Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-02-2012, n. 1581 Dazi doganali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società contribuente propose ricorso avverso avviso di rettifica, notificato il 25.3.2004, di dichiarazione doganale resa il 22.3.1999, conseguente a processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, con il quale era stata contestata l’utilizzazione, ai fini dell’importazione di banane a tasso agevolato, di certificati "Agrim" ritenuti falsi alla luce delle risultanze di accertamenti in sede penale.

L’adita commissione tributaria respinse il ricorso, con decisione confermata, in esito all’appello della società contribuente, dalla commissione regionale.

Respingendo altrettanti motivi di gravame, il giudice di appello:

negò la perenzione del potere di rettifica dell’Agenzia, prospettata in relazione all’intervenuta scadenza del termine triennale di cui al D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 11, comma 5, sul presupposto che, in ipotesi di mancati pagamenti che trovino causa in comportamenti di rilevanza penale, il dies a quo del termine suddetto decorre, ai sensi dell’art. 221, par. 4, reg. C.e.e. 2913/1992 e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, dalla data di definizione del procedimento penale;

negò il difetto di motivazione asseritamente inficiante l’avviso impugnato; riconobbe la responsabilità della società ricorrente per le violazioni contestate, posto che il ruolo dalla stessa incontrovertitamente assunto, di rappresentante a fini Iva della società importatrice, era, in concreto, per le obbiettive emergenze della documentazione prodotta in dogana, idoneo a renderla tale pure ai fini doganali; negò il difetto di prova sulla falsità dei certificati Agrim, ritenendo la falsità medesima idoneamente dimostrata da attestazione proveniente da competente Autorità di Stato estero.

Avverso tale sentenza, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione in sei motivi.

L’Amministrazione delle Dogane ha resistito con controricorso, deducendo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, perchè notificato intempestivamente e presso la propria sede anzichè presso l’Avvocatura generale dello Stato.

Con nota depositata il 19.12.2011, Adriafruit ha dichiarato la persistenza dell’interesse alla trattazione della causa, ai sensi e per gli effetti della L. n. 183 del 2011, art. 26, comma 1 (modificato dal D.L. n. 212 del 2011, art. 14, comma 1, lett. a).

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1) – Preliminarmente, va affermata l’ammissibilità del ricorso.

Incidendo su sentenza depositata il 24.2.2006, il ricorso risulta, infatti, consegnato per la notifica a mezzo posta, l’11.4.2006, nel termine utile di un anno e quarantasei giorni, di cui al combinato disposto dall’art. 327 c.p.c., L. n. 742 del 1969, art. 1. Esso risulta, peraltro, correttamente notificato presso la sede dell’Agenzia delle Dogane, non essendo questa stata difesa dall’Avvocatura dello Stato in grado di appello ed atteso che, in rapporto alle agenzie fiscali (che non configurano organi dello Stato), il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato presenta, ai sensi del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 72, carattere facoltativo e non obbligatorio.

2) Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5, dell’art. 221, par. 3, 4 reg. C.e.e. 2913/1992 e del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, nonchè vizio di motivazione – censura la decisione impugnata per non aver rilevato la perenzione del potere di rettifica dell’Agenzia, per intervenuta scadenza del termine triennale di cui al D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 11, comma 5, essendo l’atto impositivo (riguardante operazione doganale risalente al 1999) stato notificato solo in data 25 marzo 2004.

In proposito, la società ricorrente sostiene, in particolare: che – benchè l’art. 221, par. 3 e 4, Reg. C.e.e. 2913/1992, in ipotesi di mancata determinazione del dazio a causa di atto perseguibile penalmente, rimetta alla facoltà degli ordinamenti nazionali la previsione di norma che differisca la decorrenza del termine triennale per la comunicazione al debitore ad un momento successivo a quello dell’insorgenza del debito doganale – nell’ordinamento italiano una siffatta previsione non sarebbe riscontrabile (con conseguente ineludibile generalizzata applicazione del termine secondo l’ordinaria decorrenza), giacchè il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, riguardando la perenzione del potere di riscossione e non quella del potere di rettifica, sarebbe connaturalmente inidoneo ad integrare la previsione di cui all’art. 221, par. 3 e 4, Reg. C.e.e.

2913/1992; che, in ogni caso, ai sensi del combinato disposto dall’art. 221, parr. 3 e 4, Reg. C.e.e. 2913/1992 e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, comma 3, lo slittamento della decorrenza del termine per la comunicazione della rettifica al debitore, alla data di definitiva chiusura del procedimento penale, avrebbe luogo solo ove formale notizia criminis intervenisse nell’ambito dell’ordinario decorso del termine, circostanza questa che, nel caso di specie, non risulterebbe provata.

