Cass. pen., sez. V 23-10-2007 (09-10-2007), n. 39049 Querela sottoscritta dal difensore, che ha provveduto al deposito, in calce all’atto di seguito alla sottoscrizione della persona offesa

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RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
1 – Il Procuratore della Repubblica di Asti propone ricorso per violazione di legge contro la sentenza del Giudice di pace, che dichiara n.d.p. contro D.D. per mancanza di querela, perchè le firme delle persone offese non sarebbero autenticate dal difensore, che l’ha sottoscritta in calce ed ha depositato l’atto presso la Procura.
2 – Il ricorso è fondato. "La querela inviata per posta o presentata da un incaricato deve essere munita, a norma dell’art. 337 c.p.p., comma 1, dell’autenticazione della sottoscrizione da soggetto a ciò legittimato e, quindi, ai sensi dell’art. 39 disp. att. c.p.p., anche dal difensore, nominato formalmente, con atto precedente o contestuale, ovvero tacitamente. La nomina tacita può essere desunta dalla stessa attività di autenticazione, dall’elezione di domicilio del querelante presso lo studio dell’avvocato, dalla presentazione dell’atto all’autorità competente ad opera del legale, dall’attività difensiva della parte svolta nel successivo giudizio" (Cass. sez. 5, n. 8742/99).
Il principio è stato fatto proprio dalle S.U. nella sentenza n. 26549/06, Scafi ed altri.
Il problema residuo nella specie è dunque solo se l’autentica del difensore, autorizzata dall’art. 39 disp. att. c.p.p., sia sottoposta a particolari formalità, o possa ritenersi assolta dal difensore mandatario e depositante, che abbia apposto la sua firma sull’atto di querela di seguito a quella del titolare del diritto. La questione merita risposta positiva.
Difatti l’art. 337 c.p.p., adottando la locuzione "sottoscrizione autentica", fa rinvio evidente al dettato dell’art. 2703 c.c., senza ulteriori specificazioni.
Si osservi ora che le S.U. civili nella sentenza Grassetto Costr.
S.p.a. n. 25032/05, con riferimento alla certificazione dell’autografia della sottoscrizione della parte, hanno affermato (CED rv. 25032/05) il seguente principio: "L’art. 83 c.p.c., comma 3, nella parte in cui richiede, per la procura speciale alla lite conferita in calce o a margine di determinati atti, la certificazione da parte del difensore della autografia della sottoscrizione del conferente, deve ritenersi osservato … sia quando la firma del difensore si trovi subito dopo detta sottoscrizione, con o senza apposite diciture (come "per autentica", o "vera"), sia quando tale firma del difensore sia apposta in chiusura del testo del documento nel quale il mandato si inserisce e, quindi, la autografia attestata dal difensore esplicitamente od implicitamente, con la firma dell’atto… può essere contestata … soltanto mediante la proposizione di querela di falso, in quanto concerne una attestazione resa dal difensore nell’espletamento della funzione sostanzialmente pubblicistica demandatagli dalla succitata norma".
Il principio non può ritenersi difforme in materia di querela, in relazione al documento che reca la manifestazione di volontà dell’offeso di chiedere punizione, proprio per l’incarico del difensore, che ha sottoscritto l’atto di seguito a lui, di provvedere anzitutto al deposito dell’atto presso l’Autorità Giudiziaria.
All’evidenza, proprio per tal via, il difensore si fa carico della provenienza della sottoscrizione, con le implicazioni indicate dalle S.U. civili, la cui ratio è del tutto condivisibile in sede penale.
P.Q.M.
Annulla l’impugnata sentenza con rinvio al Giudice di Pace di Asti per nuovo giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-01-2011, n. 1455 Prova

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Svolgimento del processo

L’avv. P.G., vincitore di concorso per dirigente amministrativo, era stato assunto dalla Azienda Ospedali Riuniti di Foggia dal primo luglio 1999 con patto di prova; con provvedimento del 18 gennaio 2000 l’Azienda aveva estinto il rapporto per esito sfavorevole della prova. L’avv. P. impugnava il recesso e, nel contraddittorio con l’Azienda, l’adito Tribunale di Foggia rigettava la domanda. Su appello del soccombente la statuizione veniva riformata dalla Corte d’appello di Bari, che, con la sentenza impugnata, dichiarava illegittimo il recesso con le conseguenze di legge. La Corte territoriale, premesso che oggetto della causa era la tempestività del recesso, rilevava che l’art. 15 del CCNL applicabile al rapporto prescrive che il patto di prova abbia la durata di sei mesi e che, "…ai fini del computo del suddetto periodo, si tiene conto solo del servizio effettivamente prestato. Il periodo di prova è sospeso in caso di assenza per malattia e negli altri casi previsti espressamente dalla legge o dai regolamenti vigenti ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 72; decorsa la metà del periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal rapporto in qualsiasi momento senza obbligo di preavviso nè di indennità sostitutiva del preavviso, fatti salvi i casi di sospensione previsti dal comma 3. Il recesso opera dal momento della comunicazione alla controparte. Il recesso dell’azienda deve essere motivato…".

