T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 10-01-2012, n. 178 Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Premetteva il ricorrente di essere proprietario di un appartamento sito nel fabbricato di Via G. n. 65 int. 3S in Roma e di essere stato raggiunto dall’ordinanza sindacale n. 129 del 29 novembre 2007, notificata a numerosi proprietari di appartamenti nel ridetto fabbricato, con la quale si ingiungeva lo sgombero dei locali siti in Via G. n. 65-69, reso necessario da "inconvenienti igienico-ambientali" (così, testualmente, nella parte in premessa dell’ordinanza impugnata, che analiticamente li ha descritti con riferimento a ciascuna unità abitativa) e di pericolo per la salute pubblica evidenziati nel corso di un sopralluogo svolto da personale della ASL RM/E, dichiarandosi quindi lo stato di inabitabilità dei predetti locali.

Con il gravame qui in esame il ricorrente, uno dei proprietari degli appartamenti interessati dal provvedimento notificato a ciascuno di loro, costituiti da monolocali siti al piano terra, al primo piano seminterrato ed al secondo piano seminterrato del fabbricato in questione, sostiene l’illegittimità dell’ordinanza qui gravata in quanto:

a) per l’immobile di proprietà del ricorrente è stato oggetto di concessione in sanatoria;

b) i sopralluoghi svolti hanno manifestato numerose carenze istruttorie;

c) ad ogni modo non è stato comunicato l’avvio del procedimento di sgombero.

2. – Si è costituita in giudizio l’Amministrazione comunale intimata contestando la fondatezza del gravame e chiedendone la reiezione.

Con alcune ordinanze istruttorie questo Tribunale ha disposto verificazioni, affidandole all’Ufficio del Genio civile della Regione Lazio, alla ASL RM/C, ai Vigili del fuoco, ciascuno per quanto di competenza, aventi ad oggetto l’indagine in ordine alle condizioni igienico-statiche degli appartamenti del ricordato immobile di Via Gradoli, tra i quali quello di proprietà del ricorrente e coinvolto nella ordinanza sindacale impugnata.

Successivamente tutte le parti controvertenti hanno depositato memorie conclusive e di replica confermando le già rassegnate conclusioni.

Mantenuta riservata la decisione alla udienza pubblica dell’8 giugno, alla Camera di consiglio del 13 luglio 2011 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

3. – Il Collegio rileva che, nel merito, le censure dedotte non colgono nel segno, anche alla luce degli esiti delle disposte verificazioni, di talché il ricorso deve essere respinto.

4. – Va sottolineato preliminarmente che il provvedimento qui impugnato si sostanzia in un ordine di sgombero di taluni appartamenti del fabbricato sito in Roma, Via G. n. 65 e tutti collocati ai piani scantinati S1 e S2 del palazzo, perché, all’esito di numerosi sopralluoghi, se ne è manifestata la inabitabilità sia per carenza del requisito relativo alle superfici minime che di quelli igienico-sanitari, concretandosi quindi un pericolo per la salute pubblica il permanente loro utilizzo a fini abitativi.

5. – Al di là dei profili in fatto che caratterizzano la presente controversia, sotto il profilo giuridico va evidenziato che:

A) l’art. 4 del D.P.R. 22 aprile 1994, n. 425 ebbe a prevedere che per utilizzare un edificio fosse necessario ottenere il certificato di agibilità il cui rilascio da parte del sindaco era condizionato alla presentazione di una serie di documenti idonei ad attestare la sussistenza di determinati standards minimi di salubrità. Nel contempo l’art. 5 di detto testo normativo abrogava l’art. 221, primo comma, del regio decreto 27 luglio 1934 n. 1265 relativamente alla disciplina del procedimento per il rilascio del certificato. L’intervento normativo in esame ha modificato in termini sostanziali l’istituto dell’agibilità, mutando la denominazione dell’atto da "autorizzazione" amministrativa a "certificato", semplificando il procedimento di rilascio, e, soprattutto, estendendo l’ambito di valutazione ad interessi diversi e ulteriori rispetto a quelli connaturati alla tutela di carattere meramente sanitario; in altri termini, al concetto di agibilità si è andato sostituendo quello di "vivibilità" della costruzione, che inerisce ad una condizione dell’abitare complessivamente rispettosa della dignità dell’individuo;