La doglianza è infondata.

Occorre invero, in primo luogo, rilevare che, secondo ampiamente consolidata e condivisibile giurisprudenza di questa Corte, l’Amministrazione doganale è tenuta al rispetto del particolare procedimento di revisione previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11 (e, in precedenza, di quello previsto dal poi abrogato D.P.R. n. 43 del 1973, art. 74) e dei corrispondenti termini di decadenza solo in ipotesi di attività di revisione in senso proprio (incidente, cioè, sulla qualificazione delle merci importate, in rapporto alle relative caratteristiche); non, invece, nelle ipotesi di rideterminazione o recupero del dazio causata da evenienze che, del tutto prescindendo dall’identificazione soggettiva ed oggettiva della merce nei suoi elementi fiscalmente rilevanti (quali, tra le altre, l’accertamento di falsificazioni o fatti penalmente perseguibili), non comportano alcuna ulteriore indagine sulla merce. In tale secondo caso, ai fini della rideterminazione del tributo, assume rilievo, con riguardo alla normativa nazionale, la procedura generale prevista dal D.P.R. n. 43 del 1973, art. 82, e segg., ed il corrispondente termine di prescrizione triennale (quinquennale, prima della novella di cui alla L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 1) previsto dal successivo art. 84 (cfr. Cass. ord. 19549/09, 14522/08, 20733/06, 20361/06, 19196/06, 11406/96, 4892/94).

Da tale premessa, s’inferisce che, così come ritenuto dal giudice di appello, la fattispecie in rassegna è regolata dall’art. 221, par. 3 e 4 Reg. C.e.e. 2913/1992, Codice doganale comunitario (in vigore sino all’entrata in vigore del Reg. C.e. 450/2008, Codice doganale comunitario aggiornato) e dal D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84 (Testo unico leggi doganali), il cui comma 3 è stato dichiarato compatibile con la disciplina comunitaria da C.G., sentenza 17 giugno 2010, in causa C-75/09, Agra. Articoli che, in combinato disposto, sanciscono che l’azione per il recupero del dazio, che trovi origine in evenienze che prescindano dall’identificazione soggettiva ed oggettiva della merce, si prescrive nel termine di tre anni dall’irregolare introduzione della merce nel territorio doganale, salvo che si verta in tema di illecito che abbia rilevanza pure dal punto di vista penale, nel qual caso l’azione si prescrive nel termine di tre anni dalla data in cui la sentenza od il decreto pronunciati nel giudizio penale sono divenuti irrevocabili.

Ciò posto, deve, peraltro, convenirsi con la società contribuente che, discostandosi da precedente orientamento (per il quale, v.

(Cass. 11499/97, 7751/97), la più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 9773/10, 22014/06 e 19193/06) venendo, così, ad individuare, nel combinato disposto dall’art. 221, parr. 3 e 4, reg.

C.e.e. 2913/1992 e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, comma 3, la previsione di una causa di interruzione-sospensione dell’ordinario decorso del termine di prescrizione – è pervenuta all’affermazione del principio, secondo cui il termine triennale di prescrizione dell’azione di recupero a posteriori dei dazi all’importazione, nel caso in cui la mancata determinazione del dazio sia stata causata da comportamenti penalmente perseguibili, inizia a decorrere dalla data in cui il provvedimento che ha concluso il procedimento penale, ancorchè non esteso a tutti i debitori d’imposta, sia divenuto irrevocabile o definitivo; ma ciò soltanto se, entro il triennio dall’effettuazione dell’operazione doganale, sia intervenuta formale comunicazione della notitia criminis all’Autorità giudiziaria (in tal senso, esplicitamente, Cass. 22014/06 e 19193/06).

Tuttavia (in disparte la considerazione che, da C. Cost. 247/2011, specie punto 5.3, sembra emergere il criterio che la proroga dei termini di accertamento è legittima se, entro lo spirare del termine originario, emergano come obiettivamente riscontrabili gli elementi richiesti dall’art. 331 c.p.p., per l’insorgenza dell’obbligo di denunzia all’Autorità giudiziaria) il rilievo non giova alla società contribuente, giacchè, nella specie, l’evocata notitia criminis appare certamente collocabile nel triennio dall’effettuazione dell’operazione doganale.