Osservava la Corte territoriale che il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso ritenendo che il periodo di prova non fosse ancora decorso al momento di intimazione del recesso, sulla base del seguente ragionamento: i sei mesi di prova sarebbero scaduti il 31 dicembre 1999, ma si doveva poi tenere conto dei periodi di sospensione e quindi, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, alla data del 15 gennaio 2000 il termine non era scaduto, dovendo essere recuperati i giorni di sospensione del 4,5,7 e 10 gennaio. Questi quatto giorni avrebbero spostato al 19 gennaio l’ultimo giorno di prova, se non fosse accaduto che il ricorrente non aveva lavorato il 17 e il 19 gennaio, per astensione facoltativa per maternità, per cui, alla data di notifica del recesso, 22 gennaio 2000, il periodo di prova non si era ancora concluso.

I Giudici d’appello disattendevano questa tesi, sul rilievo che essa contrastava con la delibera del 18 gennaio 2000 in cui, si comunicava che, tenendo conto dei diciotto giorni di sospensione, il periodo di prova si concludeva alla stessa data del 18 gennaio 2000. Detto provvedimento era stato però comunicato all’avv. P. solo il 22 gennaio, mentre avrebbe dovuto essere comunicato entro il 18 gennaio.

Inoltre, concedendo il 19 gennaio l’astensione facoltativa per maternità, l’azienda aveva manifestato la volontà di proseguire il rapporto che a quella data avrebbe dovuto già estinguere. La Corte territoriale rigettava invece l’appello incidentale dell’Azienda, volto a dilatare il periodo di prova anche oltre i termini indicati dal giudice di primo grado, perchè così si collideva con la delibera di recesso che, considerando le giornate di sospensione, indicava nel 18 gennaio la data di scadenza del periodo di prova.

Avverso detta sentenza l’Azienda Ospedali Riuniti di Foggia propone ricorso un unico motivo articolato in due censure, illustrati da memoria.

Resiste l’avv. P. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo profilo del motivo, denunziando difetto di motivazione, violazione dell’art. 1362 c.c., dell’art. 15 del CCNL nonchè dell’art. 2096 c.c., e art. 97 Cost., si lamenta che la sentenza avrebbe erroneamente interpretato la delibera di essa Azienda in cui, nella parte dispositiva, si comunicava la risoluzione del contratto dal 19 gennaio 2000 e comunque dal giorno successivo al completamento del periodo di prova; la Corte avrebbe valorizzato la parte narrativa dell’atto (scadenza della prova al 18 gennaio) a scapito del dispositivo, con cui si esternava la volontà di recedere dal giorno successivo al compimento del periodo di prova. Con il secondo profilo di censura ci si duole dell’erroneo rigetto appello incidentale volto a dilatare periodo di prova. Sostiene il ricorrente che il periodo di prova non era terminato alla data del 18 gennaio, ma ben successivamente, di talchè il recesso intimato il 22 gennaio era tempestivo, secondo il seguente ragionamento: i sei mesi scadevano il 31 dicembre 1999, si dovevano poi aggiungere i quattordici giorni di sospensione dell’anno 1999; iniziando il computo dal 3 gennaio (essendo festivi il giorno 1 e il giorno 2); detti quattordici giorni sarebbero quindi scaduti il 16 gennaio; ma poichè il rapporto era stato sospeso nei giorni 4,5,7, e 8 gennaio, si dovevano aggiungere altri 4 giorni, per cui termine scadeva al 20 gennaio, o meglio il 21 gennaio stante l’astensione facoltativa del 17 gennaio. Tuttavia il 19 gennaio il Dr. P. aveva chiesto dieci giorni di astensione facoltativa per maternità, facendo così slittare il termine al 29 gennaio, per cui era pienamente tempestivo il recesso comunicato il 22 gennaio.

Il ricorso non merita accoglimento.