B) successivamente gli articoli da 24 a 26 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 hanno fissato la disciplina attualmente vigente. Anzitutto – per come è ricordato nella relazione illustrativa che ha accompagnato il predetto decreto presidenziale – il legislatore ha provveduto a ricondurre ad unità i termini di agibilità e abitabilità spesso utilizzati indifferentemente nella normativa precedente. Inizialmente nel linguaggio normativo il termine "licenza di abitabilità" era stato utilizzato in relazione agli immobili ad uso abitativo, mentre il termine "licenza di agibilità" relativamente a quelli non residenziali, quali opifici, uffici, esercizi pubblici e commerciali. In un secondo tempo, il legislatore aveva operato una diversa classificazione, riconducendo all’agibilità la disciplina generale della stabilità e della sicurezza dell’immobile e all’abitabilità la disciplina speciale dei requisiti dell’immobile rispetto a specifiche destinazioni d’uso. In effetti, alcune disposizioni normative e, soprattutto, una certa prassi giurisprudenziale, avevano indotto a pensare che all’interno del nostro ordinamento esistessero due diversi tipi di certificazioni. In realtà, le due espressioni, se pur diversamente utilizzate, erano di fatto omogenee e non richiedevano procedimenti amministrativi diversi. Dimostrativo ne è il fatto che il corredo documentale dell’istanza, come pure le indagini tecniche preliminari al rilascio del certificato, non cambiavano a seconda del tipo di unità immobiliare da certificare, fatta salva, ovviamente, l’esigenza di valutare la presenza di requisiti igienico-sanitari diversi in ragione dell’uso previsto. Eliminato il duplice riferimento terminologico, il legislatore del 2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine di "certificato di agibilità" attestante l’idoneità abitativa di qualsiasi edificio. Secondo la nuova formulazione, l’ambito di operatività del certificato di agibilità risulta più esteso rispetto al passato, essendo richiesto non solo per i nuovi organismi edilizi, ma anche per gli interventi eseguiti sugli stessi che possiedano l’attitudine a modificare le condizioni igieniche e sanitarie preesistenti. Ai fini dell’accertamento dell’agibilità di un edificio ciò che rileva non è tanto la qualificazione giuridica dell’intervento (ristrutturazione, restauro o risanamento conservativo, oppure manutenzione straordinaria o realizzazione di sole opere interne), quanto piuttosto la qualità e l’entità dell’intervento, nonché i suoi riflessi sulla condizione di salubrità della costruzione o di sue parti. Il certificato di agibilità è dunque necessario per tutti gli organismi edilizi destinati a un utilizzo che comporti la permanenza dell’uomo che può risolversi sia nel soggiorno prolungato, com’è per le abitazioni, sia nella semplice frequentazione, com’è per l’immobile destinato a un’attività produttiva, che deve comunque essere di durata tale da richiedere la presenza di condizioni minime di igiene e salubrità;

C) in base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, il certificato di abitabilità delle costruzioni costituisce un’attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente. Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto quando in un edificio (per come è avvenuto nel caso in esame) siano state realizzate modifiche strutturali (cfr., in argomento, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 16 marzo 2011 n. 740), che implicano anche un cambiamento dell’uso degli spazi (si veda sul punto la relazione prodotta in data 26 ottobre 2010 con allegazione di documenti dall’amministrazione del Condominio dello stabile in questione);

D) l’art. 25, commi 3-5, del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede un procedimento di rilascio del certificato di agibilità, articolato sui seguenti principi fondamentali: 1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il ricorrente si sia avvalso della possibilità di sostituire con autocertificazione il parere dell’A.S.L. previsto dall’art. 5, 3 comma lett. a) del D.P.R. n. 380 del 2001; 2) il decorso del termine per la definizione del procedimento, importa la formazione del silenzio assenso sull’istanza di rilascio del certificato di agibilità; 3) il termine del procedimento può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione integrativa, che non sia già nella disponibilità dell’amministrazione o che non possa essere acquisita autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa; 4) il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell’articolo 222 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (art. 26 D.P.R. n. 380 del 2001).

6. – Fermo quanto sopra e tenuto conto che la disciplina suesposta presenta una ipotesi di silenzio assenso nell’ipotesi di istanza di agibilità presentata agli Uffici competenti e rispetto alla quale gli stessi non hanno adottato alcun provvedimento espresso, occorre pur tuttavia verificare se l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano criticità riferibili alla acquisibilità implicita – per effetto del silenzio – della dichiarazione di agibilità.

