigato da M., zio di due degli imputati ( F.M. e F.D.), premeva sulla ex fidanzata per indurla a ritrattare, prospettandole che il processo sarebbe probabilmente finito con un’assoluzione e lei non solo avrebbe dovuto pagarne le relative ingenti spese, ma correva anche il rischio di essere denunciata per calunnia. La ragazza non cedeva alle pressioni e si rivolgeva all’autorità giudiziaria, che, attraverso le intercettazioni telefoniche, raccoglieva la prova dei reati per cui oggi si procede, e il 12.5.2008 emetteva nei confronti di M. (e di C.) ordinanza di custodia cautelare per i seguenti reati:

– artt. 110 e 378 cod. pen. perchè, in concorso con l’avv. Palmieri Antonio (difensore dei fratelli F.), aiutava gli indagati del delitto di violenza sessuale di gruppo commesso il (OMISSIS) in danno di B.V., a eludere le investigazioni dell’autorità, inducendo C.P. a ritrattare le sommarie dichiarazioni rese nel corso delle indagini (capo 9, secondo la numerazione che appare nell’epigrafe della sentenza di primo grado);

– artt. 110 e 377 cod. pen., perchè, in concorso con C. P., prometteva a B.V., chiamata a rendere testimonianza nel dibattimento in cui doveva comparire come persona offesa dell’anzidetta violenza sessuale, benefici o utilità imprecisate per indurla a commettere il delitto di cui all’art. 372 cod. pen. (capo 2);

artt. 110, 56, 81 e 378 cod. pen., perchè, in concorso con C. P., contattava ripetutamente B.V., chiedendole di ritrattare le dichiarazioni accusatorie contro gli imputati del reato commesso a suo danno, tentando in tal modo di aiutarli a eludere le investigazioni dell’autorità giudiziaria (capo 3).

C., arrestato, nell’interrogatorio reso al pubblico ministero l’1.7.2008 confessava i reati ascrittigli e chiamava in correità l’amico M., anche per i reati del secondo gruppo riguardanti la manovre messe in atto per eludere la propria responsabilità in ordine alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza:

– artt. 81, 110 e 368 cod. pen., perchè, in concorso con C. P., elaborava un esposto-denuncia contro i carabinieri che la notte del (OMISSIS) avevano contestato a C.P. il reato di guida in stato di ebbrezza, affermando che lo stesso non aveva guidato e che, quando i militari erano intervenuti, la sua autovettura non stava circolando, e ribadendo, nell’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione, che la contestazione era "falsa", con ciò incolpando i carabinieri dei reati di calunnia e di falso ideologico in atto pubblico (capo 4);

– art. 371 bis cod. pen., perchè, a seguito dell’opposizione all’archiviazione, sentito dal pubblico ministero quale persona informata sui fatti, affermava falsamente che alla guida dell’autovettura non stava C.P., ma il fratello Co.

(capo 5);

– art. 81 c.p. e art. 378 c.p., comma 3, perchè, con le condotte sopra precisate, aiutava C.P. a eludere le investigazioni dell’autorità nel procedimento per la guida in stato di ebbrezza (capo 7);

– art. 495 cod. pen., perchè, dichiarandosi avvocato, partecipava all’udienza tenuta dal giudice di pace per trattare l’opposizione proposta da C.P. alla cennata contravvenzione stradale.

Contro la sentenza la difesa di M. ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione. Deduce:

1. in ordine ai reati di cui all’art. 378 cod. pen. (capi 3 e 9):

– insussistenza del reato, perchè, in forza della sentenza, seppure non ancora definitiva, che ha mandato assolti i giovani accusati della violenza sessuale di gruppo, sarebbe venuto meno il reato presupposto;

– inconfigurabilità del reato di cui al capo 3, perchè le pressioni furono esercitate sulla B. quando il processo era già pervenuto alla fase del giudizio e, quindi, non potevano incidere sulle investigazioni di competenza degli organi inquirenti, ormai esaurite;

– insussistenza del reato, perchè le prospettazioni di danno miranti a determinare la ritrattazione non sarebbero state idonee a influire sulla volontà sia della B. che di C..

2. in ordine al reato di cui all’art. 377 cod. pen. (capo 2):

insussistenza del fatto per mancata indicazione, finanche nel capo d’imputazione, delle utilità che sarebbero state date o promesse per indurre la B. alla falsa testimonianza.

3. in ordine al reato di cui all’art. 368 cod. pen. (capo 4):

mancata dimostrazione della partecipazione al reato, essendo insufficiente il richiamo alla prova logica secondo cui soltanto l’imputato poteva avere suggerito la preparazione della denuncia calunniosa.

4. in ordine al reato di cui all’art. 371 bis cod. pen. (capo 5):

– inosservanza della disposizione dell’articolo citato, comma 2 perchè non sarebbe stato rispettato l’obbligo di sospendere il procedimento, donde la richiesta di proscioglimento per difetto della prescritta condizione di procedibilità;

– mancanza di prova delle falsità delle dichiarazioni incriminate;

– le dichiarazioni incriminate, rifluendo nella condotta calunniosa, non potrebbero costituire un’autonoma fattispecie di reato.