Invero, anche ad ammettere che la volontà dell’Azienda fosse quella di risolvere il rapporto dal giorno successivo al completamento del periodo di prova, privilegiando la volontà espressa nell’ultima parte della delibera a scapito della prima, dove pur si indicava la data del 18 gennaio come quella conclusiva del periodo di prova, il recesso comunicato il 22 gennaio era successivo al completamento della prova, essendo errati i conteggi dei giorni elaborati in ricorso. Pacifico infatti che i sei mesi di prova di cui al CCNL scadevano il 31 dicembre 1999 e che il periodo si doveva far slittare per ulteriori quattordici giorni, pari alle sospensioni dell’anno 1999; detti quattordici giorni si dovevano far decorrere dal primo gennaio, e non già dal 3 gennaio, come si sostiene in ricorso, giacchè i giorni di festività pacificamente non sospendevano il periodo di prova; facendo poi ulteriormente slittare la scadenza del 14 gennaio al 18 gennaio, per tenere conto dei quattro giorni di sospensione (4,5,7, e 8 gennaio) il termine del periodo di prova era il 18 gennaio, o al massimo il 19 gennaio, volendo tenere conto dell’assenza del giorno 17.

Ed allora, come rilevato dalla sentenza impugnata, con la concessione, il giorno 19, di un periodo di astensione facoltativa per maternità, l’Azienda ricorrente aveva manifestato la volontà di proseguire il rapporto di lavoro.

Conclusivamente, risulta in ogni caso tardivo il recesso comunicato il 22 gennaio.

Il ricorso va quindi rigettato. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 35,00 per esborsi ed in Euro tremila per onorari, oltre spese generali, Iva e CPA. Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2010.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-02-2011, n. 4354 Contratto a termine

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Svolgimento del processo

Con sentenza del 15.12.2005, il Tribunale di Avezzano aveva accolto parzialmente il ricorso proposto da B.M. e condannato la srl Madama Oliva al pagamento della somma di Euro 256,03 a titolo di differenze retributive spettanti alla predetta, oltre che degli accessori di legge; era stata, invece, rigettata la domanda tesa alla declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato oralmente, ritenendosi giustificata e legittima l’apposizione del termine al contratto stipulato tra le parti.

Sul gravame interposto dalla lori, la Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza depositata il 8.2.2007, in riforma parziale della decisione di primo grado, ritenuto il difetto dei presupposti di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, per l’apposizione del termine, dichiarato, dunque, nullo, disponeva la conversione del rapporto a tempo indeterminato e, rilevato che in tali casi era consentita la recedibilità solo con atto scritto, affermava l’inefficacia del licenziamento orale del 26.10.2000, disponendo la condanna della società alla reintegrazione della Lavoratrice nel posto di lavoro, nonchè al pagamento delle retribuzioni come per legge.

Propone ricorso per cassazione la Madama srl, affidando l’impugnazione ad un unico motivo.

Resiste con controricorso la B., che propone ricorso incidentale anch’esso affidato ad un unico motivo. Entrambe le parti hanno, poi, depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Deve, preliminarmente, disporsì la riunione dei procedimenti, essendo le impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza.

La società ricorrente deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, ed, infine, la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18.

Assume che erroneamente la Corte di Appello di L’Aquila aveva ritenuto che la disdetta conseguente alla naturale scadenza del contratto a termine varrebbe ad integrare, per il solo fatto della pretesa illegittimità del termine apposto, un licenziamento privo di forma scritta, che giustificherebbe, come tale, l’applicazione della specifica disciplina sanzionatoria.

Diversamente, doveva ritenersi che, nel caso di apposizione di termine nullo, lo svolgimento delle prestazioni cessi in ragione della esecuzione che le parti danno ad una clausola nulla ed al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa nulla spetti a titolo di retribuzione, finchè non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro, situazione non integrata dalla domanda di annullamento del licenziamento illegittimo, con la richiesta di reintegra. L’azione andava proposta come azione di nullità del termine e dell’intimata disdetta con eventuale richiesta di danni secondo gli ordinari criteri civilistici, per cui il giudice del gravame avrebbe correttamente dovuto rigettare la domanda nei termini in cui era stata proposta. Formula quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., all’esito della parte argomentativa della censura.

Il ricorso principale è fondato.