Sul punto vale la pena rammentare che:

a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia dell’igiene pubblica e dell’inquinamento del suolo, in quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di condono edilizio, l’art. 35, comma 14, della L. 28 febbraio 1985, n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con il fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32 Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo individuo, ma anche come diritto dell’intera collettività alla salubrità dell’ambiente (sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 aprile 2004 n. 2140 e 13 aprile 1999 n. 414 nonché TAR Sardegna 29 ottobre 2002 n. 1422);

b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale, con sentenza n. 256 del 18 giugno 1996, ha avuto modo di precisare, per un verso, che il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l’edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità (…) a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all’art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all’art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica (…) Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari" (così, testualmente, la sentenza della Corte costituzionale n. 256 del 1996 citata);

c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un’attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a fronte di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell’uso degli spazi e che dunque il Comune non perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate carenze (cfr. sul punto T.A.R. Veneto, Sez. III, 2 gennaio 2009 n. 6 nonché T.A.R Basilicata, Sez. I, 29 novembre 2008 n. 916).

7. – Nel caso di specie il Comune, con l’ordinanza qui principalmente impugnata, ha evidenziato, all’esito di alcuni sopralluoghi, importanti deficienze igienico sanitarie negli appartamenti per i quali è qui controversia, confermate dalle verificazioni disposte da questo Tribunale e gli esiti delle consulenza di parte affidate da alcuni degli odierni ricorrenti a tecnici di fiducia non si manifestano idonei a superare le conclusioni confermative alle quali sono pervenute le indagini di verificazione disposte con profili di evidente sintonia rispetto alle valutazioni operate dagli uffici comunali nel corso dell’istruttoria che ha condotto all’adozione della qui avversata ordinanza sindacale di sgombero.

I verificatori hanno infatti significativamente affermato che tutti i locali esaminati presentano superfici finestrate inidonee ed aree calpestabili inferiori ai 28 metri quadrati, valore minimo per un monolocale. Alcuni immobili presentano evidenti inconvenienti igienico-sanitari che li rendono inidonei all’uso abitativo.

In altri termini, seppure con alcune peculiarità e caratteristiche diverse per taluni dei monolocali, l’esito delle disposte verificazioni costituisce conferma della inadeguatezza, sotto il profilo igienico sanitario, dei locali in questione ad essere abitati, rafforzando i risultati dell’istruttoria svolta in vista della adozione dell’ordinanza sindacale di sgombero.

L’indagine, va precisato, è stata svolta accuratamente dall’Azienda USL RM/C , che in contraddittorio con le parti coinvolte ha concluso i propri rilievi affermando con nettezza e senza escludere alcun immobile da siffatto esito che "si esprime parere igienico-sanitario contrario all’uso di tali locali come abitazioni" (così, testualmente, nella relazione depositata l’8 ottobre 2009).

8. – Ciò posto, in via di fatto, le censure dedotte dal ricorrente con l’atto introduttivo non si presentano idonee a scalfire la dimostrazione, acquisita nel corso del processo, del corretto percorso seguito dagli uffici comunali per giungere all’adozione dell’ordinanza di sgombero, avvalorato dagli esiti delle disposte verificazioni; ne deriva la reiezione del ricorso, tenuto conto altresì che per l’evidente urgenza nel provvedere, l’ordinanza di sgombero non doveva essere preceduta da alcuna comunicazione di avvio del procedimento.

Sussistono, nondimeno e tenuto conto della tecnicità delle questioni affrontate, i presupposti per compensare integralmente le spese di giudizio tra le parti costituite ai sensi dell’art. 92 c.p.c. novellato, per come richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a..

P.Q.M.

pronunciando in via definitiva sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nelle Camere di consiglio dell’8 giugno 2011 e del 13 luglio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Tosti, Presidente

Carlo Modica de Mohac, Consigliere

Stefano Toschei, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. V, Sent., 17-01-2011, n. 217

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. I dottori C.C. e G.M., dirigenti medici di primo livello, in servizio presso l’unità di terapia intensiva cardiologica del presidio ospedaliero San Salvatore di L’Aquila, hanno impugnato la deliberazione del direttore generale della ASL di L’Aquila, n. 779 del 9 aprile 1987, nella parte in cui si è proceduto alla dichiarazione di esubero della dottoressa S.C., con trasferimento della stessa, mediante mobilità d’ufficio, presso l’unità organizzativa di cardiologia del dipartimento cardiopneumologico.