Risalendo tale operazione al 1999, in tal senso milita, infatti, l’allegazione dell’Agenzia (cfr. controricorso p. 11), secondo cui procedimento penale per i fatti in oggetto (peraltro esteso all’allora legale rappresentante di Adriafruit) era stato radicato davanti al Tribunale di Catania già nel 2000 (R.g. 8474/00). Si tratta, infatti, di allegazione, che lo stesso ricorso della società contribuente (v. p. 13) rivela dedotta e documentalmente assistita dall’Agenzia già in primo grado e che, per converso, non risulta probatoriamente contraddetta dalla società contribuente o da essa specificamente contestata nè in questa sede di legittimità nè, con inevitabili ricadute anche sul piano dell’autosufficienza del ricorso in merito al dedotto vizio di motivazione, nei pregressi gradi di merito.

3) – Con il secondo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis, della L. n. 212 del 2000, art. 7, nonchè vizio motivazionale – censura la decisione impugnata per aver negato il difetto di motivazione asseritamente inficiante l’avviso impugnato.

La doglianza va disattesa.

Al riguardo, deve, in primo luogo rilevarsi che, pur evocando violazione di legge e carenza di motivazione, il motivo pare, in realtà, rimettere inammissibilmente in discussione accertamento in fatto del giudice di merito, che – riscontrata l’enunciazione dei presupposti dell’accertamento (dichiarazione doganale, falsità dei certificati d’importazione all’uopo presentati, quale riferita dall’Autorità apparentemente emittente e riscontrata in sede penale) ha ritenuto idonei i contenuti motivazionali del contestato accertamento, con valutazioni che, ancorate alle risultanze processuali e in sè coerenti si sottraggono al sindacato di legittimità. Nell’ambito di tale giudizio, non è, infatti, conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, restando a questo riservate l’individuazione delle fonti del proprio convincimento e, all’uopo, la valutazione delle prove, il controllo della relativa attendibilità e concludenza nonchè la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. Cass. 22901/05, 15693/04, 11936/03).

Deve, inoltre, considerarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 19195/06) l’atto teso al recupero dei diritti doganali ai sensi del D.P.R. n. 43 del 1973, artt. 81 e 82, è congruamente motivato con la sola indicazione della causale (nella specie idoneamente configurata dalla dedotta falsità dei certificati d’importazione utilizzati ai fini della dichiarazione e dal ruolo assunto dalla ricorrente nell’operazione doganale) e dell’ammontare della somma richiesta.

4) – Con il terzo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 2, e art. 1, par. 3, dir. 77/388/C.e.e. (come modificato dall’art. 1 dir. 2000/65/C.e.) nonchè dell’art. 4, n. 18, 5, 64, 201, 202 e 203 Reg. C.e.e. 2913/1992 (Cod. dog. corti.) e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38 (T.U.L.D.) – censura la decisione impugnata per non aver negato la responsabilità della società ricorrente, per le contestate violazioni doganali, benchè essa rivestisse qualifica di rappresentante dell’importatrice a soli fini Iva D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 17, comma 2.

La doglianza è infondata.

In proposito, va rilevato che questa Corte ha già reiteratamente precisato (cfr. Cass. 7261/09 e 13890/08, in relazione ad analoga controversia tra le medesime parti del presente giudizio) che il rappresentante fiscale a fini Iva D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 17, comma 2 – se, per tale ruolo, è elettivamente chiamato a rispondere, in solido con il rappresentato, limitatamente agli obblighi derivanti dall’applicazione delle norme in tema di Iva – ben può assumere, in concreto e in rapporto agli effetti ed agli obblighi scaturenti dalla dichiarazione doganale, anche qualità di soggetto passivo dell’obbligazione doganale. Ciò quale riflesso del fatto che, in forza della previsione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, Iva all’importazione e diritti di confine (che sono di natura doganale) presentano, quanto a meccanismi applicativi, disciplina comune e, pur configurando tributi distinti e separatamente liquidati, sono resi oggetto di unico prelievo effettuato sulla bolletta doganale quale condizione per il rilascio della merce.

Occorre, invero, rilevare che, in materia doganale, obbligati al versamento dei dazi sono, non solo l’importatore (direttamente e/o quale soggetto per conto del quale è resa la dichiarazione) e, in via solidale, il di lui rappresentante indiretto, ma anche qualsiasi altro soggetto che, pur partecipando alle formalità doganali, non dichiari di agire, a tal riguardo, a nome o per conto di un terzo ovvero dichiari di agire a nome o per conto di un terzo senza disporre del relativo potere di rappresentanza; questi è considerato agire a suo nome e per proprio conto e, conseguentemente, risponde dell’obbligazione doganale quale sottoscrittore della dichiarazione o, comunque, "cooperante" al perfezionamento dell’operazione.