La Corte territoriale, in relazione al gravame proposto dalla lavoratrice, ha rilevato l’inoperatività dell’apposizione del termine al contratto stipulato tra le parti oralmente (di durata inferiore a 12 giorni) in quanto difettavano nella fattispecie i presupposti di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. C, attesa la accertata ricorrenza di mere punte stagionali nell’attività dell’azienda che non valevano ad integrare la straordinarietà e, l’occasionalità del servizio previste dalla disposizione normativa citata. Tuttavia, pur ritenendo che si vertesse in ipotesi di conversione de contratto, cui era stato apposto termine dichiarato nullo, in rapporto a tempo indeterminato ai sensi della disciplina sopra citata, ha erroneamente ritenuto che la disdetta, intimata allo spirare del suddetto termine dal datore di lavoro, integrasse un licenziamento verbale affetto da nullità, condannando la società, nella rilevata sussistenza del prescritto requisito dimensionale, a risarcimento del danno ai sensi di quanto disposto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Deve, invero, al riguardo richiamarsi quanto affermato da sentenza di questa Corte, n. 12011 del 2009, la quale ha in termini generali richiamato il principio espresso già in precedenza con sentenza, a s. u., n. 14381/2002, alla cui stregua non è parificabile l’ipotesi del recesso del datore di lavoro, fattispecie tipica cui è collegata la tutela prevista dall’art. 18 St. dei Lav., a quella della disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunichi al dipendente la scadenza del termine, sia pure invalidamente apposto, in relazione alla quale lo svolgimento delle prestazioni cessa in ragione della esecuzione che le parti danno ad una clausola nulla. In tale pronunzia si sottolinea, altresì, l’impossibilità di parificare – ai fini della determinazione di "mora accipiendi" – alla offerta delle prestazioni lavorative la domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, ma tale valutazione, in relazione al caso in esame deve essere demandata al giudice del rinvio, tenuto ad esaminare i termini in cui era stata prospettata la questione della invalidità del termine e delle relative conseguenze sanzionatorie e la configurabilità nella specie di una valida messa in mora ai fini de risarcimento del danno secondo le regole civilistiche.

Deve, pertanto, essere accolto il motivo di ricorso prospettato e la sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, rinviandosi la causa, anche per la regolamentazione delle spese, a diversa corte territoriale per nuovo accertamento, alla luce dei principi affermati, della imputabilità della mancata prestazione di attività lavorativa a rifiuto di riceverla da parte della società, ribadendosi i principio sopra richiamato.

Quanto al ricorso incidentalmente proposto dalla B., con l’unico motivo viene dedotta la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18; la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.; la violazione o falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c.; la violazione o falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 3; la insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si assume che non erano state provate l’esistenza di un patto appositivo del termine e la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità della L. n. 230 del 1962, art. 1, lett. c), comma 1.

Anche in considerazione di quanto in precedenza esposto, la censura deve ritenersi infondata essendo basata sull’erroneo presupposto che il rapporto fosse ab initio a tempo indeterminato e che spettasse al datore di lavoro la prova della esistenza di un fatto estintivo o modificativo del diritto della lavoratrice, ovvero della esistenza di una patto appositivo del termine. Nei termini in cui è prospettata, la censura, infatti, da per scontata l’intercorrenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato, che rappresenta, invece, la conseguenza della apposizione del termine a contratto intercorso tra le parti in ipotesi ritenuta non consentita dalla normativa in materia (punte stagionali in luogo di eccezionalità ed occasionalità della situazione legittimanti l’apposizione de termine). Peraltro, la stessa risoluzione del rapporto era avvenuta in coincidenza dello spirare del termine sia pure invalidamente concordato e con la medesima forma orale nella quale era stato stipulato il contratto a termine di durata inferiore a dodici giorni e tale modalità risolutoria era presupposta nella prospettazione della domanda della lori, che la stessa non deduce di avere impostato in termini diversi, non richiamando i passi del ricorso o del gravame che denotino una diversa impostazione della questione.

Il richiamo ad altri profili di erroneità della decisione è poi inammissibile, atteso che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, "qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa o erronea valutazione di prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare i punti ritenuti decisivi, risolvendosi, altrimenti, il dedotto vizio di motivazione in una inammissibile richiesta di riesame del contenuto delle deposizioni testimoniali e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione è mancata ovvero è stata insufficiente o illogica" (cfr., tra le altre, Cass 19 marzo 2007 n. 6640; Cass, 7 dicembre 2005 n. 26990). Ed ancora è stato affermato che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversta e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello operato da giudice e conforme a quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e c 4, della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. in tal senso, tra le altre, Cass 23.12.2009 n. 27162).