2. Con il ricorso di primo grado hanno sostanzialmente dedotto che il provvedimento ha eluso la normativa relativa all’istituto della mobilità, così come disciplinato dagli articoli 32 e 35 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, in quanto non è stato rispettato da parte dell’amministrazione l’obbligo di comunicare loro la possibilità di trasferimento a domanda nel posto vacante. In altri termini l’amministrazione, prima di procedere alla individuazione del personale munito di minori titoli ai fini della dichiarazione di esubero, avrebbe dovuto limitarsi al mero accertamento della presenza di personale in esubero e non procedere alla formazione di una graduatoria, che ha visto la dottoressa S.C. trasferita nel posto nonostante avesse titoli minori.

3. Il tribunale, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto il ricorso.

4. Ha proposto appello l’amministrazione, deducendo l’erroneità della sentenza, laddove ha ritenuto sussistente l’interesse degli originari ricorrenti al ricorso e laddove non ha considerato che è stato correttamente svolto il procedimento previsto dalla legge.

5. Gli appellati si sono costituiti, resistendo all’appello.

6. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza del 14 dicembre 2010.

7. L’appello non è fondato.

7.1. La sezione osserva che gli odierni appellati, alla data di individuazione dell’esubero, che precede la selezione per la successiva mobilità, avrebbe dovuto comunicare a tutti i medici, potenzialmente toccati dal meccanismo, la circostanza di appartenere ad una qualifica o professionalità in esubero, al fine di registrare eventuali istanze di mobilità a domanda.

Infatti, in base agli articoli 32 e 35 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 (ora 33 e seg. del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165), il personale interessato deve essere messo nella condizione di esercitare il diritto, espressamente attribuito dalla legge, ad essere assegnato al posto in cui deve transitare il personale in esubero, in base ad una graduatoria formata per titoli.

In altri termini, solo nel momento in cui non vi sono istanze dei maggiori titolati, si può procedere allo scorrimento della graduatoria.

Il meccanismo è stato previsto proprio al fine di evitare ciò che si è verificato nel caso di specie, ossia che personale in possesso di titoli inferiori possa ricoprire un posto cui legittimamente potevano aspirare i maggiori titolati.

Quindi la legge dà rilevanza alla semplice possibilità di esercitare l’opzione.

Pertanto, non solo gli odierni appellanti erano titolari di una posizione soggettiva qualificata, ma essa è stata chiaramente lesa dall’anomalia procedimentale posta in essere dall’amministrazione sanitaria.

7.2. In conclusione l’appello va rigettato.

8. Alla soccombenza segue la condanna al pagamento delle spese del grado del giudizio, che si liquidano come già dispositivo
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, rigetta

l "appello e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese del grado del giudizio, che si liquidano in complessivi euro quattromila (4.000,00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Calogero Piscitello, Presidente

Gianpiero Paolo Cirillo, Consigliere, Estensore

Marzio Branca, Consigliere

Aldo Scola, Consigliere

Angelica Dell’Utri, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Puglia Bari Sez. III, Sent., 27-01-2011, n. 175

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Espone in fatto la E. di I.F. & C. s.a.s. di essere proprietaria di un immobile del suolo sul quale insisteva il fabbricato sito nel Comune di Andria con accesso da via Corridoni, nn. 357911 ictu oculi fatiscente.

Riferisce di avere proposto ricorso dinanzi a questo Tribunale avverso la delibera n. 2951 del 26.06.1995 con la quale la Giunta Regionale aveva approvato il P.R.G. del suddetto Comune in quanto il suddetto immobile era stato riportato nell’elenco degli edifici classificati A2, delibera annullata dalla Sezione I di questo T.A.R. con sentenza n. 2346 del 15.05.2002; aggiunge di avere proposto un ulteriore ricorso dinanzi a questo Tribunale avverso la nota dirigenziale prot. n. 2454 dell’11.01.2007 con cui il Comune resistente aveva diffidato essa ricorrente a dare inizio ai lavori di demolizione di parte del citato fabbricato e precisamente limitatamente ai numeri civici 579 di via Corridoni nonchè di via dott. Camaggio, nn. 246810 e che questa Sezione con sentenza n. 3056 del 21.12.2007 aveva accolto il suddetto gravame chiarendo che l’immobile di cui trattasi non era più tipizzato A2.