5. in ordine al reato di cui all’art. 378 c.p., comma 3 (capo 7):

– mancanza di prova sulla condotta favoreggiatrice;

– inapplicabilità dell’art. 378 cod. pen. perchè tra la fattispecie prevista da detto articolo e quella descritta dall’art. 371 bis cod. pen. intercorre un rapporto di specialità. 6. mancanza di motivazione sulla misura della pena, sul diniego delle attenuanti generiche e sulla concessione della provvisionale e relativa determinazione.
Motivi della decisione

p.2.1 Cominciando dal primo motivo di ricorso, si osserva che l’art. 378 cod. pen., prima di descrivere la condotta del favoreggiatore, esordisce con la proposizione "dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione", per significare che il reato di favoreggiamento personale ha come presupposto la commissione, da parte di un altro soggetto, di un delitto per il cui accertamento sono in corso le indagini. Ne consegue, per coerenza logica, il corollario che il reato in questione non è configurabile allorchè sia accertata l’insussistenza oggettiva del reato presupposto.

Orbene l’assunto del ricorrente, che la sentenza assolutoria emessa nei confronti degli autori della violenza sessuale con la formula "perchè il fatto non sussiste" (peraltro ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2), imporrebbe, per consequenzialità logica, l’assoluzione dal favoreggiamento per mancanza del reato presupposto, non è condivisibile.

Anzitutto perchè contro la citata sentenza assolutoria pende l’appello del pubblico ministero e, alla stregua dell’art. 238 bis cod. proc. pen., soltanto la sentenza irrevocabile, sempre che sia confermata da altri elementi, può costituire prova del fatto in essa accertato.

In secondo luogo, perchè i giudici di merito, svincolati da ogni pregiudiziale penale, hanno ritenuto veritiere le dichiarazioni accusatorie della B., fondando tale convincimento sugli ulteriori risultati probatori acquisiti nel presente procedimento grazie alle intercettazioni telefoniche.

Piuttosto va riconosciuto che le pressioni dirette a indurre la B. alla ritrattazione delle accuse furono attuate dopo il rinvio a giudizio, ossia quando il processo per violenza sessuale pendeva davanti al tribunale collegiale e la persona offesa dal reato aveva già assunto la veste di testimone. E’ evidente, allora, che le pressioni esercitate sulla B., non potevano ricadere nella fattispecie del favoreggiamento personale, essendo le "investigazioni dell’autorità" già terminate, ma andavano a incidere sulla veridicità della testimonianza che la vittima era stata chiamata a rendere.

Sappiamo, però, che la B. non cedette alle pressioni e testimoniò il vero, per cui il fatto descritto nel capo 3 dell’imputazione si è risolto in un’istigazione, non accolta (e, quindi, non punibile), a commettere falsa testimonianza.

La ritrattazione di C., invece, è avvenuta mentre erano in corso le indagini preliminari e – come ha diffusamente e logicamente motivato la corte distrettuale – fu M. (in concorso con l’avv. Palmieri) a convincerlo a compiere il passo, frastornandolo e impaurendolo con la rappresentazione dei guai di natura patrimoniale e penale che gli sarebbero capitati, se il processo si fosse concluso con l’assoluzione. E non ha senso dedurre che i danni prospettati sarebbero stati inidonei a indurre C. alla ritrattazione, giacchè quel risultato, in realtà, lo produssero.

In conclusione, la sentenza va annullata senza rinvio per il capo relativo all’imputazione sub 3, perchè il fatto non sussiste; il ricorso nella parte relativa all’imputazione sub 7 va invece rigettato. p.2.2 Il secondo motivo di ricorso è fondato.

Il capo d’imputazione è nato zoppo là dove assume che gli imputati, per indurre la B. a rendere falsa testimonianza, le promisero "benefici e utilità non meglio precisati (tra cui comunque un mazzo di fiori)" e le indagini non hanno permesso di individuare quali fossero le utilità "imprecisate". La stessa sentenza impugnata, valutando l’inconsistenza dell’omaggio floreale, afferma che si tratterebbe di una metafora per indicare altri, più corposi vantaggi, che sarebbero allusivamente adombrati nella conversazione intercettata il 14.4.2008, ove M., data per certa la ritrattazione, dice a C.: "poi ci troveremo e parleremo con calma, per la nostra parte ci metteremo d’accordo, vai tranquillo" e l’amico replica: "si, era solo per sapere, non è che ci faccio affidamento, però, insomma …".

Senonchè, ammesso pure che i conversanti si riferissero a un compenso da spartire in caso di buona riuscita dell’operazione, è chiaro, per l’uso dei modi verbali in prima persona singolare o plurale ("per la nostra parte ci metteremo d’accordo" e "e/ faccio affidamento"), che i beneficiari sarebbero stati gli stessi interlocutori e non la povera B. che, in effetti, mai ha detto di avere ricevuto promesse di denaro o di altre utilità.