In aderenza alla specifica finalità della norma doganale tesa a salvaguardare l’interesse pubblicistico all’adempimento dell’obbligazione daziaria, l’art. 201, comma 3, Reg. C.e.e.

2913/1992 precisa, infatti, che, quando una dichiarazione è resa in base a dati che determinano la mancata riscossione totale o parziale dei dazi dovuti per legge, le persone che hanno fornito i dati necessari alla stesura della dichiarazione e che erano od avrebbero dovuto essere a conoscenza della erroneità possono essere parimenti considerati debitori conformemente alle vigenti disposizioni doganali; e, in linea con la regolamentazione comunitaria, il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38 (T.U.L.D.), vincola all’obbligazione doganale, generalizzatamente, tutti coloro comunque ingeritisi nell’operazione.

Se ne deve inferire che, in tale contesto normativo, chi, come Adriafruit, risulti incontrovertitamente affiancato al proprietario/destinatario delle merci nella dichiarazione doganale (seppur con l’indicazione di rappresentante fiscale), non può essere considerato estraneo alla conseguente responsabilità per i diritti daziari, atteso che, all’uopo, rileva anche la mera fattuale ingerenza nel perfezionamento dell’operazione d’importazione (la cui essenza l’Agenzia non è tenuta a vagliare, essendo onere dell’interessato contraddire probatoriamente) e che la responsabilità solidale ai fini dell’Iva all’importazione non vale ad escludere quella di profilo strettamente doganale, ben potendo, con questa, concorrere. Ciò, mentre la sentenza C.G. 21.12.2011, in causa C-499/10, citata dal ricorrente in sede di discussione orale, non appare conferente, riguardando regime di responsabilità non concernente rapporti doganali ed essendo, peraltro, concepita in termini di assoluta oggettività, senza alcuna facoltà di prova contraria.

5) – Con il quarto motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 1, e dell’art. 2697 c.c., art. 2699 c.c., art. 2700 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 7, nonchè vizio motivazionale – censura la decisione impugnata per aver negato il difetto di prova sulla falsità dei certificati "Agrim".

La doglianza va disattesa.

I giudici del merito hanno ritenuto la falsità dei certificati "Agrim" di cui alla controversia in oggetto, in base al disconoscimento dell’Autorità spagnola, da cui essi apparentemente provengono, che ha perentoriamente affermato di non aver mai emesso i documenti medesimi.

La valutazione in fatto, aderente alle risultanze processuali e in sè coerente, non appare controvertibile se non con un sindacato in fatto non consentito in questa sede (cfr. Cass. 22901/05, 15693/04, 11936/03).

Con il quinto motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione dell’art. 229, par. 2 lett. b, Cod. Dog. Com. e dell’art. 28 reg. C.e.e. n. 3719/88 – censura la decisione impugnata per non aver ritenuto applicabile l’esimente di cui all’evocata disposizione del codice doganale.

La doglianza è inammissibile. Introduce, infatti, una questione "nuova", almeno in prospettiva di autosufficienza del ricorso, prospettando un tema di decisione che, nè dalla sentenza impugnata nè dal ricorso per cassazione, risulta proposto e trattato davanti al giudice del merito (v. Cass. 20518/08, 14590/05, 13979/05, 6656/04 5561/04).

Con il sesto motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 e dell’art. 102 c.p.c. – censura la decisione impugnata per non aver disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coobbligati al pagamento.

La doglianza è infondata, posto i rapporti intercorrenti tra Dogana ed i vari coobbligati al pagamento del dazio non sono legati da vincoli di inscindibilità. 6) – Alla stregua delle considerazioni che precedono – corretta nei termini sopra evidenziati la motivazione della sentenza impugnata – s’impone il rigetto del ricorso.

Per la soccombenza, la società contribuente va condannata alla refusione delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte: rigetta il ricorso; condanna la società contribuente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 (di cui Euro 2.000,00 per onorario), oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 16-06-2011) 07-10-2011, n. 36412 Costruzioni abusive Reati edilizi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 7.5.2009, in parziale riforma della sentenza 9.5.2007 del Tribunale di quella città:

a) ribadiva l’affermazione della responsabilità penale di P. E. in ordine ai reati di cui:

– al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), (per avere realizzato – senza il prescritto permesso di costruire – su manufatti già oggetto di altro procedimento penale, la prosecuzione dei lavori abusivi con opere di rifinitura interna ed esterna – in Roma via Canestrini, il 80, fino al 28.2.2005);

– all’art. 349 cpv. c.p. (violazione, in qualità di custode, dei sigilli apposti ai manufatti abusivi il 15 luglio, il 13 ottobre ed il 22 dicembre 2004);

