T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 01-07-2011, n. 580 Competenza e giurisdizione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che il ricorso sia manifestamente inammissibile per difetto di giurisdizione dato che, come eccepito dall’Amministrazione nella sua memoria di costituzione, è pacifico che le controversie in materia di avviamento al lavoro nel pubblico impiego mediante selezione in base alle graduatorie ex art. 16, della legge 28 febbraio 1987 n. 56 rientrano nella giurisdizione del g.o., non potendo le stesse ricomprendersi fra le procedure concorsuali riservate dall’art. 63, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165 alla giurisdizione amministrativa (cfr. da ultimo Cassazione, Sezioni unite civili, 3 novembre 2009, n. 23202);Ritenuto pertanto che la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario innanzi al quale la domanda potrà essere riproposta in applicazione dell’articolo 11, comma 2, cod. proc. amm.;

Ritenuto che sussistano giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sezione staccata di Latina (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione.

Spese compensate.

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Cass. civ. Sez. I, Sent., 01-12-2011, n. 25758 Regolamento delle spese compensazione parziale o totale

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Svolgimento del processo

C.A. ricorre per cassazione avverso il decreto della corte d’appello di Bari in data 20 maggio 2009 che, accogliendo la domanda di equa riparazione del pregiudizio derivante dall’irragionevole durata di un giudizio promosso davanti al t.a.r.

Puglia, ha condannato l’amministrazione al pagamento di Euro 2.400,00, compensando integralmente le spese in considerazione del fatto che l’amministrazione convenuta si è costituita solo per eccepire gli effetti della mancata presentazione dell’istanza di prelievo.

Il ministero dell’economia resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

Come è stato già osservato (cass. n. 1101/2010, 27728/2009), i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, non si sottraggono all’applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dagli artt. 91 e ss. c.p.c. e pertanto la compensazione delle spese processuali postula che il giudice motivi adeguatamente la propria decisione in tal senso, dal momento che è pur sempre da una colpa organizzativa dell’amministrazione della giustizia che dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice. La contestazione della domanda, quindi, sia pure mediante la proposizione dell’eccezione di improponibilità della domanda per mancata presentazione dell’istanza di prelievo non è motivazione logica e sufficiente a giustificare l’integrale compensazione delle spese.

Non occorrendo a tal riguardo ulteriori accertamenti, questa corte può provvedere direttamente, liquidando le spese del giudizio del giudizio di merito, da porre a carico dell’amministrazione convenuta, e di quelle del giudizio di cassazione, che seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., condanna l’amministrazione al pagamento delle spese del giudizio di merito nella misura di Euro 806,00 (Euro 445,00 per diritti, Euro 311,00 per onorari ed Euro 50,00 per esborsi) e di quelle del giudizio di cassazione che liquida in Euro 595,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi) oltre alle spese generali e agli accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Orlando Mario Candiano.

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-12-2011, n. 27716 Passaggio ad altra amministrazione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR) chiede l’annullamento della sentenza di appello, che ha affermato il diritto della parte intimata, trasferita al Ministero, al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza.

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto, ma considerando anche eventuali trattamenti più favorevoli su altri profili, nonchè eventuali effetti negativi sul trattamento di fine rapporto e sulla posizione previdenziale.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e art. 52, n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate.

La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr., per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Ciò comporta che il ricorso per cassazione del Ministero che denunzia violazione del complesso normativo costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice di merito, il quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà verificare, in concreto e nel caso specifico la sussistenza, o meno di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento ed accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale verifica. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

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Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 09-08-2011) 24-08-2011, n. 32824

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza in data 09.03.2011 la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, rimetteva le parti davanti al giudice civile per la liquidazione del danno in favore della parte civile Z.A.C., cui assegnava provvisionale di 25.000,00 Euro, per il resto confermando la condanna di M. L. alla pena di anni 5 di reclusione per i reati, ritenuti in continuazione, di violenza privata, minacce, atti persecutori e danneggiamento seguito da incendio, plurimi episodi commessi ai danni della Z. e del nuovo compagno della donna, tale G. A.- Entrambi i giudici del merito ritenevano invero provato che il M. avesse commesso una serie continua di atti vessatori ai danni della sua ex compagna con la pretesa che costei desistesse dal nuovo rapporto con l’anzidetto G.A., tra cui l’incendio delle autovetture della Z. e del G. stesso, fatti quest’ultimi materialmente commessi da tale P.P., sodale dell’imputato, giudicato a parte.- In tal senso militavano la deposizione della Z., ritenuta particolarmente credibile, le certificazioni mediche in ordine alle aggressioni subite, le convergenti deposizioni del G. e di altri testi a conoscenza dei fatti.