Quindi si impone l’annullamento senza rinvio della sentenza in ordine al capo 2 perchè il fatto non sussiste. p.2.3 Il terzo motivo è infondato.

La prova sicura che M. aiutò C. nella preparazione della denuncia contro i carabinieri che avevano elevato a quest’ultimo la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, ritirandogli la patente e sequestrandogli la macchina, emerge dall’esplicita, attendibilissima chiamata in correità, confermata dai riscontri offerti dalle conversazioni intercettate, nel corso delle quali M. e C. concordano la tattica per vanificare la richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero.

La Corte territoriale mette bene in luce il ruolo di consigliere, ispiratore e regista che M., dotato di una certa esperienza di cose giudiziarie, ha svolto nei confronti dello sprovveduto e condiscendente C., incapace di redigere un qualsiasi atto di parvenza legale. E l’interessamento prestato da M. alla vicenda non fu soltanto verbale, essendo accertato che assistette al dissequestro e restituzione dell’autovettura, che accompagnò C. davanti al giudice di pace all’udienza in cui fu discussa la causa in questione, che rese false dichiarazioni al pubblico ministero che lo escusse a seguito dell’opposizione alla richiesta di archiviazione. Comportamenti tutti idonei a dimostrare – come hanno logicamente ritenuto i giudici del merito – la consapevole partecipazione alla calunnia architettata in danno dei carabinieri che verbalizzarono la contravvenzione in discorso. p.2.4 Anche il quarto motivo è infondato.

Va anzitutto disattesa l’eccezione di improcedibilità dell’azione penale per l’asserita inosservanza dell’obbligo di sospensione imposto al pubblico ministero dall’art. 371 bis cod. pen., comma 2.

Infatti la sentenza impugnata afferma che il procedimento avente per oggetto il reato di false informazioni al pubblico ministero fu instaurato dopo l’emissione del decreto di archiviazione (v. pag.

68), e la difesa, nel sollevare l’eccezione, non allega atti nè fornisce indicazioni atte a smentire l’assunto.

In merito alla falsità delle informazioni rese i giudici di merito hanno richiamato la confessione resa da C. il 1.7.2008 e soprattutto le numerose conversazioni intercettate nelle quali M. e C. concordarono la falsa versione abbozzata nell’atto di opposizione all’archiviazione e poi sostenuta oralmente avanti al pubblico ministero, ossia che alla guida dell’autovettura non c’era C.P. ma suo fratello Co..

Pertanto solo il plateale disconoscimento delle risultanze processuali può permettere di sostenere che mancherebbe la prova della commissione del mendacio.

Infine va respinta la tesi dell’assorbimento del reato in questione in quello di calunnia, perchè le false informazioni rese al pubblico ministero, pur se germinate nell’ambito del medesimo disegno criminoso, non ripetono il fatto già esposto nella denuncia del 20.12.2007, ma rappresentano un’evoluzione innovativa. Infatti, mentre nella denuncia si espone che C. sedeva al posto di guida ma l’autovettura non stava circolando, nelle false dichiarazioni rese al pubblico ministero non si contesta più che l’auto sia stata fermata dai carabinieri, ma si afferma che alla guida era Ca.Co.. Pertanto non si è verificata una reiterazione di precedenti dichiarazioni già integranti il reato di calunnia, bensì la falsa rappresentazione in tempi diversi di fatti diversi, che danno luogo ad autonome e diverse fattispecie di reato (v. Cass., Sez. 6 6.5.2003, Fedeli, rv 227714). p.2.5 Il quinto motivo è fondato.

Sul tema dei rapporti tra falsa testimonianza o false dichiarazioni al pubblico ministero e favoreggiamento personale non esiste in dottrina nè in giurisprudenza uniformità di vedute, pur essendo prevalente l’indirizzo che tende a riconoscere un concorso apparente di norme che va risolto con l’applicazione esclusiva delle ipotesi di reato previste dagli artt. 371 bis e 372 cod. pen., che, anche per la maggiore severità della pena, più compiutamente esprimono il disvalore della condotta perseguita.

Volendo sintetizzare, si possono enucleare due orientamenti:

– uno, che sottolinea la diversità dei beni tutelati, rilevando che le norme di cui agli artt. 371 bis e 372 cod. pen. tendono a preservare la veridicità e completezza delle dichiarazioni, mentre il favoreggiamento tende a evitare intralci all’opera di investigazione degli organi inquirenti;

– l’altro, invece, partendo dalla considerazione che le norme incriminatrici di cui agli artt. 371 bis e 378 cod. pen. disciplinano la stessa materia dal momento che tutelano entrambe il regolare svolgimento dell’attività investigativa, ravvisa un rapporto di specialità unilaterale per specificazione, perchè alla norma generale dettata dall’art. 378 cod. pen. che prevede una fattispecie a condotta libera, se ne accosta un’altra che, tra le molteplici azioni potenzialmente idonee a pregiudicare il regolare sviluppo delle indagini, incrimina soltanto quella che si materializza in dichiarazioni false o reticenti rese al pubblico ministero (Cass., Sez. 6 12.10.1998 n. 13398, Forni, rv 212108).