— all’art. 483 cod. pen. (poichè – in tre domande di condono edilizio da lui presentate ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 32 – attestava falsamente che le opere di cui veniva richiesta la sanatoria erano state ultimate entro il 31 marzo 2003 – in (OMISSIS));

b) confermava la condanna alla pena complessiva di anni uno, mesi due di reclusione ed Euro 700,00 di multa, nonchè l’ordine di demolizione delle opere abusive;

c) concedeva all’imputato il beneficio della sospensione condizionale di detta pena, revocando l’indulto concesso dal primo giudice.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore del P., il quale ha eccepito, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione:

– la completa estraneità dell’imputato all’edificazione abusiva, avendo egli dimostrato che il terreno era stato acquistato dai propri figli L. ed A. con atto dell’8 giugno 2004 e non sussistendo elementi concreti idonei a dimostrare che egli fosse committente o realizzatore delle opere realizzate su quel fondo;

– la illegittimità della disconosciuta possibilità di sanatoria in relazione alle procedure di condono edilizio esperite ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, per la erroneità dell’asserito presupposto secondo il quale i lavori edilizi erano continuati dopo il 31 marzo 2003 (cioè dopo il termine utile di sanabilità fissato dallo stesso D.L. n. 269 del 2003);

– la insussistenza del delitto di falso, stante la veridicità delle attestazioni riferite alla data di completamento dei lavori al rustico.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, poichè manifestamente infondato.

1. Il P. è stato condannato in seguito a corretta valutazione della situazione concreta in cui venne svolta l’attività incriminata e la sua responsabilità circa la realizzazione delle opere illecite è stata dedotta, dalla disponibilità di fatto del suolo e dei manufatti abusivamente edificati; dalla circostanza che egli stesso ebbe a qualificarsi esecutore materiale dei lavori in occasione della redazione del primo verbale di sequestro; dalla presentazione di tre domande di condono edilizio a sua firma, ove egli si è qualificato "possessore" degli immobili; dalla conseguente configurabilità di un proprio interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodest"), (cfr. Cass., Sez. 3: 29.4.1999, n. 5476, Zarbo; 27.9.2000, il 10284, Cutaia ed altro; 3.5.2001, il 17752, Zorzi ed altri; 10.8.2001, n. 31130, Gagliardi; 26.11.2001, Sutera Sardo ed altra).

2. Quanto alla ritenuta inapplicabilità della normativa di "condono edilizio", posta dal D.L. n. 269 del 2003, art. 32, convertito dalla L. n. 326 del 2003, e dalla L. n. 47 del 1985, artt. 35 e segg., deve rilevarsi che – secondo la giurisprudenza costante di questa Corte Suprema – spetta al giudice penale verificare la sussistenza dei presupposti affinchè possa essere applicata la speciale causa di estinzione per oblazione.

L’ambito di tale potere di controllo è strettamente connesso all’esercizio della giurisdizione penale, sicchè il giudice – nell’eseguire l’indispensabile verifica degli elementi di fatto e di diritto della causa estintiva – deve accertare:

– il tipo di intervento realizzato e la sua riconducibilità agli schemi dell’art. 32 del convertito D.L. n. 269 del 2003;

– le dimensioni volumetriche dell’immobile;

– la "ultimazione" dei lavori (secondo la nozione fornita dalla L. n. 47 del 1985, art. 31, comma 2) entro il termine previsto del 31 marzo 2003;

– la tempestività della presentazione, da parte dell’imputato (o di eventuali comproprietari) di una domanda di sanatoria riferita puntualmente alle opere abusive contestate nel capo di imputazione;

– l’avvenuto "integrale versamento" della somma dovuta ai fini dell’oblazione, ritenuta congrua dall’Amministrazione comunale.

Trattasi di compiti propri dell’autorità giurisdizionale – conformi al dettato dell’art. 101 Cost., comma 2, art. 102 Cost., art. 104 Cost., comma 1, e art. 112 Cost. – che non possono essere demandati neppure con legge ordinaria all’autorità amministrativa in un corretto rapporto delle sfere specifiche di attribuzione.

Il giudice penale, nell’eventualità in cui i presupposti anzidetti (o anche uno solo di essi) stano inesistenti, deve dichiarare non integrata la fattispecie estintiva ed adottare le conseguenti determinazioni.

2.1 Nella fattispecie in esame – ove la richiesta sanatoria edilizia non risulta comunque concessa – va ribadito l’orientamento costante di questa Corte Suprema secondo il quale non sono suscettibili di sanatoria, ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 32, le nuove costruzioni realizzate, in assenza del titolo abilitativo edilizio, in epoca successiva al 31 marzo 2003.