Espone inoltre la ricorrente di avere, con atto notificato in data 1819.01.2010, invitato e diffidato il Comune di Andria a provvedere alla ritipizzazione dell’area di sua proprietà in zona B.B34 in quanto con l’annullamento della citata delibera di G.R. si riespanderebbe la destinazione del P.R.G. originariamente adottato.

La società E., a seguito dell’inerzia del Comune di Andria, con ricorso ritualmente notificato in data 05.10.2010 e depositato nella Segreteria del Tribunale il 04.11.2010, ha chiesto l’accertamento dell’obbligo di provvedere, previa declaratoria di inadempimento in ordine alla suddetta istanza di ritipizzazione urbanistica formale a zona B.B34 dell’area di proprietà di essa ricorrente, già oggetto delle sentenze passate in giudicato di questo T.A.R., Sezione I, n. 2346 del 15.05.2002 e Sezione III, n. 3056/2007; ha chiesto altresì la contestuale nomina di un commissario ad acta in caso di persistenza del silenzio.

A sostegno del gravame la società ricorrente ha dedotto le seguenti censure: violazione dell’obbligo di ritipizzazione un suolo equiparato a zona bianca ex art.2 della legge n. 241 del 1990 e art. 7 della legge n. 1150 del 1942, violazione dei principi costituzionali di trasparenza e buon andamento dell’azione amministrativa ex artt. 97 e 42 Cost., eccesso di potere per manifesta ingiustizia in quanto sussisterebbe l’obbligo di provvedere a seguito delle citate sentenze di questo T.A.R. ed essendo trascorsi più di novanta giorni dalla data di ricevimento della domanda notificta in data 1819.01.2010.

Si è costituito a resistere in giudizio il Comune di Andria che, qualificando l’odierno gravame ricorso per ottemperanza, ha eccepito la sua inammissibilità in quanto le sentenza poste a fondamento della domanda proposta da parte ricorrente non avrebbero affatto previsto, neppure implicitamente, la ritipizzazione a zona B.B34 dell’area di proprietà della società E.; ha altresì rappresentato che non poteva configurarsi l’inerzia di esso Comune in quanto con nota prot. n. 87971 del 13.10.2010, versata in atti, veniva comunicato al legale della ricorrente che: gli immobili concernenti la citata istanza "ricadono in area ad alta pericolosità idraulica soggetta alla disciplina di cui all’art. 7 delle NTA del PAI dell’AdB Puglia approvata con deliberazione di C.I. n. 39 del 30/11/2005", che tale situazione geomorfologica si pone in contrasto con una eventuale ritipizzazione dell’area in senso edificatorio e che "dagli ultimi mesi dello scorso anno l’AdB Puglia sta valutando uno studio atto a riperimetrare le aree a pericolosità idraulica dell’intero abitato di Andria" e conseguentemente si riteneva "opportuno provvedere in merito alla istanza di ritipizzazione…solo a seguito delle determinazioni conclusive dell’Autorità di Bacino della Puglia".

Alla camera di consiglio del 13 gennaio 2011 la causa è stata chiamata e assunta in decisione.

Il Collegio ritiene innanzitutto, ai sensi dell’art. 32, comma 2 del Decreto Legislativo 2 luglio 2010 n. 104, di dover qualificare l’azione proposta quale azione avverso il silenzio.

Non può, infatti, essere condivisa la prospettazione di parte resistente che qualifica l’azione proposta quale azione di ottemperanza eccependone la inammissibilità come proposta da parte ricorrente; ciò in quanto parte ricorrente non ha chiesto l’esecuzione del giudicato formatosi sulle sentenza dalla stessa richiamate ma le sentenze stesse sono state richiamate in quanto ad avviso di parte ricorrente l’obbligo di ritipizzazione nascerebbe proprio dalle citate sentenze.

Il ricorso è fondato.

Il Collegio ritiene, infatti, che sussiste l’obbligo di provvedere del Comune di Andria in ordine alla istanza della società E., notificata ad esso Comune in data 1819.01.2010, volta ad ottenere la ritipizzazione dell’area di sua proprietà in quanto l’area è priva di destinazione urbanistica a seguito dell’annullamento della delibera della Giunta Regionale n. 2951 del 26.06.1995 di approvazione del P.R.G. del suddetto Comune da parte della Sezione I di questo T.A.R. con sentenza n. 2346 del 15.05.2002, come peraltro riconosciuto dallo stesso Comune nella nota prot. n. 87971 del 13.10.2010 depositata in giudizio in data 08.01.2011.