Di recente la Corte costituzionale si è soffermata sull’argomento, osservando che le attività di indagine compiute dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero mediante l’assunzione delle sommarie informazioni rispettivamente previste dagli artt. 351 e 362 cod. proc. pen. "presentano una sostanziale omogeneità, in quanto appartengono alla fase procedimentale delle indagini preliminari.

Pertanto, tra il delitto di false dichiarazioni rese al pubblico ministero e quello di favoreggiamento dichiarativo commesso con la condotta di false o reticenti informazioni rese alla polizia giudiziaria, si evidenzia una sostanziale omogeneità del bene protetto, che consiste nella funzionalità di ciascuna fase rispetto agli scopi propri nei quali le esigenze investigative e quelle di ricerca della verità si sommano, sicchè gli artt. 378, 371 bis e 372 cod. pen. finiscono per presidiare ciascuno una fase distinta del procedimento e del processo, restando simmetricamente esclusa l’eventualità che la stessa condotta integri la violazione di più d’una di tali norme secondo lo schema del concorso formale di reati" (sentenza n. 75/2009).

Pertanto, che si voglia assegnare alle norme in questione una distinta oggettività giuridica o che si preferisca accomunarle nella sostanziale omogeneità del bene protetto, il risultato è il medesimo, ossia l’inapplicazione dell’art. 378 cod. pen. in favore del reato previsto dall’art. 371 bis cod. pen.. p.2.6 Infine sono infondati i motivi raccolti sotto il numero 6.

I giudici del merito hanno ritenuto di infliggere una pena superiore al minimo edittale al fine di adeguarla – come prescrive l’art. 133 cod. pen. – alla gravità del fatto e alla personalità del reo. A tale scopo, con valutazione discrezionale non sindacabile in sede di legittimità, hanno rimarcato la notevole gravità dei fatti, la forte intensità del dolo, l’elevata capacità a delinquere, il numero dei reati commessi, la totale assenza di qualsivoglia minimo senso di legalità e di rispetto delle norme sociali.

Hanno altresì negato le attenuanti generiche, osservando che M. è soggetto plurirecidivo, che non ha mai manifestato il minimo segno di ravvedimento, per cui non esistevano ragioni per concedere le invocate attenuanti.

Quanto alla provvisionale, la sua concessione non abbisogna di una particolare motivazione ed è per legge immediatamente esecutiva.

L’importo è stato determinato con criterio equitativo, commisurandolo alla gravità, più volte sottolineata, dell’offesa arrecata alle parti lese e, comunque, non ha valore vincolante di giudicato per il giudice civile che dovrà pronunciare le statuizioni definitive sul risarcimento del danno. p.2.7 Per concludere, gli annullamenti pronunciati, riguardando reati satelliti, comportano la necessità di rideterminare l’aumento di pena da infliggere a titolo di continuazione per i residui reati di cui ai capi 5, 6 e 7, ferma restando la pena base irrogata per la violazione più grave, rappresentata dalla calunnia (capo 4).

Ai sensi dell’art. 627 c.p.p., comma 5, per l’effetto estensivo dell’impugnazione fondata motivi non esclusivamente personali, l’annullamento della sentenza relativamente alle condanne per i reati di cui ai capi 2 e 3, vale anche nei confronti di C.P. e, quindi, il giudice del rinvio dovrà rideterminare, anche per costui, l’aumento di pena a titolo di continuazione per il residuo reato di cui al capo 5.
P.Q.M.

La Corte di cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M. e, per l’estensione dell’impugnazione, nei confronti di C., limitatamente ai reati di cui ai capi 2 e 3, perchè il fatto non sussiste e, inoltre, nei confronti di M. in ordine al reato di cui al capo 7, perchè assorbito in quello di cui al capo 5;

rinvia per la determinazione delle pene ad altra sezione della Corte d’appello di Milano;

rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13-04-2011) 12-05-2011, n. 18826 Plagio e violazione dei diritti di utilizzazione economica Concorsi a cattedre della scuola secondaria

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Svolgimento del processo

Con sentenza del 28 maggio 2010, la Corte d’Appello di Cagliari confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Cagliari, in data 11 luglio 2006, condannava D.A. per il reato di cui alla L. n. 475 del 1925, art. 1, disponendo la cancellazione del diploma di laurea ai sensi dell’art. 5 della medesima Legge.

D.A. era stata infatti accusata di aver presentato, nel corso dell’anno accademico 2002 – 2003 ed al fine di conseguire la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Cagliari, una tesi, dal titolo "La stabilizzazione per via anteriore nel trattamento delle fratture del rachide cervicale", costituente la mera copiatura, seppure con minime variazioni, della tesi di specializzazione in Ortopedia e Traumatologia presentata presso la medesima facoltà, nell’anno accademico 1997 – 1998, dal dott. C.A. ed avente stesso titolo, stesso svolgimento, stesso indice e stessa bibliografia.