I giudici del merito hanno accertato, in punto di fatto (alla stregua delle deposizioni testimoniali, della documentazione fotografica realizzata dai verbalizzanti e delle acquisite riprese aeree del 13 luglio 2003), che gli immobili, alla data dei 31 marzo 2003, non erano "ultimati" secondo la nozione fornita dalla L. n. 47 del 1985, art. 31, comma 2.

A fronte dell’anzidetto accertamento fattuale, l’imputato non ha fornito alcuna risolutiva prova contraria e le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio e dell’attribuzione dello stesso alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

Devono respingersi, pertanto, anche le correlate eccezioni svolte in ricorso circa la pretesa insussistenza di una falsa rappresentazione dei fatti nelle domande di condono edilizio.

3. In tema di violazione dei sigilli ( art. 349 c.p., comma 2), il custode è obbligato ad esercitare sul bene sottoposto a sequestro, e sulla integrità dei relativi sigilli, una custodia continua ed attenta: egli non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di impedimento e, quindi, chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora ciò non abbia fatto, fornendo la prova del caso fortuito o della forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza.

Ne consegue che, allorquando venga riscontrata la violazione di sigilli, senza che il custode abbia provveduto ad informare dell’accaduto l’autorità (come è accaduto nel caso di specie), deve razionalmente ritenersi che detta violazione sia opera dello stesso custode (da solo o in concorso con altri), tranne che lo stesso dimostri di non essere stato in grado di agire secondo legge per caso fortuito o per forza maggiore (vedi Cass., sez. 3, 7-5-2009, n. 19075, Santoro). L’onere della relativa prova incombe sul custode e, nella vicenda in esame, non è stata fornita.

4. La inammissibilità del ricorso non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, per cui non può tenersi conto della prescrizione del reato contravvenzionale scaduta (considerato anche un periodo di sospensione di mesi 4 e giorni 25 (dal 14.12.2006 al 9.5.2007), secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza 11.1.2002, n. 1021, ric. Cremonese) in epoca successiva (22.1.2010) alla pronuncia della sentenza impugnata (vedi Cass., Sez. Unite, 21.12.2000, n. 32, ric. De Luca).

5. Tenuto conto della sentenza 13.6.2000, n. 186 della Corte Costituzionale e rilevato che, nella specie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria della stessa segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento di una somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente rissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille/00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 06-10-2011) 25-10-2011, n. 38522

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 18/2/2010, la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lucca, in data 22/9/2008, che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di R.A. per essere il reato di ricettazione estinto per prescrizione, accogliendo l’appello del P.G., dichiarava l’imputato colpevole del reato a lui ascritto, riconosciuta l’ipotesi attenuata, e lo condannava alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 300,00 di multa, dichiarando la pena interamente condonata.

Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di ufficio, sollevando quattro motivi di gravame con il quale deduce:

1) Violazione di norme stabilite a pena di inutilizzabilità, in relazione alle dichiarazioni autoaccusatorie rese dall’imputato R.A. agli ufficiali competenti;

2) Violazione di norme stabilite a pena di inutilizzabilità, in relazione alla testimonianza del teste Maresciallo M. sulle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso del procedimento;

3) Mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine alla penale responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 648 c.p..

4) Inosservanza o errata applicazione della legge penale per erronea individuazione della data di decorrenza del termine prescrizionale.

Al riguardo si duole che.

Motivi della decisione

Il ricorso non è inammissibile, non essendo manifestamente infondati il primo ed il secondo motivo. Di conseguenza la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio essendosi il reato estinto per prescrizione, maturata alla data del 6 maggio 2010.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 24-10-2011) 11-11-2011, n. 41111

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza deliberata il 10 novembre 2010, la Corte di Appello di Messina, confermava quella emessa il 16 ottobre 2009 dal Tribunale della sede, che aveva condannato l’appellante M.G. alla pena di giustizia, siccome colpevole dei delitti di detenzione illegale di una pistola calibro 7,65 mm, "con matricola obliterata" e di quattro cartucce dello stesso calibro; di detenzione illegale di arma clandestina e di ricettazione, reati accertati in (OMISSIS).

1.1 L’ipotesi accusatola, ritenuta fondata da entrambi i giudici di merito, era basata, essenzialmente, sulla circostanza in fatto che l’arma clandestina di cui trattasi era stata rinvenuta – nel corso di una perquisizione eseguita dalla Polizia di Stato nell’abitazione dell’imputato – all’interno di un armadio, ubicato nella camera da letto.