Il Collegio ritiene di dover richiamare l’orientamento della giurisprudenza amministrativa dominante, condivisa da questo Tribunale (cfr. da ultimo Sezione III, n. 3881/2010, e Sezione I, n. 1079/2008) alla luce del quale in materia di pianificazione urbanistica la sentenza che chiude il giudizio avverso il silenzio deve limitarsi ad accertare l’inadempimento all’obbligo di provvedere a causa dell’illegittimità del silenzio, individuando altresì un ulteriore termine nel quale la p.a. dovrà provvedere.

Ciò in quanto, trattandosi di attività altamente discrezionale, la potestà giurisdizionale del giudice non può sovrapporsi alle valutazioni riservate all’amministrazione, spettando questo compito, nell’ipotesi di ulteriore ed insistente inerzia dell’amministrazione soccombente, al commissario ad acta da nominarsi in sede di ottemperanza, il quale potrà agire sostituendosi all’organo dell’amministrazione rimasto ulteriormente inadempiente.

Al riguardo il comma 3 del citato art. 31 del Decreto Legislativo 2 luglio 2010 n. 104 espressamente dispone: "Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione."

Il Collegio ritiene, però, opportuno di dover specificare che la suddetta sentenza n. 2346 del 15.05.2002 ha accolto il ricorso avverso la citata delibera di approvazione del P.R.G. per carenza di motivazione, come peraltro già evidenziato da questa Sezione nella successiva sentenza n. 3056 del 21.12.2007, pure richiamata da parte ricorrente, e conseguentemente la disciplina urbanistica della zona A2, di cui alla delibera impugnata, una volta annullata questa "zonizzazione" ha bisogno di essere ridefinita mediante l’esercizio del potere pianificatorio che può essere opportunamente sollecitato dalla parte interessata, come fatto peraltro dalla ricorrente con l’odierno gravame (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 6782/2009).

Alla luce di quanto sopra il Collegio ritiene di dover dichiarare l’obbligo del Comune di Andria di provvedere sulla istanza di ritipizzazione dell’area di cui alla istanza presentata dalla società ricorrente in data 1819.01.2010 in quanto tale obbligo di provvedere non può ritenersi soddisfatto dalla nota prot. n. 87971 del 13.10.2010.

Il Comune di Andria, infatti, pur riconoscendo la sussistenza in capo ad esso Comune del suddetto obbligo di provvedere non ha sostanzialmente provveduto, ma ha solo rappresentato che riteneva "opportuno provvedere solo a seguito delle determinazioni conclusive dell’AdB Puglia".

Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso deve essere accolto e, conseguentemente, deve essere dichiarato l’obbligo del Comune di Andria di provvedere alla istanza di ripitizzazione dell’area di proprietà della società E. mediante l’indizione di una conferenza di servizi, per un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti; tale conferenza di servizi dovrà essere indetta entro trenta giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza, la prima riunione della conferenza di servizi stessa dovrà essere convocata entro trenta giorni dalla data di indizione ed i lavori della conferenza dovranno essere conclusi entro i successivi novanta giorni.

Merita altresì accoglimento la domanda formulata in ricorso volta ad ottenere la nomina di un Commissario ad acta che, in caso di ulteriore inerzia del Comune di Andria, provveda in via sostitutiva.

Le spese, secondo la regola della soccombenza, devono porsi a carico della parte resistente nell’importo liquidato nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto:

1) dichiara l’obbligo del Comune di Andria di provvedere alla ripitizzazione dell’area di proprietà della E. di I.F. & C. s.a.s. nel modo e nei termini di cui in motivazione;

2) nomina Commissario ad acta il Dirigente del Servizio Urbanistica del Comune di Andria affinchè, nella ipotesi di persistente inerzia protrattasi oltre il termine indicato al punto 1) e, verificata la mancata esecuzione dell’obbligo ivi statuito, provveda in luogo dell’Amministrazione resistente osservando gli stessi modi e termini indicati per il Comune in motivazione;

3) condanna il Comune di Andria al pagamento delle spese processuali e degli onorari di giudizio, che liquida in Euro. 2.000,00 (duemila/00) in favore della E. di I.F. & C. s.a.s.;