Avverso tale decisione la predetta proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva violazione di legge e vizio di motivazione.

Osservava che trattavasi di tesi cd. compilativa, la cui identità con il lavoro che si assume copiato non era stata rilevata dalla commissione di laurea ed i cui contenuti erano stati erroneamente valutati dalla Corte di merito, la quale aveva omesso di considerare che il giudizio su un elaborato compilativo non può prescindere dall’esame della condivisione che rautore fa con l’elaborato altrui e dalla rilevanza che ogni aggiunta assume attribuendogli un inequivoco connotato di originalità.

In ciò si rilevava la carenza della decisione impugnata, che non avrebbe effettuato alcuna valutazione dell’oggettiva personalizzazione dello studio altrui, tipica del lavoro compilativo, come dimostrava, ad esempio, la scelta di anteporre le tabelle alla bibliografia rispetto al lavoro del dott. C..

Aggiungeva che l’evidente illogicità della motivazione era immediatamente percepibile laddove venivano individuate in caratteristiche tipiche dell’elaborato compilativo, quali la riproposizione di citazioni comprensive di virgolettato, gli elementi significativi del plagio, trascurando di considerare gli elementi diversificanti (una parte dedicata all’epidemiologia ed altra riguardante la biomeccanica) ed equivocando sul significato della riproduzione della casistica che, sebbene riferibile ad un periodo incompatibile con il suo percorso di studi, era tuttavia il risultato di una verifica effettuata sulla scorta di documentazione clinica.

Faceva inoltre rilevare come la sentenza impugnata non aveva adeguatamente considerato la rilevanza, anche con riferimento all’elemento psicologico del reato, della dimostrata prassi presente nella facoltà di medicina, di fornire ai laureandi, a titolo esemplificativo e quale guida nella stesura della tesi, elaborati precedentemente redatti, tanto più che non risultava contestata ai docenti la violazione della L. n. 475 del 1925, art. 2.

Con un secondo motivo di ricorso deduceva la violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3 con riferimento alla cancellazione del diploma di laurea disposta dalla Corte territoriale ai sensi della L. n. 475 del 1925, art. 5, erroneamente considerata come provvedimento obbligatorio e frutto, al contrario, di una indebita estensione analogica di una norma sanzionatoria applicata, peraltro, in assenza di una specifica impugnazione del Pubblico Ministero.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione

Il ricorso è solo in parte fondato.

La L. 19 aprile 1925, n. 475 sanziona penalmente la condotta di chiunque "m esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri".

Come la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di osservare, la legge ha la finalità di tutelare l’interesse alla genuinità di un elaborato che deve essere esaminato dai componenti di una commissione incaricata della valutazione (Sez. 3^ n. 2139, 1 marzo 1979) assicurando che l’aspirante ad un titolo o ad un impiego sia realmente in possesso dei requisiti richiesti per conseguirlo e che il giudizio dell’autorità che procede alla relativa valutazione non sia fuorviato dall’accreditare come proprio il lavoro altrui (Sez. 3^ n. 9673, 6 novembre 1984).

Viene pertanto tutelata quella che è stata definita la "pubblica fede personale" (Sez. 5^ n. 626, 4 settembre 1989).

Si è così prevista un’ipotesi di reato qualificabile di mera condotta, seppure finalizzata alla produzione di un evento antigiuridico che assume il ruolo di circostanza aggravante (Sez. 6^ n. 9489, 8 settembre 1995; Sez. 5^ n. 9906, 2 novembre 1993; Sez. 3^ n. 9673/84 cit.).

Si è ulteriormente specificato che il riferimento all’"opera di altri", che la legge contiene, non riguarda il lavoro compilato interamente da un soggetto diverso da quello che figura come autore, ma anche il fatto oggettivo "che il lavoro non sia proprio, cioè non sia frutto del proprio pensiero, svolto anche in forma riepilogativa od espositiva, ma che esprime tuttavia quello sforzo di ripensamento di problematiche altrui che si richiede per saggiare le qualità espositive di un candidatò" (Sez. 3^ n. 2139/79 cit.).

Si tratta, peraltro, di un fenomeno particolarmente diffuso, che ha subito un considerevole incremento con la introduzione delle nuove tecnologie, come emerge dalla lettura delle menzionate decisioni, le quali evidenziano un progressivo evolversi delle tecniche utilizzate e, soprattutto, dallo sviluppo di Internet, che ha agevolato e velocizzato la ricerca di informazioni e, conseguentemente, favorito indirettamente anche il fenomeno del plagio, cui pure ha fatto seguito lo sviluppo di specifici strumenti per il rilevamento di contenuti duplicati.