2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto imputato che motivava l’impugnazione deducendo: a) errata affermazione di colpevolezza quanto ai reati di incendio, quale mandante, in mancanza di prove in ordine all’affidamento di un tale incarico al P. ed in mancanza anche della conoscenza dell’esito del processo a carico di quest’ultimo; b) mancata valutazione di ragionevoli ipotesi alternative, sempre in merito agli incendi delle auto, posto che anche quelle dell’imputato e del P. vennero bruciate; c) errata affermazione del reato c.d. di stalking, posto che la parte lesa non aveva cambiato abitudini di vita; d) errata mancata qualificazione degli incendi delle auto come meri danneggiamenti, in relazione alla scarsa entità del fuoco; e) diniego delle generiche con frasi di stile; o errata liquidazione di una provvisionale.

3. Il ricorso, infondato in ogni sua deduzione, deve essere rigettato con tutte le dovute conseguenze di legge.

Sono infondati i vari motivi del ricorso che attengono, sotto diversi aspetti, ai reati di cui all’art. 424 c.p., comma 2. Dal punto di vista oggettivo, dapprima, occorre rilevare come sia del tutto corretta la qualificazione giuridica dei fatti data dai giudici del merito e posta in discussione dal ricorrente con il motivo sopra indicato sub 2.d.- Ed invero proprio il reato in parola si è realizzato per il propagarsi delle fiamme alle auto parcheggiate nelle vicinanze, il che conferma la sussistenza di un fuoco incontrollato e diffusivo, nel che consiste il concetto penalistico di incendio, ed esclude la ricorrenza di ipotesi minori. Trattasi di valutazione in fatto, correttamente condotta sulla base dei dati oggettivi e conforme ai parametri normativi e giurisprudenziali in materia, e dunque incensurabile in questa sede di legittimità.- Dal punto di vista probatorio, è del tutto improponibile la prospettazione di ipotesi alternative del tutto virtuali v. sopra il motivo di ricorso sub 2.b che -al di là della loro discutibile plausibilità- porterebbero semmai a pensare, eventualmente, ad una circoscritta reciprocità, ovvero a simulazione (e dunque a confermare indirettamente l’accusa) piuttosto che ad un’improbabile ed indistinta mano estranea.- Così, dunque, è a dire in ordine alla riconducibilità dei fatti incendiari all’odierno ricorrente, aspetto su cui il ricorso v. sopra sub 2.a risulta parimenti infondato. Ed invero anche sul punto l’impugnata sentenza risulta avere correttamente valutato il materiale probatorio con un logico e coerente coagulo del compendio indiziario che si concretizza in eloquenti elementi testimoniali sia precedenti che successivi ai fatti in parola ed in modo precipuo nel rinvenimento di materiale esplodente a carico del M. nel corso di perquisizione domiciliare a brevissima distanza dai fatti.- In definitiva tutti t motivi di ricorso in ordine ai fatti incendiari sono destituiti di fondamento.

E’ del pari infondato il motivo di ricorso v. sopra sub 2.c che intende censurare raffermata responsabilità in ordine al reato ex art. 612 bis c.p. – La tesi difensiva è, invero, contraria alla ricostruzione in fatto come consegnata dai giudici del merito, atteso che la Z. fu proprio costretta, a seguito degli atti persecutori posti in essere dall’imputato, a cambiare abitudini di vita per cercare di evitare le ossessive e vessatorie condotte del M..

Quanto al diniego delle generìche, l’impugnata sentenza esplica più che adeguata motivazione, con pertinente riferimento a molteplicità e gravità dei delitti perpetrati, nonchè all’intensità dell’elemento soggettivo, non dimenticando da un lato la negativa personalità dell’imputato (contrassegnata da un precedente per omicidio), dall’altro la mancata considerazione della pur contestata recidiva.- Si tratta di motivazione corretta e coerente, esplicazione concreta della discrezionalità che la legge riserva in materia al giudice del merito, non censurabile in questa sede ove – come nella presente vicenda processuale – l’uso di tale discrezionalità sia stato adeguatamente giustificato. – La provvisionale in favore della parte civile che ne aveva fatta richiesta, è stata ben assegnata, ex art. 539 c.p.p., avendo la Corte ritenuto di rimettere le parti davanti al giudice civile per la liquidazione definitiva dei danni (per la loro complessità non esperibile in sede penale).

Il ricorso, infondato in ogni sua prospettazione, deve essere dunque rigettato. Alla completa reiezione dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Alla costituita parte civile devono essere liquidate spese ed onorari nei termini – ritenuti congrui – di cui al seguente dispositivo con pagamento dell’imputato in favore dello Stato, essendo la stessa parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ferme le competenze del giudice di merito D.P.R. n. 115 del 1982, ex art. 82.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente M.L. al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione, in favore dello Stato, delle spese della parte civile che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (duemila), per onorari ed Euro 105,11 (centocinque/11) per spese vive, oltre spese generali ed accessori come per legge.

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