In particolare la Corte territoriale, dopo avere premesso di condividere le argomentazioni svolte sul punto dal primo giudice, riteneva che la vicenda "doveva essere considerata prescindendo dall’antefatto e dal postfatto" ovvero sia dalla circostanza in fatto, che alle operazioni di perquisizione aveva partecipato anche l’assistente C.L., che nei giorni precedenti il compimento di tale atto investigativo aveva avuto con l’imputato, un "vivace contrasto"; sia da quella secondo cui il M., come dallo stesso denunziato, durante la sua permanenza nei locali della Squadra Mobile di Messina, sarebbe stato picchiato dagli "operatori della polizia".

Più precisamente, sintetizzando un apparato motivazionale invero alquanto più articolato svolto sul punto, la Corte territoriale qualificava come inverosimile la tesi difensiva secondo cui il C., ritenendo il M. coinvolto in qualche misura nel furto di un ciclomotore da lui subito alcuni giorni prima della perquisizione – e ciò in base a confidenze ricevute da un noto pregiudicato della zona, Ci.Al. – ed avendo avanzato, addirittura, una pretesa risarcitoria nei suoi confronti, in quanto responsabile dei danni, quantificati nell’ordine di 500/600 Euro, cagionati al veicolo (temporaneamente recuperato, dopo una trattativa con il Ci., ma in seguito nuovamente rubato ed Incendiato), intendendo vendicarsi, avrebbe personalmente collocato l’arma nell’armadio durante la perquisizione, poi rinvenuta dal suo collega Mi..

Ed invero, dopo aver escluso che un’azione di siffatta natura e gravità potesse essere stata attuata senza il necessario concorso di tutti coloro che avevano preso parte all’operazione, i giudici di appello ritenevano "logicamente inverosimile" che "una pattuglia di ben cinque ufficiali di polizia (capeggiati da un Sovraintendente …) nel corso di un’articolata operazione, che per altro non era rivolta solo contro il M. ma anche nei confronti di un nipote del noto pregiudicato messinese, tale Ca.Gi., possa aver concepito "la consumazione di una simulazione di reato e di una calunnia di siffatta portata". 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il M., per il tramite del suo difensore, deducendone l’illegittimità per violazione di legge ( art. 192 cod. proc. pen.) e vizio di motivazione, con riferimento all’affermazione di responsabilità dell’imputato, da ritenersi, invece, quanto meno dubbia, all’esito di un’attenta e serena valutazione di tutte le risultanze processuali.

Secondo il ricorrente, in particolare, i giudici di appello non hanno fornito adeguata e logica risposta alle censure mosse alla decisione di primo grado, con riferimento: alla ritenuta irrilevanza "dell’antefatto", sul cui svolgimento pure aveva diffusamente riferito in udienza il Ci.; alla non adeguata valutazione del "singolare" e non irreprensibile comportamento del c., tenuto conto che il predetto assistente, nonostante le evidenziate ragioni di contrasto con il M., partecipò alla perquisizione domiciliare, e fu anzi il primo a procedere all’ispezione dell’armadio in cui poi venne ritrovata la pistola, salvo interromperla ed allontanarsi dalla stanza per andare ad aprire il portone ad un collega; all’omessa valutazione del dato relativo all’assenza di impronte digitali dell’imputato sull’arma e l’incompatibilità, sul piano logico, della condotta complessiva dello stesso con l’Ipotesi accusatoria, nel senso che ove mai il M. fosse stato effettivamente consapevole della presenza dell’arma, lo stesso, avendone avuto la possibilità, avrebbe sicuramente provveduto a far sparire la pistola, prima di consentire l’accesso nel suo appartamento alle forze dell’ordine; la illogica svalutazione della deposizione della moglie dell’imputato, che avendo assistito alle operazioni di perquisizione, aveva riferito come il C. "aveva avuto modo di visionare l’armadio senza trovare alcuna pistola". Del tutto incongrue ed illogiche, inoltre, devono ritenersi, secondo il ricorrente, le argomentazioni addotte dai giudici di merito a confutazione dell’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa, apoditticamente ritenuta "inverosimile", risultando, in particolare, incomprensibili le ragioni per cui la straordinaria gravità della condotta denunziata dall’Imputato avrebbe dovuto comportare il "concorso necessario" di tutti i componenti della pattuglia che avevano partecipato alle operazioni di polizia, le cui dichiarazioni, per altro, spesso contraddittorie, non avevano formato oggetto di approfondita disamina da parte dei giudicanti.