La casistica riguarda, oltre le tesi di laurea, anche il conseguimento di altri titoli scolastici, i concorsi pubblici e l’abilitazione professionale, anche se risulta particolarmente contenuta se raffrontata al periodo di vigenza della legge, tanto che, ancora trent’anni addietro, un chiarissimo Autore, nel negare in generale l’efficacia della consuetudine abrogatrice nel diritto penale, utilizzava come esempio la L. n. 475 del 1925 ricordandone la vigenza e deprecando l’uso di non dare seguito a quelli che definiva "deplorevolissimi fatti".

Così inquadrato l’ambito di applicazione della disposizione presa in esame dalla sentenza impugnata, appare opportuno riepilogare brevemente, per una migliore comprensione dei fatti, le argomentazioni poste a sostegno della decisione.

La Corte di merito ha proceduto ad una puntuale analisi degli elementi di identità fra l’elaborato prodotto dalla ricorrente e quello altrui dalla stessa utilizzato, pervenendo alla conclusione di trovarsi di fronte ad una copiatura "pressochè integrale" con minime variazioni.

In particolare la Corte d’Appello ha accertato che:

era identica la suddivisione in capitoli e paragrafi l’indice era integralmente copiato ad accezione dei riferimenti alle pagine, conseguenti alla diversa formattazione (22 righe anzichè 20), tanto che non risultava considerata la anteposizione delle tabelle alla bibliografia nel corpo del testo era identica la composizione grafica anche negli "a capo" e nell’uso del grassetto e del corsivo erano identiche le modalità di citazione, senza note nel testo e con l’indicazione del solo nome dell’autore ad eccezione dell’indicazione di due testi e la correzione di un refuso tipografico, era identica anche la bibliografia erano identiche le tabelle finali, alle quali era stato modificato il solo carattere tipografico e corretto un refuso erano identici i casi clinici esaminati. La Corte territoriale rileva, sul punto, che si trattava di casi risalenti a cinque anni addietro, nonostante il tema fosse di particolare attualità e presentati come direttamente osservati, titolando il paragrafo relativo come "Casistica personale", nonostante la palese incompatibilità con il corso di studi seguito dalla ricorrente e la sua età anagrafica che porterebbero a collocare tale diretta osservazione dei pazienti ad un periodo in cui la stessa frequentava ancora il liceo l’apparato iconografico, ad eccezione di tre fotografie, era identico il testo e la forma erano identici medesime erano, infine, le conclusioni.

I giudici dell’appello individuano, per contro, le seguenti differenze:

sostituzione di pochi termini, correzioni di qualche refuso e piccole modifiche della punteggiatura e delle forme verbali la presenza di una introduzione con considerazioni di natura discorsivo – sociologica sei righe aggiunte al capitolo "Biomeccanica e cinematica del rachide cervicale" otto righe aggiunte al paragrafo sui rischi del trattamento chirurgico quasi due pagine aggiunte e relative all’epidemiologia.

A fronte di tali dati obiettivi, la Corte di merito fornisce puntuale risposta alle doglianze mosse con l’atto di appello e, segnatamente, all’ipotesi della natura compilativa della tesi che, da un lato, è stata esclusa in quanto l’elaborato contiene un esplicito riferimento all’osservazione diretta di casi clinici e, dall’altro, dalla evidente mancanza di originalità, sottolineando anche l’irrilevanza della asserita e non dimostrata diffusione del plagio nella letteratura medica scientifica.

Tale coerente apparato argomentativo, del tutto solido ed immune da vizi logici, non viene in alcun modo intaccato dalle considerazioni svolte in ricorso che, pur se riferite alla contraddittorietà, illogicità e manifesta infondatezza della decisione, si risolvono in una richiesta di diversa valutazione del compendio probatorio acquisito che non può però avere ingresso in questa sede di legittimità.

Del resto, gli elementi che la Corte di merito pone a sostegno delle proprie conclusioni non paiono suscettibili di letture alternative, consistendo in dati obiettivi non confutabili che evidenziano in modo non equivocabile la identità tra la tesi di laurea della ricorrente e l’elaborato dalla quale è stata pressochè integralmente copiata.

Del tutto coerente risulta, in particolare, la esclusione della natura compilativa dell’elaborato.

Come si è detto, tale caratteristica è esclusa dal riferimento specifico all’osservazione di pazienti, in realtà mai avvenuta, come dimostrato dai giudici dell’appello con una semplice valutazione del dato cronologico e dalla mancanza di originalità conseguente ad una specifica elaborazione del materiale utilizzato.

Peraltro, una tesi compilativa dovrebbe essere connotata, quantomeno, da una elaborazione critica dei dati acquisiti da fonti diverse e posti a confronto verificandone l’attendibilità e traendo conclusioni che, in quanto frutto di una personale riflessione, offrano un contributo scientifico autonomamente apprezzabile e non può certo concretarsi nella mera riproduzione grafica di un diverso elaborato di produzione altrui con modeste aggiunte che non incidono minimamente sull’impianto complessivo del testo.