Per concludere, il ricorso principale va accolto, mentre va rigettato il ricorso incidentale.

Ne consegue che la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto ed, alla stregua del disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 2, la causa va rimessa, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di cassazione, ad un nuovo giudice d’appello, che si designa nella Corte di appello di Roma, che si atterrà ai principi di diritto in precedenza enunciati con riferimento alla individuazione di valido atto di messa in mora e di determinazione del risarcimento dei danni.
P.Q.M.

La Corte così provvede: riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale;

cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma, Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-03-2011, n. 6630 Indennità di mensa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso, depositato l’8.03.2004, P.A. esponeva:

– di essere dipendente della S.p.A. TRENITALIA CARGO con la qualifica di "tecnico di manovra e condotta" presso l’impianto di Brindisi;

– di avere diritto, in virtù dell’articolazione in turni rotativi del proprio orario di lavoro (mattina- 1 turno- dalle ore 6 alle ore 14 fino al 31.05.2001 e successivamente dalle ore 6 alle 13;

pomeriggio – 2^ turno – dalle ore 14 alle 22 fino al 31.05.2001 e successivamente dalle ore 13 alle 21; notte: 3^ turno – dalle ore 22 alle 6,00), alla fruizione di "tickets restaurant", anche in assenza di mensa aziendale nella località di servizio e della distanza chilometrica tra questa e la residenza in Brindisi;

– che tale diritto non era stato riconosciuto da parte della datrice di lavoro.

Ciò premesso, conveniva in giudizio la società anzidetta: a) per sentir riconoscere il diritto a fruire del pasto aziendale nella misura prevista dall’art. 27 del CCNL del 6.02.1998 e dell’art. 19 del contratto aziendale del Gruppo F.S. del 16.04.2003 in ragione dei turni di lavoro espletati; b) per sentir condannare la convenuta al risarcimento del danno derivato dalla mancata corresponsione dei buoni pasto dal 1.11.1999 e alla corresponsione di Euro 1.661,60 (pari al controvalore di buoni pasto n. 268), oltre accessori.

La convenuta nel costituirsi contestava le domande del ricorrente.

All’esito il Tribunale di Brindisi con sentenza n. 2579 del 9.11.2005 dichiarò il diritto del ricorrente alla fruizione dal per il periodo 1.01.1999/31.05.2001 di un buono pasto limitatamente ai giorni in cui aveva prestato servizio nel primo turno (ore 6/14) e, per il periodo successivo e fino al 31.01.2004, di altro buono pasto nei giorni di prestazione del servizio nel secondo turno di pomeriggio; condannò pertanto la società al pagamento di 268 buoni pasto (ovvero il corrispondente in denaro pari ad Euro 1661,60).

Tale decisione, a seguito di appello proposto da Trenitalia S.p.A., è stata confermata dalla Corte di Appello di Lecce con sentenza n. 410 del 2007.

La Corte ha ritenuto che per il periodo 10.1999/31.05.2001, quando il P. aveva prestato servizio del turno di mattina (ore 6/14), che terminava in concomitanza della fine della fascia oraria stabilita per il pranzo (ore 12/14), si trovasse oggettivamente in condizione di essere impossibilitato a consumare il pasto nelle fascia oraria prevista. La stessa Corte ha seguito analogo ragionamento per il periodo successivo e fino al 31.01.2004, quando il P. o aveva espletato il turno pomeridiano (ore 14/22 o 13/21), che terminava in concomitanza della fine della fascia oraria stabilita per il pranzo (ore 19/21).

Contro l’anzidetta sentenza ricorre per cassazione la Trenitalia S.p.A. con due motivi. I lavoratore resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato rispettive memorie ex art. 378 c.p.c..

Il difensore della parte ricorrente ha depositato, ex art. 379 c.p.c., osservazioni scritte alle conclusioni del P.M..
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. (in relazione all’art. 27, comma 1, lettera C) CCNL Ferrovie 1996/1999 e all’art. 19, comma 1 – lett. C) del contratto aziendale del Gruppo FS del 16.04.2003), di ogni altra norma e principio in materia di interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune e dei contratti in genere, nonchè vizio di motivazione su punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5).

In particolare la ricorrente afferma che, con riferimento all’ipotesi di svolgimento da parte del dipendente del primo e secondo turno (mattino e pomeriggio), l’impugnata sentenza non ha fatto corretta applicazione delle richiamate norme contrattuali, con il ritenere che, ai fini del riconoscimento del diritto del dipendente al buono pasto, fosse sufficiente che il turno lavorativo ricomprendesse una delle fasce orarie concordate per il pasto (in questo senso è formulato- a pag. 13 del ricorso- il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c.).