Motivi della decisione

1. Il ricorso proposto nell’interesse del M. è basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e ne va pertanto dichiarata l’inammissibilità. 1.1 Avuto riguardo alle deduzioni difensive svolte in ricorso, che nelle loro poliformi articolazioni, denunziano un travisamento del fatto e carenza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità del M., è opportuno precisare, in primo luogo, come che questa Corte ha da tempo chiarito, che "il cosiddetto "travisamento del fatto" in tanto può essere valutabile e sindacabile in sede di legittimità in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi, tassativamente previste, della "mancanza" o della "manifesta illogicità" della motivazione; il che richiede (essendo fuori dei compiti istituzionali della Corte di cassazione l’esame diretto degli atti del procedimento, ai fini di un giudizio in ordine alla correttezza o meno della loro valutazione da parte del giudice), la dimostrazione, da parte del ricorrente, dell’avvenuta rappresentazione, al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sì che la Corte di legittimità possa, a sua volta, verificare, dal "testo del provvedimento impugnato" (come previsto dall’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e)), se e come quegli elementi siano stati valutati" (così Sez. 1, Sentenza n. 2548 del 1/06/1992, dep. 14/07/1992, Rv. 191279, imp. De Santis). In particolare è opportuno qui ribadire che, in tema di giudizio di cassazione, "pur dopo la novella codicistica operata dalla L. n. 46 del 2006, che consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad "altri atti del processo", alla Corte di cassazione restano precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare al controllo se la motivazione dei giudici del merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito" (così ex multls, Sez. 1, Sentenza n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv.

235507, imp. De Vita).

Orbene, anche in applicazione di tale condivisibile principio è agevole rilevare come nessun profilo di illegittimità è fondatamente ravvisabile nella decisione impugnata, avendo la Corte territoriale, anche attraverso l’espresso rinvio alle motivazioni addotte dal giudice di prime cure, fornito esauriente e logica spiegazione delle ragioni per cui l’arma rinvenuta in sede di perquisizione doveva senz’altro ritenersi illegalmente detenuta dall’odierno ricorrente e non già ivi fraudolentemente collocata da uno degli agenti che operarono la perquisizione. In particolare, seppure deve ritenersi incongrua l’affermazione dei giudici di appello circa l’irrilevanza dell’antefatto dell’episodio delittuoso, che in realtà ha formato oggetto di attenta valutazione da parte del giudice di primo grado, che ha anzi stigmatizzato come la circostanza di aver chiesto informazioni al M. sulle sorti del proprio motorino, era poco "onorevole" per un appartenente alle forze dell’ordine, il percorso argomentativo svolto dai giudici di merito ha Illustrato adeguatamente e con argomentazioni invero plausibili, le ragioni per cui la detenzione dell’arma era da attribuirsi senz’altro al M., escludendo che il nascondimento della pistola fosse avvenuto ad opera del C., che pure "aveva attenzionato per primo l’armadio", valorizzando al riguardo la circostanza che il predetto ufficiale di polizia giudiziaria non era "mai stato solo nella piccola stanza in cui è stata rinvenuta l’arma", ma aveva operato "sotto il controllo della moglie del M. ed alla presenza del collega Mi. che nello stesso ambiente stava ispezionando dei cassetti". Anche alla stregua di tali considerazioni nessun effettivo profilo di manifesta illogicità è quindi ravvisabile nella motivazione della sentenza di appello, specie laddove si allude, con espressione forse infelice sul piano tecnico-giuridico ma comunque efficace sul piano logico-descrittivo, ad un concorso "necessario" degli altri agenti che eseguirono la perquisizione nella "macchinazione" asseritamente posta in essere dal C. in danno dell’imputato.

In presenza di un siffatto percorso argomentativo sviluppato nelle sintoniche decisioni dei giudici di merito, è agevole rilevare che le deduzioni della difesa del ricorrente, riguardanti la valutazione di attendibilità e coerenza dei dati valorizzati dai giudici di merito, lungi dal dimostrare un effettivo e verificabile travisamento delle emergenze processuali – ed in particolare che la pistola sia stata collocata nell’armadio, per vendetta, su iniziativa del C. – si risolvono, per un verso, nella prospettazione di una "ricostruzione alternativa" e meramente congetturale delle risultanze processuali, e dall’altro, in una sollecitazione a compiere una nuova e diversa valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, riservata esclusivamente al giudice di merito.

2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non ricorrendo ipotesi di esonero in mancanza di elementi indicativi dell’assenza di colpa (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000) – al versamento alla cassa delle ammende di una somma congruamente determinabile in Euro 1000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.