Va poi aggiunto che, in base al contenuto del provvedimento impugnato, la descrizione dei contenuti dell’elaborato pare deporre inequivocabilmente per una tesi di natura sperimentale e risulta significativa la circostanza che la ricorrente, volendo comporre, come afferma in ricorso, una tesi compilativa, non abbia avvertito la necessità di citare l’autore dal quale aveva ricavato gli unici dati utilizzati nè di esprimere un giudizio di mera adesione o di dissenso sulle conclusioni cui lo stesso perveniva e che, a quanto risulta, pedissequamente riproponeva.

Nè vale, infine, sostenere che l’originalità o l’altruità del lavoro andava considerata secondo i parametri propri della commissione di laurea, che nulla aveva obiettato, pur conoscendo entrambi gli elaborati, trattandosi di considerazioni cui la Corte territoriale non era tenuta ed essendo pienamente sufficiente, per pervenire ad un giudizio privo di contraddizioni, il dato oggettivo della pressochè totale riproduzione di un diverso lavoro offerto, secondo la prassi, solo in visione ai laureandi.

Per quanto riguarda, poi, il secondo motivo di ricorso, occorre rilevare quanto segue.

La Corte di merito ha disposto la cancellazione del diploma di laurea dell’imputata ai sensi della L. n. 475 del 1925, art. 5, comma 2 ritenendolo provvedimento obbligatorio che consegue necessariamente alla condanna, cosi integrando la sentenza appellata.

La ricorrente contesta la legittimità del provvedimento che assume essere stato emesso in violazione del divieto di reformatio in pejus stabilito dall’art. 597 c.p.p., comma 3.

La disposizione applicata specifica testualmente che "’la sentenza di condanna o quella che dichiara che il fatto sussiste, ordina la cancellazione del provvedimento che ne sia derivato, la cancellazione si effettua secondo le norme contenute nei capoversi 2/a e seguenti dell’art. 576 c.p.p., in quanto siano applicabili".

Il riferimento all’art. 576 c.p.p. vigente alla data di emanazione della legge corrisponde, come già osservato (Sez. 5^ n. 626. 4 settembre 1989), agli artt. 380 e 480 codice 1930 relativi, rispettivamente, ai provvedimenti della sentenza di proscioglimento all’esito dell’istruzione formale che accerta la falsità di atti e documenti e di quelli. analoghi, da assumere all’esito della sentenza definitoria del giudizio di primo grado.

Tali disposizioni trovano oggi corrispondenza nell’art. 425 c.p.p., u.c. e art. 537 c.p.p..

La L. n. 475 del 1925, menzionato art. 5 prevede una statuizione obbligatoria che il giudice deve emettere a tutela della fede pubblica quando sia accertata l’attribuzione di lavori altrui (Sez. 3^ n. 736, 31 dicembre 1968; Sez. 5^ n. 626, 4 settembre 1989).

Le modalità della cancellazione sono effettuate con le procedure stabilite per i provvedimenti riparatori previsti in materia di falsità degli atti dal codice di rito.

L’esigenza di tutela della fede pubblica che rende necessaria detta statuizione determina, in sostanza, una esplicitazione della accertata falsità del documento o dell’attribuzione dell’opera, diretta a rigenerare le normali condizioni di comune affidamento sull’autenticità del documento o la paternità dell’opera.

Va inoltre rilevato che l’art. 537 c.p.p. stabilisce come conseguenza ineluttabile dell’accertata falsità di un documento la sua declaratoria da parte del giudice, ma prevede che i provvedimenti riparatori di cui al secondo comma non siano adottati quando siano pregiudizievoli degli interessi di terzi non intervenuti nel procedimento (cfr. SS.UU. n. 20, 3 dicembre 1999).

Tale distinzione si rileva anche nel menzionato art. 5 il quale stabilisce, al comma 1 che "nei procedimenti relativi ai reali previsti dalla legge, qualora il fatto sia accertato, deve essere dichiarata nella sentenza la esistenza di esso, anche se, per qualsiasi motivo, non si debba procedere o non possa essere pronunciata condanna" indicando poi, nel comma successivo, i provvedimenti ripristinatori.

Va altresì rilevato che l’art. 537 c.p.p., contrariamente a quanto avveniva nel codice penale previgente, prevede espressamente, al comma terzo, che la falsità sia anche autonomamente impugnabile con il mezzo previsto dalla legge per il capo che contiene la decisione sull’impugnazione.

Tale previsione si rende evidentemente necessaria in quanto il provvedimento in esame è comunque idoneo ad incidere sulla sfera giuridica del soggetto interessato.

Resta da osservare che il lungo periodo di vigenza della L. n. 475 del 1925 rende palesi le difficoltà di coordinamento con le disposizioni che si assumono attualmente richiamate che non risultano perfettamente sovrapponigli.

Sembra, tuttavia, che possa ritenersi certamente suscettibile di impugnazione anche la statuizione circa la falsità nell’attribuzione della paternità dell’opera in quanto produttiva di nocumento nei confronti del soggetto interessato anche nel caso in cui lo stesso non sia stato condannato.