4) dispone che nulla sia dovuto come compenso per l’eventuale attività sostitutiva del Commissario ad acta, trattandosi di atto attinente i propri doveri d’ufficio del Dirigente del Servizio Urbanistica del Comune di Andria.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 13 gennaio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Pietro Morea, Presidente

Antonio Pasca, Consigliere

Rosalba Giansante, Referendario, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. Civ., Sez. III, Sentenza 18 Novembre 2010, n. 23277 Responsabilità PA Il tombino sporge, il pedone cade: se manca il segnale, il Comune non scampa al risarcimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.
A. D’., con atto di citazione notificato il 12 gennaio 1989, convenne in giudizio il Comune di omissis chiedendo il ristoro dei danni patiti a seguito di una caduta, determinata dallo stato di dissesto del fondo stradale.
L’ente, costituitosi in giudizio, contestò la domanda attrice.
Con sentenza del 12 febbraio 2004 il Tribunale di Napoli rigettò la domanda.
Su gravame della soccombente, la Corte d’appello l’ha invece ritenuta fondata e, per l’effetto, ha condannato il Comune di omissis al pagamento in favore della D. della somma di euro 55.798,54.
Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, illustrato anche da memoria, il Comune di omissis, formulando un solo, complesso motivo con pedissequo quesito.
Ha resistito con controricorso la D..
Il giudizio, rinviato a nuovo ruolo all’udienza del 19 febbraio 2006, a seguito del decesso del difensore dell’intimata, è stato trattato e deciso all’udienza odierna.

Motivi della decisione

1. Nell’unico mezzo il Comune di omissis lamenta insufficienza della motivazione su un punto decisivo della controversia. Oggetto della critica è il convincimento del giudice a quo in ordine alla eziologia dell’evento lesivo. Secondo la Corte territoriale, invero, l’instabilità del tombino sul quale la D. era andata ad inciampare costituiva evento imprevedibile, e quindi insidia per l’ignaro passante, idonea all’affermazione dell’efficienza causale della condotta della P.A. nella determinazione dell’evento.
Sostiene invece il deducente che, considerate le caratteristiche di tempo e di luogo in cui si era verificato il sinistro, l’attrice bene avrebbe potuto prevedere un pericolo per la sua incolumità e, conseguentemente, adottare tutte le cautele necessarie ad evitare che esso si materializzasse, transitando sul lato della strada non interessato dai lavori.
2. La doglianza è infondata.
È consolidata affermazione di questo giudice di legittimità che, in tema di responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, qualora non sia applicabile la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ., in quanto sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente, secondo la regola generale dell’art. 2043 cod. civ., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l’illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene, che va considerata fatto di per sé idoneo – in linea di principio – a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre spetterà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (confr. Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).
Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione degli artt. 2051, 2043 e 1227 cod. civ., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato dell’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità (confr. Corte cost. n. 156 del 1999).
2.1. Principio altrettanto pacifico è poi che, allorquando si faccia valere la responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione per danni subiti dall’utente a causa delle condizioni di manutenzione di una strada pubblica, la valutazione della sussistenza di un’insidia, caratterizzata oggettivamente dalla non visibilità e soggettivamente dalla non prevedibilità del pericolo, costituisce un giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente e logicamente motivato (confr. Cass. civ., 19 luglio 2005, n. 15224).
3. Venendo al caso di specie, il giudice di merito ha affermato che l’instabilità del tombino costituiva, in mancanza di qualsivoglia segnalazione dei lavori in corso e di recinzione della zona interessata, un pericolo occulto e imprevedibile, segnatamente rimarcando l’incongruità della linea difensiva della convenuta amministrazione – volta a rovesciare sull’infortunata la responsabilità dell’accaduto – alla luce del criterio, di elementare buon senso, che proprio per la mancanza di ogni segnalazione, l’utente poteva camminare indifferentemente sull’uno o sull’altro lato della strada.
Ciò significa che il decidente ha valutato, in termini che non possono essere tacciati di implausibilità e di illogicità rispetto al contesto fattuale di riferimento, la sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del presidio generale di cui all’art. 2043 cod. civ. e ha poi dato del suo convincimento una motivazione esaustiva e corretta. Tanto basta perché la relativa valutazione si sottragga al sindacato di questa Corte.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in complessivi euro 4.200 (di cui euro 200 per spese), oltre IVA e CPA, come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.