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 Cod. Civ. (in relazione all’art. 27, comma 1 – lettera C) CCNL Ferrovie 1996/1999 e all’art. 19, comma 1 – lettera C) del contratto aziendale del Gruppo FS del 16.04.2003), di ogni altra norma e principio in materia di interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune e dei contratti in genere, nonchè vizio di motivazione su punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5).

Con l’esposta censura la ricorrente ribadisce i rilievi contenuti nel primo motivo, ma sotto il diverso profilo visuale, secondo cui, ai fini dell’attribuzione dei buoni pasto, i giudici di merito avrebbero dovuto verificare il requisito della distanza casa- luogo del lavoro superiore a 20 Km e la possibilità da parte del dipendente di poter consumare presso la propria abitazione, non bastando che il turno lavorativo fosse compreso interamente in una delle fasce orarie concordate per il pasto.

2. Le censure esposte, che possono essere esaminate congiuntamente per la loro intima connessione, non colgono nel segno e non scalfiscono le argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata, costituendo esse una diversa interpretazione delle disposizioni contrattuali collettive operata dal giudice di appello, senza alcuna spiegazione delle ragioni di illogicità o vizi di lettura in violazione delle regole ermeneutiche dettate dal codice civile, pacificamente riservate all’esclusiva competenza del giudice del merito.

Invero il giudice di appello, come già detto, ribadendo quanto statuito dal primo giudice, ha interpretato l’art. 27 lettera C) lettera C) n. 2, con riferimento all’ipotesi di svolgimento del servizio nel primo turno (mattino) o nel secondo turno (pomeriggio) nel senso che il riferimento della norma pattizia ai tempi di percorrenza, assume rilevanza solo quando il lavoro non sia ancora iniziato o sia terminato, non potendo il dipendente – nell’ipotesi di coincidenza dell’orario del turno con il termine dell’orario di mensa – consumare il pasto presso la propria abitazione nelle fasce orarie concordate Orbene, a fronte dell’interpretazione così formulata dal giudice di appello e in presenza della non contestazione delle circostanze di fatto, la società ricorrente si è limitata, come già in precedenza evidenziato, a prospettare una interpretazione dell’art. 27 del contratto in termini diversi, e più appaganti per essa, che consiste in una semplice critica della decisione di appello senza una specifica impugnativa ai sensi dell’art. 360 c.p.c..

.In questa situazione va ribadito che tale difforme lettura della disposizione contrattuale non è consentita in sede di legittimità, non essendo emerse violazioni dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed essendo la motivazione coerente sul piano formale della motivazione ed equilibrata nei vari elementi che ne compongono la struttura argomentativa (in tal senso il consolidato orientamento di questa Corte ritiene non idonea ad integrare valido motivo del ricorso per cassazione una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice di merito che si risolva nella contrapposizione di una diversa interpretazione ritenuta corretta dalla parte: ex plurimis Cass. n. 15496 del 21 aprile 2009; Cass. n. 2738 dell’8 febbraio 2007; Cass. n. 13067 del 2005; Cass. n. 5359 del 2004; Cass. n. 16099 del 2003; Cass. n. 8994 del 2001; Cass. n. 545 del 1999).

La difesa della ricorrente, in sede di note di udienza ex art. 379 c.p.c., ha osservato che non è convincente il precedente giurisprudenziale – richiamato dal PM – di cui alla sentenza n. 14941 del 2009, giacchè la norma collettiva detta regole diverse, con riferimento ai buoni pasto, tra personale di "scorta" e "turnista fisso", e soltanto per il primo prevede l’attribuzione di detto beneficio quando il turno comprenda la fascia per il pasto.

Orbene la critica, relativa al richiamo al precedente giurisprudenziale, si traduce in una censura suppletiva alla sentenza impugnata, come tale non ammissibile in questa sede di legittimità, non rientrando oltre tutto il profilo in questione nella ratio decidendi della decisione in discussione e non risultando che abbia formato oggetto di specifici rilievi in sede di atto di appello.

3. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, con distrazione a favore dell’Avv. Pasquale Nappi antistatario.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 34,00, oltre Euro 1500/00 per onorari ed oltre IVA, CAP e spese generali, con distrazione a favore dell’Avv. Pasquale Nappi antistatario.

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