Ciò posto, occorre ulteriormente rilevare che, nella fattispecie, tanto nella sentenza di primo grado che in quella di appello la accertata falsa attribuzione del lavoro altrui risulta solo implicitamente dalla motivazione e non formalmente dichiarata in dispositivo, mentre l’ordine di cancellazione del provvedimento derivato dal plagio, omesso dal primo giudice, è stato disposto dal giudice dell’appello. Entrambi i giudici del merito, infine, nulla hanno disposto circa l’ordine di pubblicazione della sentenza di condanna pure disposto dal menzionato art. 5, al comma 3 e necessario trattandosi di esame di laurea.

Il Pubblico Ministero è rimasto del tutto inerte, mentre solo l’imputata ha proposto appello concernente l’affermazione di responsabilità penale da parte del giudice di prime cure.

La Corte territoriale, in tale contesto ha, come si è detto, disposto i provvedimenti riparatori che erano conseguenza di una falsità non espressamente dichiarata, confermando nel resto la decisione impugnata ed evidenziando conseguentemente, sul punto, profili di illegittimità che consigliano l’annullamento.

Resta da osservare che all’omessa statuizione sulla falsità, sulla cancellazione del provvedimento e sulla pena accessoria della pubblicazione della sentenza non può porsi rimedio in questa sede di legittimità in assenza, come si è già detto, dell’impugnazione del Pubblico Ministero.

In definitiva, vanno condivisi i principi in precedenza richiamati con l’ulteriore precisazione che la redazione di una tesi di laurea, asseritamente di natura compilativa ma, in realtà, contenente la mera trasposizione grafica di altro elaborato di diverso autore con alcune correzioni e l’aggiunta di minimi elementi di novità, senza alcun contenuto frutto di personale elaborazione o, comunque, di valutazione critica della fonte utilizzata, configura il reato di cui alla L. 19 aprile 1925, n. 475, art. 1.

La statuizione relativa alla falsità, alla cancellazione del documento che ne è derivato ed alla pubblicazione della sentenza, obbligatoriamente imposta dall’art. 5 della medesima legge, se non disposta dal giudice di primo grado, non può essere ordinata dalla Corte d’Appello in assenza di specifica impugnazione.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza limitatamente alla cancellazione del diploma di laurea. Rigetta nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 30-09-2011, n. 20049 Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. D.D.R., con ricorso alla Corte d’appello di Napoli, proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata di un giudizio instaurato dinanzi al T.A.R. Campania nell’ottobre 1990. La Corte d’appello, con decreto depositato il 16 marzo 2009, liquidava il danno non patrimoniale per la durata irragionevole del procedimento nella somma di Euro 5.250,00 oltre interessi legali e metà delle spese del procedimento.

2. Avverso tale decreto D.D.R. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato al Ministero Economia e Finanze il 30 ottobre 2009, formulando sette motivi. Resiste il Ministero con controricorso.

3. Il collegio ha disposto farsi luogo a motivazione semplificata.

4. Con i sette motivi è denunciata, in relazione alla liquidazione delle spese del procedimento esposta nel provvedimento impugnato, erronea e falsa applicazione di legge ( artt. 91, 92 c.p.c., art. 6, par. 1 CEDU, normativa in tema di tariffe professionali), nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Secondo l’istante, la liquidazione delle spese sarebbe illegittima perchè presumibilmente effettuata in applicazione delle tariffe per i procedimenti di volontaria giurisdizione anzichè di contenzioso ordinario, sarebbe insufficiente nonchè priva di motivazione con riguardo alla non conformità alle tariffe forensi ed agli standards europei che dovrebbero trovare nella specie applicazione. La Corte di merito avrebbe inoltre illegittimamente disatteso la nota spese depositata, omettendo peraltro di motivare al riguardo.

5. Tali doglianze, da esaminare congiuntamente perchè strettamente connesse e in parte ripetitive, non possono trovare ingresso.

Premesso che in tema di spese processuali possono essere denunciate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o del principio di inderogabilità della tariffa professionale vigente (cfr. Cass. n. 4347/1999; n. 4818/2000; n. 1485/2001), e che nei giudizi di equa riparazione la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte d’appello deve essere effettuata in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano, senza tener conto degli onorari liquidati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cass. n. 23397/2008), si osserva che parte ricorrente non ha specificamente e analiticamente indicato, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, le voci e gli importi richiesti e ad essa spettanti (cfr. Cass. n. 21325/2005; n. 9082/2006; n. 9098/2010). Tale omissione non consente al giudice di legittimità il controllo – senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti – degli error in iudicando solo astrattamente enunciati nella illustrazione dei motivi di ricorso e nella altrettanto astratta formulazione dei quesiti di diritto. Nè ha dimostrato la presunta applicazione nel provvedimento impugnato delle tariffe professionali vigenti riguardanti i procedimenti di volontaria giurisdizione. La declaratoria di inammissibilità del ricorso si impone dunque, con la conseguente condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, in Euro 700,00 per onorari oltre le spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.